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26.6.14
Stipendi, l’Italia rovesciata - Il Sud più «ricco» del Nord
La classifica delle province per potere d’acquisto. Prime Caltanissetta e Crotone, Milano 97esima
di Sergio Rizzo
A Ragusa il reddito disponibile delle famiglie è circa metà di Milano e la disoccupazione morde tre volte di più. Per non parlare dei giovani: dice la Banca d’Italia che in Sicilia il 55% è senza lavoro. Ma per i pochi fortunati ad avere un’occupazione stabile le cose vanno assai meglio che a Milano.
Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più. Nel settore pubblico, poi, le differenze a favore dei dipendenti meridionali sono ancora più evidenti. Il salario nominale di un insegnante di scuola elementare con i soliti cinque anni di anzianità è infatti uguale in tutte le regioni italiane: 1.305 euro al mese. Una retribuzione che però in base al diverso indice dei prezzi al consumo nelle due città equivale a 1.051 euro reali a Milano e 1.549 a Ragusa. Con una differenza abissale a vantaggio della città siciliana: 47%. Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Obiettivo degli autori, gli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, mettere a fuoco le disuguaglianze di salari, redditi e consumi, in gran parte responsabili di una stagnazione endemica.
I numeri dicono tutto. La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, scivola quasi in fondo alla classifica (posto numero 92) di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Dati, secondo gli autori della ricerca, che rappresentano una profonda anomalia rispetto a Paesi nei quali i salari sono allineati alla produttività, con il risultato di avere tassi di disoccupazione con minori differenze fra i territori. Boeri, Ichino e Moretti portano l’esempio di San Francisco, dove la produttività del lavoro è superiore rispetto a Dallas: i salari sono quindi più alti del 50% e il tasso di disoccupazione è simile. Anche a Milano la produttività è superiore a quella di Ragusa, ma la differenza salariale è metà di quella fra San Francisco e Dallas: e a Ragusa la disoccupazione è del 223 % maggiore che a Milano mentre le abitazioni nel capoluogo lombardo sono più care del 247%.
Certo la valutazione complessiva delle differenze non può prescindere da altre variabili. Per avere a Ragusa la stessa qualità di Milano, ad esempio, i servizi sanitari costerebbero 18,7 volte in più. Ed è questa anche la ragione per cui a salari reali più consistenti dei lavoratori non corrisponde automaticamente una migliore qualità della vita. Né un apprezzabile impatto sui redditi. La dimostrazione? La provincia italiana con i redditi nominali più elevati, Modena, è al secondo posto per quelli reali (che tengono conto delle differenze territoriali del costo della vita), dietro Biella e davanti Mantova, Reggio Emilia, Verbano, Ferrara, Ragusa, Novara, Trieste e Rovigo. Tutte del Nord tranne Ragusa.
Conclusione, la «compressione dei salari», come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per «frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud». Sul banco degli imputati, «l’apparente equità della contrattazione nazionale» che determina «distorsioni, inequità ed inefficienze». La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.
Impossibile, dopo aver scorso le oltre 50 slide della ricerca, non ripensare alle gabbie salariali. Era un meccanismo nato alla fine del 1945,che divideva l’Italia in 14 aree dove si applicavano salari diversi in rapporto al costo della vita. Durò fino a tutti gli anni Sessanta. Il sipario calò definitivamente nel 1972. Sulle gabbie e sul poco rimasto del boom economico.
22.6.14
Il Patto di San Vittore
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Finalmente se ne sono accorti. Pidini, forzisti e leghisti, curvi da mesi sul sacro incunabolo della cosiddetta riforma del Senato, si erano dimenticati di dare l’immunità ai nuovi senatori. Ora hanno provveduto: anche i nuovi inquilini di Palazzo Madama, pur non essendo più eletti, non potranno essere né arrestati né perquisiti né intercettati senza il loro assenso preventivo. È l’unica novità di rilievo dell’ultimo testo partorito dal trust di cervelli formato Boschi-Romani-Calderoli, oltre alla riduzione dei senatori da 148 a 100 (5 nominati dal Quirinale e 95 dalle Regioni, di cui 74 fra i consiglieri regionali e 21 fra i sindaci). Restano le assurdità più assurde: saranno abolite le elezioni; i senatori non conteranno nulla nella formazione delle leggi e non voteranno la fiducia al governo (infatti lavoreranno gratis); dovranno dividersi fra le amministrazioni locali e l’impegno romano (un dopolavoro non pagato, ma ben spesato); e dureranno in carica quanto le giunte regionali e comunali di provenienza (dove si vota in ordine sparso, così ogni anno qualche senatore perderà il posto e il Senato diventerà un albergo a ore, con maggioranze e minoranze affidate al caso, anzi al caos).
Finora l’immunità-impunità veniva giustificata in due modi: il Parlamento è lo specchio del Paese che lo esprime, dunque gli italiani, se non vogliono un inquisito a rappresentarli, possono non votare per lui o per il partito che l’ha candidato; il plenum dell’aula non può essere intaccato da un giudice che nessuno ha eletto. Ora anche il senatore sarà un tizio che nessuno avrà eletto (o meglio, sarà eletto per fare il sindaco o il consigliere regionale, non per fare il senatore). E il plenum del Senato sarà continuamente intaccato dalla caduta di questa o quella giunta comunale o regionale. Dunque, in linea di principio, non si vede perché un sindaco o un consigliere regionale eletto senza alcuna immunità debba riceverla in dono soltanto perchè il suo consiglio regionale l’ha promosso a senatore. Ma, nel paese dei ladri, si comprano e si vendono anche i princìpi. Specie se chi, come Renzi, proclama ai quattro venti di voler cacciare i ladri si ostina a riformare la Costituzione con il partito dei ladri (che però – osserva l’astuta Boschi – “rappresenta milioni di cittadini”).
Attualmente 17 giunte regionali su 20 sono sotto inchiesta o già sotto processo per le ruberie sui rimborsi pubblici, per un totale di 300 consiglieri inquisiti. E i sindaci indagati non si contano. Se fosse già in vigore la riforma del Senato, anche se volessero, i consigli regionali non riuscirebbero a nominare 95 consiglieri e sindaci intonsi da accuse penali. Ma lo capiscono tutti che la prospettiva di agguantare l’immunità sarà talmente allettante da diventare l’unico criterio di selezione per la carica gratuita di senatore: non appena un consigliere regionale o un sindaco avrà la sventura di finire nei guai con la giustizia, i colleghi – che poi sovente sono i suoi complici – lo spediranno in Senato per salvarlo dalla galera, dalle intercettazioni e dalle perquisizioni. Se no poi magari parla o si fa beccare con il sorcio in bocca. E la cosiddetta Camera Alta del Parlamento diventerà, ancor più di oggi, quel che erano i conventi e le chiese nel Medioevo: un rifugio per manigoldi. Se Giorgio Orsoni, per dire, non avesse commesso l’imprudenza di confessare, accusare il Pd, patteggiare e farsi scaricare da Renzi, ma avesse continuato a negare tutto in attesa del processo, sarebbe ancora sindaco di Venezia, con ottime speranze di farsi nominare senatore dal nuovo consiglio regionale a maggioranza Pd in cambio del suo silenzio.
Ora però, prima del voto di luglio, alla Grande Riforma mancano alcuni dettagli da concordare con Forza Italia. E B. rischia l’arresto per gli ultimi delirii in tribunale. Sarebbe davvero seccante se Renzi, per rinnovare il patto del Nazareno, dovesse raggiungerlo nel parlatorio di San Vittore e comunicare con il detenuto costituente al citofono, attraverso il vetro antiproiettile, come Genny e donna Imma con don Pietro Savastano. Non c’è un minuto da perdere.
Finalmente se ne sono accorti. Pidini, forzisti e leghisti, curvi da mesi sul sacro incunabolo della cosiddetta riforma del Senato, si erano dimenticati di dare l’immunità ai nuovi senatori. Ora hanno provveduto: anche i nuovi inquilini di Palazzo Madama, pur non essendo più eletti, non potranno essere né arrestati né perquisiti né intercettati senza il loro assenso preventivo. È l’unica novità di rilievo dell’ultimo testo partorito dal trust di cervelli formato Boschi-Romani-Calderoli, oltre alla riduzione dei senatori da 148 a 100 (5 nominati dal Quirinale e 95 dalle Regioni, di cui 74 fra i consiglieri regionali e 21 fra i sindaci). Restano le assurdità più assurde: saranno abolite le elezioni; i senatori non conteranno nulla nella formazione delle leggi e non voteranno la fiducia al governo (infatti lavoreranno gratis); dovranno dividersi fra le amministrazioni locali e l’impegno romano (un dopolavoro non pagato, ma ben spesato); e dureranno in carica quanto le giunte regionali e comunali di provenienza (dove si vota in ordine sparso, così ogni anno qualche senatore perderà il posto e il Senato diventerà un albergo a ore, con maggioranze e minoranze affidate al caso, anzi al caos).
