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26.1.15

Effetto Tsipras sulle Borse, a Tokyo crolla l’euro

 (La Stampa)
In mercati in ansia dopo il trionfo di Syriza ad Atene. Ma il piano Bce smorza le tensioni

L’effetto Alexis Tsipras, vincitore indiscusso con la sua Syriza alle elezioni politiche in Grecia, si abbatte sull’euro che segna all’apertura dei listini di Borsa di Tokyo un tonfo sia contro il dollaro e sia contro lo yen, scendendo rispettivamente a 1,1139 e a 130,78. Nelle contrattazioni di venerdì sulla piazza valutaria di New York, l’euro si era già indebolito a 1,1200 dollari e a 132,02 yen sulle attese dell’affermazione di Tsipras, promotore dell’inversione di rotta delle politiche di risanamento ed austerità imposte dalla troika, alimentando i timori sull’arrivo di un’altra fase d’instabilità in Eurolandia.
In flessione anche il biglietto verde sulla divisa nipponica, sceso a quota 117,40

I mercati sono in apprensione per il destino del debito di Atene, che ammonta a circa 320 miliardi di euro. Gli analisti sembrano però escludere reazioni isteriche, un po’ per l’effetto “paracadute” rappresentato dal quantitative easing lanciato giovedì dalla Bce e un po’ per il fatto che - dopo il piano di aiuti condizionato alle misure di austerity imposte dalla troika (Fmi, Ue, Bce) - l’esposizione verso i privati, secondo i dati elaborati da Ig Markets, è scesa dal 59% al 17% del totale, a fronte di un 62% in mano ai governi dell’Eurozona, un 11% della Bce e un 10% dell’Fmi.
Insomma qualora dovesse aprirsi un tema di taglio del debito greco - punto qualificante del programma del movimento guidato da Alexis Tsipras - questa volta, a differenza che nella crisi del 2010, il problema sarà in primo luogo dei governi e della istituzioni europee e non di banche e fondi. «Il tema del contagio non è del tutto superato me si è ridotto» afferma Lucy O’Carroll, economista di Aberdeen asset management.

L’attenzione resta comunque elevata. «È nell’interesse del governo greco fare le riforme necessarie per risolvere i suoi problemi strutturali», commenta il presidente della Bundesbank Jens Weidmann alla tv tedesca Ard dopo i primi risultati del voto in Grecia. «Atene - continua - deve aderire alle condizioni del salvataggio». L’Ansa riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi, quelli della Commissione Ue Jean Claude Juncker, del Consiglio Danald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem avranno una colazione di lavoro prima dell’Eurogruppo per discutere della Grecia.

Gli analisti di Axa Investment Management ammettono che «le incertezze sulle trattative tra la Grecia e i creditori internazionali faranno le loro vittime tra gli asset rischiosi» ma si aspettano un effetto «marginale» sul complesso dell’Eurozona. Lo stesso Tsipras ha detto di non avere come obiettivo l’uscita dall’euro e dunque dovrà cercare un compromesso con i suoi creditori, anche per non vedere i bond di Atene esclusi dagli acquisti della Bce.

La conferma di una vigilia tranquilla arriva anche dall’andamento dei rendimenti e degli spread dei titoli sovrani nell’Eurozona, scesi a livelli bassissimi grazie all’ombrello della Bce. Unica eccezione i bond greci, che nelle ultime sedute hanno registrato un’inversione della curva dei rendimenti, con i titoli triennali che rendono di più dei decennali (il 9,7% contro l’8,1%), segno che il mercato teme una ristrutturazione che andrà a colpire maggiormente le scadenza più vicine.

Alla riapertura delle borse europee si conosceranno con esattezza le dimensioni del successo di Syriza. E si capirà se il movimento anti-austerity´ avrà da solo i 151 voti necessari per controllare l’assemblea legislativa ellenica (ipotesi meno gradita al mercato) o dovrà trovare alleati più moderati, come il partito socialista Pasok o il To Potami guidato dal giornalista televisivo Stauros Theodorakis.

19.3.14

Noam Chomsky sulla Crimea: «Altro che feroce invasione»

Pio d'Emilia, (il manifesto)

Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo

Di «pas­sag­gio» a Tokyo per una serie di affol­la­tis­sime con­fe­renze, abbiamo chie­sto a Noam Chom­sky, pro­fes­sore eme­rito di lin­gui­stica al Mas­sa­chu­setts Insti­tute of Tech­no­logy, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occi­dente e Oriente, che agi­tano il pia­neta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.

L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin.
E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…


Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima
aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima
— alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le
guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto
alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi
giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici,
parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore
politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento
e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come
si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando
temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal)
«consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce
invasione».
Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti,
dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla
storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu
a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia?
Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo:
ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto,
quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato
nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere
la guida – e il gendarme – del mondo.

A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo
temere di più?


Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70%
degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc.
Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo
non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader
giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che
non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano
chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha
intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva,
esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine
di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare»
le truppe al fronte.

Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che
siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini
di guerra nascosti e/o ignorati

Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto
è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il
massacro di Nanchino rischi di diventare premier.

30.4.13

«Letta navigherà a vista»

CAPITALE - Il neoliberismo non ha avuto la sua eclissi finale: «Dal Giappone una nuova bolla colpirà l'Europa e l'Italia»

INTERVISTA - Roberto Ciccarelli

CHRISTIAN MARAZZI * «È urgente prendere coscienza del fallimento dell'austerità. L'unica cosa che riesco a vedere è una rivolta sociale»
«Quando il governo italiano sostiene di volere ricontrattare con la Commissione Europea può anche volere posticipare, com'è stato fatto in Spagna o in Portogallo, la riduzione del deficit di un paio d'anni - afferma l'economista Christian Marazzi - Ma questo non significa ricontrattare l'austerità, significa solo posticiparla lasciando i problemi tali e quali. Non nego che Letta sia animato da buone intenzioni quando dice di volere affrontare il problema degli esodati, dell'esaurimento della cassa integrazione o parla di un welfare più universale. Il problema è dove prenderà i soldi. Soprattutto se le politiche di austerità resteranno intatte».

Propone anche un reddito a sostegno delle famiglie bisognose con tanti figli. Cosa ne pensi? 
Il reddito di cittadinanza, o il reddito minimo, ha un senso se definisce un affrancamento dalle logiche di un mercato del lavoro deregolamentato. Se definisce un'autonomia del reddito da quelle che sono le logiche della crescita o della riduzione dei costi. Fino a quando questo obiettivo non sarà perseguito, e non verrà garantita l'autonomia della vita dalle costrizione di un'economia neoliberale, le declinazioni del reddito in altre forme portano solo a sterili strategie di ingegneria sociale.

Ritieni che stia prendendo corpo in Europa un fronte contro l'austerità?
Parlare di un fronte è un'espressione piuttosto sproporzionata, anche se è indubbio che le proposte di allentare il rigore vengono fatte in Portogallo, Spagna o Francia, le autocritiche del capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e le timide aperture della Commissione Europea con Olli Rehn vadano in questo senso. Bisogna però considerare le controspinte che vengono dalla Germania dove prevalgono i discorsi di segno opposto a sostegno della responsabilità, del rigore fiscale, delle politiche anti-inflattive. In attesa delle elezioni politiche di settembre, non vedo come Angela Merkel possa retrocedere rispetto alle politiche degli ultimi quattro anni, considerando anche la nascita del partito anti-euro «Alternativa per la Germania.

Resta comunque l'impressione che un cambiamento sia avvenuto dall'inizio dell'anno...
Con una battutaccia direi che sono arrivati alla canna del gas. L'evidenza del fallimento politico e finanziario li ha costretti a tornare indietro rispetto alle posizioni scientifiche e ideologiche. È impressionante vedere con che faccia il Fondo Monetario, dopo 50 anni, oggi dica di cambiare politiche economiche che sono esattamente quelle imposte ai paesi indebitati dell'America latina, del Sud est asiatico e oggi a quelli europei. Hanno buon gioco i tedeschi che non intendono cambiare la strategia fiscale quando lo stesso Fmi l'ha imposta in tutti i paesi del mondo.

Allora non bisogna credere in queste aperture?
A me sembrano tentativi tardivi per rimediare ai danni che queste politiche hanno provocato e continuano a provocare. È di ieri la notizia che in Grecia hanno deciso di licenziare 15 mila impiegati pubblici e di aumentare l'orario di lavoro degli insegnanti. Si sta perseverando sulla stessa linea, per questo sono piuttosto scettico sulle possibilità che si riuscirà a incidere sull'austerità. La politica è governo del tempo. Se tu cerchi di recuperare dalle politiche complici dell' austerità, come mi sembra sia state quelle di Monti, devi però fare i conti con i processi reali che sono difficili da invertire.

Quali conseguenze ha prodotto l'austerità?
Ha distrutto una parte importante del tessuto industriale, delle piccole e medie imprese. Il credito alle imprese e alle famiglie non esiste praticamente più e ha aggravato le divergenze all'interno della zona euro tra paesi del Nord e paesi del Sud. Quando si dice che un euro tedesco non è un euro cipriota o italiano o francese, che nella moneta unica c'è un proliferare di monete parallele, significa che il processo di divergenza tra tassi d'inflazione, di interesse e di produttività si è spinto molto in avanti. Questi sono i processi reali che lavorano dietro i tentativi di contenere il danno che il prossimo governo italiano si troverà ad affrontare.

