di Barbara Spinelli (da Repubblica)
Man mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca. Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l'etica) dei governi: l'abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l'Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L'Italia in questo è all'avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d'un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l'inizio. Come si spiega l'allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l'Italia peggiore», vuol dire che c'è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l'informazione. L'ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s'intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c'è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d'informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l'immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d'Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l'irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l'illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all'Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all'urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l'opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l'esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell'esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest'ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell'Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell'interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L'interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell'Unione: è solo quest'ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c'è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull'immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l'economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l'Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all'Unione: all'inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l'assurda deferenza verso i grandi Paesi che l'Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l'Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L'articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall'Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell'utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell'esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
22.6.11
Il potere della verità
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21.6.11
La Pivano e gli svarioni nel “Grande Gatsby”
Antonio Armano (da Saturno - inserto culturale de Il fatto quotidiano)
Ma come ha fatto i soldi quell’arricchito di Gatsby? Vendendo alcol sottobanco nelle sue farmacie? Così sembrerebbe leggendo la traduzione del romanzo di Fernanda Pivano per Mondadori, ora riproposta da Einaudi. In realtà le farmacie erano drugstore e ha fatto benissimo Franca Cavagnoli, nella traduzione per Feltrinelli, a lasciare il termine americano: “Walter Benjamin – dice – consiglia ai traduttori di lasciare tracce dell’originale e poi il termine ormai è d’uso comune”. L’americanista Roberto Serrai si rammarica di non aver potuto fare lo stesso nel suo Grande Gatsby per Marsilio: “In redazione hanno preferito mettere empori”. Il traduttore, spiega la Cavagnoli, “non sempre è responsabile, tavolta prevalgono le scelte redazionali”.
Per esempio chi può dire se la decisione della Pivano di rendere son-of-a-bitch con “bastardo” fosse sua o della Mondadori, censura o autocensura? Magari né l’uno né l’altro: “Oggi abbiamo messo tutti figlio-di-puttana ma non si può trasferire di peso l’espressione all’epoca della Pivano. Un figlio-di-puttana sulla pagina negli anni ’50 faceva un altro effetto, era troppo forte”, sostiene Tommaso Pincio che ha tradotto Il Grande Gatsby per minimum fax. “Sapevo che diversi traduttori professionisti erano all’opera sul libro e ho cercato, come scrittore, di fare una versione autoriale, concedendomi qualche libertà in più. Il romanzo è uscito nel ’25, qualcuno lo considerava superato già allora, in realtà è modernissimo ma un americano leggendolo oggi percepisce il sapore della Jazz Age, e ho voluto che anche i lettori italiani avertissero la stessa patina del tempo. Per questo ho messo empori per drugstore. Farmacie è sbagliato. Detto questo non voglio fare le pulci alla Pivano”.
Cavagnoli, Serrai e Pincio ricevono ex aequo il premio Von Rezzori (a Palazzo Vecchio, Firenze) per la traduzione del Grande Gatsby. Anche Dalai, Newton Compton e SugarCo hanno proposto una nuova versione. Una “corsa alla traduzione” che si spiega con la scadenza dei diritti a settant’anni dalla morte di Fitzgerald. Dal ’50 girava solo la traduzione della Pivano, ormai datata e con alcune imprecisioni ed errori, secondo i suddetti. E’ in atto un matricidio culturale? I mostri sacri come la Pivano, Pavese e Vittorini sono stati fondamentali per far conoscere la letteratura americana in Italia, dal fascismo in poi, ma come traduttori vanno messi giù dal piedistallo: “Il miglior romanzo di William Faulkner, Luce d’agosto, in Italia è stato penalizzato dalla terribile traduzione di Vittorini”, dice Pincio. Concorda la Cavagnoli: “Vittorini metteva troppo se stesso nel rendere un autore. I miei modelli sono Cristina Campo, Adriana Motti, Floriana Bossi, invece si sentono sempre i soliti nomi. Il Moby Dick di Pavese ha soluzioni linguistiche interessanti, ma che non rispettano l’orginale”. La Pivano, Pavese e Vittorini erano più che altro dei grandi divulgatori, dice Serrai che come i colleghi ribadisce la necessità di rinfrescare le storiche traduzioni, però senza esagerare: “Quando nel Moby Dick di Baricco sento parlare di optionals della nave!”
Ma come ha fatto i soldi quell’arricchito di Gatsby? Vendendo alcol sottobanco nelle sue farmacie? Così sembrerebbe leggendo la traduzione del romanzo di Fernanda Pivano per Mondadori, ora riproposta da Einaudi. In realtà le farmacie erano drugstore e ha fatto benissimo Franca Cavagnoli, nella traduzione per Feltrinelli, a lasciare il termine americano: “Walter Benjamin – dice – consiglia ai traduttori di lasciare tracce dell’originale e poi il termine ormai è d’uso comune”. L’americanista Roberto Serrai si rammarica di non aver potuto fare lo stesso nel suo Grande Gatsby per Marsilio: “In redazione hanno preferito mettere empori”. Il traduttore, spiega la Cavagnoli, “non sempre è responsabile, tavolta prevalgono le scelte redazionali”.
Per esempio chi può dire se la decisione della Pivano di rendere son-of-a-bitch con “bastardo” fosse sua o della Mondadori, censura o autocensura? Magari né l’uno né l’altro: “Oggi abbiamo messo tutti figlio-di-puttana ma non si può trasferire di peso l’espressione all’epoca della Pivano. Un figlio-di-puttana sulla pagina negli anni ’50 faceva un altro effetto, era troppo forte”, sostiene Tommaso Pincio che ha tradotto Il Grande Gatsby per minimum fax. “Sapevo che diversi traduttori professionisti erano all’opera sul libro e ho cercato, come scrittore, di fare una versione autoriale, concedendomi qualche libertà in più. Il romanzo è uscito nel ’25, qualcuno lo considerava superato già allora, in realtà è modernissimo ma un americano leggendolo oggi percepisce il sapore della Jazz Age, e ho voluto che anche i lettori italiani avertissero la stessa patina del tempo. Per questo ho messo empori per drugstore. Farmacie è sbagliato. Detto questo non voglio fare le pulci alla Pivano”.
Cavagnoli, Serrai e Pincio ricevono ex aequo il premio Von Rezzori (a Palazzo Vecchio, Firenze) per la traduzione del Grande Gatsby. Anche Dalai, Newton Compton e SugarCo hanno proposto una nuova versione. Una “corsa alla traduzione” che si spiega con la scadenza dei diritti a settant’anni dalla morte di Fitzgerald. Dal ’50 girava solo la traduzione della Pivano, ormai datata e con alcune imprecisioni ed errori, secondo i suddetti. E’ in atto un matricidio culturale? I mostri sacri come la Pivano, Pavese e Vittorini sono stati fondamentali per far conoscere la letteratura americana in Italia, dal fascismo in poi, ma come traduttori vanno messi giù dal piedistallo: “Il miglior romanzo di William Faulkner, Luce d’agosto, in Italia è stato penalizzato dalla terribile traduzione di Vittorini”, dice Pincio. Concorda la Cavagnoli: “Vittorini metteva troppo se stesso nel rendere un autore. I miei modelli sono Cristina Campo, Adriana Motti, Floriana Bossi, invece si sentono sempre i soliti nomi. Il Moby Dick di Pavese ha soluzioni linguistiche interessanti, ma che non rispettano l’orginale”. La Pivano, Pavese e Vittorini erano più che altro dei grandi divulgatori, dice Serrai che come i colleghi ribadisce la necessità di rinfrescare le storiche traduzioni, però senza esagerare: “Quando nel Moby Dick di Baricco sento parlare di optionals della nave!”
