28.5.14

Bisogna saper perdereBisogna saper perdere

StellaDagli sberleffi alle accuse agli elettori. Il leader Grillo che ora attribuisce la colpa ai pensionati

di Gian Antonio Stella

Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?

Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.

«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».

«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...

Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.

E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».

E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.

E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox... Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?

Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.

«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».

«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...

Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.

E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».

E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.

E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox...

23.5.14

Il “Compagno F”. La mai finita Tangentopoli pavese

di Giovanni Giovannetti (direfarebaciare)

Nella classifica delle peggio città settentrionali per qualità della vita, prima di Pavia c’è solo Imperia, il feudo degli Scajola (l’ex ministro Claudio detto “Sciaboletta” e l’ex sindaco Alessandro, suo fratello).
Del resto, la città lombarda – «sindaco italiano più amato» a parte – non pare incline ai primati; sicché figura seconda dopo Padova anche nella classifica italiana delle città più inquinate. E non tragga in inganno quel quinto posto mondiale (prima città italiana) nello sniffo pro capite di coca; o quell’altro primato con cui si pavoneggia – prima assoluta per spesa pro capite nel gioco d’azzardo – poiché certe classifiche trovano il tempo che trovano.
Eterna seconda. Tuttavia, a dare buona stampa alla città delle eccellenze sanitarie concorre ormai da tempo l’ardimentoso operato di taluni pavesi: chirurghi «crudeli» come Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo per aver volontariamente procurato la morte di 4 pazienti e lesioni gravi ad altri quaranta; oculisti come Aldo Fronterrè, agli arresti dopo aver decretato semicieco un sanguinario killer di Camorra dalla mira infallibile; odontoiatri come Carlo Chiriaco, condannato in primo grado a 13 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Fuori da ospedali e cliniche, nel salotto buono di piazza Vittoria si incrociavano tributaristi come il calabrese Pino Neri, capo reggente della ‘Ndrangheta lombarda e “grande elettore” del «sindaco più amato d’Italia» (condannato in primo grado a 18 anni di reclusione) e politici tutti d’un prezzo come il dirimpettaio Ettore Filippi, l’ex vicesindaco sodale di Neri e del «sindaco più amato d’Italia», arrestato per alcuni pubblici favori a privati cementificatori di cui era a libro paga (insomma, corruzione).
Sarà per caso, ma non c’è inchiesta di un certo qual rilievo nazionale che non abbia fascicoli aperti su Pavia e dintorni, a partire dall’indagine antindrangheta Infinito (oltre a Neri e Chiriaco, manette e condanna anche per il capolocale Franco Bertucca) e a finire con la retata di Expo2015: arresto per Enrico Maltauro (proprietario dell’area Chatillon alle porte di Pavia) e indagine aperta su Daniela Troiano, direttore generale dell’azienda ospedaliera pavese.

Le trinità

Expo2015. Una “trinità” composta dal postcomunista Primo Greganti, da Sergio Cattozzo dell’Udc e dal postdemocristo Gianstefano Frigerio è sorpresa dall’antimafia nel gestire intrallazzi, spartire favoritismi e incassare tangenti. Un copione ben noto a Pavia.
Un passo indietro e siamo al 26 marzo 1992: in riva al Ticino vengono arrestati il democristiano Giuseppe Girani e il comunista Giuseppe Inzaghi, membri del Cda dell’ospedale San Matteo; il primo detiene la delega al patrimonio, il secondo all’edilizia. Sono al vertice di una «cupola» che lucra sugli appalti al San Matteo, «una congrega di politici e amministratori – come scrive il 5 luglio 2010 il direttore della “Provincia pavese” Sergio Baraldi – che avevano trasformato reparti e lavori che servivano per ampliare l’ospedale, in un losco giro di tangenti». Baraldi rincara poi la dose: «Ci accorgiamo che una vera e propria associazione a delinquere, invece di fare politica al servizio dei cittadini, si preoccupava di dirigere i propri affari, di occupare le istituzioni per spremere denaro ed accrescere il suo potere». Associazione a delinquere? Il 4 giugno vengono incarcerati altri membri del Cda: il socialista Luigi Panigazzi, il comunista Armelino Milani (morto nel 1994) e il democristiano Albini. Come spiegherà Panigazzi, «le bustarelle, erano un sistema, non si poteva fare diversamente…»
Così la Ivces costruzioni di Vigevano otterrà l’appalto del valore di 15 miliardi in lire per la nuova Ematologia, versando 350 milioni in tangenti; la Castagnetti (impianti di condizionamento) esborserà 108 milioni – il 10 per cento – «per non essere estromessa dalla gara»; la Bull Honeywell donerà alla “cupola” 50 milioni in contanti per ottenere l’appalto dell’informatizzazione del Policlinico. Cifre minori saranno versate dalla Sorin (valvole cardiache), dalla Florenzia (settore costruzioni) e dalla Siemens (multinazionale delle apparecchiature elettromedicali).
Ma la madre di tutte le tangenti (560 milioni in comode rate da 100 milioni brevimano, più o meno equamente divisi tra Dc, Psi e Pci-Pds) è quella versata per la costruzione dei Reparti speciali, il cosiddetto “palazzone”: appalto affidato alla Cogefar-Impresit (gruppo Fiat) per 2 miliardi e 842 milioni di lire. L’impresa infine verrà a costare oltre 45 miliardi.
Così la raccontano Fabrizio Guerrini e Filiberto Mayda in Mala Pavia scritto “a caldo” nel 1992: «Nel 1990, con la gestione di Trespi [Virginio Trespi, democristiano, presidente del Cda del San Matteo], viene presentata la perizia di completamento; 28 miliardi e 253 milioni ed il Consiglio di amministrazione ne approva la delibera. [...] Il progetto Cogefar-Impresit è del tipo “chiavi in mano”, un appalto-concorso, visto e rivisto da apposite commissioni tecnico-scientifiche ed elaborato secondo le norme Cee sulla trasparenza. Tant’è che, in tangenti, costerà oltre mezzo miliardo».
Un anno prima, il 3 febbraio 1991 al congresso di Rimini, il Partito comunista era confluito nel Partito democratico della sinistra (Pds). L’ex sindaco di Vigevano Luigi Bertone ne è il segretario provinciale. Due giorni dopo l’arresto di Inzaghi e Girani, al quotidiano locale Bertone dichiara che, di fronte a una storia così grave, andava fatta giustizia, invitando a «ricostruire nuove regole» perché l’accaduto non poteva essere liquidato «come un semplice incidente». Il democristiano Girani si mantiene zitto e cheto (vuoterà il sacco solo due mesi dopo) anche se lì per lì si assume ogni responsabilità contabile in quanto amministratore del partito, offrendo così più di un paracadute al segretario provinciale Luigino Maggi.
Più loquace un frastornato nonché “pentito” Inzaghi. Per le mazzette al Policlinico accusa Girani di essere stato «il referente della Democrazia cristiana e di tutti i partiti» dando addosso altresì al suo segretario politico: «Avevo ricevuto l’incarico di seguire l’attività di Girani e di informare lo stesso Bertone del progredire di tutte le pratiche che avrebbero avuto un ritorno economico per il mio partito [...] Bertone svolgeva il ruolo di collettore del denaro destinato a finanziare il Pds [...] lo stesso Bertone disse a me e a Milani che il referente per ricevere il denaro delle tangenti del Policlinico era, per il Pds come per la Dc e il Psi, Giuseppe Girani. [...] In più occasioni Girani si è recato presso la federazione Pci/Pds, rivolgendosi direttamente a Bertone, sia per consegnare denaro sia per discutere di problemi in generale».
Di fronte al pm Vincenzo Calia, Inzaghi aggiunge che la tangente pagata dalla Ivces venne subito consegnata «direttamente a Bertone». E ancora: dal segretario provinciale della Quercia «mi fu chiesto se, nell’ambito dei programmi di edilizia ospedaliera del San Matteo, era possibile affidare alcuni lavori a CoopSette, che era stata indicata a Bertone dagli organi regionali del partito». Secondo Inzaghi, «Bertone si era particolarmente impegnato nel risolvere il problema dei ritardi nel rilascio delle concessioni edilizie per la realizzazione della nuova Ematologia».
Nell’aprile 1990 Bertone era assessore comunale pavese all’Urbanistica. C’era da ristrutturare l’ex padiglione “contagiosi” – l’attuale clinica di Ematologia – da parte della Ivces per un importo indicato in tre miliardi di lire (infine se ne spenderanno tredici!) e il presidente Trespi chiede al Comune l’aumento dell’indice di utilizzazione fondiaria, in deroga al Piano regolatore. L’approvazione, nel febbraio 1991, «consentirà al San Matteo di edificare su 17.000 metri quadrati fuori dalle regole del Piano regolatore», come sottolineano gli autori di Mala Pavia.
Il 4 giugno 1992 Bertone si ritrova in carcere insieme a democristiani, socialisti e altri comunisti, accusato di corruzione, concussione e associazione a delinquere. Lo denuncia anche Girani: «Ho portato io a Bertone una quota dei 100 milioni della Ivces (20 milioni in contanti). In quell’occasione dissi a Bertone che per i successivi versamenti avrebbe dovuto pensarci direttamente Inzaghi, che nel frattempo mi era stato indicato da Bertone come colui al quale avrei dovuto consegnare i soldi per il Pci».
Nonostante le ricostruzioni circostanziate, Bertone si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda, così come Armelino Milani.
Tuttavia, nel marzo 1993 lui e Girani sono di nuovo agli arresti domiciliari. Bertone è accusato di tentata concussione: una mazzetta di 200 milioni – e altre concordate ma non consegnate – per l’affare mai realizzato del teleriscaldamento in città (dopo Tangentopoli, nel 1992 saltò tutto), metà della cifra sarà intascata dal Pci. L’indagine si concluse con l’arresto dell’assessore regionale Giancarlo Magenta (Psi), del consigliere comunale Roberto Portolan (Psi) e dell’ex assessore comunale pavese ai Lavori pubblici Giovanni Grieco (Dc).
Tutti assolti. Bertone lo troveremo nuovamente inquisito, ancora nel 1993, per un appalto truccato al Bosco Negri, e infine condannato a 1 anno e 4 mesi per corruzione e finanziamento illecito dei partiti, dopo aver patteggiato per un giro di bustarelle volto a favorire l’edificazione di un parcheggio lungo il Ticino. Patteggiarono anche altri inquisiti: il consigliere comunale Renzo Cavioni (Psi, 8 mesi); e gli imprenditori Danilo Brera, Pietro Pecora, Vittorio Pacchiarotti e Augusto Graziadei, tutti e quattro condannati a 1 anno e 3 mesi.
Dall’inchiesta milanese di “Mani Pulite” il Pds emerge con meno graffi di altri: il partito – scrive l’ex cronista di giudiziaria de “l’Unità” Marco Brando – non aveva partecipato in modo diffuso e organico alla spartizione delle tangenti: «Ma uscì pure che non ne aveva bisogno, perché la Lega della cooperative otteneva una quota di appalti concordata e poi finanziava – diciamo legalmente – il Pci-Pds. Solo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta gli altri partiti, prima beneficiari di soldi attraverso l’incasso di soldi provenienti da tangenti vere e proprie versate dalle aziende vincitrici di appalti pubblici, cominciarono col chiedere» a Milano come a Pavia «che anche il Pci-Pds seguisse la stessa trafila. Così si passò dal finanziamento formalmente legale attraverso le coop all’unico calderone di mazzette in cui anche una parte dell’ex partito comunista dovette attingere».
La stagione pavese di “Mani pulite” cade grossomodo negli anni in cui in Procura operano magistrati di valore come Vincenzo Calia (dal maggio 2002 è a Genova; nel 2008 è nominato procuratore aggiunto) o come il futuro presidente della sezione penale presso il Tribunale pavese Cesare Beretta.
Beretta si spinge persino ad inquisire “intoccabili” come Gian Carlo Abelli detto “il faraone”, il ras della sanità in Lombardia. Era il 13 febbraio 1985 quando il “faraone” venne arrestato – insieme a Dino Landini e al cognato Claudio Gariboldi – con l’accusa di peculato e concorso in truffa. Gariboldi è il fratello di Rosanna, l’ex assessore provinciale pavese e moglie di Abelli balzata nel 2009 agli onori delle cronache per alcuni movimenti in denaro “sporco” dell’amico e sodale ciellino Giuseppe Grossi presso un conto cifrato (17964 A) alla banca J. Safra di Montecarlo condiviso con il marito.
1985, altri tempi? A Tangentopoli mancano sette anni e c’è ancora la Democrazia cristiana, il partito per il quale si industriava l’allora apprendista “faraone”. Tra gli arrestati figurano il “compagno G” Primo Greganti e Gianstefano Frigerio.
1985. A Expo2015 di anni ne mancano trenta: di nuovo arrestati Frigerio e il “compagno G”.
Il costruttore Grossi, ormai deceduto, lo ricordiamo in affari con Mario Resca (erano anche proprietari dell’ex zuccherificio di Casei Gerola in Oltrepo), l’imprenditore vicinissimo a Paolo e Silvio Berlusconi, nonché direttore generale del Ministero dei Beni culturali e vicepresidente della Sesto Immobiliare (la società di Davide Brizzi che nel 2008 – in cordata con il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, Bancaintesa, Unicredit, un Fondo coreano e uno americano – ha acquistato da Luigi Zunino l’area Falk di Sesto San Giovanni), al centro dello scandalo mazzette che ha visto coinvolto anche l’ex sindaco e presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (Pd), candidato governatore per il centrosinistra alle elezioni regionali lombarde nel 2010.