Quale sarà la prossima bolla finanziaria ad esplodere e che effetto avrà sull'Europa e l'Italia?
 Le bolle sono la modalità attraverso le quali la crisi capitalistica si manifesta in tutta la sua potenza distruttiva. La loro funzione è creare panico, una specie di choc esogeno che restringe gli spazi di manovra di un governo, piuttosto che ampliarli. Il rischio di un'esplosione di un'altra bolla, non so in quale forma, è veramente forte. È la politica della banca centrale giapponese a destare maggiori preoccupazioni. È diventata una specie di banca centrale del mondo, iniettando dosi impressionanti di liquidità che si catapultano sulle borse europee che stanno andando bene e hanno contributo a ridurre lo spread italiano. D'altra parte le borse hanno già raggiunto livelli record da questo punto di vista. Gli analisti considerano gli indici già oltre i limiti storicamente raggiungibili. E questo porterà ad una nuova grande bolla speculativa. Arriveranno misure di taglio alla spesa pubblica, continueranno a esserci sempre difficoltà di reperimento di capitali.

Insomma è un circolo vizioso...
Da anni ci troviamo in un'enorme trappola della liquidità. Questi soldi non hanno nessun effetto di trickle down, cioè non sgocciolano nell'economia reale, restano nelle sfere della finanza e alimentano bolle in termini di acquisti o vendite di buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Si sta cercando di risolvere finanziariamente un problema che è stato creato dalla finanza. È un rompicapo.

In che modo lo si può risolvere?
L'unica cosa che riesco a vedere, ma non a prevedere, è una rivolta sociale. Oggi scontiamo un grande ritardo nella mobilitazione, anche se ci sono stati momenti esaltanti come Occupy negli Stati Uniti o gli indignados in Spagna. Per quanto lo auspichi, non vedo però una capacità di mobilitazione a livello europeo. Se non fosse così una rivolta non avrebbe nessuna chance di vivere più di un giorno. Ma non voglio essere pessimista. Oggi è urgente prendere coscienza del fallimento dell'austerità e capire che ciò che accomuna gli europei non è l'euro, come moneta unica. La nostra moneta comune è la povertà. Una volta compreso, e mi sembra che lo stiamo capendo, bisogna forzare per attuare una rivolta contro la povertà

Quale lotta può diventare il simbolo di questa mobilitazione?
Il reddito di cittadinanza su scala europea. È una delle chiavi per un'Europa comune contro l'austerità. È il tempo della politica deve diventare quello della mobilitazione. Come dice Guido Viale, non abbiamo bisogno di fatti, ma di promesse. Oggi è la voglia di futuro che deve dominare sul realismo dei fatti.

* Un critico dell'economia politica
Christian Marazzi è uno dei più acuti economisti, critici del capitalismo, che da anni insegna in diverse università europee e alla State University di New York. Attualmente è docente alla Scuola universitaria e professionale della Svizzera italiana. È autore dei saggi come «E il denaro va» (Casagrande/Bollati Boringhieri 1998), «Finanza bruciata» (Casagrande 2009) e «Il comunismo del capitale» (Ombre Corte 2010)

6.4.11

Nous ne vivons pas dans le meilleur des mondes (technologiques)

Marco Morosini, chercheur en développement durable à l'Ecole polytechnique fédérale de Zuric (Le Monde)

Le Japon est peut-être le seul pays capable de transformer – bien malgré lui – une catastrophe industrielle en un boomerang revenant dans le figure des prophètes des mégatechnologies. Il n'est donc pas improbable que le tragique tremblement de terre japonais – comme celui de Lisbonne en 1755 – ébranle la foi de ceux qui pensent vivre dans le meilleur des mondes (technologiques) possibles.

Celui qui se retrouve au bord de la catastrophe nucléaire, ce n'est pas un pays dysfonctionnel et approximatif mais un pays qui a envahi le monde avec des produits technologiques parfaits (les inventeurs du "zero défaut") et des voitures qui ont la plus faible proportion de pannes, le pays avec la plus grande connaissance des tremblements de terre et de tsunamis et avec la plus haute compétence antisismique, le pays avec le nombre le plus élevé de réacteurs nucléaires par habitant (après la France) et la plus ample expérience dans les dommages nucléaires. Donc, beaucoup de gens se demandent : si les meilleurs techniciens du monde ne savent pas contrôler leurs réacteurs, pourquoi devrions-nous croire à ceux qui nous promettent que d'autres seraient capable de le faire ?
Avec le bon sens dont certains experts semblent pouvoir se passer, certaines catastrophes technologiques et économiques semblent faciles à comprendre par la suite. Prenons par exemple le Concorde, l'avion passager supersonique qui est maintenant dans un musée. Dans l'an 2000 il aurait dû être l'avion le plus vendu au monde, disaient les fabricants. Aujourd'hui, il semble bizarre que tant de techniciens aient cru que dans un monde où les coûts et les effets climatiques du pétrole sont de plus en plus grands, on aurait pu vendre des centaines d'avions supersoniques qui consomment et polluent le triple des autres. Ou prenons les "tours jumelles". Selon leur concepteur elles auraient dû résister à l'impact mécanique d'un jumbo-jet ; en fait, le 11-Septembre ce n'est pas l'impact qui les a fait effondrer mais plutôt le stress thermique du kérosène incendié – que le concepteur n'avait pas calculé.
A Fukushima peut-être que cela a été pareil : les ingénieurs avaient pensé à de nombreuses hypothèses – mais pas à toutes. Les experts du risque le confirmeraient : avec les mégatechnologies la possibilité de l'événement le plus adverse est bien réelle, mais sa probabilité est si faible que certains d'entre eux disent au grand public qu'elle est "pratiquement" nulle, que les centrales atomiques "sont sûres". Or si c'était vraiment le cas, les compagnies d'assurance se battraient pour pouvoir assurer un risque, où il y aurait seulement à gagner et "certainement" rien à perdre. La réalité est bien différente.
En Suisse par exemple chaque centrale est assurée pour un maximum de 1 milliard de francs, contre une perte possible de 100 milliards, estimés par l'Office fédéral de la protection civile. Un projet de loi du "vert libéral" Martin Baeumle vise à introduire une assurance obligatoire pour dégâts de 500 milliards, ce qui conduirait à des augmentations de 5 à 50 centimes par kWh (ce denier coûte maintenant 20 centimes). En Allemagne, le maximum de dommages couvert est de 2,5 milliards d'euros par centrale, par rapport à un maximum de dégâts de 5 500 milliards estimé par des études fédérales. D'autres estimations parviennent à 11 000 milliards d'euros. C'est pourquoi un groupe d'organisations collecte des signatures en Allemagne pour introduire une vraie assurance obligatoire.