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15.6.11
Il "va e vieni" delle società alimentari
Parmalat alla Lactalis, ma altre aziende tornano italiane
di Mauro Suttora
Aziende che vanno, aziende che vengono. La multinazionale francese Lactalis sta comprando il nostro sfortunato gigante Parmalat che, nonostante i suoi 4,3 miliardi di ricavi e 280 milioni di utile nel 2010, dopo il crac di Calisto Tanzi è diventata una preda appetibile. E ormai parlano francese quasi tutte le grandi marche industriali italiane di formaggi: Lactalis ha cominciato lo shopping nel 1997 acquisendo Locatelli da Nestlè, sei anni dopo Invernizzi da Kraft, poi Cademartori da Bel Group e infine Galbani nel 2006 da Danone, che l’aveva comprata nell’89.
Un vero innamoramento, quello di Lactalis per l’Italia. Né si può imputarle di averci «preso» tutti i latticini, perché da molti anni le storiche famiglie proprietarie avevano trovato conveniente vendere ad acquirenti esteri. I primi furono i Locatelli, che cedettero a Nestlé addirittura mezzo secolo fa (in quello stesso anno, 1961, Tanzi fondò a Parma il suo «gioiellino»).
Nell’ultimo decennio, però, altre famose società alimentari italiane che erano finite in mano straniera sono tornate a casa. Agnesi, la pasta più antica d’Italia fondata nel 1824 a Imperia, è stata acquistata dalla Colussi nel 1999. Lo storico marchio con il bastimento a vela (la nave che portava nel mulino ligure il grano duro dal mare d’Azov, allora considerato il migliore del mondo) era passato alla francese Danone, la quale a sua volta per qualche anno fu degli Agnelli, e sponsorizzava la Juventus.
Giri di valzer all’estero anche per i salumi Negroni, nati a Cremona nel 1907: «La società è stata della famiglia fino agli anni 80, quando venne acquisita dal gruppo Kraft», dice a Oggi il dirigente Massimiliano Ceresini, «per poi essere ceduta al gruppo Malgara. Dal 2002 è entrata a far parte del gruppo Veronesi». Cioè la quarta azienda alimentare italiana, che fattura 2,3 miliardi di euro con il pollo Aia e i salumi Montorsi, Fini e Daniel.
Nel 2005 la famiglia napoletana Pontecorvo ha acquistato, sempre da Danone, le acque minerali Ferrarelle (Caserta) e Boario (Brescia). Ferrarelle e Sangemini erano state vendute nell’87 dalla famiglia Violati (Giulio è il marito di Maria Grazia Cucinotta), che cinque anni dopo ha riacquistato Sangemini.
Nel 2008 è la volta di Charms e Sanagola: le caramelle lanciate negli anni 60 da Motta-Alemagna rientrano alla Fida di Castagnole delle Lanze (Asti) dopo una peregrinazione fra multinazionali svizzere, inglesi e olandesi. Nello stesso anno Angelo Mastrolia di Newlat (Polenghi, Giglio, Optimus, Ala, Torre in Pietra) rileva la pasta Buitoni da Nestlè, che però conserva oil marchio per surgelati, pasta fresca e salse.
Nel 2009 l’olio Dante, nato a Genova nel 1854, viene rilevato dagli oleifici Mataluni di Montesarchio (Benevento), che hanno i marchi Topazio e Oio. Per un solo anno Dante era stato della spagnola Sos Cuetara (Carapelli, Sasso, Bertolli), dopo 23 anni di Unilever.
Motta e Alemagna, infine. Le due storiche società sono state vendute due anni fa dalla Nestlè alla Bauli di Verona. Il che rappresenta la vittoria del pandoro industriale sul panettone. I gelati Motta però continuano a essere della Nestlè.
E adesso? Il governo italiano può impedire che Parmalat, senza debiti e anzi con un miliardo e mezzo di liquidità, finisca alla Lactalis indebitata già per tre miliardi, che aumenteranno a sette dopo l’acquisto? In base alle leggi di mercato, no. Ma nel 2005 il governo francese le ignorò, quando bloccò la scalata dell’americana Pepsi alla francese Danone.
di Mauro Suttora
Aziende che vanno, aziende che vengono. La multinazionale francese Lactalis sta comprando il nostro sfortunato gigante Parmalat che, nonostante i suoi 4,3 miliardi di ricavi e 280 milioni di utile nel 2010, dopo il crac di Calisto Tanzi è diventata una preda appetibile. E ormai parlano francese quasi tutte le grandi marche industriali italiane di formaggi: Lactalis ha cominciato lo shopping nel 1997 acquisendo Locatelli da Nestlè, sei anni dopo Invernizzi da Kraft, poi Cademartori da Bel Group e infine Galbani nel 2006 da Danone, che l’aveva comprata nell’89.
Un vero innamoramento, quello di Lactalis per l’Italia. Né si può imputarle di averci «preso» tutti i latticini, perché da molti anni le storiche famiglie proprietarie avevano trovato conveniente vendere ad acquirenti esteri. I primi furono i Locatelli, che cedettero a Nestlé addirittura mezzo secolo fa (in quello stesso anno, 1961, Tanzi fondò a Parma il suo «gioiellino»).
Nell’ultimo decennio, però, altre famose società alimentari italiane che erano finite in mano straniera sono tornate a casa. Agnesi, la pasta più antica d’Italia fondata nel 1824 a Imperia, è stata acquistata dalla Colussi nel 1999. Lo storico marchio con il bastimento a vela (la nave che portava nel mulino ligure il grano duro dal mare d’Azov, allora considerato il migliore del mondo) era passato alla francese Danone, la quale a sua volta per qualche anno fu degli Agnelli, e sponsorizzava la Juventus.
Giri di valzer all’estero anche per i salumi Negroni, nati a Cremona nel 1907: «La società è stata della famiglia fino agli anni 80, quando venne acquisita dal gruppo Kraft», dice a Oggi il dirigente Massimiliano Ceresini, «per poi essere ceduta al gruppo Malgara. Dal 2002 è entrata a far parte del gruppo Veronesi». Cioè la quarta azienda alimentare italiana, che fattura 2,3 miliardi di euro con il pollo Aia e i salumi Montorsi, Fini e Daniel.
Nel 2005 la famiglia napoletana Pontecorvo ha acquistato, sempre da Danone, le acque minerali Ferrarelle (Caserta) e Boario (Brescia). Ferrarelle e Sangemini erano state vendute nell’87 dalla famiglia Violati (Giulio è il marito di Maria Grazia Cucinotta), che cinque anni dopo ha riacquistato Sangemini.