La casta ci costa

A “sinistra”, la moralità della casta ci è oggi restituita da personaggi quali Penati (Partito democratico, ex presidente della Provincia, ex responsabile della segreteria politica di Bersani, già candidato nel 2010 alla presidenza della Regione Lombardia), a giudizio per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. La storia è nota: quando era sindaco di Sesto San Giovanni, per la modifica del Prg cittadino (l’inserimento di alcune autorizzazioni edilizie volte a favorire speculazioni sull’ex area Falk e sull’ex Magneti Marelli), Penati avrebbe preteso da Giuseppe Pasini mazzette per 20 miliardi delle vecchie lire, di cui “solo” 5 miliardi e 750 milioni sarebbero stati infine versati, tra contanti consegnati a mano e la permuta di terreni dal diverso valore.
Secondo la procura di Monza, i soldi sarebbero serviti a finanziare l’attività degli allora Democratici di sinistra.
Una brutta storia, non diversa da un’altra, meno nota: quando era presidente della Provincia di Milano, nel 2005 Penati comprò dal defunto Marcellino Gavio il 15 per cento delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. Così la racconta Marco Travaglio: «preceduto da una serie di telefonate di Pierluigi Bersani, Penati gli ha garantito una ricca buonuscita, strapagandogli le azioni. Una plusvalenza di 175 milioni di euro, di poco successiva all’ingresso di Gavio nelle scalate di Gian Piero Fiorani [il capocordata dei "furbetti", in manette nel 2005] all’Antonveneta e di Consorte – & furbetti al seguito – alla Bnl». Delle azioni Milano-Serravalle, il compianto Gavio ne parla in alcune intercettazioni telefoniche: «sto facendo un pensierino sottovoce a vendere tutto per 4 euro». Dopo l’intervento di Bersani, Penati compra con il pubblico denaro le azioni di Gavio a 8,83 euro per azione.
Per un decennio Bruno Binasco è stato amministratore delegato del gruppo Gavio e braccio destro dell’imprenditore (fra l’altro Gavio è primo azionista di Impregilo, il principale gruppo italiano di costruzioni). A lui danno il benservito del luglio 2013.
Binasco lo ricordiamo agli arresti nel 1993 per una mazzetta di 150 milioni a Primo Greganti, il “compagno G” coinvolto in Tangentopoli, l’omertoso funzionario postcomunista infine condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere per il finanziamento illecito del suo partito. Nel 2008 Binasco si era impegnato ad acquistare un immobile da Pietro Di Caterina, titolare della Caronte srl, un imprenditore che vantava cospicui crediti nei confronti di Penati, soldi che l’ex presidente della Provincia aveva promesso di restituire. Una clausola del preliminare di compravendita tra Binasco e Di Caterina stabiliva la generosissima caparra di 2 milioni qualora l’uomo di Gavio non fosse passato all’acquisto entro il 2010. Inutile sottolineare che le cose sono andate proprio così, a conforto di chi sospetta che la somma fosse in onore del dovuto “Democratico” a Di Caterina.

Il “Compagno F”

E Pavia? In città molti ancora ricordano l’operato di Stefano Francesca, funzionario genovese in quota Bersani. Si faceva chiamare «dottore» ma non era laureato. Passava per giornalista ma non era iscritto all’Ordine. Come informava la sua nota biografica, «dal 1998 è socio fondatore della cooperativa Mandragola» di Grugliasco presso Torino, una associazione di giornalisti nata nel 1992. Diceva di essere tra i primi membri della genovese Fondazione De Andrè, insieme a Dori Ghezzi e ai figli; ma nella pagina web della Fondazione, dove sono pubblicate la storia e lo Statuto, il suo nome non compare. Pare che Battisti gli avesse dedicato una canzone. Non è Francesca ma Confusione.
Il “Compagno F” emulo del “Compagno G”? Chi può dirlo. Certo è che i pubblici fondi della prima edizione del Festival dei Saperi – congegnato dal Francesca e fiore all’occhiello dell’amministrazione di centrosinistra Capitelli (oltre un milione di euro per cinque giorni di conferenze: quattro volte più del necessario) – andarono a ingrossare le tasche di alcune aziende d’area, di amici di amici e di Francesca, rispedito a Genova e subito incarcerato nel maggio 2008, a conclusione dell’inchiesta su Mensopoli, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta: in alcune intercettazioni, il “Compagno F” parla di fatture fittizie a Gino Mamone – imprenditore in presunto odore di mafia indagato nel 2005 dalla procura di Alessandria per la bonifica illegale delle aree Ip di La Spezia e dell’ex Shell di Fegino presso Genova – da parte della Wam&co di Francesca, fatture necessarie a coprire tangenti (nell’aprile 2010 patteggerà un anno e mezzo di pena). Sono gli stessi “amici” che un anno prima avevano suggerito idee e lavorato “gratuitamente” e nell’ombra alla privatissima campagna elettorale del futuro sindaco. Una volta eletta, Capitelli ha finalmente saldato i sospesi, usando però i soldi dei contribuenti, e cioè una parte rilevante del pubblico denaro speso impunemente per la prima edizione del Festival.
Secondo recenti calcoli, ad ogni italiano la corruzione costa circa mille euro annuali: 60 miliardi tondi, neonati inclusi. Alcuni assessori di quella triste stagione sono oggi nuovamente candidati. È forse questa l’improrogabile alternativa politica e morale al centrodestra dei Cattaneo, dei Labate, dei Gimigliano, dei Greco, dei Bobbio Pallavicini e altri amici degli amici?

21.5.14

Elezioni e effetto Draghi: le cose da sapere per investire nei prossimi mesi

Secondo Ubs non vi saranno grossi contraccolpi sui mercati dopo le consultazioni europee. Ma la politica della Bce deve riportare la crescita in Europa. Tre possibili strategie di portafoglio da qui alla fine dell'anno

di Giovanni Pons (La Repubblica)

A soli quattro giorni dalle elezioni europee, lo spread (differenziale tra tassi di interesse) tra Btp e Bund tedesco è tornato sopra i 200 punti, invertendo una tendenza che solo pochi giorni prima l'aveva portato al minimo di 140 punti. Che cosa è successo e come si deve interpretare questo segnale proveniente dai mercati finanziari? Vediamo di mettere un po' di ordine in questa situazione che anche agli esperti di settore appare assai confusa cercando poi di capire quali possono essere le conseguenze per gli investimenti dei risparmiatori basati nell'area euro.