UN SIGNAL FORT DU MARCHÉ DE L'ASSURANCE
Selon ces chiffres, les centrales nucléaires, contrairement à la moindre mobylette, fonctionnent presque sans assurance. Il est intéressant de noter que si pour certaines élites, "le marché doit tout diriger", lorsqu'il s'agit des risques atomiques les mêmes ignorent le signal fort et clair du marché de l'assurance – qui généralement est en mesure de mettre un prix sur tout.
Constatons aussi que dans le cas des risques atomiques, les réponses des assureurs et du philosophe sont similaires. Le fait n'est pas que les assureurs calculent une prime trop élevée pour les centrales atomiques. Le fait est tout simplement qu'ils n'assument pas ce risque. Et ce à aucun prix. Normalement le prix pour couvrir un risque est basé sur la multiplication du montant maximum de dégâts par la probabilité qu'il se produise. Mais là où le dommage est irréparable et incalculable, le fait que sa probabilité supposée soit d'un millionième ou bien d'un milliardième, cela ne change en rien.
Lorsque le risque est la perte totale, il ne peut tout simplement pas être pris en charge. Dans l'âge des mégarisques il est donc sage de s'orienter vers la "heuristique de la peur", qui donne la préférence à considérer l'hypothèse la plus défavorables, quelle que soit sa probabilité, quand elle se réfère à une perte inacceptable. C'est bien là le message central du philosophe Hans Jonas, dans son ouvrage classique Le principe responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique (Flammarion, 1979), trop souvent caricaturé en France en mettant à toutes les sauces le principe de précaution, depuis son entrée dans la Constitution.
"To-cheap-to-meter" (trop-bon-marché-pour-être-mesurée) disaient il y a quarante ans les prophètes de l'électricité atomique, en promettant la disparition des compteurs électriques de nos maisons. "Trop chère payée" semble être le message qui vient du Japon.

25.3.11

Ora è certo, il nucleare è un rischio. Ma quanto siamo disposti a rischiare?

Marco Morosini (da Avvenire)

Forse il Giappone è il solo paese capace di trasformare, suo malgrado, una catastrofe industriale in un boomerang per la fede nelle megatecnologie. Così non è improbabile che – come già quello di Lisbona del 1755 – questo tragico terremoto giapponese mini la fede di molti che pensavano di vivere nel migliore dei mondi (tecnologici) possibili. Sull’orlo della catastrofe atomica si è messo un paese che ha invaso il mondo con prodotti tecnologici perfetti e con automobili che hanno la più bassa quota d’avarie, il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici. Così molti si chiedono: se i tecnici più esperti del mondo non riescono a controllare i loro reattori atomici, perché dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo?