Nel 2008 è la volta di Charms e Sanagola: le caramelle lanciate negli anni 60 da Motta-Alemagna rientrano alla Fida di Castagnole delle Lanze (Asti) dopo una peregrinazione fra multinazionali svizzere, inglesi e olandesi. Nello stesso anno Angelo Mastrolia di Newlat (Polenghi, Giglio, Optimus, Ala, Torre in Pietra) rileva la pasta Buitoni da Nestlè, che però conserva oil marchio per surgelati, pasta fresca e salse.
Nel 2009 l’olio Dante, nato a Genova nel 1854, viene rilevato dagli oleifici Mataluni di Montesarchio (Benevento), che hanno i marchi Topazio e Oio. Per un solo anno Dante era stato della spagnola Sos Cuetara (Carapelli, Sasso, Bertolli), dopo 23 anni di Unilever.
Motta e Alemagna, infine. Le due storiche società sono state vendute due anni fa dalla Nestlè alla Bauli di Verona. Il che rappresenta la vittoria del pandoro industriale sul panettone. I gelati Motta però continuano a essere della Nestlè.
E adesso? Il governo italiano può impedire che Parmalat, senza debiti e anzi con un miliardo e mezzo di liquidità, finisca alla Lactalis indebitata già per tre miliardi, che aumenteranno a sette dopo l’acquisto? In base alle leggi di mercato, no. Ma nel 2005 il governo francese le ignorò, quando bloccò la scalata dell’americana Pepsi alla francese Danone.
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12.6.11
Benvenuti nell'era delle idiozie globali
ANDRÉ GLUCKSMANN (dal Corriere della Sera)
Non vi meravigliate se parole al vento e accuse infondate seminano il panico, condannando pomodori e cucurbitacee alla spazzatura e gli orticultori spagnoli, italiani o francesi al fallimento. Che la democrazia e il regno delle dicerie coesistano, non è una scoperta. La nostra prima città libera, l’antica Atene, fu corrosa dalla doxa, immensa palude di giudizi arbitrari e perentori. Socrate passò la propria vita a battagliare contro simili dicerie e ne morì.
Sull’agorà — la piazza pubblica del V secolo a. C. — ognuno sospettava o denigrava l’altro senza altra forma di processo; quando oggi gli esperti di Amburgo e Berlino incriminano ex abrupto i cetrioli dell’Andalusia, la loro sciocca precipitazione non stupirebbe né Aristofane né Molière. La mondializzazione consente la libera circolazione dei beni e non meno pericolosamente quella delle sciocchezze. La cyber-circolazione dell’informazione, quando riesce a eludere i blocchi dispotici, veicola ammirevoli insurrezioni per la libertà— lo dimostrano Tunisi e Il Cairo —, ma trascina con sé anche pregiudizi logori, odii inveterati e ragionamenti assurdi. Una parte di europei, fra il 30 e il 70%, a seconda dei luoghi e dei momenti, ha ritenuto che l’ «11 settembre» fosse un «colpo» dei servizi segreti americani. Il 70%degli elettori di sinistra in Francia ha visto in Dominique Strauss-Kahn la vittima di un misterioso complotto. Simile e-analfabetismo aggiunge ai tradizionali deliri della doxa una capacità di mondializzare il panico istantaneo. Da un giorno all’altro, l’esplosione di Fukushima diventa sinonimo del destino nucleare in generale e propaga urbi et orbi una messa all’indice senza via d’uscita. Povera Marie Curie, abbassata al demoniaco personaggio del dottor Mabuse! Ecco finalmente scovato il nemico dell’umanità: l’atomo. Si cancellano le circostanze specifiche— un sisma, poi uno tsunami di vastità incomparabile— per stabilire un «rischio nucleare» uguale dappertutto e per tutti, comprese le regioni che ignorano i sismi da secoli e gli tsunami da un’eternità. Sopraffatta dall’ondata di panico maggioritario, la signora Merkel cede in tre settimane e i Verdi europei predicono a se stessi insperati trionfi. Inutile discutere: chi guarda la centrale di Nogent-le Rotrou vede Fukushima! Chi acquista verdura si espone alle nuvole dei batteri assassini. Le smentite scientifiche restano vane. Meglio tornare al lume di candela e fare lo sciopero dell’ortaggio! Il principio di precauzione diventa il nostro vangelo, ogni panico irrazionale attizza di riflesso la ricerca febbrile e disperata del rischio zero. A Sud del Mediterraneo, le popolazioni insorgono contro i propri despoti. Al Nord ancora sazio, tali turbolenze provocano inquietudine più che entusiasmo: chi può garantire l’avvenire? Certo nessuno, e allora? Noi esistiamo al di là della Provvidenza, coloro che contano su un senso della storia si rompono il muso: guardate il nostro terribile XX secolo. Coloro che puntano sulla razionalità dei mercati finanziari sono in fase di stanca: guardate il XXI secolo che comincia. Siamo sicuri di una sola certezza: non c’è sicurezza assoluta, dobbiamo vivere nel rischio e «lavorare nell’incerto» (Pascal). Se fosse stato adepto del principio di precauzione, l’antenato che addomesticò il fuoco avrebbe temuto la possibilità di armare eventuali incendiari, avrebbe subito soffocato la propria invenzione, continuato a mangiare crudo e a morire di freddo sul posto senza correre il rischio della civilizzazione. Per fortuna, ignorando le nostre sacrosante «precauzioni» , egli osò avventure e invenzioni i cui successi ci rendono così prosperi e… così codardi. Che i Paesi d’Europa si irrigidiscano pure nei loro miopi egoismi e si lascino spaventare da movimenti planetari che non controllano: a nulla serve rinchiudersi in se stessi. Ci sono popolazioni che si sbarazzano dei propri dittatori e rompono gioghi secolari a loro rischio e pericolo, e l’unico argomento valido per un europeo è decidere se aiutare a confortare quella volontà di libertà che una volta era la sua. Lo stesso, nella più grande democrazia del mondo, mezzo miliardo di indiani vive senza elettricità, e quindi nella miseria più nera. Senza petrolio, con poco carbone, la scelta del nucleare, per una questione di sopravvivenza, sembra imporsi. Ci sono altri Paesi che ragionano allo stesso modo: per loro, il dramma di Fukushima non cambia l’ordine delle cose. Sta a noi contribuire a controllare i rischi inerenti alle centrali. L’uscita locale dal nucleare e la sospensione dal lavoro dei tecnici di questa «industria maledetta» è solo un buco nell’acqua. Se la Germania rinuncia al nucleare (per legarsi mani e piedi allo zar del petrolio della Russia), se la Francia persiste nel mantenerlo (in nome della propria indipendenza energetica), chi avrà i migliori strumenti per spegnere le sempre possibili catastrofi? Coloro che hanno messo la chiave sotto la porta, o coloro che continuano ricerche innovative? Poiché la catastrofe non conosce frontiere, come ripetono all’infinito i nostri ecologisti, o l’intero pianeta (ipotesi surreale) esce dal nucleare, oppure (ipotesi realistica) nessuno ne esce, neanche ostracizzando le proprie centrali. L’Unione Europea è presa dal panico, quindi si divide. Ieri, si credeva invasa dalla gente dell’Est (e si scagliava contro il famoso idraulico polacco); oggi, tiene d’occhio le orde giunte dal Sud. Ognuno per sé. Che l’Italia se la sbrighi da sola con Lampedusa! Perché le formiche tedesche dovrebbero aiutare le cicale greche e iberiche? Che importa il contagio? Chi si lascia prendere dal panico si chiude in se stesso, il Belgio fiammingo rifiuta il Belgio vallone, l’Italia della Lega fa da sé, e la Francia si municipalizza: Corrèze contro Charente contro Lilla contro Neuilly, salotti contro salotti, tristi opzioni, tristi dibattiti in vista delle elezioni presidenziali. Il senso dell’Europa non è più decifrabile, l’idea della Francia svanisce. Scusatemi, la terra è rotonda, la terra gira, il mondo esterno e le sue sfide esistono, non basta certo chiudere gli occhi per abolirlo.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Non vi meravigliate se parole al vento e accuse infondate seminano il panico, condannando pomodori e cucurbitacee alla spazzatura e gli orticultori spagnoli, italiani o francesi al fallimento. Che la democrazia e il regno delle dicerie coesistano, non è una scoperta. La nostra prima città libera, l’antica Atene, fu corrosa dalla doxa, immensa palude di giudizi arbitrari e perentori. Socrate passò la propria vita a battagliare contro simili dicerie e ne morì.