Finora l’immunità-impunità veniva giustificata in due modi: il Parlamento è lo specchio del Paese che lo esprime, dunque gli italiani, se non vogliono un inquisito a rappresentarli, possono non votare per lui o per il partito che l’ha candidato; il plenum dell’aula non può essere intaccato da un giudice che nessuno ha eletto. Ora anche il senatore sarà un tizio che nessuno avrà eletto (o meglio, sarà eletto per fare il sindaco o il consigliere regionale, non per fare il senatore). E il plenum del Senato sarà continuamente intaccato dalla caduta di questa o quella giunta comunale o regionale. Dunque, in linea di principio, non si vede perché un sindaco o un consigliere regionale eletto senza alcuna immunità debba riceverla in dono soltanto perchè il suo consiglio regionale l’ha promosso a senatore. Ma, nel paese dei ladri, si comprano e si vendono anche i princìpi. Specie se chi, come Renzi, proclama ai quattro venti di voler cacciare i ladri si ostina a riformare la Costituzione con il partito dei ladri (che però – osserva l’astuta Boschi – “rappresenta milioni di cittadini”).
Attualmente 17 giunte regionali su 20 sono sotto inchiesta o già sotto processo per le ruberie sui rimborsi pubblici, per un totale di 300 consiglieri inquisiti. E i sindaci indagati non si contano. Se fosse già in vigore la riforma del Senato, anche se volessero, i consigli regionali non riuscirebbero a nominare 95 consiglieri e sindaci intonsi da accuse penali. Ma lo capiscono tutti che la prospettiva di agguantare l’immunità sarà talmente allettante da diventare l’unico criterio di selezione per la carica gratuita di senatore: non appena un consigliere regionale o un sindaco avrà la sventura di finire nei guai con la giustizia, i colleghi – che poi sovente sono i suoi complici – lo spediranno in Senato per salvarlo dalla galera, dalle intercettazioni e dalle perquisizioni. Se no poi magari parla o si fa beccare con il sorcio in bocca. E la cosiddetta Camera Alta del Parlamento diventerà, ancor più di oggi, quel che erano i conventi e le chiese nel Medioevo: un rifugio per manigoldi. Se Giorgio Orsoni, per dire, non avesse commesso l’imprudenza di confessare, accusare il Pd, patteggiare e farsi scaricare da Renzi, ma avesse continuato a negare tutto in attesa del processo, sarebbe ancora sindaco di Venezia, con ottime speranze di farsi nominare senatore dal nuovo consiglio regionale a maggioranza Pd in cambio del suo silenzio.
Ora però, prima del voto di luglio, alla Grande Riforma mancano alcuni dettagli da concordare con Forza Italia. E B. rischia l’arresto per gli ultimi delirii in tribunale. Sarebbe davvero seccante se Renzi, per rinnovare il patto del Nazareno, dovesse raggiungerlo nel parlatorio di San Vittore e comunicare con il detenuto costituente al citofono, attraverso il vetro antiproiettile, come Genny e donna Imma con don Pietro Savastano. Non c’è un minuto da perdere.
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21.6.14
Copia privata: la sconfitta della legalità e della trasparenza
di Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)
La notizia è ormai nota: Dario Franceschini, ministro per i Beni e delle attività Culturali ieri ha firmato il decreto per l’aggiornamento delle tariffe del cosiddetto “equo compenso per copia privata”ovvero dell’importo che ogni consumatore italiano deve pagare quando acquista un cd, un dvd, una pendrive usb, un pc, un tablet o uno smartphone, sul presupposto che potrebbe usarlo per registrarci una copia di una canzone o di un film, legittimamente acquistati.
Da domani, pagheremo, tra l’altro, quasi 5 euro all’acquisto di uno smartphone o di un tablet da 32 Gb, 5,20 per un PC, 0,36 centesimi di euro all’acquisto di una pendrive usb da 4 Gb e tanto di più se maggiore ne sarà la capacità di memorizzazione.
Sono oltre cento milioni di euro all’anno che usciranno dalle nostre tasche e andranno ad ingrassare i conti dell’industria dei contenuti, degli autori – specie di quelli più ricchi giacché il riparto degli importi raccolti avviene secondo oscuri criteri che premiano pochi e sacrificano molti – e, soprattutto, della Siae che trattiene una cospicua percentuale, da diversi milioni di euro, a titolo di “costi di gestione”.
Ma il punto non è questo. Tanto per cominciare il ministro Dario Franceschini – cui la legge impone di aggiornare le tariffe della copia privata ogni tre anni ma non necessariamente di aumentarle – ha disposto gli aumenti in questione, in particolare su smartphone e tablet – pur disponendo di una ricerca di mercato, commissionata dal suo predecessore, Massimo Bray, nella quale si mette nero su bianco che la percentuale di italiani che utilizzano tali dispositivi per fare, davvero, una copia privata non arriva al dieci per cento.
E’ curioso, al riguardo, osservare che la ricerca in questione, dopo essere stata, per qualche giorno, pubblicata sul sito del Ministero dei Beni e delle Attività culturali nella sezione nella quale secondo lo stesso Mibac sarebbe “pubblicata la documentazione esaminata ai fini dell’aggiornamento dell’equo compenso”, oggi non vi compare più. Un errore provvidenziale o un puerile tentativo di nascondere agli occhi dei curiosi una scomoda verità [per chi fosse interessato il testo della ricerca è disponibile qui]?
Ma non basta. Il ministro Dario Franceschini, infatti, da ieri va ripetendo che, nonostante gli aumenti, le tariffe italiane restano ampiamente al di sotto della media europea e, al Ministero, nel vano tentativo di supportare questa autentica “menzogna di Stato”, hanno pensato bene di diffondere, assieme al comunicato stampa, una simpatica tabellina intitolata “Ecco le principali novità ed un confronto con la Ue”. Una forma di comunicazione istituzionale rara e straordinariamente efficace.
Peccato solo che la tabella confronti le più basse tra le nuove tariffe varate dal ministro non con la media europea, come il titolo indurrebbe ad attendersi, ma con quelle vigenti solo in Francia e Germania ovvero nei due dei 23 Paesi nei quali vige la regola dell’equo compenso in cui le tariffe sono più alte.
Ce n’è abbastanza per chiedere conto al ministro di una tanto curiosa decisione ma, purtroppo, non basta ancora. I redattori della tabella, infatti, essendosi evidentemente accorti che in Germania le tariffe dell’equo compenso per cd e dvd sono decisamente più basse rispetto alle tariffe appena approvate, hanno pensato bene di nasconderne i dati dietro ad un dilettantesco “non disponibili”, quasi si trattasse dei dati sulle precipitazioni nevose di una qualche remota zona alpina.
Peccato che le tariffe in questione siano pubblicate da mesi nello stesso rapporto dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale dal quale provengono tutti gli altri dati inseriti in tabella. Davvero curioso che le tariffe francesi e tedesche maggiori di quelle italiane siano disponibili e quelle inferiori siano date, invece, per “non disponibili”. E’ inaccettabile che un Ministero di un governo che continua a predicare trasparenza si dimostri tanto poco trasparente.
Ma non basta ancora. Perché il punto non è solo ciò che il Ministero finge di non sapere ricorrendo a espedienti di comunicazione di almeno dubbia correttezza. Il punto è che il ministro Franceschini sa – o, almeno, dovrebbe sapere – che nel 2012, in Italia è stato raccolto a titolo di equo compenso per copia privata un importo superiore rispetto a quello raccolto in ogni altro Paese europeo, eccezion fatta per la sola Francia. Lo dice – e dimostra numeri alla mano – ancora una volta, lo stesso Studio dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale dal quale al Ministero hanno estrapolato i dati attraverso i quali vorrebbero convincere giornalisti e consumatori italiani del fatto che le nuove tariffe sono più basse di quelle applicate nel resto d’Europa.
Non è così o, almeno, non lo è stato nel 2012, ovvero nell’ultimo anno al quale si riferiscono i dati disponibili. Ma le mezze verità del Ministero nell’annunciare il varo delle nuove tariffe non finiscono qui. Non è vero, ad esempio, che l’equo compenso non debbano pagarlo i consumatori ma i produttori di tecnologia. Regole Ue e leggi nazionali stabiliscono l’esatto contrario e, in Francia – Paese al quale il ministro sembra guardare come importante riferimento quando si tratta di aumentare le tariffe – dal 1° aprile, i venditori di supporti e dispositivi sono addirittura obbligati ad esporre, assieme al prezzo, l’importo dell’equo compenso da versarsi.
Egualmente, il ministro nel ricordare, nel suo comunicato stampa, di aver aumentato le tariffe come richiesto da 4mila autori, dimentica – ed è davvero grave – degli oltre 60mila consumatori italianiche gli hanno chiesto, sulla base di una ricerca di mercato commissionata dallo stesso Ministero,l’esatto contrario. Curiosa regola di governo della cosa pubblica quella per la quale 4mila “voti” di chi vuole un fiume di denaro, valgono di più di 60mila “voti” di chi quel fiume di denaro dovrà pagare, pur in presenza di una ricerca che suggerirebbe l’esatto contrario.