Con quel buon senso di cui molti esperti sembrano fare a meno, certe catastrofi tecnologiche ed economiche sembrano facili da capire a posteriori. Prendete per esempio il Concorde, l’aereo passeggeri supersonico oggi custodito in un museo: nel 2000 avrebbe dovuto essere l’aereo più venduto al mondo, dicevano i costruttori. Oggi pare strano che tanti tecnici pensassero davvero che, in un mondo dove il petrolio costa e inquina sempre di più, si potessero vendere centinaia di supersonici dal consumo triplo di quello degli altri aerei. O prendete le "Torri gemelle". Secondo il loro progettista dovevano resistere anche all’impatto meccanico di un Jumbo; in effetti l’11 settembre non crollarono per gli schianti, ma per lo stress termico del cherosene incendiato, che il progettista non aveva calcolato. Anche a Fukushima forse è andata così: sì, i tecnici avevano pensato a tante ipotesi, ma non a tutte. Gli esperti del rischio lo confermerebbero: con le megatecnologie la possibilità del massimo evento avverso è reale, ma la sua probabilità è così piccola che alcuni di essi raccontano alla popolazione che è "praticamente" nulla; che le centrali atomiche "sono sicure". Ma se così fosse, le compagnie d’assicurazione farebbero a gara per poter assicurare un rischio in cui c’è solo da guadagnare e "sicuramente" niente da perdere. Invece in Svizzera ogni centrale è assicurata per un massimale di 1 miliardo di franchi, a fronte di un danno possibile di 100 miliardi stimato dall’Ufficio federale della protezione civile; una proposta di legge chiede di introdurre un’assicurazione obbligatoria per 500 miliardi, il che porterebbe ad aumenti del kWh tra 5 e 50 centesimi (ora ne costa 20). In Germania il massimo danno coperto è di 2,5 miliardi di euro per centrale, contro un massimo danno stimato dallo Stato di 5.500 miliardi. Altre stime arrivano a 11 mila miliardi. Per questo numerose organizzazioni tedesche stanno raccogliendo firme per introdurre una vera assicurazione obbligatoria delle centrali (www.atomhaftpflicht.de). Secondo queste cifre le centrali atomiche, a differenza di un’automobile, viaggiano quasi senza assicurazione. È curioso che mentre secondo certe élites «il mercato deve dirigere tutto», per i rischi atomici proprio costoro ignorino il segnale forte e chiaro del mercato delle assicurazioni, capace altrimenti di dare un prezzo a qualunque rischio.

È interessante osservare che in questo caso la risposta del mercato del rischio e quella del filosofo sono simili. Di fatto, non è che le assicurazioni calcolino un premio troppo alto per le centrali atomiche. Semplicemente non assumono quel rischio. Per qualunque prezzo. Il prezzo di un rischio si basa sulla moltiplicazione dell’ammontare del massimo danno per la probabilità che esso si verifichi. Quando però il danno diventa incalcolabile e irreparabile, se la sua probabilità è di un milionesimo o un miliardesimo non cambia nulla. Quando il rischio è la perdita totale, semplicemente non può essere assunto. Nell’era dei megarischi è necessario quindi orientarsi all’"euristica della paura", che dà la preferenza a considerare l’ipotesi più avversa concepibile, a prescindere dal calcolo delle probabilità, quando essa contempla una perdita inammissibile. È questo il messaggio centrale del filosofo Hans Jonas, nel suo classico Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979).
"Too-cheap-to-meter" (troppo-a-buon-mercato-per-misurarla) promettevano i profeti dell’elettricità atomica quando 30 anni fa pronosticavano la scomparsa dei contatori elettrici dalle nostre case. "Troppo costosa per poterla pagare" sembra invece il messaggio che ci viene dal Giappone.

17.3.11

Senza più cibo né acqua da 5 giorni - Tra i dannati della città abbandonata

Onagawacho è isolata, le squadre dei soccorritori non arrivano. Nel fango ci sono migliaia di morti. Seimila persone in trappola sulla collina. "Qui moriremo tutti"

ONAGAWACHO - Qui fino ad oggi nessuno era arrivato. È bastato il crollo di un ponte, due chilometri all'interno, per isolare Onagawacho dal mondo. Invalicabili macerie, in parte galleggianti sulla melma, impediscono ancora ai soccorritori di raggiungere la cittadina che il Giappone, da venerdì, sembra aver cancellato anche dalla carta geografica.
Poco distante, a Onagawa, la centrale nucleare si è salvata dall'onda per duecento metri e i soldati dell'esercito ammucchiano ora sacchi di sabbia attorno ai capannoni che custodiscono i reattori spenti. Qui invece è servito l'atterraggio di fortuna di un elicottero, sospeso sopra pericolanti cumuli di rovine, per scoprire che seimila persone da cinque giorni sono abbandonate su una collina lambita dal fango e tra gli scogli, contro cui l'oceano sbatte centinaia di corpi.

Metà della popolazione è scomparsa nel mare. I sopravvissuti, dalle 14.46 dell'11 marzo, non mangiano e hanno resistito bruciando i rami e i tetti delle loro case, distrutti dallo tsunami. Hanno centellinato l'acqua, recuperata nel magazzino di un alimentari crollato, ma centinaia sono disidratati, minati dal freddo, dal sonno e dal terrore. Due vecchi all'alba sono morti perché sprovvisti di medicine essenziali e nessuno ha avuto la forza di aprire un varco tra i detriti per chiedere aiuto. Decine di bambini, pur protetti con gli indumenti degli adulti, presentano sintomi di assideramento. Tutti gli scampati sono uniti dalla medesima realtà: hanno perduto qualcuno nel fango
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disteso davanti a loro, in cui non osano entrare.