Sull’agorà — la piazza pubblica del V secolo a. C. — ognuno sospettava o denigrava l’altro senza altra forma di processo; quando oggi gli esperti di Amburgo e Berlino incriminano ex abrupto i cetrioli dell’Andalusia, la loro sciocca precipitazione non stupirebbe né Aristofane né Molière. La mondializzazione consente la libera circolazione dei beni e non meno pericolosamente quella delle sciocchezze. La cyber-circolazione dell’informazione, quando riesce a eludere i blocchi dispotici, veicola ammirevoli insurrezioni per la libertà— lo dimostrano Tunisi e Il Cairo —, ma trascina con sé anche pregiudizi logori, odii inveterati e ragionamenti assurdi. Una parte di europei, fra il 30 e il 70%, a seconda dei luoghi e dei momenti, ha ritenuto che l’ «11 settembre» fosse un «colpo» dei servizi segreti americani. Il 70%degli elettori di sinistra in Francia ha visto in Dominique Strauss-Kahn la vittima di un misterioso complotto. Simile e-analfabetismo aggiunge ai tradizionali deliri della doxa una capacità di mondializzare il panico istantaneo. Da un giorno all’altro, l’esplosione di Fukushima diventa sinonimo del destino nucleare in generale e propaga urbi et orbi una messa all’indice senza via d’uscita. Povera Marie Curie, abbassata al demoniaco personaggio del dottor Mabuse! Ecco finalmente scovato il nemico dell’umanità: l’atomo. Si cancellano le circostanze specifiche— un sisma, poi uno tsunami di vastità incomparabile— per stabilire un «rischio nucleare» uguale dappertutto e per tutti, comprese le regioni che ignorano i sismi da secoli e gli tsunami da un’eternità. Sopraffatta dall’ondata di panico maggioritario, la signora Merkel cede in tre settimane e i Verdi europei predicono a se stessi insperati trionfi. Inutile discutere: chi guarda la centrale di Nogent-le Rotrou vede Fukushima! Chi acquista verdura si espone alle nuvole dei batteri assassini. Le smentite scientifiche restano vane. Meglio tornare al lume di candela e fare lo sciopero dell’ortaggio! Il principio di precauzione diventa il nostro vangelo, ogni panico irrazionale attizza di riflesso la ricerca febbrile e disperata del rischio zero. A Sud del Mediterraneo, le popolazioni insorgono contro i propri despoti. Al Nord ancora sazio, tali turbolenze provocano inquietudine più che entusiasmo: chi può garantire l’avvenire? Certo nessuno, e allora? Noi esistiamo al di là della Provvidenza, coloro che contano su un senso della storia si rompono il muso: guardate il nostro terribile XX secolo. Coloro che puntano sulla razionalità dei mercati finanziari sono in fase di stanca: guardate il XXI secolo che comincia. Siamo sicuri di una sola certezza: non c’è sicurezza assoluta, dobbiamo vivere nel rischio e «lavorare nell’incerto» (Pascal). Se fosse stato adepto del principio di precauzione, l’antenato che addomesticò il fuoco avrebbe temuto la possibilità di armare eventuali incendiari, avrebbe subito soffocato la propria invenzione, continuato a mangiare crudo e a morire di freddo sul posto senza correre il rischio della civilizzazione. Per fortuna, ignorando le nostre sacrosante «precauzioni» , egli osò avventure e invenzioni i cui successi ci rendono così prosperi e… così codardi. Che i Paesi d’Europa si irrigidiscano pure nei loro miopi egoismi e si lascino spaventare da movimenti planetari che non controllano: a nulla serve rinchiudersi in se stessi. Ci sono popolazioni che si sbarazzano dei propri dittatori e rompono gioghi secolari a loro rischio e pericolo, e l’unico argomento valido per un europeo è decidere se aiutare a confortare quella volontà di libertà che una volta era la sua. Lo stesso, nella più grande democrazia del mondo, mezzo miliardo di indiani vive senza elettricità, e quindi nella miseria più nera. Senza petrolio, con poco carbone, la scelta del nucleare, per una questione di sopravvivenza, sembra imporsi. Ci sono altri Paesi che ragionano allo stesso modo: per loro, il dramma di Fukushima non cambia l’ordine delle cose. Sta a noi contribuire a controllare i rischi inerenti alle centrali. L’uscita locale dal nucleare e la sospensione dal lavoro dei tecnici di questa «industria maledetta» è solo un buco nell’acqua. Se la Germania rinuncia al nucleare (per legarsi mani e piedi allo zar del petrolio della Russia), se la Francia persiste nel mantenerlo (in nome della propria indipendenza energetica), chi avrà i migliori strumenti per spegnere le sempre possibili catastrofi? Coloro che hanno messo la chiave sotto la porta, o coloro che continuano ricerche innovative? Poiché la catastrofe non conosce frontiere, come ripetono all’infinito i nostri ecologisti, o l’intero pianeta (ipotesi surreale) esce dal nucleare, oppure (ipotesi realistica) nessuno ne esce, neanche ostracizzando le proprie centrali. L’Unione Europea è presa dal panico, quindi si divide. Ieri, si credeva invasa dalla gente dell’Est (e si scagliava contro il famoso idraulico polacco); oggi, tiene d’occhio le orde giunte dal Sud. Ognuno per sé. Che l’Italia se la sbrighi da sola con Lampedusa! Perché le formiche tedesche dovrebbero aiutare le cicale greche e iberiche? Che importa il contagio? Chi si lascia prendere dal panico si chiude in se stesso, il Belgio fiammingo rifiuta il Belgio vallone, l’Italia della Lega fa da sé, e la Francia si municipalizza: Corrèze contro Charente contro Lilla contro Neuilly, salotti contro salotti, tristi opzioni, tristi dibattiti in vista delle elezioni presidenziali. Il senso dell’Europa non è più decifrabile, l’idea della Francia svanisce. Scusatemi, la terra è rotonda, la terra gira, il mondo esterno e le sue sfide esistono, non basta certo chiudere gli occhi per abolirlo.
