17.3.11

Senza più cibo né acqua da 5 giorni - Tra i dannati della città abbandonata

Onagawacho è isolata, le squadre dei soccorritori non arrivano. Nel fango ci sono migliaia di morti. Seimila persone in trappola sulla collina. "Qui moriremo tutti"

ONAGAWACHO - Qui fino ad oggi nessuno era arrivato. È bastato il crollo di un ponte, due chilometri all'interno, per isolare Onagawacho dal mondo. Invalicabili macerie, in parte galleggianti sulla melma, impediscono ancora ai soccorritori di raggiungere la cittadina che il Giappone, da venerdì, sembra aver cancellato anche dalla carta geografica.
Poco distante, a Onagawa, la centrale nucleare si è salvata dall'onda per duecento metri e i soldati dell'esercito ammucchiano ora sacchi di sabbia attorno ai capannoni che custodiscono i reattori spenti. Qui invece è servito l'atterraggio di fortuna di un elicottero, sospeso sopra pericolanti cumuli di rovine, per scoprire che seimila persone da cinque giorni sono abbandonate su una collina lambita dal fango e tra gli scogli, contro cui l'oceano sbatte centinaia di corpi.

Metà della popolazione è scomparsa nel mare. I sopravvissuti, dalle 14.46 dell'11 marzo, non mangiano e hanno resistito bruciando i rami e i tetti delle loro case, distrutti dallo tsunami. Hanno centellinato l'acqua, recuperata nel magazzino di un alimentari crollato, ma centinaia sono disidratati, minati dal freddo, dal sonno e dal terrore. Due vecchi all'alba sono morti perché sprovvisti di medicine essenziali e nessuno ha avuto la forza di aprire un varco tra i detriti per chiedere aiuto. Decine di bambini, pur protetti con gli indumenti degli adulti, presentano sintomi di assideramento. Tutti gli scampati sono uniti dalla medesima realtà: hanno perduto qualcuno nel fango
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disteso davanti a loro, in cui non osano entrare.

Nella città senza soccorsi, simbolo della distruzione che ha trasformato la prefettura di Miyagi in una putrescente discarica, si consuma la tragedia di una nazione che appare incapace di reagire alla peggiore catastrofe dalla fine della seconda guerra mondiale. Per tre volte il pilota dell'elicottero ha gridato: "C'è qualcuno? Siete vivi?". Sul fango e tra i relitti nulla si muoveva e sembrava che a Onagawacho fossero morti tutti. Poi gruppi di superstiti, incapaci di parlare, sono scesi dalla macchia, hanno indicato la collina con occhi spenti e si sono seduti sopra le auto rovesciate, in attesa di aiuto. L'impossibilità di essere salvati dagli uomini, dopo essersi sottratti alla natura, è l'incubo che sconvolge gli oltre seicentomila terremotati della regione di Tohoku, epicentro del terremoto.

Giacciono a un'ora di volo da Tokyo, ma si sentono definitivamente in trappola, prigionieri tra le spiagge che rigurgitano corpi, continue e tremende scosse, la centrale di Fukushima, poco più a sud, che erutta gas nucleari. Nessuno avrebbe immaginato che nel Giappone hi-tech, dopo un tempo così lungo dalla grande scossa, la macchina dei soccorsi si sarebbe rivelata tanto arcaica, lenta, insufficiente e inadeguata a fronteggiare l'emergenza degli individui. Nelle prefetture sconvolte manca ancora l'energia elettrica, i collegamenti telefonici risultano circoscritti ai centri principali, le strade e le ferrovie sono interrotte, o riservate ai mezzi di soccorso. Il carburante è distribuito con il contagocce e per ottenere venti litri di benzina, a Kamaishi, sono state necessarie sei ore di attesa. Seicentomila sfollati sono sprovvisti di acqua, cibo, vestiti, coperte, medicine, esposti alla fine di un inverno che rovescia pioggia, neve e notti a quattro gradi sotto zero. La scarsità di gasolio, deserti sconfinati di paludi ribollenti di edifici crollati, fermano i convogli con i generi di prima necessità. Ma il risultato è che lungo i cinquecento chilometri della costa nordest dell'Honshu, finora solo un sopravvissuto su tre ha ricevuto il minimo indispensabile per non morire così, in modo incredibile, con addosso solo i vestiti con cui è sfuggito al Pacifico. Nel villaggio di Takajo la famiglia Sato, genitori e due bambini, è rimasta quattro giorni con sessanta centilitri d'acqua. Nel centro di accoglienza di Sendai, il più grande di Miyagi, mangiano e bevono solo i feriti, i vecchi e i bambini più piccoli. Per evitare un altro disastro, occorrono un milione di pasti e un milione di litri d'acqua al giorno: ne arrivano meno di duecentomila. Gli adulti dicono che ormai non hanno più bisogno di niente, ma la gente è scossa da un inconfessabile sospetto. Teme che i soccorritori realmente inviati, per evitare di esporli al rischio-radiazioni, siano assai meno dei centomila ufficialmente annunciati. E ha paura che ruspe e camion, indispensabili per iniziare a rimuovere le macerie, riparare gli acquedotti, riallacciare almeno qualche tratto delle linee elettriche e del gas, tardino nel timore di essere spazzati via da un nuovo tsunami. Nelle prefetture di Myagi e Iwate mancano però oggi soprattutto bare e buste per spostare i cadaveri. Ne servono migliaia, forse decine di migliaia, ma non si trovano.