E’ l’ennesima brutta storia italiana ed è un peccato che si consumi proprio nel ministro che dovrebbe garantire la promozione e tutela della nostra cultura. Non ha vinto nessuno ma abbiamo perso tutti perché hanno perso la legalità e la trasparenza.
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Cara giunta, la festa è già finita
Filiberto Maida (La Provincia Pavese)
La festa è già finita, spero. Caro sindaco Massimo Depaoli, vedo che ti sei tenuto le deleghe per Ecologia e Sviluppo sostenibile. So che te ne intendi, o almeno te ne intendevi. Non basta, naturalmente, andare in municipio pedalando. Quello son buoni tutti a farlo. Pensa invece che, oltre alle varie chiacchiere, Pavia sarebbe una città potenzialmente per ciclisti e pedoni, di fatto è di proprietà degli automobilisti. Quindi, vedi di darti da fare, e non spacciare il prossimo piano delle opere pubbliche come la panacea di tutti i mali. Devi intervenire subito, rapido, dando precise indicazioni alla polizia locale perché, a suon di multe e rimozioni, faccia rispettare le brutte piste ciclabili che abbiamo. Opera, subito, pensando all’ordine di priorità: pedoni, ciclisti, automobilisti. E occhio, le piste ciclabili fanno schifo anche in periferia. E se ecologia significa anche gestione dei rifiuti, dì a quelli di Asm di pensare meno ad appalti e forniture, e gestire la raccolta in modo civile. E fai partire subito il porta a porta anche in periferia. Altrimenti, caro sindaco, sono chiacchiere. Sarò più breve con gli altri assessori.
A Giuliano Ruffinazzi, che conosco da un ventennio, oltre al necessario in bocca al lupo, chiedo di fare meno il democristiano e più l’amministratore. Ha l’assessorato principe, il bilancio, e il più delicato, la polizia locale. Se sul primo le capacità di mediazione sono utili, sul secondo, per favore, vediamo di fare sul serio. Ti chiedo, a nome di tutta la città, di tenere, una volta per tutte, in considerazione un aspetto fondamentale: vanno multati, prima di tutto, quelli che creano pericolo. Non solo quelli che posteggiano senza ticket. Da sempre la polizia locale picchia duro, insieme agli ausiliari, per recuperare soldi, soldi e soldi. Posso capire, e poi le regole valgono per tutti. Ma ho due figli giovani che girano per la città, anch’io utilizzo la bicicletta, sono un pedone (nei giorni di riposo, come sai anche tu), e vorrei strade sicure. E le strade sicure si ottengono solo con comportamenti sicuri. Il che significa, per i vigili, lavorare di più, muovere il culo dalle sedie (scusa per il termine “sedie”) e non guardare in faccia a nessuno. Pensi di riuscirci, Giuliano?
Cara Alice Moggi, so bene del tuo impegno nel terzo settore, nel sociale. Quindi, va benissimo che tu sia dove ora sei. Però, per favore, adesso vedi di non prenderci troppo la mano. Non so come dirtelo elegamentente e senza sorprenderti, ma lo dico: non è vero che tutto ciò che è terzo settore è buono. C’è del terzo settore che fa pena. Non è vero che tutto ciò che è gratuito, anche se dato con il cuore, è bello. C’è tanta roba gratis che fa letteralmente schifo. Conosco gente, ma dai la conosci anche tu, che alle spalle del terzo settore e del volontariato, ha fatto i soldi. Ora, se ne parli con qualche assessore, che so, con Galazzo o la Gregorini (cioè Cultura e Turismo), ti spiegheranno, credo, che turismo e cultura non sempre stanno bene con sociale e terzo settore. Magari non la pensi così, ma potrei farti parecchi esempi. Insomma, cara Alice, non farti prendere la mano.
Oh, è arrivato anche Davide Lazzari. Te lo dico subito. Davide: i trasporti non vanno bene. La città è mal collegata. I quartieri periferici pure. Specialmente tra di loro. Conviene muoversi in auto, costa meno e fai meno fatica. Mancano le piste ciclabili che collegano un quartiere con l’altro. Non ci credi? Allora, io abito al Vallone, mia figlia ha la sua cara amica in viale Lodi, dalle parti della Riso Scotti. Prova un po’ tu ad arrivarci in bicicletta. Vivo, intendo dire. E non parliamo di arrivare, sempre vivo, in viale Cremona. Lo so che corri, lo so bene, ma parlo di biciclette, non di runners. Ah, ecco, se ne parli con Castagna (ossia Lavori pubblici) vedi di spiegargli che per salvare la vita dei ciclisti non bastano le piste ciclabili, ma ci vuole un asfalto buono (e senza tombini profondi mezzo metro) lungo le strade dove le ciclabili non ci sono. Anche qui, non è mica difficile, basta decidere quali sono le priorità. E poi, ricordati: finché sarà più veloce, semplice e conveniente muoversi in auto, nessuno utilizzerà l’autobus. Facile, no?
Non conosco bene Angelo Gualandi, ma se è chi ricordo io, beh, mi pare una ottima scelta. Non la farò troppo lunga sull’Urbanistica, che ci sarebbe da scrivere un libro. Mi limito ad un aspetto che ritengo importante anche se secondario rispetto ai fatti e misfatti che conosciamo. L’arredo urbano, che come lei mi può insegnare, fa parte del disegno complessivo di una città. Ci sono, appunto, città nazionali e internazionali che sono spesso riconoscibili dal loro arredo urbano, fondamentale specialmente per dare continuità tra i centri storici e le periferie. Facciamoci un pensierino. E poi è inutile, caro Angelo Gualandi, che le ricordi – avendo lei frequentato gli uffici pubblici – che se c’è qualcosa di sempre trasversale alla politica è il mattone facile. Per una volta, riusciranno i nostri eroi ad evitare compromissioni?
Turismo e Commercio, di cui si occupa Angela Gregorini, sono per Pavia temi essenziali, inutile che spieghi il perchè. Sta di fatto che ho sempre trovato Pavia poco accogliente per i turisti. Questione di ritardi, altre città – quando è iniziata la crisi – hanno scommesso sulle domeniche dedicate ai turisti, con negozi aperti e tante iniziative, Pavia è arrivata come al solito in ritardo. I commercianti sono una categoria di conservatori, prima non investivano perché troppo ricchi, ora non lo fanno perché mancano i soldi. Troppe domeniche, è mia opinione, mi accorgo che in città non c’è proprio niente di interessante da fare, e vado da un’altra parte. E vorrei sommessamente ricordare ad Angela che i centri commerciali non si sconfiggono trasformando la città in un parcheggio, ma offrendo alternative. E spesso le alternative, vero commercianti?, richiedono che si sborsi qualche euro. Altrimenti, andate a quel paese che io vado al centro commerciale.
Direi così, caro Giacomo Galazzo, se mi consenti: “Hey non fare il sapiente tu non sei divertente io che sono ripetente io ti tiro un fendente Forse sei deludente perché hai perso il mordente ma se trovi che ti rende tu diventa pur demente”- Ossia, la cultura cha cha cha. Allora, la cultura non è : 1) Portare tanta gente a vedere una mostra spacciandola per clamorosamente bella e poi scoprire che è robetta; 2) Questione di numeri, di densità di eventi; 3) Mettere insieme pere e mele, che la somma non sempre funziona. Ho sempre pensato che Pavia non sia identificata con un programma culturale preciso. Non serve a niente, secondo me, mettere insieme la mostra di un artista e poi la mostra di un altro se tra i due non c’è un filo logico. Insomma, la cultura va programmata, ogni anno deve avere un suo senso. Non è facile, capisco, ma possiamo provarci. E per cambiare strada, magari vanno cambiati anche i nomi, che se a gestire gli eventi, da dentro o da fuori, sono gli stessi che lo facevano nel 1996, allora qualcosa forse non va bene. Appello personale: pensiamo a qualche grande mostra fotografica e a un vero festival jazz. Ma qui siamo negli interessi personali in atti d’ufficio. Ah, la cultura non è solo di sinistra, altrimenti sai che noia…
Proseguo, allegramente, nella mia riflessione ad alta voce sulla nuova giunta. Prima, però, un passo indietro. Torno alla questione cultura. Cito, integralmente, il commento al mio precedente post fatto da tal Giorgio Montolivo che, non è ironia ovviamente, non ho il piacere di conoscere: “Ma come si può commentare “sai che novità”, a chi propone (…a titolo di esempio…) un grande festival jazz? Ci rendiamo conto di quante cose ci mancano, che potrebbero dare prestigio alla città? C’è nell’aria un misto di assuefazione alla mediocrità, se non addirittura di entusiasmo pavese da cartolina, che ci trascina sempre più lontano dai grandi progetti. Questa città arranca dietro le ultime classificate del Nord Italia. Camminiamo su ciottoli tra cui cresce l’erba, sporcati di urina, di spazzatura, di sabbia per coprire gli odori. Compriamo mostre temporanee prêt-à-porter di cui non ci rimane mai niente. E intanto la Zatti fa conversazioni con Philippe Daverio al Fraschini. Magari facessimo un festival jazz! Fosse anche il milionesimo d’Italia. Ma se fosse una cosa nuova, organizzata dalle forze migliori della città, portata nel cuore del centro storico e di cui si fosse orgogliosi di mettere il nome ‘Pavia’… faremmo certamente un passo avanti. Cominciamo dalle cose banali, scontate, ripetitive… che possono darci una spinta in avanti”. Concordo pienamente, ci pensi assessore Galazzo.