(traduzione di Daniela Maggioni)
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8.6.11
Il diritto universale alla vita
Un'intervista con il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli
di Roberto Ciccarelli (Il Manifesto)
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (Il Manifesto del 25 maggio) e domani interverrà al meeting sull'«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l'uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un'indennità legata al non lavoro o alla povertà. L'ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
Certamente il reddito costa,ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l'ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell'istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all'introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell'istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti.
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
Dal prelievo fiscale, che tra l'altro dovrebbe essere riformato sulla base dell'articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde.
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un'innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale.
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall'articolo 3,ma addirittura nel secondo comma dell'articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l'articolo 34 della carta di Nizza, l'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale.
La sinistra crede in questa prospettiva?
No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l'unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l'impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola
tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l'eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell'autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso.
Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
Esattamente l'opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un'attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d'altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme
della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all'estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l'unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?
di Roberto Ciccarelli (Il Manifesto)
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (Il Manifesto del 25 maggio) e domani interverrà al meeting sull'«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l'uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un'indennità legata al non lavoro o alla povertà. L'ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
Certamente il reddito costa,ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l'ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell'istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all'introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell'istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti.
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
Dal prelievo fiscale, che tra l'altro dovrebbe essere riformato sulla base dell'articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde.
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un'innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale.
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall'articolo 3,ma addirittura nel secondo comma dell'articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l'articolo 34 della carta di Nizza, l'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale.
La sinistra crede in questa prospettiva?
No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l'unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l'impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola
tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l'eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell'autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso.
Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
Esattamente l'opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un'attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d'altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme
della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all'estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l'unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?
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Innovazione nelle scuole
Fabrizio Garlaschelli (La Provincia Pavese)
Alcuni genitori pavesi protestano per l'introduzione del Wi-Fi in un edificio scolastico in via di ristrutturazione, non ritengono importante avere Internet a scuola e preferirebbero un'ora di gioco in più a un'ora davanti al computer.
Hanno paura delle onde elettromagnetiche.
Sono francamente stupito di queste strane prese di posizione. Solo qualche anno fa si chiedeva a gran voce esattamente il contrario.
Per carità più movimento e meno reclusione nelle classi mi trova assolutamente d'accordo. Anche per questo era nato il tempo pieno, prima svuotato di significato dagli insegnanti che non lo hanno mai davvero condiviso e poi delle ministre che l'hanno distrutto nei fatti.
Ma il web e l'alta velocità in rete sono altra cosa e il vero problema sono i docenti che non l'usano affatto o l'usano male (e dunque c'è ben poco di cui preoccuparsi in termini di esposizione ai campi elettromagnetici a scuola a meno che non ci siano i ripetitori di Radio Maria fuori dalla finestra).
La questione delle onde, tornata in auge proprio in queste ore, è endemica e controversa. Più che altro sembra legata all'uso smodato dei cellulari - almeno per quanto rilevato dai 31 scienziati riuniti a Lione della commissione Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca contro i tumori) che se ne occupa.
Considerando che negli ambienti di lavoro, in università e ormai un po' dappertutto, abitazioni private comprese, il Wi-Fi c'è da tempo, dovrebbero esserci più evidenze di quelle rilevate e in tal caso le preoccupazioni non riguarderebbero tanto gli alunni quanto intere categorie di lavoratori ben più esposti.
Tuttavia, per il principio di precauzione, già parecchi anni fa alcune scuole scelsero la via del cablaggio delle classi per i collegamenti ad Internet (a Pavia è cablato tutto il IV Circolo, ad esempio).
Non è mia intenzione sminuire i pericoli. Inquinamenti di ogni tipo sono ovunque intorno a noi e tenere alta la guardia è un diritto oltre che un dovere. Per questo personalmente mi auguro che il 12 e 13 giugno si vada a votare sì contro la reintroduzione del nucleare, visto che la Cassazione non ha bloccato il referendum nonostante le furbizie governative per farlo saltare.
Con una certa dose di veleno inviterei anche i genitori ad evitare di intasare gli ingressi e le uscite degli alunni dalle scuole con i gas di scarico degli automobiloni con i quali depositano e prelevano i loro figli. Forse, alla fine, sono più dannosi e di cattivo esempio questi del poco wireless che "respirano" in classe.
Ho un ultimo rilievo da fare ai genitori circa le fonti dalle quali si attingono e rilanciano le informazioni.
Infatti le notizie relative alla pericolosità delle onde rimandano ad un sito, "La scienza marcia e la menzogna globale" da prendere con le molle per il carattere complottistico e un po' esoterico che lo contraddistingue. In un post dove si parla di queste onde elettromagnetiche, senza mai citare alcun dato, si finisce sproloquiando "di antenne per il controllo mentale che sembra operino in sinergia con le scie chimiche ed i nanosensori da essi diffusi". Bufale insomma.
Alcuni genitori pavesi protestano per l'introduzione del Wi-Fi in un edificio scolastico in via di ristrutturazione, non ritengono importante avere Internet a scuola e preferirebbero un'ora di gioco in più a un'ora davanti al computer.
Hanno paura delle onde elettromagnetiche.
Sono francamente stupito di queste strane prese di posizione. Solo qualche anno fa si chiedeva a gran voce esattamente il contrario.
Per carità più movimento e meno reclusione nelle classi mi trova assolutamente d'accordo. Anche per questo era nato il tempo pieno, prima svuotato di significato dagli insegnanti che non lo hanno mai davvero condiviso e poi delle ministre che l'hanno distrutto nei fatti.
Ma il web e l'alta velocità in rete sono altra cosa e il vero problema sono i docenti che non l'usano affatto o l'usano male (e dunque c'è ben poco di cui preoccuparsi in termini di esposizione ai campi elettromagnetici a scuola a meno che non ci siano i ripetitori di Radio Maria fuori dalla finestra).
La questione delle onde, tornata in auge proprio in queste ore, è endemica e controversa. Più che altro sembra legata all'uso smodato dei cellulari - almeno per quanto rilevato dai 31 scienziati riuniti a Lione della commissione Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca contro i tumori) che se ne occupa.
Considerando che negli ambienti di lavoro, in università e ormai un po' dappertutto, abitazioni private comprese, il Wi-Fi c'è da tempo, dovrebbero esserci più evidenze di quelle rilevate e in tal caso le preoccupazioni non riguarderebbero tanto gli alunni quanto intere categorie di lavoratori ben più esposti.
Tuttavia, per il principio di precauzione, già parecchi anni fa alcune scuole scelsero la via del cablaggio delle classi per i collegamenti ad Internet (a Pavia è cablato tutto il IV Circolo, ad esempio).
Non è mia intenzione sminuire i pericoli. Inquinamenti di ogni tipo sono ovunque intorno a noi e tenere alta la guardia è un diritto oltre che un dovere. Per questo personalmente mi auguro che il 12 e 13 giugno si vada a votare sì contro la reintroduzione del nucleare, visto che la Cassazione non ha bloccato il referendum nonostante le furbizie governative per farlo saltare.
