LUIGI GENINAZZI  (Avvenire)
L’epitaffio più crudele gliel’ha dedicato  El Paìs:  ebbene sì, il giornale fiancheggiatore del Partito socialista  spagnolo,  fino a poco tempo fa sostenitore entusiasta del governo.  «Zapatero aveva detto che non ci avrebbe deluso. Adesso sappiamo invece  che ci ha deluso. E forse  ha deluso anche se stesso». Finisce nella   polvere il sogno radical-socialista di una  Spagna che si voleva  modello per la sinistra  europea. Finisce l’era Zapatero, un’agonia  ancor più penosa se si prolungherà  fino alla scadenza della  legislatura  nel marzo del 2012. Di fatto, annunciando  ieri la sua  rinuncia a essere candidato premier alle prossime elezioni  politiche,  il leader spagnolo ha preso atto di un crollo, personale e politico, che  non poteva più essere camuffato. In caduta  verticale nei sondaggi,  con l’81% degli  elettori che recentemente hanno dichiarato  di non  avere alcuna fiducia nel loro capo di governo, e sempre più in  difficoltà  nel suo stesso partito, era ormai giunto al capolinea.
   A Zapatero è scoppiata fra le mani una devastante crisi economica, con  il record di una disoccupazione al 20%, il doppio della media  dell’Unione europea. Una crisi  aggravata dalla sua resistenza iniziale  ad ammetterla e dalla fatica successiva a correggere il tiro,  rimangiandosi molte promesse con le quali era riuscito a ottenere  un  secondo mandato di governo nel 2008. Un brutto e brusco risveglio dai  sogni  di gloria, dopo l’annuncio (precipitoso)  del 'sorpasso'  sull’Italia e l’ambizione  a raggiungere e superare anche Francia  e Germania.  Ma il fallimento di Zapatero non si riduce  al saldo negativo  dell’economia. L’eredità  più pesante che lascia alla Spagna è quella  che, parafrasando il noto film di Almodovar, potremmo definire come la  «mala revolución», una serie di provvedimenti  legislativi che hanno  trasformato  il Paese iberico nella società più permissiva  d’Europa.  Dal matrimonio omosessuale  al divorzio-express, dalla  liberalizzazione  della ricerca sulle staminali embrionali  all’educazione scolastica che impone l’insegnamento della teoria del  'genere', dalla clonazione terapeutica all’aborto  facile per le  minorenni, gli otto anni di zapaterismo sono stati contrassegnati  da  una folle corsa ad abbattere princìpi etici e senso comune, in nome di  un «progresso irrefrenabile» che estenua  i legami basilari e riduce  l’individuo a un fascio di pulsioni. Molti analisti hanno  notato che  in questo modo il governo di Madrid è entrato in rotta di collisione con  la Chiesa. Ma in gioco c’era qualcosa  persino di più profondo. Se i  cattolici spagnoli hanno alzato la voce e sono ripetutamente  scesi in  piazza a protestare non è stato per difendere chissà quali privilegi   ma per denunciare una deriva sociale  e civile imposta dall’alto.  Nessuno s’immaginava una cosa del genere quando  nel marzo del 2004 un  giovane socialista  di nome José Luis Rodriguez Zapatero,  al quale  nessuno dava la minima chance, vinse inopinatamente le elezioni   sull’onda dello choc emotivo per l’attentato  di Atocha. Invece, con la  sua aria da timido cerbiatto, ha portato avanti un’operazione  spregiudicata e arrogante.  Pochi lo rimpiangeranno, anche nel suo  stesso partito dove il successore non  ha per il momento né nome né   identikit. Adesso per la Spagna  si apre un capitolo nuovo.   L’ideologia ultra-radicale  ha lasciato il segno, e non sarà  facile  invertire la marcia. La  deludente eredità di Zapatero  rappresenta un  fardello pesante.  Prima gli spagnoli se la scrolleranno  di dosso e  meglio sarà.  
 
 
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