Nella città senza soccorsi, simbolo della distruzione che ha trasformato la prefettura di Miyagi in una putrescente discarica, si consuma la tragedia di una nazione che appare incapace di reagire alla peggiore catastrofe dalla fine della seconda guerra mondiale. Per tre volte il pilota dell'elicottero ha gridato: "C'è qualcuno? Siete vivi?". Sul fango e tra i relitti nulla si muoveva e sembrava che a Onagawacho fossero morti tutti. Poi gruppi di superstiti, incapaci di parlare, sono scesi dalla macchia, hanno indicato la collina con occhi spenti e si sono seduti sopra le auto rovesciate, in attesa di aiuto. L'impossibilità di essere salvati dagli uomini, dopo essersi sottratti alla natura, è l'incubo che sconvolge gli oltre seicentomila terremotati della regione di Tohoku, epicentro del terremoto.

Giacciono a un'ora di volo da Tokyo, ma si sentono definitivamente in trappola, prigionieri tra le spiagge che rigurgitano corpi, continue e tremende scosse, la centrale di Fukushima, poco più a sud, che erutta gas nucleari. Nessuno avrebbe immaginato che nel Giappone hi-tech, dopo un tempo così lungo dalla grande scossa, la macchina dei soccorsi si sarebbe rivelata tanto arcaica, lenta, insufficiente e inadeguata a fronteggiare l'emergenza degli individui. Nelle prefetture sconvolte manca ancora l'energia elettrica, i collegamenti telefonici risultano circoscritti ai centri principali, le strade e le ferrovie sono interrotte, o riservate ai mezzi di soccorso. Il carburante è distribuito con il contagocce e per ottenere venti litri di benzina, a Kamaishi, sono state necessarie sei ore di attesa. Seicentomila sfollati sono sprovvisti di acqua, cibo, vestiti, coperte, medicine, esposti alla fine di un inverno che rovescia pioggia, neve e notti a quattro gradi sotto zero. La scarsità di gasolio, deserti sconfinati di paludi ribollenti di edifici crollati, fermano i convogli con i generi di prima necessità. Ma il risultato è che lungo i cinquecento chilometri della costa nordest dell'Honshu, finora solo un sopravvissuto su tre ha ricevuto il minimo indispensabile per non morire così, in modo incredibile, con addosso solo i vestiti con cui è sfuggito al Pacifico. Nel villaggio di Takajo la famiglia Sato, genitori e due bambini, è rimasta quattro giorni con sessanta centilitri d'acqua. Nel centro di accoglienza di Sendai, il più grande di Miyagi, mangiano e bevono solo i feriti, i vecchi e i bambini più piccoli. Per evitare un altro disastro, occorrono un milione di pasti e un milione di litri d'acqua al giorno: ne arrivano meno di duecentomila. Gli adulti dicono che ormai non hanno più bisogno di niente, ma la gente è scossa da un inconfessabile sospetto. Teme che i soccorritori realmente inviati, per evitare di esporli al rischio-radiazioni, siano assai meno dei centomila ufficialmente annunciati. E ha paura che ruspe e camion, indispensabili per iniziare a rimuovere le macerie, riparare gli acquedotti, riallacciare almeno qualche tratto delle linee elettriche e del gas, tardino nel timore di essere spazzati via da un nuovo tsunami. Nelle prefetture di Myagi e Iwate mancano però oggi soprattutto bare e buste per spostare i cadaveri. Ne servono migliaia, forse decine di migliaia, ma non si trovano.

Nella palestra di Minami-Sanrikucho, la città cancellata dove in cinque giorni s'è trovato un solo vivo, mille corpi sono allineati sotto un tendone, coperti da fogli di giornale. A Matsushima c'è un solo forno crematorio, continui black-out lo arrestano e riesce a incenerire ventotto salme al giorno. I defunti però qui sono seicento, l'obitorio non è refrigerato e alcuni volontari inondano chi aspetta con acqua marina e fango, per ritardare la decomposizione. "Mi appello a tutto il Giappone e all'estero - dice Yoshihiro Murai, governatore di Miyagi - affinché inviino casse per i nostri cari". Per intuire la profondità del dolore a cui gli uomini possono essere improvvisamente condannati dal destino, bisogna però arrivare a Soma, cento chilometri a sud di Sendai. Su 38 mila abitanti ne sono stati ritrovati meno di 14 mila. Un terzo della città resta inghiottito dall'acqua. La spiaggia è nera di petrolio, che continua ad uscire da centinaia di navi rovesciate davanti alla costa. Nella sabbia inzuppata, i sopravvissuti scavano decine di fosse comuni temporanee, depongono i morti che non possono seppellire e coprono con dieci centimetri di melma. L'odore è indimenticabile ma le persone che giungono qui in cerca di qualcuno, non se ne accorgono. C'è anche Katsuma Ishihara. Venerdì guidava l'autobus a Yamada. Ha visto l'onda passare sul bordo della strada e ha telefonato invano ai suoi. Dopo un chilometro si è fermato. "Chiedo scusa per l'inconveniente ai signori passeggeri - ha detto - ma il fatto è che la mia casa era qui, c'era dentro la mia famiglia, e adesso non c'è più". Attorno regna il caos. Le colline, tra Miyako e Kesennuma, sono occupate da migliaia di persone fuggite da venerdì e prive di soccorsi. Decine di migliaia di persone, a piedi o su mezzi di fortuna, sono in marcia verso nord dalla prefettura di Fukushima, in fuga dalla nube tossica della centrale. Gli eco-profughi di Futabamachi invadono i centri di raccolta delle prefetture di Miyagi e Iwate, dove vengono respinti dai senzatetto locali, terrorizzati dall'idea che il contatto con potenziali contaminati renda tutti radioattivi.