Con una certa dose di veleno inviterei anche i genitori ad evitare di intasare gli ingressi e le uscite degli alunni dalle scuole con i gas di scarico degli automobiloni con i quali depositano e prelevano i loro figli. Forse, alla fine, sono più dannosi e di cattivo esempio questi del poco wireless che "respirano" in classe.
Ho un ultimo rilievo da fare ai genitori circa le fonti dalle quali si attingono e rilanciano le informazioni.
Infatti le notizie relative alla pericolosità delle onde rimandano ad un sito, "La scienza marcia e la menzogna globale" da prendere con le molle per il carattere complottistico e un po' esoterico che lo contraddistingue. In un post dove si parla di queste onde elettromagnetiche, senza mai citare alcun dato, si finisce sproloquiando "di antenne per il controllo mentale che sembra operino in sinergia con le scie chimiche ed i nanosensori da essi diffusi". Bufale insomma.
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2.6.11
Margherita Hack: “No a centrali nucleari in Italia (ma sì alla ricerca). Puntare su rinnovabili e solare”
"Non è necessario né economico puntare sulla costruzione di centrali nucleari in Italia, ma la ricerca in questo campo va continuata. E' preferibile sviluppare al massimo la ricerca sulle rinnovabili e migliorare l’attenzione al risparmio energetico".
Con un articolo scritto per MicroMega Margherita Hack puntualizza il suo pensiero in merito alle scelte energetiche del nostro paese.
di Margherita Hack
Sono molti coloro che mi conoscono per persona di sinistra e ambientalista che si meravigliano che mi sia dichiarata a favore dell’energia nucleare. Occorre quindi qualche chiarimento, in base ad argomenti razionali e non emotivi.
Prima di tutto l’energia non è né di destra né di sinistra. La richiesta di energia va continuamente crescendo, soprattutto da parte delle grandi economie emergenti: Cina, India, Brasile. Un intero continente come l’Africa sta ancora dormendo, ma anch’essa si sveglierà, grazie anche a quel potente fattore di globalizzazione che è Internet. Petrolio e metano vanno esaurendosi, il carbone, molto più abbondante, è anche fortemente inquinante. Bisogna evitare scelte emotive, in conseguenza di disastri come quello di Chernobil e ora del Giappone.
L’Italia è quasi completamente dipendente dall’estero per il suo approvvigionamento energetico; compriamo petrolio e metano dalla Libia, dall’Ucraina, energia nucleare dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Slovenia; siamo circondati da centrali nucleari dei paesi confinanti (59 in Francia, 5 in Svizzera, 1 in Slovenia) e se un disastro succedesse a loro, noi ne avremmo gli stessi danni senza averne avuto i vantaggi.
Io credo che dovremmo comunque non interrompere la ricerca sul nucleare. Se tutte le volte che l’uomo ha scoperto una nuova applicazione della scienza, si fosse fermato al primo inci-dente, saremmo ancora all’età della pietra e non avremmo mai messo piede sulla Luna. Se dopo la scoperta del fuoco, lo si fosse abbandonato dopo il primo incendio della nostra foresta, saremmo ancora nel freddo e buio delle caverne, se dopo la caduta del primo aereo avessimo bloccato la ricerca, l’aviazione non sarebbe mai decollata.
D’altra parte da tutti i fallimenti si impara e si progredisce.
La rinuncia al nucleare, decisa in seguito al referendum del 1987 secondo varie stime di e-sperti dell’Enel sarebbe costata all’Italia 120000 miliardi di lire. Inoltre il costo dell’energia elettrica, superiore del 40% a quello della media europea è una delle cause della perdita di competitività che ha colpito l’Italia dal 1990.
Certo che i disastri nucleari possono colpire gran parte del pianeta. Perciò, dato che si parla tanto del villaggio globale, il problema della sicurezza e in particolare quello delle scorie, andrebbe risolto in modo globale, con la collaborazione di tutti, anche se mi rendo conto che è un’utopia. Questo è stato tentato a livello europeo per quanto riguarda il grave problema dello smaltimento delle scorie. Così le centrali nucleari dovrebbero essere situate solo in regioni sicure dal punto di vista sismico e degli tsunami e disposte a vendere energia a basso costo ai paesi che per ragioni geofisiche non possono metterle sul loro suolo. E anche, aggiungerei, in paesi più seri del nostro, in cui anche smaltire la spazzatura di Napoli diventa un problema, e in cui sembra impossibile evitare infiltrazioni della criminalità organizzata.
Perciò ritengo che la ricerca deve continuare, anche sperimentando l‘impiego di combustibili nucleari che abbiano una vita media più corta dell’uranio, un campo in cui mi sembra sta lavorando uno dei maggiori esperti in campo mondiale, il premo nobel Carlo Rubbia; che la tecnologia nucleare sarà in futuro necessaria, ma prima è auspicabile che si faccia ricorso in modo molto più massiccio alle energie rinnovabili e si attui in modo molto più efficace il risparmio energetico.
Le fonti rinnovabili sono: 1) la solare, nelle applicazioni termiche (pannelli solari) e fotovol-taiche, già in uso ma ancora troppo poco diffuse, e termodinamica, ancora in fase sperimentale. Tutte andrebbero incentivate e soprattutto la ricerca sulla forma più efficiente, la termodinamica, che si sta sperimentando dal 2007 nella centrale di Priolo Gargallo (Siracusa) col progetto Archimede; 2) l’eolica, con il primo impianto del 1984. Si prevedeva di produrre per il 2000 una potenza eolica di 600 megawatt, mentre nel 2004 si era arrivati a produrre 5 megawatt, per le varie discussioni e tentennamenti di origine sia politica che tecnica. Con la politica degli incentivi si è ora arrivati con 10 anni di ritardo a produrre più di 500 megawatt, mentre l’eolico in Germania produce più di 16000 megawatt, 8000 la Spagna e 3000 la Danimarca. In Italia si assiste a continui frenamenti sia da parte dei difensori del paesaggio, sia per le lungaggini burocratiche; 3) la classica idroelettrica; 4) la geotermica; 5) quella da biomasse, biogas, rifiuti.
Tutte insieme le rinnovabili hanno fornito circa il 17% dell’energia prodotta in Italia nel 2008, ma il contributo del solare (nel paese del sole) è stato solo dello 0,06% e quello eolico dell’1,4 %, mentre la classica idroelettrica ha dato più del 12%. Gran parte di questi dati sono stati raccolti e pubblicati da Marzio Bellacci nel suo libro “Italia a lume di candela” (Edizioni L’asino d’oro, 2010).
Da tutti questi dati si può concludere che è necessario incrementare la ricerca e gli incentivi per il solare. Un dato positivo è rappresentato dal decreto interministeriale del 5 maggio scorso che prevede incentivi per gli impianti fotovoltaici che entrino in funzione dopo il 31 maggio 2011 e fino al 31 dicembre 2016.
Un altro dato interessante è fornito da un articolo di Edo Ronchi, ex-ministro dell’ambiente, pubblicato il 24 giugno 2010 su Milano Finanza in cui mostra che in realtà il fabbisogno italiano di energia, grazie al risparmio energetico e ai miglioramenti dell’efficienza degli impianti, è diminuito nel 2009 rispetto al 2008 di 22 miliardi di chilowattore pari al 6,4%.