Istruzione, politiche giovanili. Beh, assessore Ilaria Cristiani, a parte il fatto che le suggerisco di farsi un baffo delle critiche per la sua presunta incompatibilità (anche se, volpi che siete, potevate anche pensarci, no?), altrimenti che noia… direi che di lavoro da fare ce n’è parecchio. Penso ai giovani. Penso ai miei due figli (e sì, si deve partire sempre dalle cose personali) e al fatto che mai, dico mai, li ho sentiti dire: eh, pa’, hai visto cosa c’è in centro? No, mai. Saranno figli strani, ma possibile che un 19enne e una 16enne non trovino film, spettacoli, concerti, mostre che li attirino. Possibile che, se c’è qualcosa, lo abbia organizzato quasi a fatica il solito SpazioMusica o qualche simpatica e squattrinata associazione di reduci dell’estrema sinistra? La sera, non solo il sabato, ho la sensazione che i ragazzi navighino in centro storico, tra Strada Nuova e corso Cavour, quasi senza rotta, da un bar all’altro, da un gradino sul quale sedere al tavolino (per chi se lo può permettere). Non parliamo, poi, della musica. Ci sono decine, decine e decine di ragazzi e ragazze che hanno voglia di suonare, le sale prove ci sono, ma spesso faticano ad andare avanti, la collaborazione con il Comune non mi è parsa mai produttiva. Cara Ilaria (il che mi fa effetto, mia figlia si chiama così), datti da fare. Quel che comunque mi tranquillizza è che accanto a te ci sarà quel vulcano di Daniela Bonanni, e tutti ci sentiamo più tranquilli.
Per quanto giovane, Fabio Castagna, è molto, molto esperto. Molto, molto politico. L’esperienza gli servirà con i lavori pubblici. Le richieste non mancano, e da lui mi aspetto non solo attenzione alle periferie – che passare dalle chiacchiere ai fatti è mica semplice – ma anche alle gare, agli appalti. Sì, sì, lo so. Non è competenza dell’assessore, ma del dirigente. Al di là del fatto che mi aspetto un bel giro di valzer sui dirigenti, quasi indispensabile, è anche vero che il mulo va dove lo spinge il padrone (non so se esiste questo modo di dire…). Quindi, trasparenza, chiarezza, ufficio negato agli imprenditori. E poi capitolati chiari e precisi, perizie suppletive e urgenze cancellate o quasi. Una città curata è una città più bella. E io che viaggio ti garantisco, caro Fabio, che le differenze si notano, eccome. Peraltro, diciamola tutta, sostituisci un assessore, Luigi Greco, che la città la conosce bene come la conosci tu. E non ha lavorato male.
Resta Laura Canale. Immigraziome, casa, innovazione sociale, pari opportunità. A parte l’ultimo tema che mi ha sempre fatto sorridere per la sua totale inutilità pratica, ma che sì, va bene, fa parte delle cose che si devono fare e dire per essere progressisti a parole, si tratta di un assessorato molto d’immagine. Nel senso buono, s’intende. Se Pavia sarà più bella dentro, e non solo fuori (per parafrasare una nota pubblicità), lo dovremo anche a come Laura Canale gestirà il suo assessorato. Non la conosco, quindi mi astengo da “cara”, ma suggerisco di non essere talebana. Nel senso che gli sfrattati a volte van sfrattati, gli stranieri sono ladri come sono ladri gli italiani e niente vittimismi, e vanno cacciati a pedate se rubano, che donna è bello è un motto interessante, ma il genere non migliora i contenuti, e l’innovazione sociale non significa – come volle follemente qualcuno negli anni Settanta – mettere le case popolari a fianco del teatro perché fa molto sinistra progressista. Niente “cara”, allora, ma in bocca al lupo. E che crepi.
Non mi resta molto da dire. Quindi non lo dico. Ma dalla giunta, da qualsiasi nuova giunta, mi aspetto molto. Faccio il tifo per voi, ma giusto i primi dieci giorni. Poi, darsi una mossa. Che c’è da fare. E se non lo fate, da scrivere.
La festa è già finita, spero. Caro sindaco Massimo Depaoli, vedo che ti sei tenuto le deleghe per Ecologia e Sviluppo sostenibile. So che te ne intendi, o almeno te ne intendevi. Non basta, naturalmente, andare in municipio pedalando. Quello son buoni tutti a farlo. Pensa invece che, oltre alle varie chiacchiere, Pavia sarebbe una città potenzialmente per ciclisti e pedoni, di fatto è di proprietà degli automobilisti. Quindi, vedi di darti da fare, e non spacciare il prossimo piano delle opere pubbliche come la panacea di tutti i mali. Devi intervenire subito, rapido, dando precise indicazioni alla polizia locale perché, a suon di multe e rimozioni, faccia rispettare le brutte piste ciclabili che abbiamo. Opera, subito, pensando all’ordine di priorità: pedoni, ciclisti, automobilisti. E occhio, le piste ciclabili fanno schifo anche in periferia. E se ecologia significa anche gestione dei rifiuti, dì a quelli di Asm di pensare meno ad appalti e forniture, e gestire la raccolta in modo civile. E fai partire subito il porta a porta anche in periferia. Altrimenti, caro sindaco, sono chiacchiere. Sarò più breve con gli altri assessori.
A Giuliano Ruffinazzi, che conosco da un ventennio, oltre al necessario in bocca al lupo, chiedo di fare meno il democristiano e più l’amministratore. Ha l’assessorato principe, il bilancio, e il più delicato, la polizia locale. Se sul primo le capacità di mediazione sono utili, sul secondo, per favore, vediamo di fare sul serio. Ti chiedo, a nome di tutta la città, di tenere, una volta per tutte, in considerazione un aspetto fondamentale: vanno multati, prima di tutto, quelli che creano pericolo. Non solo quelli che posteggiano senza ticket. Da sempre la polizia locale picchia duro, insieme agli ausiliari, per recuperare soldi, soldi e soldi. Posso capire, e poi le regole valgono per tutti. Ma ho due figli giovani che girano per la città, anch’io utilizzo la bicicletta, sono un pedone (nei giorni di riposo, come sai anche tu), e vorrei strade sicure. E le strade sicure si ottengono solo con comportamenti sicuri. Il che significa, per i vigili, lavorare di più, muovere il culo dalle sedie (scusa per il termine “sedie”) e non guardare in faccia a nessuno. Pensi di riuscirci, Giuliano?
Cara Alice Moggi, so bene del tuo impegno nel terzo settore, nel sociale. Quindi, va benissimo che tu sia dove ora sei. Però, per favore, adesso vedi di non prenderci troppo la mano. Non so come dirtelo elegamentente e senza sorprenderti, ma lo dico: non è vero che tutto ciò che è terzo settore è buono. C’è del terzo settore che fa pena. Non è vero che tutto ciò che è gratuito, anche se dato con il cuore, è bello. C’è tanta roba gratis che fa letteralmente schifo. Conosco gente, ma dai la conosci anche tu, che alle spalle del terzo settore e del volontariato, ha fatto i soldi. Ora, se ne parli con qualche assessore, che so, con Galazzo o la Gregorini (cioè Cultura e Turismo), ti spiegheranno, credo, che turismo e cultura non sempre stanno bene con sociale e terzo settore. Magari non la pensi così, ma potrei farti parecchi esempi. Insomma, cara Alice, non farti prendere la mano.
Oh, è arrivato anche Davide Lazzari. Te lo dico subito. Davide: i trasporti non vanno bene. La città è mal collegata. I quartieri periferici pure. Specialmente tra di loro. Conviene muoversi in auto, costa meno e fai meno fatica. Mancano le piste ciclabili che collegano un quartiere con l’altro. Non ci credi? Allora, io abito al Vallone, mia figlia ha la sua cara amica in viale Lodi, dalle parti della Riso Scotti. Prova un po’ tu ad arrivarci in bicicletta. Vivo, intendo dire. E non parliamo di arrivare, sempre vivo, in viale Cremona. Lo so che corri, lo so bene, ma parlo di biciclette, non di runners. Ah, ecco, se ne parli con Castagna (ossia Lavori pubblici) vedi di spiegargli che per salvare la vita dei ciclisti non bastano le piste ciclabili, ma ci vuole un asfalto buono (e senza tombini profondi mezzo metro) lungo le strade dove le ciclabili non ci sono. Anche qui, non è mica difficile, basta decidere quali sono le priorità. E poi, ricordati: finché sarà più veloce, semplice e conveniente muoversi in auto, nessuno utilizzerà l’autobus. Facile, no?
