4.4.11

Quella mala revoluciòn

  LUIGI GENINAZZI  (Avvenire)
L’epitaffio più crudele gliel’ha dedi­cato El Paìs: ebbene sì, il giornale fiancheggiatore del Partito socialista spa­gnolo, fino a poco tempo fa sostenitore entusiasta del governo. «Zapatero aveva detto che non ci avrebbe deluso. Adesso sappiamo invece che ci ha deluso. E for­se ha deluso anche se stesso». Finisce nel­la polvere il sogno radical-socialista di u­na Spagna che si voleva modello per la si­nistra europea. Finisce l’era Zapatero, un’agonia ancor più penosa se si pro­lungherà fino alla scadenza della legisla­tura nel marzo del 2012. Di fatto, an­nunciando ieri la sua rinuncia a essere candidato premier alle prossime elezio­ni politiche, il leader spagnolo ha preso atto di un crollo, personale e politico, che non poteva più essere camuffato. In ca­duta verticale nei sondaggi, con l’81% de­gli elettori che recentemente hanno di­chiarato di non avere alcuna fiducia nel loro capo di governo, e sempre più in dif­ficoltà nel suo stesso partito, era ormai giunto al capolinea.
  A Zapatero è scoppiata fra le mani una devastante crisi economica, con il record di una disoccupazione al 20%, il doppio della media dell’Unione europea. Una cri­si aggravata dalla sua resistenza iniziale ad ammetterla e dalla fatica successiva a correggere il tiro, rimangiandosi molte promesse con le quali era riuscito a otte­nere un secondo mandato di governo nel 2008. Un brutto e brusco risveglio dai so­gni di gloria, dopo l’annuncio (precipito­so) del 'sorpasso' sull’Italia e l’ambizio­ne a raggiungere e superare anche Fran­cia
e Germania. Ma il fallimento di Zapatero non si ridu­ce al saldo negativo dell’economia. L’e­redità più pesante che lascia alla Spagna è quella che, parafrasando il noto film di Almodovar, potremmo definire come la «mala revolución», una serie di provve­dimenti legislativi che hanno trasforma­to il Paese iberico nella società più per­missiva d’Europa. Dal matrimonio omo­sessuale al divorzio-express, dalla libera­lizzazione della ricerca sulle staminali embrionali all’educazione scolastica che impone l’insegnamento della teoria del 'genere', dalla clonazione terapeutica al­l’aborto facile per le minorenni, gli otto anni di zapaterismo sono stati contras­segnati da una folle corsa ad abbattere princìpi etici e senso comune, in nome di un «progresso irrefrenabile» che este­nua i legami basilari e riduce l’individuo a un fascio di pulsioni. Molti analisti han­no notato che in questo modo il governo di Madrid è entrato in rotta di collisione con la Chiesa. Ma in gioco c’era qualco­sa persino di più profondo. Se i cattolici spagnoli hanno alzato la voce e sono ri­petutamente scesi in piazza a protestare non è stato per difendere chissà quali pri­vilegi ma per denunciare una deriva so­ciale e civile imposta dall’alto. Nessuno s’immaginava una cosa del genere quan­do nel marzo del 2004 un giovane socia­lista di nome José Luis Rodriguez Zapa­tero, al quale nessuno dava la minima chance, vinse inopinatamente le elezio­ni sull’onda dello choc emotivo per l’at­tentato di Atocha. Invece, con la sua aria da timido cerbiatto, ha portato avanti un’operazione spregiudicata e arrogan­te. Pochi lo rimpiangeranno, anche nel suo stesso partito dove il successore non ha per il momento né nome né identikit. Adesso per la Spa­gna si apre un capitolo nuo­vo. L’ideologia ultra-radicale ha lasciato il segno, e non sarà facile invertire la marcia. La deludente eredità di Zapatero rappresenta un fardello pesante. Prima gli spagnoli se la scrolle­ranno di dosso e meglio sarà.

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