Tenuto conto dei prevedibili crescenti sviluppi delle centrali di energia rinnovabile, si può concludere che non è necessario né economico puntare sulla costruzione di centrali nucleari, e pur raccomandando di non abbandonare la ricerca in questo campo, sbaglio che fu fatto dopo il referendum e l’emotività dovuta all’incidente di Chernobil, è preferibile sviluppare al massimo la ricerca sulle rinnovabili, seguendo l’esempio della Germania, o addirittura della Svezia, che pur avendo tanto meno sole di noi, utilizzano molto di più l’energia solare ed eolica.
In conclusione: no alla costruzione di centrali nucleari oggi in Italia, ma sì alla ricerca sull’energia nucleare, senza demonizzarla, in previsione di un futuro, forse ancora lontano, in cui anche questa sarà necessaria, e dovremo imparare a dominarne i rischi; incentivare la ricerca e la costruzione di impianti eolici e fotovoltaici, migliorare l’attenzione al risparmio energetico, sia con costruzioni ecologiche che riducano al minimo la necessità di riscaldamento d’inverno e condizionatori d’estate (proprio il contrario di quei grandi palazzoni tanto di moda, con le pareti di vetro, serre d’estate e frigoriferi d’inverno), sia con l’attuazione al 100% della raccolta differenziata dei rifiuti, un fine facilmente raggiungibile ma da cui siamo ancora molto lontani.
Con un articolo scritto per MicroMega Margherita Hack puntualizza il suo pensiero in merito alle scelte energetiche del nostro paese.
di Margherita Hack
Sono molti coloro che mi conoscono per persona di sinistra e ambientalista che si meravigliano che mi sia dichiarata a favore dell’energia nucleare. Occorre quindi qualche chiarimento, in base ad argomenti razionali e non emotivi.
Prima di tutto l’energia non è né di destra né di sinistra. La richiesta di energia va continuamente crescendo, soprattutto da parte delle grandi economie emergenti: Cina, India, Brasile. Un intero continente come l’Africa sta ancora dormendo, ma anch’essa si sveglierà, grazie anche a quel potente fattore di globalizzazione che è Internet. Petrolio e metano vanno esaurendosi, il carbone, molto più abbondante, è anche fortemente inquinante. Bisogna evitare scelte emotive, in conseguenza di disastri come quello di Chernobil e ora del Giappone.
L’Italia è quasi completamente dipendente dall’estero per il suo approvvigionamento energetico; compriamo petrolio e metano dalla Libia, dall’Ucraina, energia nucleare dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Slovenia; siamo circondati da centrali nucleari dei paesi confinanti (59 in Francia, 5 in Svizzera, 1 in Slovenia) e se un disastro succedesse a loro, noi ne avremmo gli stessi danni senza averne avuto i vantaggi.
Io credo che dovremmo comunque non interrompere la ricerca sul nucleare. Se tutte le volte che l’uomo ha scoperto una nuova applicazione della scienza, si fosse fermato al primo inci-dente, saremmo ancora all’età della pietra e non avremmo mai messo piede sulla Luna. Se dopo la scoperta del fuoco, lo si fosse abbandonato dopo il primo incendio della nostra foresta, saremmo ancora nel freddo e buio delle caverne, se dopo la caduta del primo aereo avessimo bloccato la ricerca, l’aviazione non sarebbe mai decollata.
D’altra parte da tutti i fallimenti si impara e si progredisce.
La rinuncia al nucleare, decisa in seguito al referendum del 1987 secondo varie stime di e-sperti dell’Enel sarebbe costata all’Italia 120000 miliardi di lire. Inoltre il costo dell’energia elettrica, superiore del 40% a quello della media europea è una delle cause della perdita di competitività che ha colpito l’Italia dal 1990.
Certo che i disastri nucleari possono colpire gran parte del pianeta. Perciò, dato che si parla tanto del villaggio globale, il problema della sicurezza e in particolare quello delle scorie, andrebbe risolto in modo globale, con la collaborazione di tutti, anche se mi rendo conto che è un’utopia. Questo è stato tentato a livello europeo per quanto riguarda il grave problema dello smaltimento delle scorie. Così le centrali nucleari dovrebbero essere situate solo in regioni sicure dal punto di vista sismico e degli tsunami e disposte a vendere energia a basso costo ai paesi che per ragioni geofisiche non possono metterle sul loro suolo. E anche, aggiungerei, in paesi più seri del nostro, in cui anche smaltire la spazzatura di Napoli diventa un problema, e in cui sembra impossibile evitare infiltrazioni della criminalità organizzata.
Perciò ritengo che la ricerca deve continuare, anche sperimentando l‘impiego di combustibili nucleari che abbiano una vita media più corta dell’uranio, un campo in cui mi sembra sta lavorando uno dei maggiori esperti in campo mondiale, il premo nobel Carlo Rubbia; che la tecnologia nucleare sarà in futuro necessaria, ma prima è auspicabile che si faccia ricorso in modo molto più massiccio alle energie rinnovabili e si attui in modo molto più efficace il risparmio energetico.
Le fonti rinnovabili sono: 1) la solare, nelle applicazioni termiche (pannelli solari) e fotovol-taiche, già in uso ma ancora troppo poco diffuse, e termodinamica, ancora in fase sperimentale. Tutte andrebbero incentivate e soprattutto la ricerca sulla forma più efficiente, la termodinamica, che si sta sperimentando dal 2007 nella centrale di Priolo Gargallo (Siracusa) col progetto Archimede; 2) l’eolica, con il primo impianto del 1984. Si prevedeva di produrre per il 2000 una potenza eolica di 600 megawatt, mentre nel 2004 si era arrivati a produrre 5 megawatt, per le varie discussioni e tentennamenti di origine sia politica che tecnica. Con la politica degli incentivi si è ora arrivati con 10 anni di ritardo a produrre più di 500 megawatt, mentre l’eolico in Germania produce più di 16000 megawatt, 8000 la Spagna e 3000 la Danimarca. In Italia si assiste a continui frenamenti sia da parte dei difensori del paesaggio, sia per le lungaggini burocratiche; 3) la classica idroelettrica; 4) la geotermica; 5) quella da biomasse, biogas, rifiuti.
Tutte insieme le rinnovabili hanno fornito circa il 17% dell’energia prodotta in Italia nel 2008, ma il contributo del solare (nel paese del sole) è stato solo dello 0,06% e quello eolico dell’1,4 %, mentre la classica idroelettrica ha dato più del 12%. Gran parte di questi dati sono stati raccolti e pubblicati da Marzio Bellacci nel suo libro “Italia a lume di candela” (Edizioni L’asino d’oro, 2010).
Da tutti questi dati si può concludere che è necessario incrementare la ricerca e gli incentivi per il solare. Un dato positivo è rappresentato dal decreto interministeriale del 5 maggio scorso che prevede incentivi per gli impianti fotovoltaici che entrino in funzione dopo il 31 maggio 2011 e fino al 31 dicembre 2016.
