7.11.10

Il fai-da-te dei rottamatori

Curzio Maltese (La Repubblica)

Berlusconi e il berlusconismo sono malati, ma anche il Pd non si sente bene. Perché non c’era dirigente alla stazione Leopolda di Firenze ad ascoltare la pancia del partito? Perché a Roma i circoli hanno fischiato l’assemblea dei rottamatori, che tale non è stata, offrendo peraltro all’astuto Matteo Renzi la palla gol di un abbraccio e un applauso in risposta? Così i polemici, i rancorosi, insomma i cattivi sono sembrati gli altri. Paradossali strateghi di un partito che ha la pretesa di mettere d’accordo Fini e Vendola, Lombardo e Di Pietro, ma pare non sopportare che cinquemila dei propri sindaci, militanti ed elettori si ritrovino a discutere proposte per scuola e sanità, rifiuti e precariato, immigrazione e altre faccende assai concrete, evitando con cura anche soltanto di nominare Bersani e gli altri. Quella di Firenze non è un’assemblea di anti politica, ma l’esatto contrario. Una bella pubblicità per la buona politica, che è fatta anche da brava gente onesta, giovani amministratori e militanti idealisti, in maggioranza donne, pagati con pochi euro al mese. Da sindaci coraggiosi del Sud, e ce ne sono tanti alla Leopolda, che diventano notizia soltanto quando la camorra o la ‘ndrangheta gli spara in faccia, e comunque assai meno di Ruby o di Avetrana. Beppe Grillo, che sull’antipolitica ha costruito un bel business, ha infatti subito attaccato la manifestazione. Non si capisce quale destabilizzante minaccia possa arrivare da una due giorni di interventi di cinque minuti su questioni come educare alla raccolta differenziata, su sprechi energetici e diffusione del wireless, asili e assistenza agli anziani, centri di accoglienza e sostegno alla piccola impresa. Se nelle intenzioni di Matteo Renzi detto il rottamatore (uno che ogni tanto scivola in qualche atteggiamento da bullo politico) e di Pippo Civati c’è un’implicita critica al gruppo dirigente del Pd e magari l’ambizione personale, fra i cinquemila convenuti prevale la semplice voglia di capire dove vada il Pd. Un mistero che affascina anche noi osservatori esterni. Perché non si ricorda a memoria d’uomo un grande partito d’opposizione il quale, in presenza di un crollo della maggioranza, non riesca a guadagnare consensi. Anzi, riesce a perderne. I sondaggi accreditano al Pd oggi il 24 per cento. Due punti in meno dell’era Franceschini, segretario all’epoca in cui Berlusconi veleggiava verso il 70 per cento di gradimento, veniva portato in trionfo dai partigiani a Onna, sembrava aver ripulito Napoli dalla spazzatura e L’Aquila dalle macerie, quando nell’orizzonte azzurro perenne del berlusconismo non s’erano manifestati né la rottura con Fini né quella con Veronica, Noemi e le altre, il ritorno della monnezza e la disoccupazione giovanile al 24 per cento. In tanto trambusto, il Pd ha soltanto perso lo zero virgola ogni mese, fino a oggi. Con il rischio di non avere neppure toccato il fondo. In una eventuale campagna elettorale il Pd non può infatti contare su nessun argomento forte, scavalcato in tutti dalla concorrenza. Sulla difesa della legalità e l’antiberlusconismo, ormai sinonimi, il Pd è meno efficace di Di Pietro e ora anche di Fini e Famiglia Cristiana, sulle questioni sociali e ambientali, per dire il precariato o il nucleare o la privatizzazione dell’acqua, è meno chiaro di Vendola e Grillo, sulla laicità e i diritti civili più ambiguo di tutti i nominati più i radicali, sull’immigrazione non ne parliamo. Perfino sulle legge elettorale il Pd non ha ancora scelto una linea, fra quattro o cinque possibili. Una simile indeterminatezza può rivelarsi un vantaggio se si tratta di affastellare alleanze da Fini a Vendola, di andare al governo con Lombardo in Sicilia e inviare intanto qualche sherpa dalla Lega, oppure per ipotizzare un governo tecnico con Draghi o Pisanu o Montezemolo o chiunque. Ma è piuttosto normale che un elettorato normale s’interroghi sul perché il Pd non si comporti da normale partito d’opposizione e cioè chieda le elezioni subito per sostituirsi con un proprio leader e un proprio programma a una maggioranza e un governo al capolinea. Nell’attesa che l’esigenza di un programma elettorale sia condivisa dai dirigenti, un pezzo della base del Pd lancia da Firenze il fai-da-te. A partire dai problemi reali, tanto evocati da Bersani. Legge Biagi, privatizzazione dell’acqua, finanziamento pubblico delle scuole private, Tav e nucleare, voto agli immigrati, piano per l’energia, politica fiscale, riforma della giustizia e via elencando tutti i temi sui quali il principale partito dell’opposizione non ha ancora compiuto una scelta netta. Renzi e Civati raccoglieranno le proposte e le esperienze migliori per mandarle a Roma, dove si spera non vengano rottamate. Visto da Firenze, il problema del Pd non sembrano le facce, ma le idee.

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