Non conosco bene Angelo Gualandi, ma se è chi ricordo io, beh, mi pare una ottima scelta. Non la farò troppo lunga sull’Urbanistica, che ci sarebbe da scrivere un libro. Mi limito ad un aspetto che ritengo importante anche se secondario rispetto ai fatti e misfatti che conosciamo. L’arredo urbano, che come lei mi può insegnare, fa parte del disegno complessivo di una città. Ci sono, appunto, città nazionali e internazionali che sono spesso riconoscibili dal loro arredo urbano, fondamentale specialmente per dare continuità tra i centri storici e le periferie. Facciamoci un pensierino. E poi è inutile, caro Angelo Gualandi, che le ricordi – avendo lei frequentato gli uffici pubblici – che se c’è qualcosa di sempre trasversale alla politica è il mattone facile. Per una volta, riusciranno i nostri eroi ad evitare compromissioni?
Turismo e Commercio, di cui si occupa Angela Gregorini, sono per Pavia temi essenziali, inutile che spieghi il perchè. Sta di fatto che ho sempre trovato Pavia poco accogliente per i turisti. Questione di ritardi, altre città – quando è iniziata la crisi – hanno scommesso sulle domeniche dedicate ai turisti, con negozi aperti e tante iniziative, Pavia è arrivata come al solito in ritardo. I commercianti sono una categoria di conservatori, prima non investivano perché troppo ricchi, ora non lo fanno perché mancano i soldi. Troppe domeniche, è mia opinione, mi accorgo che in città non c’è proprio niente di interessante da fare, e vado da un’altra parte. E vorrei sommessamente ricordare ad Angela che i centri commerciali non si sconfiggono trasformando la città in un parcheggio, ma offrendo alternative. E spesso le alternative, vero commercianti?, richiedono che si sborsi qualche euro. Altrimenti, andate a quel paese che io vado al centro commerciale.
Direi così, caro Giacomo Galazzo, se mi consenti: “Hey non fare il sapiente tu non sei divertente io che sono ripetente io ti tiro un fendente Forse sei deludente perché hai perso il mordente ma se trovi che ti rende tu diventa pur demente”- Ossia, la cultura cha cha cha. Allora, la cultura non è : 1) Portare tanta gente a vedere una mostra spacciandola per clamorosamente bella e poi scoprire che è robetta; 2) Questione di numeri, di densità di eventi; 3) Mettere insieme pere e mele, che la somma non sempre funziona. Ho sempre pensato che Pavia non sia identificata con un programma culturale preciso. Non serve a niente, secondo me, mettere insieme la mostra di un artista e poi la mostra di un altro se tra i due non c’è un filo logico. Insomma, la cultura va programmata, ogni anno deve avere un suo senso. Non è facile, capisco, ma possiamo provarci. E per cambiare strada, magari vanno cambiati anche i nomi, che se a gestire gli eventi, da dentro o da fuori, sono gli stessi che lo facevano nel 1996, allora qualcosa forse non va bene. Appello personale: pensiamo a qualche grande mostra fotografica e a un vero festival jazz. Ma qui siamo negli interessi personali in atti d’ufficio. Ah, la cultura non è solo di sinistra, altrimenti sai che noia…
Proseguo, allegramente, nella mia riflessione ad alta voce sulla nuova giunta. Prima, però, un passo indietro. Torno alla questione cultura. Cito, integralmente, il commento al mio precedente post fatto da tal Giorgio Montolivo che, non è ironia ovviamente, non ho il piacere di conoscere: “Ma come si può commentare “sai che novità”, a chi propone (…a titolo di esempio…) un grande festival jazz? Ci rendiamo conto di quante cose ci mancano, che potrebbero dare prestigio alla città? C’è nell’aria un misto di assuefazione alla mediocrità, se non addirittura di entusiasmo pavese da cartolina, che ci trascina sempre più lontano dai grandi progetti. Questa città arranca dietro le ultime classificate del Nord Italia. Camminiamo su ciottoli tra cui cresce l’erba, sporcati di urina, di spazzatura, di sabbia per coprire gli odori. Compriamo mostre temporanee prêt-à-porter di cui non ci rimane mai niente. E intanto la Zatti fa conversazioni con Philippe Daverio al Fraschini. Magari facessimo un festival jazz! Fosse anche il milionesimo d’Italia. Ma se fosse una cosa nuova, organizzata dalle forze migliori della città, portata nel cuore del centro storico e di cui si fosse orgogliosi di mettere il nome ‘Pavia’… faremmo certamente un passo avanti. Cominciamo dalle cose banali, scontate, ripetitive… che possono darci una spinta in avanti”. Concordo pienamente, ci pensi assessore Galazzo.
Istruzione, politiche giovanili. Beh, assessore Ilaria Cristiani, a parte il fatto che le suggerisco di farsi un baffo delle critiche per la sua presunta incompatibilità (anche se, volpi che siete, potevate anche pensarci, no?), altrimenti che noia… direi che di lavoro da fare ce n’è parecchio. Penso ai giovani. Penso ai miei due figli (e sì, si deve partire sempre dalle cose personali) e al fatto che mai, dico mai, li ho sentiti dire: eh, pa’, hai visto cosa c’è in centro? No, mai. Saranno figli strani, ma possibile che un 19enne e una 16enne non trovino film, spettacoli, concerti, mostre che li attirino. Possibile che, se c’è qualcosa, lo abbia organizzato quasi a fatica il solito SpazioMusica o qualche simpatica e squattrinata associazione di reduci dell’estrema sinistra? La sera, non solo il sabato, ho la sensazione che i ragazzi navighino in centro storico, tra Strada Nuova e corso Cavour, quasi senza rotta, da un bar all’altro, da un gradino sul quale sedere al tavolino (per chi se lo può permettere). Non parliamo, poi, della musica. Ci sono decine, decine e decine di ragazzi e ragazze che hanno voglia di suonare, le sale prove ci sono, ma spesso faticano ad andare avanti, la collaborazione con il Comune non mi è parsa mai produttiva. Cara Ilaria (il che mi fa effetto, mia figlia si chiama così), datti da fare. Quel che comunque mi tranquillizza è che accanto a te ci sarà quel vulcano di Daniela Bonanni, e tutti ci sentiamo più tranquilli.
Per quanto giovane, Fabio Castagna, è molto, molto esperto. Molto, molto politico. L’esperienza gli servirà con i lavori pubblici. Le richieste non mancano, e da lui mi aspetto non solo attenzione alle periferie – che passare dalle chiacchiere ai fatti è mica semplice – ma anche alle gare, agli appalti. Sì, sì, lo so. Non è competenza dell’assessore, ma del dirigente. Al di là del fatto che mi aspetto un bel giro di valzer sui dirigenti, quasi indispensabile, è anche vero che il mulo va dove lo spinge il padrone (non so se esiste questo modo di dire…). Quindi, trasparenza, chiarezza, ufficio negato agli imprenditori. E poi capitolati chiari e precisi, perizie suppletive e urgenze cancellate o quasi. Una città curata è una città più bella. E io che viaggio ti garantisco, caro Fabio, che le differenze si notano, eccome. Peraltro, diciamola tutta, sostituisci un assessore, Luigi Greco, che la città la conosce bene come la conosci tu. E non ha lavorato male.
Resta Laura Canale. Immigraziome, casa, innovazione sociale, pari opportunità. A parte l’ultimo tema che mi ha sempre fatto sorridere per la sua totale inutilità pratica, ma che sì, va bene, fa parte delle cose che si devono fare e dire per essere progressisti a parole, si tratta di un assessorato molto d’immagine. Nel senso buono, s’intende. Se Pavia sarà più bella dentro, e non solo fuori (per parafrasare una nota pubblicità), lo dovremo anche a come Laura Canale gestirà il suo assessorato. Non la conosco, quindi mi astengo da “cara”, ma suggerisco di non essere talebana. Nel senso che gli sfrattati a volte van sfrattati, gli stranieri sono ladri come sono ladri gli italiani e niente vittimismi, e vanno cacciati a pedate se rubano, che donna è bello è un motto interessante, ma il genere non migliora i contenuti, e l’innovazione sociale non significa – come volle follemente qualcuno negli anni Settanta – mettere le case popolari a fianco del teatro perché fa molto sinistra progressista. Niente “cara”, allora, ma in bocca al lupo. E che crepi.
Non mi resta molto da dire. Quindi non lo dico. Ma dalla giunta, da qualsiasi nuova giunta, mi aspetto molto. Faccio il tifo per voi, ma giusto i primi dieci giorni. Poi, darsi una mossa. Che c’è da fare. E se non lo fate, da scrivere.
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20.6.14
La prova del dna non è infallibile
Le cose non sono semplici come nei telefilm, e ci sono stati già molti casi di errori. Un’analisi sul caso Gambirasio
L’abbiamo pensato tutti: la svolta del caso Yara Gambirasio sembra una puntata di Csi. Il dna di interi paesi schedato, riesumazioni di cadaveri, la scoperta di figli nati fuori dal matrimonio, fino a giungere all’identità del sospettato. Nella tragedia, un trionfo di investigazione scientifica. Ma l’esame del dna è veramente infallibile?