Un altro dato interessante è fornito da un articolo di Edo Ronchi, ex-ministro dell’ambiente, pubblicato il 24 giugno 2010 su Milano Finanza in cui mostra che in realtà il fabbisogno italiano di energia, grazie al risparmio energetico e ai miglioramenti dell’efficienza degli impianti, è diminuito nel 2009 rispetto al 2008 di 22 miliardi di chilowattore pari al 6,4%.
Tenuto conto dei prevedibili crescenti sviluppi delle centrali di energia rinnovabile, si può concludere che non è necessario né economico puntare sulla costruzione di centrali nucleari, e pur raccomandando di non abbandonare la ricerca in questo campo, sbaglio che fu fatto dopo il referendum e l’emotività dovuta all’incidente di Chernobil, è preferibile sviluppare al massimo la ricerca sulle rinnovabili, seguendo l’esempio della Germania, o addirittura della Svezia, che pur avendo tanto meno sole di noi, utilizzano molto di più l’energia solare ed eolica.
In conclusione: no alla costruzione di centrali nucleari oggi in Italia, ma sì alla ricerca sull’energia nucleare, senza demonizzarla, in previsione di un futuro, forse ancora lontano, in cui anche questa sarà necessaria, e dovremo imparare a dominarne i rischi; incentivare la ricerca e la costruzione di impianti eolici e fotovoltaici, migliorare l’attenzione al risparmio energetico, sia con costruzioni ecologiche che riducano al minimo la necessità di riscaldamento d’inverno e condizionatori d’estate (proprio il contrario di quei grandi palazzoni tanto di moda, con le pareti di vetro, serre d’estate e frigoriferi d’inverno), sia con l’attuazione al 100% della raccolta differenziata dei rifiuti, un fine facilmente raggiungibile ma da cui siamo ancora molto lontani.
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1.6.11
Agenda digitale: arrivederci Europa
Guido Scorza
A partire dal 25 maggio 2011 i cittadini europei beneficeranno di più diritti e servizi nei settori della telefonia fissa, mobile e di Internet.
E’ questo l’incipit di un comunicato stampa della Commissione europea dello scorso 23 maggio.
A tale data – prosegue il comunicato – gli Stati membri sono infatti tenuti ad attuare a livello nazionale le norme in materia di telecomunicazioni introdotte dall’UE al fine di aumentare la competitività del settore e di offrire migliori servizi alla clientela.
Le nuove norme alle quali si riferisce la Commissione sono quelle contenute nella Direttiva 2009/136/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 recante modifica della direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, della direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori.
Le disposizioni contenute nella Direttiva sanciscono, tra gli altri, il diritto, per i cittadini, di passare a un altro operatore in un solo giorno senza dover cambiare numero di telefono, di avere informazioni più chiare in merito ai servizi offerti e di ricevere una migliore protezione dei dati personali online.
Si tratta di una piccola-grande rivoluzione nelle regole dei servizi telefonici e internet che va nella direzione di rafforzare i diritti degli utenti e consumatori.
Peccato che i benefici dei quali parla la Commissione nel suo comunicato non riguarderanno – o almeno non per il momento – gli utenti ed i consumatori italiani.
Il nostro Paese, infatti, è straordinariamente – ma bisognerebbe, in realtà, dire ordinariamente – indietro nel recepimento della direttiva – che pure è data 2009 – tanto che il Parlamento deve ancora approvare la legge con la quale delegherà il Governo all’emanazione di un decreto legislativo attraverso il quale recepire la Direttiva.
La legge delega, attualmente in discussione alla Camera dei Deputati, accorderà al Governo, come se non bastasse il ritardo sin qui accumulato, un termine di tre mesi dall’entrata in vigore della legge medesima per procedere al recepimento della Direttiva.
E’ quasi incredibile che un Parlamento con uno dei più bassi indici di produttività normativa della storia della Repubblica, riesca ad accumulare ritardi tanto gravi ed importanti persino nell’adempimento a obblighi comunitari.
Frattanto, da Bruxelles, Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea responsabile dell’Agenda digitale, fa sapere che la Commissione non esiterà ad avviare procedimenti di infrazione contro gli Stati che non adotteranno nei termini la Direttiva e che, in ogni caso “Se questi diritti [n.d.r. quelli riconosciuti nella nuova disciplina UE] non saranno attuati nella pratica, adotterò i provvedimenti necessari, nei confronti degli Stati membri e degli operatori, per porvi rimedio”.
Dopo il plateale “agguato” che il premier ha teso a Obama al tavolo del G8, c’è un’altra bella figura all’orizzonte, nello scenario internazionale, per il nostro Paese.
A partire dal 25 maggio 2011 i cittadini europei beneficeranno di più diritti e servizi nei settori della telefonia fissa, mobile e di Internet.
E’ questo l’incipit di un comunicato stampa della Commissione europea dello scorso 23 maggio.
A tale data – prosegue il comunicato – gli Stati membri sono infatti tenuti ad attuare a livello nazionale le norme in materia di telecomunicazioni introdotte dall’UE al fine di aumentare la competitività del settore e di offrire migliori servizi alla clientela.
Le nuove norme alle quali si riferisce la Commissione sono quelle contenute nella Direttiva 2009/136/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 recante modifica della direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, della direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori.
Le disposizioni contenute nella Direttiva sanciscono, tra gli altri, il diritto, per i cittadini, di passare a un altro operatore in un solo giorno senza dover cambiare numero di telefono, di avere informazioni più chiare in merito ai servizi offerti e di ricevere una migliore protezione dei dati personali online.
Si tratta di una piccola-grande rivoluzione nelle regole dei servizi telefonici e internet che va nella direzione di rafforzare i diritti degli utenti e consumatori.
Peccato che i benefici dei quali parla la Commissione nel suo comunicato non riguarderanno – o almeno non per il momento – gli utenti ed i consumatori italiani.
Il nostro Paese, infatti, è straordinariamente – ma bisognerebbe, in realtà, dire ordinariamente – indietro nel recepimento della direttiva – che pure è data 2009 – tanto che il Parlamento deve ancora approvare la legge con la quale delegherà il Governo all’emanazione di un decreto legislativo attraverso il quale recepire la Direttiva.
La legge delega, attualmente in discussione alla Camera dei Deputati, accorderà al Governo, come se non bastasse il ritardo sin qui accumulato, un termine di tre mesi dall’entrata in vigore della legge medesima per procedere al recepimento della Direttiva.
E’ quasi incredibile che un Parlamento con uno dei più bassi indici di produttività normativa della storia della Repubblica, riesca ad accumulare ritardi tanto gravi ed importanti persino nell’adempimento a obblighi comunitari.
Frattanto, da Bruxelles, Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea responsabile dell’Agenda digitale, fa sapere che la Commissione non esiterà ad avviare procedimenti di infrazione contro gli Stati che non adotteranno nei termini la Direttiva e che, in ogni caso “Se questi diritti [n.d.r. quelli riconosciuti nella nuova disciplina UE] non saranno attuati nella pratica, adotterò i provvedimenti necessari, nei confronti degli Stati membri e degli operatori, per porvi rimedio”.
Dopo il plateale “agguato” che il premier ha teso a Obama al tavolo del G8, c’è un’altra bella figura all’orizzonte, nello scenario internazionale, per il nostro Paese.
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