Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine -  una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro  alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibri dell’alta  borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella  mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa,  ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama  trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la  massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si  rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa  padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più;  il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia,  quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.
È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un  maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni  private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione  politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa  maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai  giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt,  multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e  ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra  politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a  Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera  divenuta malsana».
Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane,  François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre.  Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.
Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a  tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra  servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite  (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage),  la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti  elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze  spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le  somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e  ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende  improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella  di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi  acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che  diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del  diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli,  gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».
Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto  universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla  corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto  particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il  cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una  pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro  del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del  Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale  di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme  illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga  permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più  vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di  criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di  correggersi, di scarse difese immunitarie.
Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse  ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non  si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad  esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine  accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che  deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si  instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno  abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle  democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza  che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non  disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che  aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i  whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o  una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai  vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.
In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa  riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano  e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro  la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi  politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il  potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è  del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel  mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale  online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per  anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose  enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul  ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave  dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite  dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un  fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di  fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia,  addirittura di affossarla.
Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno  verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere  francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente  tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva  equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende  più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori.  Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra  hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio,  prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura  la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le  fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi,  l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle  registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse  pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in  secondo piano il diritto alla privacy».
Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa  latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve,  stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la  coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio  intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la  magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce  drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione.  Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il  suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del  leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti,  magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.
 
 
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