Forse davvero l'ecatombe dell'Honshu è solo all'inizio e i militari sbarcati questa mattina a Ishinomaki pensano che l'allarme atomico stia nascondendo alla nazione il segreto orrendo delle sue vite già consumate. Due terzi della città sono coperti da quattro metri di una densa crema marrone. Si rema sopra i tetti e dalle finestre sfondate, al secondo piano degli edifici rimasti eretti, spuntano braccia di persone che venerdì hanno tentato di buttarsi in un vuoto che invece era liquido. Su una delle barche, cariche di superstiti, naviga anche Hirumi Memoto. È nata a Hiroshima e nell'agosto del 1945, quando fu investita dal fungo atomico della guerra, aveva 19 anni. Trasferita qui, oggi ne ha 85. Maledice il mostro che insiste nel condannarla a sopravvivere e che questa volta è stato pietoso verso il marito Ko Miura, 88 anni, annegato nel letto. È assorta e ripete tra sé: "Non dovevo nascere". Sono due vite aperte e chiuse da due ecatombi ed esprimono la parabola fatale di quella che il Paese inizia a considerare una misteriosa condanna collettiva.

La popolazione travolta dallo tsunami la considera una beffa. Le radio continuano a trasmettere voci che narrano la propria salvezza, tecnici che assicurano che tutto è sotto controllo, politici che decretano la fine dell'emergenza terremotati. A Higashi-Matsushima invece, come lungo tutta la costa, gli ospedali sono senza medicine, senza medici, senza energia. Mancano soluzione salina, disinfettanti, pillole di iodio, misuratori della radioattività. Centomila bambini hanno perso la casa, migliaia anche i genitori, e non si trovano psicologi. Strade interrotte, macerie e fango impediscono di trasportare toilette da campo, ma se non ne arrivano subito migliaia, la situazione igienico-sanitaria è destinata ad esplodere. Nella scuola elementare di Nobiru 103 morti attendono nella sala delle udienze, a fianco di 467 vivi distesi a pochi metri nel corridoio. Nei bagni non c'è acqua e le latrine ormai sono inavvicinabili. Setsuro Sugawara non lascia la mano della figlia Sayaka, 16 anni, ripescata senza vita al largo tre ore fa. "Ho lottato perché la tua vita - dice - fosse migliore della mia". Solo ora le persone si rendono conto che una fascia costiera larga sette chilometri e lunga oltre trecento è diventata un pantano di carcasse di cemento. Città e villaggi non potranno essere ricostruiti dove erano sorti, decine di porti dovranno essere abbandonati. Tre milioni di abitanti si preparano ad un esodo definitivo, ad una migrazione che sconvolgerà la nazione.

Shigamasha Sato, 78 anni di Otsuchicho, spinge una bicicletta lungo un cunicolo aperto tra detriti incombenti alti sette metri. Ha appoggiato una gonfia borsa di nylon sulla sella e dice che se ne va per sempre. "Mio figlio - dice - è morto nel suo ufficio sull'isola di Oshima, mentre spiegava alla moglie come mettersi in salvo". È stata la fine del mondo e ogni mattina ne tracima un brandello. Per non vederla ci si aggrappa a tutto. Anche al vecchio Hiromitsu Shinakawa, recuperato 15 chilometri al largo di Futabamachi su una trave del tetto della sua casa. La moglie ha ceduto a un'onda lunedì notte. Quando l'elicottero gli lancia il verricello dice: "Fate in fretta, pensavo che tra mezz'ora sarei morto". Il Giappone piange di gioia, ma forse non si è sentito mai così disperato.

16.3.11

Il dovere della paura

di BARBARA SPINELLI

Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che
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ne risulta" (Il principio di responsabilità, Einaudi '90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: "Non si può fare come se nulla fosse". Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine "catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave". Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?

Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right": tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo "nel migliore dei mondi possibili".
Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"), lo sguardo di Voltaire: "Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: "Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino", dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: "legno storto", "mai più grande dell'uomo".

Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il male è sulla terra", e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!") che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.