Il dna profiling, o impronta digitale genetica, è ormai adulto: è stato inventato quasi esattamente 30 anni fa. Ci sono varie tecniche di profiling, e la ricerca continua: alcuni studi addirittura iniziano a poter ricostruire un volto a partire da campioni di dna. La maggior parte dei test comunque si concentra su particolari sequenze di dna chiamate microsatelliti. Sono zone (nel gergo dei genetisti si chiamano loci) del genoma in cui si ripete molte volte una stessa sequenza di due-cinque lettere del dna: per esempio GAGAGAGAGAGA… Le sequenze in sé non hanno un ruolo importante: quello che conta è che la lunghezza di queste zone monotone cambia in modo casuale da individuo a individuo. L’Fbi utilizza per il dna profiling tredici loci del nostro genoma, dove si concentrano i microsatelliti – contando che ciascuno di noi ha due copie del genoma in ogni cellula, abbiamo un totale di 26 microsatelliti. Mettendo insieme le lunghezze dei microsatelliti di ciascuna zona si ottiene una serie di numeri -il profilo di dna – in teoria altamente specifico per ogni individuo.
La probabilità che due profili di dna coincidano per puro caso, in teoria, va da 1 su 100 miliardi a 1 su 10mila miliardi, a seconda del test. Da qui la sua fama di bacchetta magica e inconfutabile. Purtroppo tra la teoria e la pratica c’è un abisso. L’anno scorso fino a 800 casi di stupro risolti grazie al dna, negli Usa, sono stati messi in discussione a causa dell’errore di una singola tecnica di laboratorio. Altre indagini hanno rivelato, sempre in Usa, che molti laboratori di dna profiling sono di scarsissimo livello, con personale poco o nulla specializzato. Alcuni addirittura falsificavano risultati (ahinoi, accade ovunque).
Anche facendo le cose per bene e onestamente, l’incertezza del fattore umano è inevitabile. La lettura dei microsatelliti non è sempre perfettamente precisa, e a volte profili simili (ma diversi) possono sembrare identici. I campioni in teoria dovrebbero essere incontaminati, ma ovviamente non sempre lo sono. Per esempio il dna della vittima può contaminare quello del criminale, creando un profilo ibrido, o un tecnico può accidentalmente inquinare un campione con uno analizzato poco prima. Ci sono casi più bizzarri, come quello del fantasma di Heilbronn, dove una stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, a giudicare dal dna. Ma non c’era nessuna serial killer: erano i tamponi usati per raccogliere il dna a essere giunti contaminati dalla fabbrica. Molto spesso inoltre la qualità dei campioni sul luogo del delitto è troppo bassa per ottenere un profilo completo, e bisogna affidarsi a un profilo parziale -e quindi più soggetto a errori. Nel 2002 hanno messo alla prova vari laboratori di dna profiling, trovando che la percentuale di errori era molto alta: in più di 1 caso su 100, campioni che non corrispondevano sono stati considerati uguali, o viceversa. Altri test in passato hanno trovato match fasulli addirittura nel 7% dei casi!
Da questi scandali sono passati molti anni, ma qual è oggi è la percentuale di errore reale? Difficilissimo dirlo, visto che dipende dal laboratorio, dal personale, dalla qualità dei campioni e dei database, e di molti altri fattori: ma di sicuro non è di una su vari miliardi. Possiamo stimare una forbice da 1 errore su 1000 a 1 su qualche milione. Attenzione però: questa non è la probabilità di aver sbagliato colpevole (nel qual caso sarebbe comunque un test eccezionale): è solo la probabilità di trovare due profili corrispondenti. È molto facile fare confusione tra le due cose, e infatti questa cantonata ha un nome: prosecutor’s fallacy, o fallacia dell’accusatore. Le chances di aver azzeccato il colpevole possono essere molte di meno.
Come mai? Mettiamo che il nostro laboratorio sia così perfetto da trovare una coincidenza sbagliata solo in un caso su un milione. Giustamente fieri, analizziamo una banca dati del dna di tutti gli italiani, che sono circa 60 milioni, a caccia del colpevole. Quanti match troviamo? Ne troveremo uno vero: ma ne troviamo anche uno falso ogni milione: quindi circa 60. A questo punto il test del dna non ci dice affatto quale sia il vero colpevole. Se restringessimo il campo a soli 500mila sospettati – diciamo una città come Bologna- troveremmo comunque un match fasullo nel 50% dei casi – e quindi inchioderemmo un vero colpevole solo in un caso su due.
Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6% dei casi -e infatti i casi di persone arrestate per sbaglio sulla base del solo test del dna si sprecano. Altro che impronta infallibile. Nel caso di Yara Gambirasio il match iniziale inoltre era solo parziale (nonostante siano state confrontate 18mila persone), con il sospettato che è stato incastrato solo dopo una rocambolesca ricerca dei parenti. Questo tipo di indagini familiari a ritroso che partono da campioni di migliaia di persone non è una novità, ma è considerato particolarmente vulnerabile a errori statistici.
In realtà il test del dna è importante, ma solo se considerato insieme a tutti gli altri indizi. Nel caso dell’omicidio Gambirasio, ci sono altre circostanze che hanno portato all’arresto: la presenza vicino al luogo del delitto proprio il giorno dell’omicidio, per esempio, e il fatto che il sospettato sia un muratore, come l’assassino, secondo numerose tracce. Tutto questo se verificato rende più plausibile che il match del dna non sia una coincidenza: quante persone con lo stesso profilo del DNA sono coerenti anche con il resto dello scenario del delitto? Ma di nuovo, sono solo probabilità che si accumulano, non marchi d’infamia definitivi. Prima di cantare vittoria come ha fatto incautamente il ministro dell’Interno Angelino Alfano, meglio aspettare il processo.
L’abbiamo pensato tutti: la svolta del caso Yara Gambirasio sembra una puntata di Csi. Il dna di interi paesi schedato, riesumazioni di cadaveri, la scoperta di figli nati fuori dal matrimonio, fino a giungere all’identità del sospettato. Nella tragedia, un trionfo di investigazione scientifica. Ma l’esame del dna è veramente infallibile?
Il dna profiling, o impronta digitale genetica, è ormai adulto: è stato inventato quasi esattamente 30 anni fa. Ci sono varie tecniche di profiling, e la ricerca continua: alcuni studi addirittura iniziano a poter ricostruire un volto a partire da campioni di dna. La maggior parte dei test comunque si concentra su particolari sequenze di dna chiamate microsatelliti. Sono zone (nel gergo dei genetisti si chiamano loci) del genoma in cui si ripete molte volte una stessa sequenza di due-cinque lettere del dna: per esempio GAGAGAGAGAGA… Le sequenze in sé non hanno un ruolo importante: quello che conta è che la lunghezza di queste zone monotone cambia in modo casuale da individuo a individuo. L’Fbi utilizza per il dna profiling tredici loci del nostro genoma, dove si concentrano i microsatelliti – contando che ciascuno di noi ha due copie del genoma in ogni cellula, abbiamo un totale di 26 microsatelliti. Mettendo insieme le lunghezze dei microsatelliti di ciascuna zona si ottiene una serie di numeri -il profilo di dna – in teoria altamente specifico per ogni individuo.
La probabilità che due profili di dna coincidano per puro caso, in teoria, va da 1 su 100 miliardi a 1 su 10mila miliardi, a seconda del test. Da qui la sua fama di bacchetta magica e inconfutabile. Purtroppo tra la teoria e la pratica c’è un abisso. L’anno scorso fino a 800 casi di stupro risolti grazie al dna, negli Usa, sono stati messi in discussione a causa dell’errore di una singola tecnica di laboratorio. Altre indagini hanno rivelato, sempre in Usa, che molti laboratori di dna profiling sono di scarsissimo livello, con personale poco o nulla specializzato. Alcuni addirittura falsificavano risultati (ahinoi, accade ovunque).
Anche facendo le cose per bene e onestamente, l’incertezza del fattore umano è inevitabile. La lettura dei microsatelliti non è sempre perfettamente precisa, e a volte profili simili (ma diversi) possono sembrare identici. I campioni in teoria dovrebbero essere incontaminati, ma ovviamente non sempre lo sono. Per esempio il dna della vittima può contaminare quello del criminale, creando un profilo ibrido, o un tecnico può accidentalmente inquinare un campione con uno analizzato poco prima. Ci sono casi più bizzarri, come quello del fantasma di Heilbronn, dove una stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, a giudicare dal dna. Ma non c’era nessuna serial killer: erano i tamponi usati per raccogliere il dna a essere giunti contaminati dalla fabbrica. Molto spesso inoltre la qualità dei campioni sul luogo del delitto è troppo bassa per ottenere un profilo completo, e bisogna affidarsi a un profilo parziale -e quindi più soggetto a errori. Nel 2002 hanno messo alla prova vari laboratori di dna profiling, trovando che la percentuale di errori era molto alta: in più di 1 caso su 100, campioni che non corrispondevano sono stati considerati uguali, o viceversa. Altri test in passato hanno trovato match fasulli addirittura nel 7% dei casi!