Lo spread si è rialzato principalmente per due motivi: in primo luogo c'è una crescente apprensione per l'esito delle elezioni europee che potrebbe portare i partiti euro-scettici a detenere una quota intorno al 25% dei consensi totali. In secondo luogo, ma non meno importante, vi è il disappunto del mondo finanziario per la crescita del primo trimestre 2014 in Europa che in alcuni paesi è risultata addirittura negativa (come in Italia). Questi due elementi mixati tra di loro hanno portato a un inasprimento del cosiddetto "premio per il rischio" sui titoli dell'area euro che avevano beneficiato di grandi afflussi di capitali da almeno sei mesi a questa parte.

Quindi la domanda che un risparmiatore si deve porre a questo punto è la seguente: devo riaggiustare il portafoglio in vista delle elezioni europee e degli interventi di politica monetaria annunciati dal governatore Mario Draghi per il 5 giugno? La risposta, ovviamente, non può essere univoca o certa, ma si possono fare alcune considerazioni. Per esempio, secondo il global economist della banca Ubs, Paul Donovan, l'impatto sui mercati delle elezioni europee sarà abbastanza limitato ma potrebbero verificarsi dei contraccolpi nei singoli paesi. "Se in Gran Bretagna l'"Ukip" raggiungerà il 35% non sarà una sorpresa mentre se il "Front National" in Francia diventasse il primo partito ciò potrebbe rappresentare un pericolo per i mercati", scrive Donovan nella sua ricerca intotolata: "Elezioni europee: perchè bisogna stare attenti". Ma anche un forte consenso per "Alternative fur Deutschland" potrebbe far nascere timori verso la politica economica europea e l'Unione bancaria. Un po' a sorpresa sembra i mercati si debbano preoccupare meno dal fenomeno Grillo in Italia: "Gli investitori sanno che i Cinque Stelle hanno già ottenuto un buon risultato alle elezioni politiche di un anno fa - scrive ancora Donovan - e anche se Grillo dovesse andar bene alle europee è scontato che non vi saranno elezioni in Italia prima di un anno. Inoltre l'Italia è conosciuta per avere alta volatilità politica e le preoccupazioni riguardano piuttosto che cosa farà l'Italia nel caso le poiltiche eurocentriche subissero un rallentamento in tutta Europa". In ogni caso, poichè l'afflusso di capitali verso l'Europa è stato particolarmente elevato negli ultimi 6-8 mesi, portandosi con sè un rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro, è abbastanza facile prevedere una fuoriuscita di capitali nei prossimi 3-6 mesi dovuta a una maggiore incertezza in Europa e un relativo indebolimento dell'euro. Nel solo mese di dicembre 2013 i capitali arrivati da investitori americani ha raggiunto la cifra record di 126,4 miliardi di dollari e non si può escludere un ridimensionamento nei prossimi mesi. Ma potrebbe trattarsi di un fenomeno di breve termine anche in funzione delle azioni che Draghi è pronto a mettere in campo: nell'ultima conferenza stampa ha fatto capire di voler abbassare i tassi di rifinanziamento e il tasso di sconto di uno 0,10-0,15% in modo da far scivolare in negativo i tassi di interesse reali. Ciò significa che non sarà più conveniente sia per le banche sia per i privati tenere i soldi fermi sul conto corrente perchè al netto dell'inflazione perdono di valore. Conviene invece reinvestirli in attività produttive e così facendo si rimetteranno in moto i consumi e quindi l'inflazione. Solo così l'economia potrà ripartire in maniera più decisa. Dal punto di vista dell'investitore tassi ufficiali sempre più bassi in Europa con premi per il rischio in aumento ma contenuti significano sofferenza per il classico investimento in obbligazioni. Chi ha già bond in portafoglio si vedrà diminuire i prezzi rispetto ai massimi degli ultimi giorni, chi ha intenzione di comprare adesso rischia di vedere prezzi ancora più bassi in un prossimo futuro. Una soluzione potrebbero essere i titoli governativi a tasso variabile (come i Cct in Italia) che però al momento rendono veramente poco. Un'altra alternativa potrebbe essere quella di realizzare una parte del portafoglio dove si è guadagnato di più e tenersi liquidi per un po' in attesa che la situazione si chiarisca. Oppure, per chi crede che questo sia solo un movimento passeggero si può cogliere l'opportunità di una correzione dei prezzi dei titoli azionari in Borsa per aumentare il proprio profilo di rischio. I consigli dei gestori in questa fase, oscillano tra questi tre consigli operativi.Per non sbagliare occorre sempre tener d'occhio l'evolversi della situazione negli Stati Uniti. Le ultime minute della Fed indicano che i governatori americani hanno discusso della possibilità di rialzare i tassi ma non hanno preso alcuna decisione riguardo al quando e al come. Preoccupa il settore immobiliare per i prezzi alti raggiunti in alcune località e per la scarsità di nuove costruzioni. E preoccupa l'andamento della Cina. Il prossimo ottobre la banca centrale terminerà gli acquisti mesili di bond sul mercato e a quel punto l'economia dovrà viaggaire con le proprie gambe con un tasso di disoccupazione che dovrà essere sceso intorno al 6% (la metà di quel 12% toccato al picco della crisi nel 2009). Sul rialzo dei tassi Usa gli economisti hanno diversi pareri: "Un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti non arriverà prima del 2015 - spiega ancora Donovan - ma persiste incertezza su quanto presto e quanto velocemente salirà il costo del denaro. Molto dipenderà dai dati sulla crescita del Pil e sul mercato del lavoro". Eccoci dunque al riepilogo di questo delicato momento: sembra probabile che in fronte a noi vi saranno alcuni mesi di incertezza derivanti da instabilità politica e dati sulla crescita economica in Europa ancora insufficienti. Questa incertezza potrebbe portare all'uscita di capitali dall'Europa e a un rialzo degli spread nei paesi con gli indebitamenti più elevati e i tassi di crescita più bassi. Uscita di capitali dalla zona euro e progressivo aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti significa indebolimento dell'euro rispetto al dollaro che dovrebbe facilitare le esportazioni dei paesi europei verso il resto del mondo e portare così maggiore crescita nel Vecchio Continente e maggiore inflazione allontanando così il rischio di una deflazione, cioè crescita zero sia dell'economia sia dei prezzi. Questo scenario potrebbe essere messo in discussione solo da un risultato del voto che portasse in Francia e in Germania i partiti anti-euro a prendere il sopravvento. L'investitore può dunque scegliere tra prendere profitto dei guadagni accumulati sinora, stando per qualche mese alla finestra: restare fermo e mantenere gli investimenti nella consapevolezza che la situazione si riaggiusterà nell'arco di qualche mese, oppure anche approfittare di prezzi più bassi per incrementare la posizione in azioni a discapito delle obbligazioni. Ma operando in tale direzione si aumentano le possibilità di guadagno ma il rischio che un individuo è in grado di affrontare.

13.5.14

Lombroso fa arrabbiare i neoborbonici

Cosa avrebbe ponderato Cesare Lombroso se avesse avuto la ventura di incontrare Scilipoti Insospettabilmente i due potevano piacersi: bassini e tendenti alla pinguedine, in comune la professione e l’interesse per la medicina non convenzionale. La gustosa scenetta è disattesa da uno dei primi slanci situazionisti dell’ex Italia dei Valori, messosi in testa a un drappello di neoborbonici inferociti dal fondatore dell’antropologia criminale.




A che pro? Correva l’anno 2010. In seguito alle celebrazioni dei 150 anni dello stato italiano e al rinnovato clima nostalgico duosiciliano, un centinaio di manifestanti fomentati dal libro Terroni di Pino Aprile (nel quale si parla di improbabili lager e fosse comuni per migliaia di napoletani passati per le armi piemontesi), in un clima da ultras in cui Savoia e Mazzini finivano nello stesso bieco calderone insaporito dai coretti “Garibaldi boia/Anita la sua troia”, marciavano alla volta del riallestito museo Lombroso di Torino, chiuso al pubblico per decenni. Alla testa, insieme al secondo voltagabbana più celebre d’Italia – recentemente superato da quell’abruzzese che imita un personaggio di Crozza – l’avvocato Colacino, sindaco di Motta S. Lucia, comune della provincia di Catanzaro ove ebbe i natali Giuseppe Villella, presunto brigante e feticcio di quei rabdomantici cercatori di eroi sudisti. I cento reclamavano brevi manu il celebre teschio di Villella, esposto nel museo in quanto catalizzatore della celebre e infondata teoria dell’atavismo criminale di Lombroso: il geniale scienziato pasticcione vi aveva riscontrato una presunta malformazione, la celebre fossetta occipitale situata a supporto del cervelletto che fu assunta come dimostrazione del legame tra criminale ed esseri inferiori sulla scala evolutiva. Colacino nel mentre si diceva discendente diretto di Villella, unico mezzo per richiederne le spoglie mortali. Così, mentre la seria questione meridionale veniva diluita in un milieu culturale non così dissimile da quello dei supporter anti scie chimiche e microchip sottocutanei, una causa era avviata e il giudice del Tribunale di Lamezia Terme Gustavo Danise ha disposto la sepoltura dell’ambìto cranio; l’appello è previsto per il prossimo dicembre. Peccato che un documentatissimo testo di recente pubblicazione, Lombroso e il brigante di Maria Teresa Milicia, antropologa concittadina di Colacino e Villella, dimostra che quest’ultimo brigante non era: un modesto ladruncolo di caciotte morto in carcere per cause naturali piuttosto, ben lontano dalla figura autenticamente idealista di un Passannante. Disinnescando inoltre le accuse di razzismo anticalabrese del deamicisiano Lombroso. Del clima velenoso paga le conseguenze Silvano Montaldo, giovane direttore del museo che nel suo allestimento si presenta rigoroso e imparziale, con una encomiabile cura per gli aspetti controversi e il valore euristico e storico delle teorie dell’alienista ottocentesco: lamenta di essere stato abbandonato anche dalle istituzioni locali e non poter avviare l’ampliamento del museo con le sezioni sul paranormale e sul genio, con il cranio di Alessandro Volta in attesa. Tutto questo mentre alcune teorie lombrosiane stanno clamorosamente tornando in auge, come peraltro evidenziato dall’ottimo volume di Emilia Musumeci Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Esperimenti come quelli di Libet mostrano come l’istante in cui un soggetto diviene consapevole di compiere un’azione è successivo a quello in cui è attivata l’area cerebrale interessata: la volontà cosciente potrebbe solo selezionare quali iniziative portare avanti o quali bloccare, con un potere di libero veto più che di libero arbitrio. Tutto in direzione dell’impossibile imputabilità dei natural born killer, cavallo di battaglia lombrosiano. Non solo: le nuove tecniche di neuroimaging ci mostrano le inequivocabili malfunzionalità dei cervelli di assassini o antisociali – in particolare, le atrofie del lobo frontale rilevate negli studi di Blake e in quelli di Raine, fino al classico caso di Phineas Gage, il ferroviere trafitto da una lancia in zona frontale che, sopravvissuto, si trasformò da esemplare padre di famiglia in individuo patologicamente irresponsabile. E se Lombroso avesse ragione?


