30.9.15

Scomode verità che non vogliamo vedere

Franco Bifo Berardi (il manifesto)

C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.

Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.

Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.

Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.

Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.

I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla.

Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.

E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.

Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?

Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.

La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.

Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.

Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.

Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?

Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura l’educazione e alla gioia.

So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.

Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.

Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.

Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.

Atten­dere il mat­tino come una talpa.

22.9.15

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

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[Carta di Laura Canali]
Ci attendiamo che gli Usa garantiscano la sicurezza del Vecchio Continente. Washington però ormai guarda al Pacifico, mentre ai nostri confini ci sono due crisi che non possiamo più ignorare.
Nella storia dei popoli esistono periodi caratterizzati da mutamenti tanto rapidi, radicali e continuati che il cambiamento cessa di essere l’eccezione e la stabilità la regola.

Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.

È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.

In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.

In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.

In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.

La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.

Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.

In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.

In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.

Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.

In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.

Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.

Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare:  la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!

Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.

Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.

C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.

La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?

Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?

Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!

Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa

L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.

20.9.15

Tutto quello che c’è da sapere sulle elezioni in Grecia

internazionale.it
Dopo mesi di serrati negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il nuovo primo ministro Alexis Tsipras – già uscente – è stato costretto ad accettare le durissime condizioni di un nuovo piano di salvataggio triennale da 85 miliardi di euro.
Con il paese sull’orlo della bancarotta, il 14 agosto il parlamento di Atene ha approvato il terzo accordo per il salvataggio in cinque anni. Quasi un terzo dei 149 parlamentari di Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, si è rifiutato di sostenerlo e il primo ministro, di 41 anni, si è dimesso, aprendo così la strada alle quinte elezioni politiche in sei anni.
Come siamo arrivati a questo punto?
La Grecia è stata obbligata a chiedere aiuti internazionali nel 2010 quando si è trovata sull’orlo del fallimento, appena nove anni dopo essere entrata nell’euro.
La Grecia ha ricevuto più di trecento miliardi di euro in aiuti internazionali. Ma questi sono stati concessi a condizioni molto severe, con un programma d’austerità che ha comportato pesanti tagli al bilancio e un’impennata delle tasse.
L’economia della Grecia si è inabissata: il pil è sceso del 25 per cento dal 2010. La disoccupazione riguarda circa il 26 per cento della forza lavoro (che in maggioranza non riceve sussidi), gli stipendi sono calati del 38 per cento e le pensioni del 45 per cento. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà.
Visto che la maggior parte dei fondi di salvataggio è stata usata per pagare i debiti del paese, non è stato investito quasi niente per il rilancio economico. E, soprattutto, il debito greco oggi è quasi il doppio della produzione economica annuale del paese, cioè il 180 per cento del pil.
Alle elezioni di gennaio, gli elettori greci, stremati, hanno finito per perdere la pazienza con i partiti tradizionalmente al potere. Promettendo di stracciare gli accordi sugli aiuti responsabili della “crisi umanitaria”, Syriza ha ottenuto una clamorosa vittoria.
Quali sono le questioni principali e qual è lo scenario più probabile?
Due mesi fa Tsipras godeva di grande popolarità, con un tasso di consensi del 70 per cento, dato che era l’unico primo ministro greco ad avere perlomeno provato a opporsi ai piani dei creditori della Grecia. I sondaggi mostrano che oggi, tra le persone di età compresa tra i 18 e i 44 anni che hanno contribuito a portarlo al potere, il sostegno a Syriza è crollato.
Buona parte del 62 per cento dei greci che nel referendum di luglio hanno votato contro il nuovo salvataggio sono scontenti del partito perché ha finito per accettare un accordo che aveva promesso di rigettare.

