La lotta contro il terremoto si combatte con le piccole armi della organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere. Un fatto d'onore
di VITTORIO ZUCCONI
Si vive ogni giorno sull'orlo del vulcano, con la certezza della fine del mondo sotto i piedi, con il terrore della vergogna, non della morte. I bambini esercitati dalle maestre, il poliziotto di quartiere che ti bussa alla porta di per accertarsi che ci siano l'accetta, l'estintore, l'aqua distillata, la cassetta del pronto soccorso e la coperta antiincendio, gli scarafaggi che avvertono qualcosa e si arrampicano sul letto a cercare la solidarietà degli uomini, sono la normalità, non l'eccezione. Per i gaijin, per gli stranieri che vivono in Giappone, il grande sisma con le sue onde di terra e poi di acqua è un mostro, risveglia con il fiato grosso e il pigiama intriso di sudore, al primo tintinnare delle maniglie di ferro sui cassetti dei "tansu", degli armadi. Per i nihonjin, per i giapponesi, è la vita che hanno scelto di vivere, il destino che hanno accettato di subire, l'essere quello che sono. Vale per loro, parafrasandola, la formula di John F. Kennedy per l'impresa lunare: "Non siamo giapponesi perché è facile esserlo, ma perché è difficile".
Semplicemente sanno che nessuno, ricco o povero, nobile nato sotto i tre rombi dei baroni Mitsubishi venditore ambulante di patate dolci, sfuggirà all'incontro con la terra che trema e che pratica la democrazia del vulcano. Che ci saranno tributi da pagare al fatto di vivere in un arcipelago che deve tutto al mare e ai vulcani dai quali è stato creato.
La lotta contro questo nemico va combattuta con le piccole armi della
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organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere, come le cariche banzai degli ultimi reparti giapponesi nelle isole accerchiate, assalti suicidi senza alcuna speranza di ributtarli in mare. Un fatto d'onore. Le scene dei bambini degli asili e delle elementari addestrati regolarmente ad accucciarsi sotto i banchi, a formare file ordinate anche quando tutto balla attorno a loro.
Non ci si esercita perché davvero possano esistere manovre protettive contro una muraglia d'acqua alta tre piani, dieci metri, che avanza verso l'interno alla velocità di un treno, ma perché nell'esercitazione e nella preparazione si celebra il rito propiziatorio della sopravvivenza e della cultura collettiva. La resistenza è la vittoria, il sacrificio è la testimonianza. "Tuo fratello è caduto in battaglia, e tu che fai ancora vivo?" scrivevano le madri dei soldati e dei marinai in guerra. Una settimana dopo la bomba di Hiroshima, la stazione radio locale aveva ripreso le trasmissioni.
Le autorità di Tokyo, che da 88 anni attendono il grande jishin, il superterremoto della piana del Kanto dove vivono mille e duecento persone per chilometro quadrato, dieci volte la densità abitativa dell'Italia, tengono centinaia di autopompe, migliaia di tonnellate di viveri e soccorsi, ambulanze, mezzi pesanti, raccolti e nascosti in grandi rimesse bunker. I grattacieli di Shinjuko e di Shibuya sono costruiti su fondamenta elastiche, capaci di oscillazioni che agli ultimi piani lanciano tra le pareti impiegati come palline da flipper, e fecero ruzzolare anche il presidente Pertini, quando li visitò e fu sorpreso da una scossa, come ogni giorno si avvertono. Ma non cadono.
Ogni medico, dentista, farmacista o infermiere, ogni ospedale, ogni clinica ha istruzioni continuamente aggiornate per il giorno in cui il nuovo, grande terremoto del Kanto, colpirà, come è certo che farà. Il loro terrore, in una città che vive quasi più sotto la superficie della terra che sopra, nell'infinita rete di tubi della metropolitana e delle stazioni, sono i fornellini a gas dei microristoranti famigliari che arrostiscono filetti d'anguilla, nocciole, verdure per sfamare la fiumana affrettata di umanità che sottoterra può comperare tutto, sposarsi, curarsi, mangiare, tutto meno che essere seppellita, rito per il quale si deve tornare sopra la terra. E' l'incendio, non il crollo, il vero incubo.
Ma neppure i centomila morti che le autorità si attendono quando Tokyo e il cuore dell'isola più grande, Honshu, sarà colpita come sarà colpita, è quello che può inzuppare di sudore i sindaci, le maestre, i capi della polizia e dell'autorità militari, quando ci pensano.
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