Maria Teresa Milicia. Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Salerno ed., Roma, 2014. Pp. 168, euro 12.
Emilia Musumeci. Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Devianza, libero arbitrio, imputabilità tra antiche chimere ed inediti scenari. Franco Angeli ed., Roma, 2012. Pp. 208, euro 27.

12.5.14

Fisco, 730 e Unico precompilato. Tutto quello che bisogna sapere

Stefano Latini
L'onda lunga del modello pre-compilato bussa oramai anche alle porte dell'Italia. Una dichiarazione dei redditi a toni e con ruoli inversi. In pratica, il Fisco la compila, la trascrive e dopo aver raccolto i dati e i profili tributari del contribuente la invia, rigorosamente via Internet. I risparmi che promette questa novità sono stimati a livelli non alti ma stellari. Più complesso invece, quasi oscuro, l'insieme di criticità e di complessità procedurali da seguire, o da inseguire, per raggiungere un livello accettabile d'invio e di ricezione finalmente emissario di risparmi significativi. Ma vediamo nel dettaglio.
Le possibili modalitàPre-filled o pre-compilled. O ancora, l'ultima, pre-populated. La varianza nei nomi sotto i quali si identifica l'inserimento di procedure per l'invio, e il trattamento, di dichiarazioni dei redditi pre-compilate è sufficientemente indicativo d'un fenomeno in crescita, ma non da ora. Si tratta, infatti, di un obiettivo che ha anticipato l'avvento di Internet. Piuttosto, la chance di coinvolgere successivamente la Rete, il Web e le diverse strumentazioni che queste piattaforme offrono ha semplicemente rilanciato un progetto che un lungo elenco di amministrazioni finanziarie, ultima arrivata l'agenzia delle Entrate sudafricana, avevano , nel corso degli anni, quasi abbandonato. Infatti, mentre per gli esperti, in generale, introdurre una rivoluzione come quella che sarebbe indotta dall'invio di dichiarazioni dei redditi individuali già predefinite, dove al contribuente è richiesto in via esclusiva di accettare i testi e i modelli trascritti o, al massimo, di apportare alcune modifiche marginali, ebbene un cambiamento del genere equivarrebbe ad uno scambio di ruoli tra contribuente e Amministrazione finanziaria. In pratica, quest'ultima compilerebbe e trasmetterebbe la dichiarazione al contribuente, chiamato a interpretare il ruolo di controllore e di verificatore di se stesso.
Le cifre all'estero
Una rivoluzione nient'affatto marginale. E l'esempio della Danimarca, come sottolineato più volte nell'ultimo rapporto diffuso in materia dall'Ocse, è d'aiuto per comprendere il senso di questa trasformazione sia nella pienezza degli sforzi richiesti alle Amministrazioni sia in riferimento ai termini numerici d'un possibile guadagno, e in alcuni casi persino d'una eventuale perdita sul versante dei costi.
I fattori necessari
Al di là dei risparmi, o delle eventuali maggiori spese, la realizzazione d'un progetto con al centro la dichiarazione dei redditi pre-compilata richiede la compresenza di diversi fattori. La disponibilità, da parte dell'amministrazione delle strumentazioni automatizzate e di Rete necessarie per il trattamento degli invii e dei rapporti. A seguire, un sistema fiscale che non ammetta il superamento d'una determinata soglia minima nell'elenco, solitamente lungo, di deduzioni, detrazioni, esenzioni, agevolazioni e misure speciali da cui i contribuenti possono attingere. In pratica, lo sfoltimento delle voci che generalmente incidono sul fenomeno dell'erosione fiscale deve essere innestato prioritariamente. Altrimenti si rischia il caso francese o statunitense. Anche questi Paesi, infatti, hanno puntato sulla strategia pre-compilata. Entrambi però han dovuto desistere di fronte all'infinità di norme fiscali premianti che rendevano, e rendono tutt'ora, la pre-compilazione non ardua ma impossibile.
Centrale è anche la disponibilità d'una ampia rete di intermediari e di banche dati interagenti con le amministrazioni finanziarie. Questa connessione è decisiva nel trasferimento dei dati, rapidamente, consentendo agli operatori di inserirli sulle dichiarazioni da trasmettere. Si tratta di un flusso continuo di numeri e di elenchi che coinvolge banche, assicurazioni e svariati enti pubblici. In pratica, il Fisco diviene una sorta di centrale permanente di recezione dati. Naturalmente, questo comporta anche una normativa che consenta la disponibilità, l'utilizzo e la trasmissione di questi dati che, spesso, possono esser considerati riservati.
I passi avanti sulla telematicaAl dunque, l'Italia, quindi l'agenzia delle Entrate, è ritenuta oggi essere tra i candidati più vicini ad aprire il confronto con il precompilato. Di fatto, come da analisi e studi dell'Ocse, è un ulteriore riconoscimento dei passi avanti realizzati dall'Amministrazione sul terreno del telematico, dell'informatica e dei servizi online destinati a decine di milioni di contribuenti, il 100 per cento. Per comprendere quanto questo costituisca un valore largamente riconosciuto oltreconfine, meno in patria, negli Usa, o nel Regno Unito, i contribuenti che ad oggi possono trasmettere la rispettive dichiarazione in via telematica, utilizzando i canali gestiti dal Fisco, non oltrepassano la soglia dell'80 per cento. E questo nonostante i due Paesi abbiano investito nel corso del decennio passato diversi miliardi di euro sull'autostrada telematica. E per finire, le Entrate italiane vantano anche una significativa esperienza sia nella gestione sia nell'integrazione tecnico-normativa in materia di banche dati. Insomma, tradotto «competenza».

8.5.14

Quali sviluppi futuri nella crisi ucraina?


Slavyansk magNegli occhi abbiamo ancora tutti le immagini dell'incendio alla Casa dei sindacati di Odessa, ad opera dei neonazisti del Pravij Sector, dove decine di uomini e donne, giovani e anziani, hanno trovato la morte, arse vive. Alcuni pare, siano stati giustiziati sommariamente prima che venisse appiccato il fuoco.

È sicuramente l'episodio più terribile dall'inizio conflitto in Ucraina, la cui responsabilitùà è da attribuire al governo di Majdan e all'imperialismo occidentale, che non solo hanno lasciato mano libera, ma hanno addirittura integrato nell'apparato dello stato le forze paramilitari dell'estrema destra.
Un episodio che fa sprofondare ancora di più l'Ucraina verso il baratro della guerra civile. In questo contesto, è tutta da valutare l'efficacia delle aperture fatte da Putin ieri, tra cui il ritiro delle truppe russe dai confini con l'Ucraina e la richiesta ai ribelli delle regioni orientali di posticipare il referendum separatista, previsto per l'11 maggio prossimo. Finora gli Usa e i loro alleati a Kiev hanno sempre respinto ogni proposta di mediazione che non fosse alle loro condizioni.
A 24 ore dalle celebrazioni del giorno della vittoria dell'Urss sul nazismo nella Seconda guerra mondiale, l'articolo di Alan Woods e Francesco Merli, scritto una settimana fa, sviluppa un'analisi approfondita degli avvenimenti e, delineando la necessità della difesa di una posizione di indipendenza di classe, conserva tutta la sua validità.