È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

14.3.11

L'abitudine al dolore è dentro il destino

La lotta contro il terremoto si combatte con le piccole armi della organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere. Un fatto d'onore
di VITTORIO ZUCCONI

Si vive ogni giorno sull'orlo del vulcano, con la certezza della fine del mondo sotto i piedi, con il terrore della vergogna, non della morte. I bambini esercitati dalle maestre, il poliziotto di quartiere che ti bussa alla porta di per accertarsi che ci siano l'accetta, l'estintore, l'aqua distillata, la cassetta del pronto soccorso e la coperta antiincendio, gli scarafaggi che avvertono qualcosa e si arrampicano sul letto a cercare la solidarietà degli uomini, sono la normalità, non l'eccezione. Per i gaijin, per gli stranieri che vivono in Giappone, il grande sisma con le sue onde di terra e poi di acqua è un mostro, risveglia con il fiato grosso e il pigiama intriso di sudore, al primo tintinnare delle maniglie di ferro sui cassetti dei "tansu", degli armadi. Per i nihonjin, per i giapponesi, è la vita che hanno scelto di vivere, il destino che hanno accettato di subire, l'essere quello che sono. Vale per loro, parafrasandola, la formula di John F. Kennedy per l'impresa lunare: "Non siamo giapponesi perché è facile esserlo, ma perché è difficile".

Semplicemente sanno che nessuno, ricco o povero, nobile nato sotto i tre rombi dei baroni Mitsubishi venditore ambulante di patate dolci, sfuggirà all'incontro con la terra che trema e che pratica la democrazia del vulcano. Che ci saranno tributi da pagare al fatto di vivere in un arcipelago che deve tutto al mare e ai vulcani dai quali è stato creato.
La lotta contro questo nemico va combattuta con le piccole armi della
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organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere, come le cariche banzai degli ultimi reparti giapponesi nelle isole accerchiate, assalti suicidi senza alcuna speranza di ributtarli in mare. Un fatto d'onore. Le scene dei bambini degli asili e delle elementari addestrati regolarmente ad accucciarsi sotto i banchi, a formare file ordinate anche quando tutto balla attorno a loro.

Non ci si esercita perché davvero possano esistere manovre protettive contro una muraglia d'acqua alta tre piani, dieci metri, che avanza verso l'interno alla velocità di un treno, ma perché nell'esercitazione e nella preparazione si celebra il rito propiziatorio della sopravvivenza e della cultura collettiva. La resistenza è la vittoria, il sacrificio è la testimonianza. "Tuo fratello è caduto in battaglia, e tu che fai ancora vivo?" scrivevano le madri dei soldati e dei marinai in guerra. Una settimana dopo la bomba di Hiroshima, la stazione radio locale aveva ripreso le trasmissioni.

Le autorità di Tokyo, che da 88 anni attendono il grande jishin, il superterremoto della piana del Kanto dove vivono mille e duecento persone per chilometro quadrato, dieci volte la densità abitativa dell'Italia, tengono centinaia di autopompe, migliaia di tonnellate di viveri e soccorsi, ambulanze, mezzi pesanti, raccolti e nascosti in grandi rimesse bunker. I grattacieli di Shinjuko e di Shibuya sono costruiti su fondamenta elastiche, capaci di oscillazioni che agli ultimi piani lanciano tra le pareti impiegati come palline da flipper, e fecero ruzzolare anche il presidente Pertini, quando li visitò e fu sorpreso da una scossa, come ogni giorno si avvertono. Ma non cadono.

Ogni medico, dentista, farmacista o infermiere, ogni ospedale, ogni clinica ha istruzioni continuamente aggiornate per il giorno in cui il nuovo, grande terremoto del Kanto, colpirà, come è certo che farà. Il loro terrore, in una città che vive quasi più sotto la superficie della terra che sopra, nell'infinita rete di tubi della metropolitana e delle stazioni, sono i fornellini a gas dei microristoranti famigliari che arrostiscono filetti d'anguilla, nocciole, verdure per sfamare la fiumana affrettata di umanità che sottoterra può comperare tutto, sposarsi, curarsi, mangiare, tutto meno che essere seppellita, rito per il quale si deve tornare sopra la terra. E' l'incendio, non il crollo, il vero incubo.

Ma neppure i centomila morti che le autorità si attendono quando Tokyo e il cuore dell'isola più grande, Honshu, sarà colpita come sarà colpita, è quello che può inzuppare di sudore i sindaci, le maestre, i capi della polizia e dell'autorità militari, quando ci pensano.

13.3.11

L’urlo universale della natura e la coscienza (perduta) del pericolo

Claudio Magris

In queste ore si ha talvolta l’impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l’acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D’improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s’incendia. Ma cos’è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l’arroganza del dominatore, ora con l’angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch’essi parte della natura, come se non fossero anch’essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell’uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L’apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un’ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell’uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura. Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all’insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall’infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche. L’orgoglio dell’uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l’invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l’uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C’è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l’agire di chi coltiva la vite e vendemmia l’uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l’attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell’appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l’impulso dell’uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all’impeto, altrettanto naturale, delle acque. L’uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura. La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell’uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall’ansia di sapere di dovere, un giorno o l’altro, morire. Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall’esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l’atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l’uomo sa talora far fronte al disastro. Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l’equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall’antica madre ossia dalla totalità che l’ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l’albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie. C’è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell’uomo; l’ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi». Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo. Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli. Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l’uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto. ] L'urlo universale della natura
e la coscienza (perduta) del pericolo

In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.

L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.

L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.

La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.

Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.

Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.

C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».

Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.

Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.

Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.