Da questi scandali sono passati molti anni, ma qual è oggi è la percentuale di errore reale? Difficilissimo dirlo, visto che dipende dal laboratorio, dal personale, dalla qualità dei campioni e dei database, e di molti altri fattori: ma di sicuro non è di una su vari miliardi. Possiamo stimare una forbice da 1 errore su 1000 a 1 su qualche milione. Attenzione però: questa non è la probabilità di aver sbagliato colpevole (nel qual caso sarebbe comunque un test eccezionale): è solo la probabilità di trovare due profili corrispondenti. È molto facile fare confusione tra le due cose, e infatti questa cantonata ha un nome: prosecutor’s fallacy, o fallacia dell’accusatore. Le chances di aver azzeccato il colpevole possono essere molte di meno.
Come mai? Mettiamo che il nostro laboratorio sia così perfetto da trovare una coincidenza sbagliata solo in un caso su un milione. Giustamente fieri, analizziamo una banca dati del dna di tutti gli italiani, che sono circa 60 milioni, a caccia del colpevole. Quanti match troviamo? Ne troveremo uno vero: ma ne troviamo anche uno falso ogni milione: quindi circa 60. A questo punto il test del dna non ci dice affatto quale sia il vero colpevole. Se restringessimo il campo a soli 500mila sospettati – diciamo una città come Bologna- troveremmo comunque un match fasullo nel 50% dei casi – e quindi inchioderemmo un vero colpevole solo in un caso su due.
Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6% dei casi -e infatti i casi di persone arrestate per sbaglio sulla base del solo test del dna si sprecano. Altro che impronta infallibile. Nel caso di Yara Gambirasio il match iniziale inoltre era solo parziale (nonostante siano state confrontate 18mila persone), con il sospettato che è stato incastrato solo dopo una rocambolesca ricerca dei parenti. Questo tipo di indagini familiari a ritroso che partono da campioni di migliaia di persone non è una novità, ma è considerato particolarmente vulnerabile a errori statistici.
In realtà il test del dna è importante, ma solo se considerato insieme a tutti gli altri indizi. Nel caso dell’omicidio Gambirasio, ci sono altre circostanze che hanno portato all’arresto: la presenza vicino al luogo del delitto proprio il giorno dell’omicidio, per esempio, e il fatto che il sospettato sia un muratore, come l’assassino, secondo numerose tracce. Tutto questo se verificato rende più plausibile che il match del dna non sia una coincidenza: quante persone con lo stesso profilo del DNA sono coerenti anche con il resto dello scenario del delitto? Ma di nuovo, sono solo probabilità che si accumulano, non marchi d’infamia definitivi. Prima di cantare vittoria come ha fatto incautamente il ministro dell’Interno Angelino Alfano, meglio aspettare il processo.
15.6.14
Novantatre posizioni di Alberto Arbasino
Escono da Adelphi i «Ritratti italiani».
Raffaele Manica (Il Manifesto)
Nessuna parola, tra aggettivi e sostantivi, ricorre con più frequenza nei titoli di Arbasino. La serie diceva, finora: Fratelli d’Italia, Fantasmi italiani, Paesaggi italiani con zombi. Vuol dire che lo scrittore ha visto il mondo, ma il suo paesaggio è l’Italia, il «paese senza» dove ha vissuto l’Anonimo lombardo in tutte le stagioni della sua vita. Ora alla suite si aggiunge Ritratti italiani (Adelphi «Biblioteca», pp. 552, euro 28,00; in copertina «Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini», prologo fotografico al libro: lo scrittore in altra sua età, in bianco e nero, forse nei felici Sixties, mentre legge adagiato sul divano). I ritratti sono novantatre, da Gianni Agnelli a Federico Zeri, in ordine alfabetico, e il libro è dunque una galleria rappresentativa dell’intero Novecento: il Novecento di Arbasino e il suo «paese con». Stilati di fronte o di lato, si direbbe che la fonte formale di questi ritratti sia rintracciabile in alcuni esemplari del buon vecchio giornalismo d’autore e soprattutto del new journalism (si vedano, sintomatici, i nomi di Irene Brin e di Camilla Cederna), nei modelli alti di certa letteratura (alla quale però la prosa sismica di Arbasino somiglia ben poco) e, infine e forse maggiore, in quel brano della pittura lombarda che, insegnava Longhi, sta nel capitolo «dal Moroni al Ceruti» e, al modo della scuola maggiore di Longhi, nel «Fra Galgario, di lato» di Gianni Testori.
Il libro più somigliante a Ritratti è forse Sessanta posizioni, utilizzato per precedenti risistemazioni (per esempio America amore) nel continuo updating che si conosce (non solo riscrittura stilistica o linguistica, ma di pensiero e di memoria), smembrato e congedato, però persistentemente cult. Nel confronto, Ritratti mostra come, nella mutazione di clima culturale, siano diversi disposizione e sentimento delle cose: ciò che era in presa diretta è ora materia ancora viva però a freddo, base per una autobiografia intellettuale per interposti fatti e persone, al modo di Marescialle e libertini, sezione dei mémoires in divenire. I pezzi non recano date. Non si sa quando siano avvenuti gli incontri né quando siano stati scritti i capitoli: incontriamo un giovane Gianni Morandi e molti agiscono da vivi, come più non sono. Tale rapporto con le date e la cronologia è tratto si direbbe innato dell’autore come coltivatore di memorie e utilizzatore di suoi archivi: comporre a strati successivi, con aggiunte e ritorni, e ritocchi. La musa è l’occasione, e compito del poeta è che l’occasione divenga persistenza e che trovi significato in un campo di relazioni. Ma sappiamo che il libro, nel suo insieme, avvolto dalla copertina carta da zucchero, reca la data di oggi.
Perciò Ritratti italiani è lo stato odierno della memoria di Arbasino: memoria, non va nemmeno aggiunto, privata solo per accidente, e resa pubblica in quanto memoria di epoche e contesti, di climi culturali e di colori del tempo andato. Questo libro di memorie che si affollano e di qua e di là, tirando a destra e a manca e sopra e sotto chi legge, prende stabilità come galleria di ritratti dal nome posto in testa a ogni singolo capitolo: indicatore di direzione, ogni nome funziona prima come segnaletica, poi diventa un addensante, un esaltatore di sapidità, un filtro che trattiene o rilascia; nulla evapora, ma tutto si condensa, e ben s’impingua. Alcuni degli estremi tra i quali oscilla l’indicatore: contesto e aneddoto, antropologia e cronaca, storia e gossip. L’ago del sismografo segna il minimo colpo, ma quasi prima che ne dia rendiconto ci si accorge che il sismografo e il territorio in movimento sono la stessa cosa. Perciò, per esempio, gioco accattivante, ma facile troppo, sarebbe una ricognizione o una semplice infilzatura di aneddoti; non sarebbe errata a scorgere il tono del tomo, però sarebbe largamente insufficiente a delinearne la portata. Invece, siccome Arbasino colloca l’uno accanto all’altro elementi diversi – il suo procedimento è simile alla diffrazione della luce, che si parcellizza ma che è unica – non di rado si scorgono luminescenze accanto a quella che viene annunciata come la via principale. Per esempio, nelle mirabili pagine su Longhi, c’è una segnalazione su uno dei modi di leggere Croce; e nelle stesse pagine ci sono osservazioni su Contini proprio non trascurabili e che magari nella memoria del lettore correranno anche leggendo il capitolo su Contini, dove non ci sono. Il ritratto di Torino che prepara un incontro con Bobbio lascia cadere un’osservazione sulla sintassi di Hemingway e così via; e anche microscopicamente si hanno infinite conferme di accostamenti di piani stilisticamente e concettualmente lontani, come nella fisicità deplorevole di certi antichi siciliani nel capitolo su Fulco Verdura. Questi accostamenti inattesi e di efficacia immediata sono, certo, anche una delle ricette del comico. Perciò, altro avviso ai naviganti in mare aperto.
Si rischia sempre di ridurre Arbasino a ottimo fabbro di battute, ricordando alcune sue peraltro memorabili sintesi, delle quali Ritratti è una miniera; si tratta di un rischio condiviso con altri moralisti di vena all’apparenza comica, dall’immenso Belli a Flaiano: pericolo maggiore nell’uso giornalistico. Non è detto che tale libera estrapolazione non abbia una sua legittimità, ma la vena ha sangue ora malinconioso ora bilioso, per quanto sublimato e talvolta improvvisamente euforico; sicché il discorso così spezzettato, buono come il prezzemolo a ogni minestra, finisce per negare il tessuto in cui quelle sintesi prendono corpo e forma, le assolutizza e le riduce a meno di quel che sono, per quanto l’effetto immediato possa restare fulminante. La battuta è l’antiinfiammatorio, il vicolo per la fuga immediata; al termine si spalancano autostrade con varie corsie per ogni senso di marcia, nelle quali ci si azzarda a itinerari contromano; e rotatorie, e incroci, cunette, rare assai aree di sosta e parcheggi mai: la scrittura di Arbasino si muove sempre, ha bisogno del movimento che è la sua forma propria. Che si trova, si solidifica e poi riparte senza sonno.