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In un raro momento di sincerità, ieri, (30 aprile, ndt) il presidente ucraino ad interim Turchynov ha ammesso che le proprie forze sarebbero state “troppo deboli” per sedare i disordini nell’Ucraina dell’est, data l’ascesa dell’insurrezione filo-russa. Ha ammesso anche che le forze di sicurezza ucraine non erano affidabili e che “qualcuna di queste unità ha dato aiuto o collaborato coi gruppi terroristici”. Ormai l’obiettivo è quello di impedire che l’insurrezione filo-russa si diffonda alle regioni del Kharkiv e ad Odessa. Il che equivale praticamente ad una dichiarazione di sconfitta.
 Non sono passate nemmeno due settimane dallo “storico” accordo di Ginevra del 17 aprile tra il governo ucraino, la Russia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Accordo che è stato salutato dai media occidentali con un sospiro di sollievo collettivo e accolto come una svolta nella risoluzione della crisi ucraina. In realtà dietro questa ondata propagandistica di falso ottimismo, non si può non accorgersi del nervosismo dei funzionari americani e del sorriso beffardo dei loro omologhi russi. Non c’è stato infatti nessun accordo, se non quello per cui gli USA abbandonano ogni rivendicazione rispetto all’annessione della Crimea alla Russia, che è ormai un fatto assodato.
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Il rogo della Casa dei sindacati di Odessa
Gli scoppiettanti proclami del tipo: “ci saranno conseguenze” di John Kerry si sono dimostrati solo un mucchio di aria fritta. Da stratega consumato, Putin sta muovendo i propri pezzi sulla scacchiera della diplomazia con l’abilità di un Gran maestro. I punti segnati dalla diplomazia russa nel gioco di potere che si sta svolgendo in Ucraina stanno mettendo a dura prova la pazienza degli imperialisti statunitensi, che si sono messi in una posizione insostenibile. Le loro minacce vuote non scoraggiano la Russia perché non sono mai state sostenute da fatti concreti.
Sembra incredibile che gli Americani abbiano potuto pensare di sedersi al tavolo delle trattative a Ginevra, scambiare sorrisi e conversazioni educate con la controparte e ottenere con i mezzi della diplomazia quello che non sono stati in grado di ottenere sul campo. Questa sciocca illusione è frutto di una grossa sottovalutazione sia della determinazione di Mosca che del vero equilibrio di forze in Ucraina. In conclusione, l’accordo è stato ridotto a carta straccia ancor prima che l’inchiostro si fosse asciugato.
L’accordo raggiunto a Ginevra proclamava a gran voce che tutti gli edifici occupati dai rivoltosi filo-russi nell’Ucraina dell’est avrebbero dovuto essere sgomberati e che i gruppi armati avrebbero dovuto consegnare le armi. Un discorso davvero combattivo! Tuttavia non c’era nemmeno una piccola nota su chi avrebbe dovuto mettere in pratica questa decisione ed infatti non è mai stato fatto
Poche ore dopo questo annuncio, Denis Pushilin, il capo dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, ha fatto spallucce e ha respinto l’accordo sulla base del fatto che il governo di Kiev è illegittimo, e aggiungendo con una buona dose di ironia che sarebbero stati felici di rispettare l’accordo una volta che il governo avesse sgomberato gli edifici illegalmente occupati a Kiev. Lo stesso spirito di sfida ha risuonato in tutti gli avamposti ribelli nell’area di Donetsk, incoraggiato dalle vittorie ottenute sul campo.

L’umiliante sconfitta dell’esercito ucraino
Quello che il teatrino di Ginevra ha cercato di coprire è stato il fallimento imbarazzante del governo ucraino nel tentativo del 16 aprile di riconquistare il controllo degli avamposti ribelli a Sloviansk e Kramatorsk. Tentativo arrivato dopo giorni di ultimatum mai fatti rispettare. La massiccia campagna propagandistica del governo volta a dimostrare che dietro l’insurrezione nelle regioni orientali ci siano “milizie terroriste” e il diretto coinvolgimento della Russia gli si è evidentemente ritorta contro. Può avere avuto all’inizio l’effetto di montare un’isterica combattività in una minoranza dell’opinione pubblica nazionalista ucraina. Ma questa si è sgonfiata rapidamente e si è trasformata in rabbia e frustrazione verso il manifesto fallimento del governo nel far seguire a queste dure parole fatti altrettanto duri.
Dall’altra parte invece i messaggi minacciosi lanciati da Kiev hanno avuto un effetto elettrizzante sulla popolazione del Sud-Est dell’Ucraina. Gli abitanti di quella zona prevalentemente russofona sono stati allarmati dall’implicita minaccia di un attacco da parte di un esercito agli ordini di un governo che la maggior parte di loro considera illegittimo. Ma i giorni sono passati e la cagnara bellicosa di Kiev non si è tradotta in alcuna azione concreta. Chiaramente il governo ha ritenuto di non potere fare affidamento sui propri soldati per fare il lavoro sporco nel Sud-Est. Gli avvenimenti successivi hanno dimostrato che questo timore era ben fondato.
Alla fine le truppe e i veicoli blindati ucraini hanno tentato di entrare nelle due città alle prime luci dell’alba del 16 aprile. Ma quella che voleva essere una dimostrazione di forza si è immediatamente trasformata in una dimostrazione di debolezza. I veicoli blindati sono stati circondati dalla popolazione arrabbiata, con urla di sfida e insulti ai confusi e avviliti soldati ucraini.
Il comandante di un carroarmato è stato visto fare una telefonata disperata al proprio comandante: “Sono circondato da un gran numero di persone. Cosa dovrei fare?”. Non si sa cosa abbia risposto il comandante, ma non è stato sparato nemmeno un colpo e alla fine i veicoli blindati sono stati lasciati alla folla festante. Un soldato ucraino ha gridato dalla sommità di un carro armato “Io sono contro tutto questo”, saltando giù dal veicolo e unendosi ai dimostranti. I suoi commilitoni hanno ben presto seguito il suo esempio e in pochi minuti la dimostrazione di forza era bella che finita.
Che le forze armate ucraine siano preparate ad affrontare un’invasione russa resta da vedere, ma i soldati semplici ucraini non sono certi preparati ad aprire il fuoco contro la loro stessa gente. Per tutta la mattinata sono stati diffusi in rete da giornalisti indipendenti resoconti e video che mostrano soldati ucraini demoralizzati che abbandonano armi e carriarmati e se ne vanno a testa bassa davanti a centinaia di comuni cittadini infuriati e di pochi miliziani male armati (guarda: Il tentativo dell’Ucraina di riconquistare l’Est fallisce miseramente).
Le forze armate ucraine sono state inviate nella regione senza alcuna seria preparazione. Molti dei soldati che sono stati mandati contro gli insorti provenivano da zone vicine e alcuni di loro si sono lamentati di non avere avuto cibo sufficiente per settimane. Le conseguenze di questa umiliazione, che diventeranno sempre più evidenti nel prossimo periodo, avranno effetti a lungo termine. L’autorità del governo su generali e soldati, che non è mai stata particolarmente salda, ha ora raggiunto nuovi minimi tra le fila delle truppe e anche tra gli ufficiali, fino ai livelli più alti.