Cruciale per l’esito delle elezioni di domenica sarà il comportamento di questi elettori di Syriza delusi. Alcuni sembrano attratti dalla sinistra ancor più radicale, alcuni persino dal partito di estrema destra Alba dorata (il più popolare per le persone tra i 18 e i 24 anni).
Ma in molti sembrano anche disposti a fidarsi dell’offerta di “ritorno alla stabilità” proposta dal leader di Nea dimokratia, Vangelis Meimarakis. I sondaggi suggeriscono che il vantaggio di Syriza su Nea dimokratia si sia, come minimo, sensibilmente ridotto. Secondo alcuni, i due partiti sono praticamente testa a testa.
I principali partiti politici
Dalla caduta del regime dei colonnelli nel 1974, le elezioni in Grecia sono state dominate da due partiti politici: Nea dimokratia, di centrodestra, e il Partito socialista, Pasok. Dal 1981 in poi, alle elezioni politiche i due partiti hanno sempre ottenuto, in totale, l’84 per cento dei voti. Tutto è cambiato con il crollo dell’economia greca e i piani di salvataggio che ne sono seguiti. Nelle tre tornate elettorali che si sono svolte a partire dal maggio 2012, il risultato complessivo dei due partiti è stato rispettivamente del 32, 42 e 32,5 per cento.
Al contrario, il sostegno nei confronti dei partiti più piccoli è cresciuto. Prima delle elezioni del maggio 2012 il sostegno per Alba dorata era inferiore allo 0,5 per cento, mentre da allora è sempre stato superiore al 5 per cento.
I partiti e le coalizioni che si presentano alle elezioni di domenica 20 settembre sono 19. Ecco i partiti che hanno le maggiori possibilità di entrare nel prossimo parlamento greco.
Come funzioneranno le elezioni?
Sono circa 9,8 milioni i greci che hanno diritto di voto e ai partiti serve almeno il 3 per cento dei voti per entrare in parlamento con un mandato di quattro anni.
Il parlamento greco ha trecento seggi: 250 deputati sono eletti con un meccanismo proporzionale, mentre gli altri 50 sono automaticamente assegnati al partito che conquista il maggior numero di voti.
I deputati sono eletti a partire dalle liste di candidati di 56 circoscrizioni geografiche. Gli elettori di Atene, dove vive metà della popolazione nazionale, eleggono 58 dei trecento deputati.
La quota di voti necessaria per una maggioranza assoluta di 151 seggi dipenderà da come sarà distribuito il risultato generale tra i partiti: se tutti i partiti ottenessero seggi in parlamento, il 40 per cento dei voti potrebbe significare una vittoria netta. Se invece molti voti si disperdessero tra i partiti più piccoli, che non riescono a superare lo sbarramento del 3 per cento, la quota necessaria per la maggioranza dei seggi si abbasserà.
Anche se in Grecia esiste l’obbligo di votare, non viene fatto rispettare. L’affluenza è scesa notevolmente nell’ultimo decennio. Negli anni ottanta era costantemente sopra l’80 per cento. Nei dieci anni fino al 2005 l’affluenza media è scesa al 75 per cento. Nelle ultime elezioni di gennaio è stata inferiore al 64 per cento.
Nel caso in cui nessun partito ottenga la maggioranza assoluta, il presidente Prokopis Pavlopoulos darebbe al leader del partito principale il mandato di formare una coalizione. Se ciò non fosse possibile, il cosiddetto mandato esplorativo andrebbe al secondo partito e poi al terzo.
Secondo i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di ottenere seggi sufficienti da poter formare da solo un governo di maggioranza. Entrambi i favoriti, Nea dimokratia e Syriza, avrebbero bisogno di formare una coalizione con uno o più partiti per poter governare. Pasok, To potami e l’Unione dei centristi sarebbero i candidati più probabili a entrare in una coalizione del genere.
Un’altra possibilità è una coalizione tra Nea dimokratia e Syriza, anche se Tsipras non è molto favorevole all’ipotesi.

16.9.15

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"
Viaggio nella fabbrica di Ravenna dove c'è la macchina più grande del pianeta: dodici metri per sette. Gli esemplari di questo tipo costano sempre meno, sono alla portata di tutti e facili da usare. "Ora stiamo provando a mescolare terra e paglia per vedere se ne esce qualcosa di abitabile"
 
 

La stampante, una strana torre metallica che ricorda i ponteggi dei palazzi, si chiama Delta e verrà presentata al mondo alla prossima Maker Faire di Roma a metà ottobre. È stata realizzata da un team di giovani guidati da un meraviglioso artigiano di 55 anni: si chiama Massimo Moretti, ha passato una vita a fare prodotti, dice, "le aziende venivano da me, mi dicevano cosa volevano realizzare e io facevo tutto, dal disegno al prodotto, spesso costruendo pure le macchine".