Né, in coda, si vuol mancare di rilevare come, grande letteratura, Ritratti sia anche un libro di educazione civica e politica, come lo è ogni osservatorio di costumi. Non si rischiasse di essere fraintesi, lo si dichiarerebbe dominato da un tratto pedagogico, impassibilmente sostenuto, anche nei suoi rivoli più pop e più camp, da intensa pietà e trattenuta commozione verso le cose che svaniscono, da ricordare la mano del curatore di erbari mentre impedisce, con pudore e amore, che le piante diventino povera polvere. Infine, la valutazione di Ritratti italiani si vuole toglierla da dentro il libro stesso, sostituendo al nome del ritrattato quello del ritrattista: «Si fa presto, a dire comunemente: il piacere del testo. Ma quando il testo è Arbasino, i piaceri sono numerosi, e deliziosi. Il diletto dell’erudizione smisurata, proliferante, intersecante, e giustamente bizzarra, con tutte le sue eccentricità giuste – e qualcuna in più. Ancora la voluttà di una sovrana squisita leggerezza, che tutto o quasi può permettersi, perché agisce talmente (e totalmente) dall’alto. Sono doti sempre più insolite in una cultura come la nostra che pure ha avuto personaggi di personalità e charme incantevoli: R. Longhi, M. Praz, C. Brandi, G. Contini, G. Macchia. […]. Ma, finalmente, il testo. Arbasino même, in person, in concert, live. […]Ghiotto, rigoglioso. Succulento e dry». Un po’ Stravinsky un po’ Miles Davis.
Raffaele Manica (Il Manifesto)
Nessuna parola, tra aggettivi e sostantivi, ricorre con più frequenza nei titoli di Arbasino. La serie diceva, finora: Fratelli d’Italia, Fantasmi italiani, Paesaggi italiani con zombi. Vuol dire che lo scrittore ha visto il mondo, ma il suo paesaggio è l’Italia, il «paese senza» dove ha vissuto l’Anonimo lombardo in tutte le stagioni della sua vita. Ora alla suite si aggiunge Ritratti italiani (Adelphi «Biblioteca», pp. 552, euro 28,00; in copertina «Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini», prologo fotografico al libro: lo scrittore in altra sua età, in bianco e nero, forse nei felici Sixties, mentre legge adagiato sul divano). I ritratti sono novantatre, da Gianni Agnelli a Federico Zeri, in ordine alfabetico, e il libro è dunque una galleria rappresentativa dell’intero Novecento: il Novecento di Arbasino e il suo «paese con». Stilati di fronte o di lato, si direbbe che la fonte formale di questi ritratti sia rintracciabile in alcuni esemplari del buon vecchio giornalismo d’autore e soprattutto del new journalism (si vedano, sintomatici, i nomi di Irene Brin e di Camilla Cederna), nei modelli alti di certa letteratura (alla quale però la prosa sismica di Arbasino somiglia ben poco) e, infine e forse maggiore, in quel brano della pittura lombarda che, insegnava Longhi, sta nel capitolo «dal Moroni al Ceruti» e, al modo della scuola maggiore di Longhi, nel «Fra Galgario, di lato» di Gianni Testori.
Il libro più somigliante a Ritratti è forse Sessanta posizioni, utilizzato per precedenti risistemazioni (per esempio America amore) nel continuo updating che si conosce (non solo riscrittura stilistica o linguistica, ma di pensiero e di memoria), smembrato e congedato, però persistentemente cult. Nel confronto, Ritratti mostra come, nella mutazione di clima culturale, siano diversi disposizione e sentimento delle cose: ciò che era in presa diretta è ora materia ancora viva però a freddo, base per una autobiografia intellettuale per interposti fatti e persone, al modo di Marescialle e libertini, sezione dei mémoires in divenire. I pezzi non recano date. Non si sa quando siano avvenuti gli incontri né quando siano stati scritti i capitoli: incontriamo un giovane Gianni Morandi e molti agiscono da vivi, come più non sono. Tale rapporto con le date e la cronologia è tratto si direbbe innato dell’autore come coltivatore di memorie e utilizzatore di suoi archivi: comporre a strati successivi, con aggiunte e ritorni, e ritocchi. La musa è l’occasione, e compito del poeta è che l’occasione divenga persistenza e che trovi significato in un campo di relazioni. Ma sappiamo che il libro, nel suo insieme, avvolto dalla copertina carta da zucchero, reca la data di oggi.
Perciò Ritratti italiani è lo stato odierno della memoria di Arbasino: memoria, non va nemmeno aggiunto, privata solo per accidente, e resa pubblica in quanto memoria di epoche e contesti, di climi culturali e di colori del tempo andato. Questo libro di memorie che si affollano e di qua e di là, tirando a destra e a manca e sopra e sotto chi legge, prende stabilità come galleria di ritratti dal nome posto in testa a ogni singolo capitolo: indicatore di direzione, ogni nome funziona prima come segnaletica, poi diventa un addensante, un esaltatore di sapidità, un filtro che trattiene o rilascia; nulla evapora, ma tutto si condensa, e ben s’impingua. Alcuni degli estremi tra i quali oscilla l’indicatore: contesto e aneddoto, antropologia e cronaca, storia e gossip. L’ago del sismografo segna il minimo colpo, ma quasi prima che ne dia rendiconto ci si accorge che il sismografo e il territorio in movimento sono la stessa cosa. Perciò, per esempio, gioco accattivante, ma facile troppo, sarebbe una ricognizione o una semplice infilzatura di aneddoti; non sarebbe errata a scorgere il tono del tomo, però sarebbe largamente insufficiente a delinearne la portata. Invece, siccome Arbasino colloca l’uno accanto all’altro elementi diversi – il suo procedimento è simile alla diffrazione della luce, che si parcellizza ma che è unica – non di rado si scorgono luminescenze accanto a quella che viene annunciata come la via principale. Per esempio, nelle mirabili pagine su Longhi, c’è una segnalazione su uno dei modi di leggere Croce; e nelle stesse pagine ci sono osservazioni su Contini proprio non trascurabili e che magari nella memoria del lettore correranno anche leggendo il capitolo su Contini, dove non ci sono. Il ritratto di Torino che prepara un incontro con Bobbio lascia cadere un’osservazione sulla sintassi di Hemingway e così via; e anche microscopicamente si hanno infinite conferme di accostamenti di piani stilisticamente e concettualmente lontani, come nella fisicità deplorevole di certi antichi siciliani nel capitolo su Fulco Verdura. Questi accostamenti inattesi e di efficacia immediata sono, certo, anche una delle ricette del comico. Perciò, altro avviso ai naviganti in mare aperto.
Si rischia sempre di ridurre Arbasino a ottimo fabbro di battute, ricordando alcune sue peraltro memorabili sintesi, delle quali Ritratti è una miniera; si tratta di un rischio condiviso con altri moralisti di vena all’apparenza comica, dall’immenso Belli a Flaiano: pericolo maggiore nell’uso giornalistico. Non è detto che tale libera estrapolazione non abbia una sua legittimità, ma la vena ha sangue ora malinconioso ora bilioso, per quanto sublimato e talvolta improvvisamente euforico; sicché il discorso così spezzettato, buono come il prezzemolo a ogni minestra, finisce per negare il tessuto in cui quelle sintesi prendono corpo e forma, le assolutizza e le riduce a meno di quel che sono, per quanto l’effetto immediato possa restare fulminante. La battuta è l’antiinfiammatorio, il vicolo per la fuga immediata; al termine si spalancano autostrade con varie corsie per ogni senso di marcia, nelle quali ci si azzarda a itinerari contromano; e rotatorie, e incroci, cunette, rare assai aree di sosta e parcheggi mai: la scrittura di Arbasino si muove sempre, ha bisogno del movimento che è la sua forma propria. Che si trova, si solidifica e poi riparte senza sonno.
Né, in coda, si vuol mancare di rilevare come, grande letteratura, Ritratti sia anche un libro di educazione civica e politica, come lo è ogni osservatorio di costumi. Non si rischiasse di essere fraintesi, lo si dichiarerebbe dominato da un tratto pedagogico, impassibilmente sostenuto, anche nei suoi rivoli più pop e più camp, da intensa pietà e trattenuta commozione verso le cose che svaniscono, da ricordare la mano del curatore di erbari mentre impedisce, con pudore e amore, che le piante diventino povera polvere. Infine, la valutazione di Ritratti italiani si vuole toglierla da dentro il libro stesso, sostituendo al nome del ritrattato quello del ritrattista: «Si fa presto, a dire comunemente: il piacere del testo. Ma quando il testo è Arbasino, i piaceri sono numerosi, e deliziosi. Il diletto dell’erudizione smisurata, proliferante, intersecante, e giustamente bizzarra, con tutte le sue eccentricità giuste – e qualcuna in più. Ancora la voluttà di una sovrana squisita leggerezza, che tutto o quasi può permettersi, perché agisce talmente (e totalmente) dall’alto. Sono doti sempre più insolite in una cultura come la nostra che pure ha avuto personaggi di personalità e charme incantevoli: R. Longhi, M. Praz, C. Brandi, G. Contini, G. Macchia. […]. Ma, finalmente, il testo. Arbasino même, in person, in concert, live. […]Ghiotto, rigoglioso. Succulento e dry». Un po’ Stravinsky un po’ Miles Davis.
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