L’ipocrisia dell’Occidente
La campagna dei media occidentali che tenta di attribuire la colpa di tutto alla Russia puzza di ipocrisia. I portavoce della Casa Bianca si richiamano solennemente ai principi del diritto internazionale che vietano l’interferenza di un Paese negli affari di un altro per condannare le azioni di Mosca in Crimea e in qualche modo riescono a farlo mantenendo un’espressione seria sulla faccia. Come però lo stupro brutale di Iraq e Afghanistan possa essere conciliato col rispetto di questi stessi principi resta un mistero. Ma d’altronde è sempre stato il compito della diplomazia far quadrare il cerchio, sostenere che il bianco sia nero e fare le più vergognose affermazioni senza arrossire.
Per più di vent’anni l’imperialismo americano ha imperversato per il mondo, invadendo Paesi, rovesciando governi, perseguitando stati sovrani e spiando i propri alleati, bombardando, uccidendo, torturando e in generale imponendosi con la forza dappertutto. Tutto questo naturalmente nel pieno rispetto del diritto internazionale. Ma se qualcuno prova a resistergli Washington immediatamente piange e si dispera. Si comporta come un bullo a scuola, che è abituato a ottenere tutto ciò che vuole come gli pare ma quando riceve un pugno sul naso corre dalla maestra lamentandosi di essere stato vittima di un attacco gratuito.
Gli americani usano colpevolmente due pesi e due misure. Hanno attivamente sostenuto il rovesciamento del governo Yanukovych, cosa che hanno presentato (come sempre in questi casi) come un movimento per la democrazia, nonostante il fatto che elementi apertamente fascisti vi abbiano giocato un ruolo chiave. Ora che il popolo del Sud-Est ucraino ha preso in mano le redini del governo locale e ha cacciato i rappresentanti di Kiev con gli stessi metodi, continuano a dire che si tratta di un atto illegittimo e dell’opera di agenti Russi.
I lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina non avevano illusioni in Yanukovich, ma sono fortemente ostili al nuovo governo di Kiev, il cui primo atto è stato abrogare la legge che dava al russo lo status di lingua ufficiale a livello regionale. È stato come mostrare un drappo rosso ad un toro per i russofoni ucraini. La rivolta è stata tale che il presidente ad interim Turchynov è stato costretto a dichiarare che avrebbe posto il veto sulla legge che abrogava il russo come lingua ufficiale.
A peggiorare le cose, le condizioni di vita sono crollate e i prezzi sono saliti, specialmente quelli del carburante. Per aggiungere la beffa al danno, gli oligarchi legati alla nuova cricca al potere a Kiev sono stati ben presto nominati governatori delle regioni del Sud e dell’Est. Così il terzo uomo più ricco del Paese, Kolomoisky, è stato nominato governatore di Dnipropetrovk, mentre Serhiy Taruta, il sedicesimo uomo più ricco del Paese, è diventato governatore di Donetsk. La conseguenza è stata un malcontento crescente. L’intera regione si è trasformata in una polveriera che aspettava solo una scintilla per esplodere. Non è stato il Cremlino a dare vita a questa polveriera, ma le azioni della cricca dominante di Kiev e dei suoi sostenitori imperialisti.
Per vari mesi i media occidentali hanno provato a ritrarre il cosiddetto movimento Maidan con toni rosei, come un movimento per la “democrazia”. Hanno spudoratamente nascosto il ruolo chiave giocato da organizzazioni apertamente fasciste e naziste nel rovesciamento di Yanukovich. Elementi fascisti sono presenti nel governo di Kiev e dettano molte delle sue politiche, incluso il tentativo di bandire la lingua russa. Hanno cominciato a riscrivere la storia parlando dei seguaci di Bandera, che hanno collaborato coi nazisti e perpetrato atrocità contro Russi, Polacchi ed Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, come eroi nazionali. I reazionari di Kiev bollano chiunque non sia d’accordo con loro come “schiavi” o lacchè dei Russi. La deputata di Leopoli, in Ucraina occidentale, Iryna Farion ama riferirsi ai russofoni come “animali”.
Nessun politico occidentale potrebbe cavarsela con tale linguaggio. Tuttavia la poplazione in Occidente, che si basa sulle notizie riportate dai media, non ha idea di quanto la reazione si sia spinta avanti in Ucraina. Perciò quando vedono servizi su uomini armati che occupano palazzi governativi nel Sud-Est del Paese, l’unica spiegazione che possono darsi è che tutto ciò sia opera di forze oscure inviate da Mosca.
Kiev, Leopoli e le altre città dell’Ucraina occidentale sono nella morsa del Terrore Bianco. I comunisti vengono malmenati e le loro sedi saccheggiate e date alle fiamme dalle bande fasciste. Ad esempio, gli uffici del Partito Comunista (KPU) a Kiev sono stati saccheggiati da delinquenti di estrema destra provenienti dall’area neo-nazista e dal “Gruppo di autodifesa” di Maidan il 9 aprile e più tardi quella stessa notte ha subito un attentato incendiario. Le sedi del KPU sono state attaccate anche a Leopoli e in altre città. Alcuni parlamentari del partito di estrema destra Svoboda (facente parte del nuovo governo) hanno malmenato il direttore della sede della TV di stato e lo hanno costretto a dimettersi. Gli stessi parlamentari di Svoboda hanno malmenato il leader del Partito Comunista Symonenko per essersi rivolto alla Rada criticando la destra nazionalista ucraina. Oleg Tsarev, un candidato che alle presidenziali dichiarava di rappresentare le regioni sud-orientali, è stato pestato da teppisti di estrema destra dopo una sua apparizione televisiva e di nuovo quando ha visitato Mikolayiv.
Il 27 aprile a Leopoli si è svolto un corteo che commemorava l’anniversario della fondazione della divisione SS Galicia dei volontari ucraini, responsabile dell’eccidio di massa di ebrei e altri oppositori. Il corteo è stato organizzato da Svoboda che è il primo partito della regione e, come abbiamo già detto, fa parte della coalizione di governo a Kiev.
Di tutto ciò non è apparsa una sola parola nella stampa occidentale. Questa scandalosa omertà organizzata rispetto al regime di terrore dell’Ucraina occidentale contrasta con i servizi palesemente distorti e faziosi a proposito dei “terroristi”, degli “agenti russi” e dei “separatisti” del Sud-est.
Non solo il partito di estrema destra Svoboda fa parte della coalizione di governo, ma uno dei suoi membri, Oleh Makhnitskiy, ricopre la carica di procuratore generale dello Stato. Andriy Parubiy, fondatore del neonazista Partito Nazionalsocialista (quindi un rispettabile politico borghese di destra), e già “comandante del gruppo di autodifesa di Maidan” è ora segretario Consiglio di Sicurezza Nazionale e di Difesa.
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Leopoli: Commemorazione della divisione SS Galicia
formata da volontari ucraini
La piccola borghesia nazionalista fanatica dell’Ucraina occidentale è mossa da un odio cieco verso tutto ciò che è russo. Ma non offre nessuna soluzione ai problemi scottanti del popolo ucraino. Il sogno per cui l’Ucraina avrebbe potuto risolvere i propri problemi avvicinandosi all’Occidente si è rivalato subito come un’illusione senza speranza. L’aiuto promesso dall’Occidente a sostegno dei propri tirapiedi di Kiev (che comunque sono davvero pochi) è arrivato subordinato a vincoli ben precisi. Hanno chiesto “riforme”, che significa tagli feroci alle condizioni di vita e ai servizi. Il Ministro delle Finanze Oleksandr Shlapak ha già promesso “riforme strutturali”, “liberalizzazioni” e “riduzione del deficit di bilancio”, e non serve una laurea per capire cosa comporta un memorandum dell’Unione Europea e dell’FMI!
Tutto ciò ha ulteriormente allontanato i lavoratori e le lavoratrici di Donetsk, Lugansk o Kharkiv, che ora guardano con invidia ai salari più alti e alle migliori condizioni dei propri colleghi della Federazione Russa. Così i cosiddetti patrioti ucraini sono riusciti a costruire un solido muro tra Ovest ed Est dell’Ucraina, in grado di minacciare l’esistenza stessa dell’Ucraina come nazione.
La situazione si è deteriorata a tal punto e la popolazione del Sud-Est è talmente arrabbiata che qualsiasi tentativo da parte del governo di Kiev di risolvere la questione sud-orientale con la violenza sfocerebbe in una vera e propria sanguinosa guerra civile. Fino ad ora tutti i tentativi del governo di riaffermare la propria autorità sulla regione sono finiti in farsa.

L’insurrezione nel Sud-Est
Coloro che pensano che sia la Russia a tirare i fili nell’Ucraina sud-orientale sono colpevoli di una grave incomprensione della complessità della regione, della sua composizione nazionale e sociale e del suo legame storico con la Russia. La regione di Donbas comprende il 10% della popolazione ucraina, ma produce il 25% delle esportazioni del Paese. I suoi abitanti, per la stragrande maggioranza russofoni, sono di estrazione prevalentemente proletaria, lavorano nelle miniere, negli impianti chimici e siderurgici e nelle fabbriche di macchinari. Guardano con profonda diffidenza alle manovre per sottrarre l’Ucraina alla sfera d’influenza Russa e portarla sotto il controllo dell’imperialismo occidentale. Da un punto di vista economico l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea significherebbe la rovina per le loro industrie, che dipendono pesantemente dall’esportazione verso il mercato russo.
I lavoratori di Donetsk non hanno bisogno che sia Vladimir Putin a dire loro che le loro aziende chiuderanno una volta che l’Ucraina sarà entrata nell’Unione Europea. Possono vedere benissimo quello che è successo in Paesi come l’Ungheria, la Romania o i Paesi Baltici quando sono entrati nell’Unione Europea. O ancora l’integrazione della Russia nell’economia capitalista globale, che ha portato all’esportazione di risorse naturali, con conseguente chiusura di migliaia di fabbriche. Qui il problema non è un problema nazionale, ma un problema del sistema capitalistico in sé. La rovina economica, la disoccupazione di massa e l’aumento del costo della vita colpisce tutti: gli Ucraini, i Russi, gli Armeni o gli Ungheresi, sono tutti vittime della crisi del capitalismo e del dominio degli oligarchi.
Alla questione economica dobbiamo aggiungere la questione dell’oppressione nazionale e linguistica. Dal punto di vista dei russofoni, la dominazione dei nazionalisti ucraini della regione occidentale del Paese rappresenta una potenziale minaccia allo status di lingua ufficiale del russo e la possibilità che la popolazione della regione sud-orientale possa diventare una minoranza nazionale oppressa e cittadini di seconda categoria nel proprio stesso Paese. È quindi così sorprendente che tentino di difendersi?

Siamo davanti ad una riedizione della Crimea?
Washington sostiene che l’occupazione degli uffici governativi sia stata portata avanti da soldati professionisti ben armati. Ma tutte le testimonianze non supportano questa tesi. Sebbene non sia impossibile che ci siano agenti russi attivi nella regione (anzi, sarebbe sorprendente il contrario, così come sarebbe sorprendente che non ci fossero agenti della CIA a Kiev), i servizi televisivi e gli articoli della stampa indicano che queste azioni sono opera di gente del posto e milizie armate locali. Il fatto che essi siano “ben armati” non è sorprendente, dal momento che sono state assaltate le caserme dell’esercito e le stazioni di polizia e sono state prese le armi. Addirittura in molti casi la polizia locale è passata dalla parte dei ribelli, combattendo al loro fianco.
Non è nemmeno chiaro se Putin al momento intenda inviare le proprie truppe oltre il confine. La rivista Time cita Vyacheslav Ponomaryov, titolare di un azienda produttrice di sapone che ha preso il titolo di “sindaco del popolo” dopo la presa del potere a Slaviansk: “Abbiamo bisogno di armi, capite? Siamo a corto di tutto tranne che di entusiasmo”, ha invocato l’aiuto da parte della Russia, ma a quanto pare è stato ignorato. Il Time commenta:
“La sua milizia, ammette, è formata in parte da volontari provenienti dalla Russia, dalla Bielorussia, dal Kazakistan e da altre zone dell’ex Unione Sovietica. Ma le lamentele di Kiev riguardo ad un’insurrezione separatista alimentata con denaro, armi e truppe dal governo russo non c’entra niente con la realtà di Slaviansk.”
“I combattenti ben armati come Mozhaev costituiscono una piccola minoranza delle milizie di Ponomaryov, forse poche centinaia di uomini al massimo, insieme ad un certo numero di Cosacchi. Noti come “uomini verdi” per le divise mimetiche che indossano, questi membri della milizia non sono ben addestrati e ben equipaggiati come i soldati russi che hanno occupato la Crimea il mese scorso. Se c’è una presenza militare russa in questo momento a Slaviansk è rimasta fuori o è ormai fuori dalla scena pubblica”.
(Esclusiva: incontro con i separatisti filo-russi dell’Ucraina orientale, Time, 23 aprile)
Gli elementi attivi nell’occupazione di palazzi governativi locali sono relativamente pochi, forse poche migliaia in tutto. Comunque, non è questo il punto. L’elemento più importante dell’equazione è l’atteggiamento della maggioranza della popolazione. Sebbene non vi abbia preso attivamente parte, è chiaro che la maggior parte della popolazione guarda con favore all’insurrezione. Non si ha notizia di grandi dimostrazioni a sostegno del governo di Kiev o di qualche serio tentativo di sgomberare i ribelli dai palazzi occupati. E nell’eventualità di un attacco da parte di forze militari inviate da Kiev questa simpatia passiva potrebbe trasformarsi molto rapidamente in rabbia e sostegno per un intervento militare russo.
Un sondaggio d’opinione, condotto all’inizio di Aprile dall’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev in 8 regioni del Sud e dell’Est dell’Ucraina, dà uno scorcio molto interessante sul sentimento comune tra le masse. In tutte e 8 le regioni il 49,6% considera illegittimo il governo di Yatsenyuk (e un ulteriore 13% lo considera parzialmente illegittimo), con punte del 72% a Donetsk e del 70% a Lugansk. Riguardo alla forma di governo che sceglierebbero per l’Ucraina il 45% si dichiara favorevole ad una decentralizzazione del potere, a questi si aggiunge un 24,8% favorevole al federalismo, e più dell’86% vorrebbe l’elezione diretta dei governatori locali (in contrapposizione all’attuale nomina da Kiev). Riguardo alle relazioni con la Russia e con l’Unione Europea il 42% è favorevole alla creazione di una unione doganale con la Russia (percentuale che sale al 72% a Donetsk e al 64% a Lugansk) contro il 24% favorevole all’integrazione nell’Unione Europea.
Forse però la questione più interessante, che mostra quale potenziale ci sia per un’alternativa di classe, è quella riguardo ai possedimenti degli oligarchi. In tutte e 8 le regioni il 41% dichiara che le proprietà acquisite illegalmente dagli oligarchi dovrebbero essere nazionalizzate, ma un ulteriore 24% dichiara che tutte le proprietà dovrebbero essere nazionalizzate, e solo un misero 4% risponde che la proprietà privata dovrebbe essere rispettata.
Il 19 aprile la rivista Time ha pubblicato quanto segue, il che dà un’idea del sentimento della maggioranza passiva della popolazione:
“Deduk, un avvocato del posto, non ne è così sicura. Seduta su una panchina con suo figlio Stepan ai margini della manifestazione, ha detto che la maggior parte della gente che conosce è ben contenta di tenersi fuori dagli scontri e che se la Russia arrivasse e conquistasse la regione come ha fatto con la Crimea il mese scorso, loro con ogni probabilità si limiterebbero a fare spallucce e ad accettarlo come proprio destino. “La gente si è dimenticata di tutti gli orrori che abbiamo passato sotto Mosca al tempo dell’Unione Sovietica”, ha affermato. “Tutto quello che ricordano è che i salari venivano pagati e che l’assistenza sanitaria era gratuita.””
(Donetsk saluta la crisi ucraina con una scrollata di spalle, Time, 19 aprile)

Cosa vuole Putin?
Gli sconvolgimenti in Ucraina orientale hanno riacceso in Occidente la paura che la Russia possa ripetere quello che è successo con l’annessione della Crimea. La presenza di 40mila soldati russi sul confine non fa che alimentare questi timori, ai quali, se si concretizzassero, l’Occidente non sarebbe in grado di rispondere. La sua impotenza si è palesata in maniera ridicola quando la NATO ha inviato di recente un gran numero di forze, non meno di 600 soldati americani, nei Paesi Baltici! In primo luogo non c’è assolutamente motivo di credere che la Russia abbia intenzione di invadere i Paesi Baltici, e qualora l’avesse è alquanto improbabile che 600 marines, anche qualora fossero tutti Rambo, possano fare la differenza. Questo è un esempio del livello di idiozia diplomatica e militare.
odessa borotba
Una manifestazione dell'organizzazione
di sinistra "Borotba" a Odessa
In ogni caso, sembra probabile che gli obiettivi di Putin siano più limitati e sottili di questo. Infatti le azioni russe non hanno carattere offensivo, ma difensivo. Sin dalla caduta dell’URSS l’imperialismo statunitense ha condotto una strategia a lungo termine volta a sottrarre una dopo l’altra le ex Repubbliche Sovietiche dalla sfera d’influenza russa. Ma ora, nel caso dell’Ucraina, Mosca ha deciso di puntare i piedi. La Russia sta dicendo all’Occidente: “Adesso basta!”. È determinata ad impedire l’uscita dell’Ucraina dalla propria orbita economica e militare.
Gli Americani e l’Unione Europea vogliono prendere il controllo dell’Ucraina, mentre i Russi vogliono mantenerla nella propria sfera d’influenza. L’obiettivo dell’Occidente è più difficile da raggiungere, mentre quello della Russia e di gran lunga più semplice. Non hanno bisogno di invadere l’Ucraina, dal momento che hanno molte altre frecce al proprio arco, specialmente quelle di tipo economico. Al fine di presentare la propria politica in modo ragionevole, il Cremlino ha avanzato quella che sembra una richiesta molto moderata: l’adozione di un sistema federale che conceda molto più potere ai governatori locali in Ucraina.
Una struttura simile indebolirebbe il governo centrale di Kiev e garantirebbe che l’Ucraina non diventerà mai anti-russa. In pratica si tratterebbe di una “finlandizzazione” dell’Ucraina. Qualunque governo arrivasse al potere a Kiev, non potrebbe fare nulla senza tenere in considerazione il punto di vista di Mosca. E non ci sarebbe assolutamente nessuna discussione sul fatto che l’Ucraina non aderirà mai né alla NATO né all’Unione Europea. Per quanto questo esito possa risultare indigesto a Washington e a Bruxelles, al momento è il meglio che possano sperare.

E adesso?
È impossibile prevedere con certezza quello che succederà nelle prossime settimane. La sola cosa certa è che l’imperialismo ha appena subito una sconfitta e non riuscirà a riprendersi.
C’è una serie di possibilità, nessuna delle quali veramente appetibile per l’Occidente. La prima possibilità si basa sull’esito delle prossime elezioni presidenziali. La Russia è già riuscita a destabilizzare in larga misura queste elezioni e a mettere in dubbio la legittimità di chiunque venga eletto. Il nuovo regime sarà debole e sottoposto a forti pressioni da Mosca. Se la Russia non riuscirà ad ottenere un candidato di proprio gradimento, continuerà a premere per una costituzione federale che le permetterà di esercitare il proprio veto sulla politica estera, economica e militare.
Fino ad ora nessun candidato è ufficialmente alleato con Mosca. Mikhail Dobkin, il candidato del Partito delle Regioni (il partito di Yanukovich) potrebbe essere quello preferito da Mosca, ma ha ben poche se non nessuna possibilità di vincere. Dall’altra parte c’è Yulia V. Tymoshenko, che è stata uno dei leader della cosiddetta Rivoluzione Arancione, ma che aveva convenientemente costruito una stretta collaborazione con Putin quando era primo ministro. Fino ad adesso si è tenuta in disparte, ma in futuro potrebbe essere un candidato di “compromesso”.
In ogni caso nessun leader ucraino avrà il coraggio di resistere a Putin, che ha in mano le forniture di petrolio e di gas e 40mila soldati sul confine e un’influenza dominante su gran parte della popolazione ucraina. Inoltre le economie di Russia e Ucraina sono inestricabilmente legate: un terzo delle esportazioni ucraine sono dirette in Russia.
Il secondo possibile esito sarebbe anche peggio per l’Occidente. Se il governo di Kiev non sarà in grado di riprendere il controllo sulle regioni orientali, si potrebbe finire in una situazione simile a quella che si è verificata in Crimea. Se la popolazione delle regioni sud-orientali tenesse un referendum sull’annessione alla Russia, il risultato sarebbe quasi certamente in favore della secessione. Allora l’Ucraina così come la conosciamo cesserebbe di esistere.
I contestatori di Donetsk hanno già annunciato la volontà di indire un tale referendum per l’11 maggio. Tuttavia è significativo che Mosca non abbia immediatamente appoggiato la proposta. Putin si sta comportando con cautela, lasciandosi aperte tutte le strade. Se riuscisse a raggiungere i suoi obiettivi fondamentali senza dover pagare il prezzo di un intervento militare né quello che deriverebbe dal doversi accollare l’economia ucraina in bancarotta, ne sarebbe naturalmente ben contento. Tuttavia la caratteristica instabilità della situazione fa sì che non sia completamente libero di scegliere.
Questo ci porta al terzo esito possibile: un’invasione su vasta scala. Questa eventualità è verosimile? Per mesi i media occidentali hanno montato una campagna propagandistica isterica su una presunta aggressione militare russa in Ucraina. Tuttavia tale aggressione militare fino ad ora non si è concretizzata. Le truppe stanziate sul versante russo del confine sono state impiegate in una serie di manovre, ma niente di più.
Le ultime dichiarazioni di Americani e Russi sembrano suggerire che stiano cercando di raggiungere un compromesso sottobanco. Ieri Putin ha dichiarato che la Russia non ha nessuna intenzione di invadere l’Ucraina. È possibile che si tratti soltanto di un bluff. Prima di ogni guerra i leader dei paesi coinvolti hanno sempre fatto dichiarazioni del genere poco prima di lanciare l’attacco. Comunque in questo caso non ci sono motivi per dubitare della sincerità delle dichiarazioni d’intenti di Vladimir Putin.
In questo momento Putin non ha alcun bisogno di invadere l’Ucraina, dal momento che ha raggiunto il suo obbiettivo principale. Chiunque sia a capo del governo di Kiev deve ora capire molto chiaramente che non potrà fare nulla senza il permesso di Mosca e che tutte le altisonanti dichiarazioni di solidarietà provenienti da Washington e da Bruxelles in pratica non contano nulla quando si trovano a scontrarsi con la Russia.
Comunque, come abbiamo spiegato in articoli precedenti, il dipanarsi della crisi ucraina ha una propria logica che non può essere controllata facilmente né da Kiev, né da Mosca, né da Washington. Più il governo di Kiev si indebolirà, più sarà incline a ricorrere a misure disperate. Di fronte alla possibilità di disintegrazione dell’esercito ucraino, il governo di Kiev ha cominciato a mettere in piedi un corpo armato alternativo. La Guardia Nazionale ha già aumentato le proprie dimensioni con l’integrazione del Gruppo di Autodifesa di Maidan e di altri gruppi armati paramilitari. Come se non bastasse, il Ministro degli Interni ha annunciato la creazione di unità o battaglioni di Autodifesa Territoriale, formati dalla feccia della società ucraina: fascisti, ultranazionalisti, sottoproletari, criminali e ogni tipo di avventurieri che sono pronti a perpetrare le azioni più estreme e brutali che i soldati comuni si rifiutano di compiere. L’ala nazista ha già dichiarato che si unirà al Battaglione Donbas per “combattere i separatisti”.
Questa misura è frutto di una disperazione nata dall’impotenza. Non è difficile immaginare cosa potrebbe arrivare a fare una milizia armata simile se inviata nel Sud-Est dell’Ucraina. Lo spettro della Yugoslavia rialza la sua orribile testa: massacri e pulizia etnica, un’ondata di profughi verso oriente e verso occidente e tutte le inevitabili conseguenze di una guerra civile. In queste condizioni, qualunque potessero essere le intenzioni originarie di Putin, un intervento della Russia diventerebbe inevitabile.

Le conseguenze per la Russia
Un’invasione russa sarebbe davvero rischiosa per Vladimir Putin. Il consenso nei suoi confronti ha superato il 70% dopo l’annessione della Crimea. Ma è stato ottenuto senza violenza e senza la perdita di un solo soldato russo. Il popolo della Crimea ha accolto l’esercito russo come un liberatore e questa immagine è arrivata alla maggioranza della popolazione russa. Dopo decenni di umiliazione nazionale, il popolo russo nella sua totalità ha tirato un sospiro di sollievo. Vladimir Putin potrebbe crogiolarsi al sole dell’approvazione pubblica, almeno per un po’.
La gran parte della sinistra in Russia è in uno stato di profonda depressione. Vede crescere il sentimento nazionalista tra la classe lavoratrice ed è disperata. Ma in generale la sinistra russa è ormai completamente aliena alla classe lavoratrice e incapace di trovare con essa un terreno comune. Non è assolutamente vero che i lavoratori russi siano diventati reazionari perché provano simpatia per i loro fratelli e sorelle oppressi in Ucraina e ostilità per il fascismo ucraino.
Inoltre lo stato d’animo della società può cambiare rapidamente. Nel 1914 lo spirito patriottico in Russia era molto più forte che adesso eppure appena tre anni dopo gli stessi lavoratori che sventolavano la bandiera zarista hanno sventolato la bandiera rossa e combattuto per il potere sovietico.
Sebbene l’esercito russo potrebbe infliggere senza dubbio una pesante sconfitta all’esercito ucraino, la vittoria non sarebbe tanto a buon mercato quanto lo è stata in Crimea. Ci sarebbero molte vittime russe e ci si dovrebbe preparare al peggio. Il revanscismo e l’odio nazionale che sarebbero generati da una guerra simile durerebbero per generazioni e produrrebbero frutti velenosi sottoforma di attacchi terroristici e altre atrocità. L’esperienza della Cecenia insegna che una vittoria militare può avere un prezzo più alto di una sconfitta.
Le conseguenze economiche, non solo per la Russia e l’Ucraina ma per tutto il mondo, sarebbero incalcolabili. La cosiddetta ripresa dell’economia globale è debole e fragile. Il boom febbrile delle Borse è una conseguenza di una sfrenata speculazione finanziaria, non di una solida crescita economica. La bolla speculativa può scoppiare in qualsiasi momento, gettando l’economia mondiale in un profondo abisso. I mercati non sopportano alcun tipo di instabilità e un’invasione russa dell’Ucraina provocherebbe senza dubbio un fuggi fuggi sui mercati finanziari. Il Paese più colpito sarebbe la Russia stessa.
Putin può permettersi di ridere delle pietose “sanzioni” minacciate dalla codarda Unione Europea, ma deve preoccuparsi seriamente della fuga di capitali dai mercati Russi (60miliardi di dollari nel primo trimestre del 2014) e della caduta del rublo. L’economia russa è già in recessione (è calata dello 0,3% nel primo trimestre del 2014). Il costo economico di un’invasione e un brusco crollo dell’economia russa potrebbero ribaltare rapidamente il favore di cui gode presso la popolazione, cosa che gli sta molto a cuore. L’eroe della Crimea si trasformerebbe in un attimo nel responsabile della rovina della Russia. Un crollo economico aprirebbe gli occhi alla classe operaia russa che si libererebbe velocemente dall’intossicazione dei fumi patriottici. Si preparerebbe il terreno per una nuova impennata della lotta di classe in Russia. Questa è la motivazione dell’improvvisa e sorprendente conversione di Putin al “pacifismo”.
Condanniamo il comportamento ipocrita e reazionario dell’imperialismo occidentale in Ucraina. È dettato soltanto dagli interessi personali degli imperialisti statunitensi e dei loro scagnozzi di Bruxelles e di Berlino. Non sono interessati per nulla al destino del popolo ucraino che è soltanto una pedina nei loro cinici calcoli.
Ma sarebbe un grave errore nutrire una qualche illusione in Putin e nella cricca del Cremlino. Stanno sfruttando il legittimo desiderio della popolazione russofona dell’Ucraina sud-orientale per fare pressione sul governo di Kiev. Cercano di tenere sotto controllo l’Ucraina e di proteggere “gli interessi russi”: in poche parole, gli interessi dei grandi capitalisti che hanno devastato la Russia, proprio come gli oligarchi ucraini (parlino essi russo o ucraino) hanno saccheggiato l’Ucraina. La classe lavoratrice non deve sostenere in alcun modo nessuna delle due parti, ma mantenere in ogni momento una posizione di indipendenza di classe.

Nazionalismo o lotta di classe?
Nelle ultime settimane persino la stampa occidentale è stata costretta ad ammettere che mentre il movimento Maidan è composto prevalentemente da elementi della classe media e della piccola borghesia il movimento delle regioni sud-orientali è fondamentalmente un movimento dei lavoratori. Il recente sciopero dei minatori della regione di Donbass è un indicatore del potenziale presente per un’azione di classe indipendente.
Tuttavia la questione nazionale rischia di spaccare il fronte di classe, e c’è la possibilità concreta che il movimento delle regioni sud-orientali venga manipolato da elementi senza scrupoli e oligarchi russofoni che giocheranno la carta della questione nazionale per difendere i propri interessi. Ancora peggio, la minaccia proveniente dai nazionalisti estremisti ucraini, inclusi nazisti e fascisti, può incoraggiare lo sviluppo di tendenze ultranazionaliste russe e di elementi appartenenti al gruppo fascista delle Centurie nere di natura altrettanto inquietante. Non c’è bisogno di dire che qualsiasi tendenza di questo genere è nemica della classe lavoratrice, sia che si trovi sotto la bandiera ucraina sia che si collochi sotto quella russa, ed è necessario opporvisi con ogni mezzo.
La situazione resta estremamente instabile e soggetta a cambiamenti repentini. L’esito finale è incerto. La retorica violenta delle pubblicazioni dei nazionalisti ucraini è in totale contrasto con i rassicuranti discorsi dei diplomatici e con l’accordo di Ginevra. La creazione di una milizia ucraina fascista è una minaccia diretta alla classe operaia. Si sono scatenate dinamiche che non è facile tenere sotto controllo.
Sosteniamo in pieno la necessità del movimento dei lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina di armarsi e organizzarsi per difendersi dal governo reazionario di Kiev e dalle bande fasciste che stanno organizzando pogrom sotto la sua protezione. Sosteniamo la necessità che il movimento prenda il controllo del governo locale e cacci via i governatori corrotti e reazionari.
Tuttavia i lavoratori devono restare vigili per assicurarsi che le loro coraggiose azioni non vengano usurpate da elementi borghesi avidi e senza scrupoli che si avvolgono nella bandiera russa per piegare il potere ai propri fini corrotti. Il nostro slogan deve essere: “Basta con gli oligarchi borghesi!”. Non importa se parlano russo o ucraino.
Il movimento rivoluzionario dei lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina potrà avere successo solo se si estenderà anche ai lavoratori del resto del Paese. Questo non potrà mai succedere se si limiteranno ad un programma incentrato sul solo nazionalismo russo.
Allo stesso modo in cui la vista dei simboli fascisti e di Bandera a Maidan ha disgustato la popolazione della Crimea e del Sud-Est, così la presenza degli ultranazionalisti russi, dei Cosacchi, degli elementi legate alle Centurie nere in manifestazione con le bandiere dell’impero russo deve preoccupare e disgustare il popolo rivoluzionario nel resto dell’Ucraina. La nostra bandiera non è né quella ucraina né quella della controrivoluzione capitalista russa ma la bandiera rossa di Lenin, la bandiera dell’Ottobre, la bandiera dell’internazionalismo proletario rivoluzionario.
Per questo è un grave errore appellarsi all’intervento russo. Non ci potrebbe essere metodo migliore per allontanare i lavoratori e i contadini che parlano ucraino e gettarli fra le braccia della reazione. La frammentazione del corpo vivo dell’Ucraina non servirebbe né ai lavoratori di Donbass né a quelli di Kiev o di Leopoli. Uno sviluppo del genere sarebbe devastante da tutti i punti di vista e avrebbe enormi conseguenze sia nazionali che internazionali.
La classe operaia del Sud-Est dell’Ucraina parlerà anche russo, ma non ha nessun interesse nella divisione dell’Ucraina, che sarebbe disastrosa per tutti tranne che per un manipolo di ricchi oligarchi e di delinquenti.
È necessario unire tutti i lavoratori dell’Ucraina sulla base di un programma che colleghi le rivendicazioni rivoluzionarie a quelle democratiche, in primis l’espropriazione degli oligarchi. Solo una politica di classe potrà spezzare la follia nazionalista e unificare la classe lavoratrice in una comune battaglia rivoluzionaria.
  • Nessuna guerra tra i popoli, nessuna pace tra le classi!
  • Espropriazione dei possedimenti rubati dagli oligarchi sotto il controllo democratico dei lavoratori!
  • Per un’Ucraina socialista, unita e indipendente!