Nella palestra di Minami-Sanrikucho, la città cancellata dove in cinque giorni s'è trovato un solo vivo, mille corpi sono allineati sotto un tendone, coperti da fogli di giornale. A Matsushima c'è un solo forno crematorio, continui black-out lo arrestano e riesce a incenerire ventotto salme al giorno. I defunti però qui sono seicento, l'obitorio non è refrigerato e alcuni volontari inondano chi aspetta con acqua marina e fango, per ritardare la decomposizione. "Mi appello a tutto il Giappone e all'estero - dice Yoshihiro Murai, governatore di Miyagi - affinché inviino casse per i nostri cari". Per intuire la profondità del dolore a cui gli uomini possono essere improvvisamente condannati dal destino, bisogna però arrivare a Soma, cento chilometri a sud di Sendai. Su 38 mila abitanti ne sono stati ritrovati meno di 14 mila. Un terzo della città resta inghiottito dall'acqua. La spiaggia è nera di petrolio, che continua ad uscire da centinaia di navi rovesciate davanti alla costa. Nella sabbia inzuppata, i sopravvissuti scavano decine di fosse comuni temporanee, depongono i morti che non possono seppellire e coprono con dieci centimetri di melma. L'odore è indimenticabile ma le persone che giungono qui in cerca di qualcuno, non se ne accorgono. C'è anche Katsuma Ishihara. Venerdì guidava l'autobus a Yamada. Ha visto l'onda passare sul bordo della strada e ha telefonato invano ai suoi. Dopo un chilometro si è fermato. "Chiedo scusa per l'inconveniente ai signori passeggeri - ha detto - ma il fatto è che la mia casa era qui, c'era dentro la mia famiglia, e adesso non c'è più". Attorno regna il caos. Le colline, tra Miyako e Kesennuma, sono occupate da migliaia di persone fuggite da venerdì e prive di soccorsi. Decine di migliaia di persone, a piedi o su mezzi di fortuna, sono in marcia verso nord dalla prefettura di Fukushima, in fuga dalla nube tossica della centrale. Gli eco-profughi di Futabamachi invadono i centri di raccolta delle prefetture di Miyagi e Iwate, dove vengono respinti dai senzatetto locali, terrorizzati dall'idea che il contatto con potenziali contaminati renda tutti radioattivi.

Forse davvero l'ecatombe dell'Honshu è solo all'inizio e i militari sbarcati questa mattina a Ishinomaki pensano che l'allarme atomico stia nascondendo alla nazione il segreto orrendo delle sue vite già consumate. Due terzi della città sono coperti da quattro metri di una densa crema marrone. Si rema sopra i tetti e dalle finestre sfondate, al secondo piano degli edifici rimasti eretti, spuntano braccia di persone che venerdì hanno tentato di buttarsi in un vuoto che invece era liquido. Su una delle barche, cariche di superstiti, naviga anche Hirumi Memoto. È nata a Hiroshima e nell'agosto del 1945, quando fu investita dal fungo atomico della guerra, aveva 19 anni. Trasferita qui, oggi ne ha 85. Maledice il mostro che insiste nel condannarla a sopravvivere e che questa volta è stato pietoso verso il marito Ko Miura, 88 anni, annegato nel letto. È assorta e ripete tra sé: "Non dovevo nascere". Sono due vite aperte e chiuse da due ecatombi ed esprimono la parabola fatale di quella che il Paese inizia a considerare una misteriosa condanna collettiva.

La popolazione travolta dallo tsunami la considera una beffa. Le radio continuano a trasmettere voci che narrano la propria salvezza, tecnici che assicurano che tutto è sotto controllo, politici che decretano la fine dell'emergenza terremotati. A Higashi-Matsushima invece, come lungo tutta la costa, gli ospedali sono senza medicine, senza medici, senza energia. Mancano soluzione salina, disinfettanti, pillole di iodio, misuratori della radioattività. Centomila bambini hanno perso la casa, migliaia anche i genitori, e non si trovano psicologi. Strade interrotte, macerie e fango impediscono di trasportare toilette da campo, ma se non ne arrivano subito migliaia, la situazione igienico-sanitaria è destinata ad esplodere. Nella scuola elementare di Nobiru 103 morti attendono nella sala delle udienze, a fianco di 467 vivi distesi a pochi metri nel corridoio. Nei bagni non c'è acqua e le latrine ormai sono inavvicinabili. Setsuro Sugawara non lascia la mano della figlia Sayaka, 16 anni, ripescata senza vita al largo tre ore fa. "Ho lottato perché la tua vita - dice - fosse migliore della mia". Solo ora le persone si rendono conto che una fascia costiera larga sette chilometri e lunga oltre trecento è diventata un pantano di carcasse di cemento. Città e villaggi non potranno essere ricostruiti dove erano sorti, decine di porti dovranno essere abbandonati. Tre milioni di abitanti si preparano ad un esodo definitivo, ad una migrazione che sconvolgerà la nazione.

Shigamasha Sato, 78 anni di Otsuchicho, spinge una bicicletta lungo un cunicolo aperto tra detriti incombenti alti sette metri. Ha appoggiato una gonfia borsa di nylon sulla sella e dice che se ne va per sempre. "Mio figlio - dice - è morto nel suo ufficio sull'isola di Oshima, mentre spiegava alla moglie come mettersi in salvo". È stata la fine del mondo e ogni mattina ne tracima un brandello. Per non vederla ci si aggrappa a tutto. Anche al vecchio Hiromitsu Shinakawa, recuperato 15 chilometri al largo di Futabamachi su una trave del tetto della sua casa. La moglie ha ceduto a un'onda lunedì notte. Quando l'elicottero gli lancia il verricello dice: "Fate in fretta, pensavo che tra mezz'ora sarei morto". Il Giappone piange di gioia, ma forse non si è sentito mai così disperato.

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