"Ecco la stampande 3D più grande del mondo: farà case low cost"


Il Centro Sviluppo Progetti di Moretti ancora esiste, ma la storia è cambiata quando ha scoperto le stampanti 3D, la manifattura additiva, ovvero la possibilità di realizzare un oggetto non tagliando o segando qualcosa, ma invece aggiungendo materiale. E se ne è innamorato. Le stampanti 3D non sono un fatto recente: è recente il loro boom, dovuto al fatto che costano sempre meno, a volte meno di mille euro, e che sono alla portata di tutti perché sono facili da usare. La prima stampante 3D di Massimo Moretti infatti, attorno al 2000, gli costò più di 40 mila euro: "Erano tutti i miei risparmi, ma ne valeva la pena. Era una Zeta Corp ed era grande come un congelatore orizzontale. La volevo non solo per stamparci oggetti ma per smontarla, capire come era stata costruita e farmene una tutta mia". I risparmi però finirono prima che Moretti potesse sviluppare un software che la facesse funzionare.

Finché, verso il 2005, accade un piccolo miracolo: un professore universitario britannico, Adrian Bowyer, realizza una stampante 3D che tutti possono rifarsi a casa (e in grado di stamparsi i pezzi necessari per montarne una nuova). Si chiama RepRap e tutte le informazioni per farla funzionare sono in rete, disponibili per tutti, gratis. Open Source, che bella parola. Quando la notizia della RepRap arriva in Romagna, Moretti festeggia: "Hanno cambiato il mondo, loro sì, sono stati dei santi". Moretti si convince che presto la stampa 3D sarà lo standard della manifattura, servirà agli artigiani ma anche agli ingegneri. Stampare case, il suo pallino. A km zero.

Moretti non è il primo ad aver immaginato che una casa possa essere stampata in 3D: curiosamente ma non troppo, visto la nostra tradizione artigiana e meccanica, già Enrico Dini, a Pisa, nel 2011 si era costruito una macchina  -  la D-Shape  -  che ha fatto il giro del mondo. Dini era partito per stampare case sulla luna, usando la polvere del nostro satellite, e si è poi specializzato nello stampare bellissime barriere coralline artificiali.

Ma torniamo a Moretti che tre anni fa mette su un team di "laureati disoccupati" con il compito di inventare una stampante 3D adatta al sogno di edilizia popolare. "C'era il problema dell'estrusore, cioé di come far funzionare il meccanismo dal quale esce il materiale da stampare". Moretti si accorge che quello che ha in mente lui in natura già c'è: lo fanno le vespe vasaie. Chiama la società Wasp, e con un inglese maccheronico decide che quelle quattro lettere non sono solo la traduzione di "vespa" ma stanno per "World Advanced Saving Project", che è come dire "siamo in missione per salvare il mondo". Non sarà troppo? "In un certo senso sì, e infatti ci prendiamo in giro da soli, ma in realtà ci crediamo davvero".

In cosa credono? Nel fatto che farsi una vera casa debba poter essere un diritto per tutti. E quindi tutta la ricerca del suo team la indirizza verso la possibilità di stampare uno strano miscuglio di argilla e paglia. "È più difficile che con il cemento, ma funziona". Lo vedremo presto, in Sardegna, nel Sulcis, dove è appena arrivata una stampante che presto inizierà a miscelare terra e paglia per vedere se ne esce una casa abitabile.

Per arrivare al risultato di oggi Moretti ha investito un sacco di soldi, tutto quello che ha guadagnato con la vendita di stampanti più piccole. Tecnologicamente sono dei gioiellini, le Wasp. E sono state usate per fare di tutto, non solo i giocattolini di plastica che vedete di solito uscire dalle stampanti 3D. "Qualche mese fa abbiamo consegnato a Pompei delle copie dei loro famosi calchi. Ce le avevano chieste per poterle mandare nel mondo, lasciando gli originali al sicuro". È il nuovo Made in Italy.

1.9.15

Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi

Pino Corrias (Il Fatto Quotidiano)

Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.

Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.

Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.

La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”

Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.

Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.

Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.

Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.

La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci.