Benedetto Vecchi (Il Manifesto)
Codici aperti. Il nuovo saggio di Evgeny Morozov tradotto da Mondadori è un j’accuse contro le tesi di chi vede nella Rete la salvezza dell’umanità. Sotto accusa è l’ideologia del «cyberutopismo» in nome di un indiscusso e indiscutibile principio di realtà
La comparsa del suo nome tra le pagine di questo nuovo e imponente saggio di Evgeny Morozov (Internet non salverà il mondo, pp. 448, euro 19) sorprende non poco. Tanto più che viene inserito in una platea che va da libertario Jason Lanier all’economista liberale Friedrich von Hayek, dal filosofo conservatore Thomas Molnar al critico radicale Ivan Illich, dalla «modernista» Jane Jacobs all’ultra conservatore Michael Oakeshott, da Hans Jonas a lui, Jacques Ellul, teologo, filosofo e sociologo noto per la sua critica alla tecno-scienza.
Eppure la presenza di Jacques Ellul è meno stravagante degli altri nomi, inseriti nell’eccentrico pantheon teorico di Morozov. Ellul, infatti, è stato uno fustigatore del ruolo svolto dalla tecnologia e dalla scienza nelle società contemporanee, collanti di una gabbia di acciaio che definisce il perimetro delle azioni umani, stabilendo all’interno regole di comportamento funzionali alla logica astratta e oggettiva imposta dalla scienza. Nel libro di Morozov tale impianto teorico torna continuamente, sia quando scrive di Internet che dei social network. Sia però chiaro: Morozov non è un apocalittico critico della scienza e della tecnologia, né propone una frugale e austera decrescita che rallenti lo sviluppo scientifico. È un blogger che apprezza il potere comunicativo della Rete e dei social network. Al pari di molti storici della tecnologia ritiene che le macchine siano protesi meccaniche degli essere umani. Ma è altrettanto convinto che la Rete, i computer, gli smartphone non sono protesi «stupide», ma hanno, in quanto «macchine universali» che riproducono attività cognitive, un potere performativo dei comportamenti, delle abitudini individuali e collettive. Sulla scia di Ellul, sostiene che siano espressioni di un sistema tecno-scientifico che limita le libertà dei singoli e inibisce le possibilità alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle dominanti. Questo però non fa di Morozov un critico del capitalismo.
UN LIBERAL DEL WEB
Lo studioso, giornalista nato in Bielorussia, ma statunitense per scelta può essere considerato uno degli esponenti più brillanti di un’attitudine moderatamente anticorporation e conservatrice che sostiene un intervento attivo dello Stato nel regolamentare la vita sociale, stabilendo limiti precisi all’azione delle multinazionali del digitale. Posizione che lo portano a scrivere di essere più in sintonia con i liberal che non con i repubblicani statunitensi. Significative in questo suo nuovo saggio non sono però le sue posizioni politiche, bensì l’analisi proprio della vita dentro e fuori lo schermo dove le strategie imprenditoriali di Apple, Google, Amazon, Facebook e Twitter più che aprire la strada a una società di liberi, stiano minando le basi della democrazia liberale.
Il libro di Morozov è certo una dettagliata critica della egemone welthashauung tecnocratica, anche se limita la sua analisi agli Stati Uniti, con l’Europa vista come una colonia tecnologia della Silicon Valley. Poco infatti viene detto su quanto accade in paesi sempre più rilevanti nello sviluppo della Rete. Alla Cina, all’India dedica infatti qualche distratta citazione e nulla più. Non che nei distretti tecnologici o nelle università cinesi e indiane non ci siano progetti di sviluppo alieni rispetto a quanto accade negli Stati Uniti o nel vecchio continente, ma con una differenza: la tecnologia è sempre una variabile dipendente di altre scelte e priorità economiche e di politica industriale. Il «tecnopolio», termine preso in prestito proprio da Ellul, è relativo solo all’operato delle imprese nella Silicon Valley, ma non dei distretti tecnologici cinesi o indiani. L’assenza di una analisi delle logiche dominante nei cosiddetti paesi emergenti non toglie forza alla requisitoria che svolge contro il determinismo tecnologico dominante. Il suo è un j’accuse contro quello che chiama, di volta in volta, «internet-centrismo», «soluzionismo», «tecnoescapismo», tre modi per qualificare una ideologia egemone che assegna ai modelli economici, produttivi e sociali presenti nella Rete una naturalità indiscutibile e una superiorità rispetto ad altre possibili vie di sviluppo sociale e economico.
GLI IDEOLOGHI DEL DIGITALE
Morozov non esita quindi a prendere di mira tanto gli apologeti della Rete che i media theorist critici del regime della proprietà intellettuale operante su Internet. Da Jason Lanier a Nicholas Carr, da Lawrence Lessig a Yoachai Benkler, nessuno è risparmiato nelle critiche di Morozov, che li considerata tutti responsabili della «produzione» dell’ideologia tecnocratica dominante. Molti sono, ad esempio, gli esempi di come funzioni il «soluzionismo». L’inquinamento a livello planetario può essere risolto usando la Rete, perché limita la mobilità (tutto può essere fatto da casa); perché riduce il consumo di carta; perché i computer e le fibre ottiche possono essere prodotti a poco prezzo e consumando poco petrolio. La realtà dimostra il contrario — il livello di inquinamento provocato dallo smaltimento dei rifiuti «digitali» non ha nulla da invidiare all’inquinamento provocato dal petrolio -, ma questo è dovuto, sostengono i «soluzionisti», al fatto che l’organizzazione sociale è ancora modellata sulla società industriale. Basta quindi prendere coscienza che siamo nella società dell’informazione e adeguare le istituzione politiche è il problema è risolto: l’inquinamento diminuirà di conseguenza. La democrazia è in crisi? Come negarlo, ma attraverso i social network e la comunicazione on-line la partecipazione diffusa nel prendere le decisioni è garantita.
Su questo aspetto, Morozov ha molte frecce nel suo arco nel criticare il populismo digitale. Con feroce ironia, scrive che una proposta non basta che venga sponsorizzata da un numero alto di «naviganti» per essere la migliore. Inoltre, ma su questo aspetto Morozov è evasivo, Facebook, Twitter, Google e molte altre imprese dot.com fanno affari d’oro nel costruire, elaborare e vendere i Big Data accumulati attraverso l’uso dei social network o dei tanti blog operanti tra le due sponde dell’Atlantico. Anzi, alcune imprese fanno affari ospitando e organizzando forum di discussione politici, come testimonia l’impresa che gestisce il Blog di Beppe Grillo.
In fondo, proprio il gruppo italiano del «Movimento 5 stelle» strizza l’occhio alle dinamiche della Rete facendo derivare il proprio nome dal numero massimo di stelle che i recensori di libri o di siti pongono per segnalare il loro gradimento a un libro, un sito o una proposta. Tutto ciò nulla a che fare con una rinnovata democrazia rappresentativa, né con la sbandierata democrazia diretta dei populisti digitali.
I populisti digitali sono la bestia nera di Morozov, perché sono gli agit-prop di quel «tecnoescapismo» che vede nella Rete una sorte di eden dell’individuo proprietario che le vecchie oligarchie vorrebbero vedere cancellato per preservare il loro potere. Morozov è invece convinto che l’animale umano sia un animale sociale e che per questo abbia bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità. Da qui la necessità della mediazione e della condivisione.
IN NOME DELLA CONDIVISIONE
Un’antropologia filosofica ignota agli apologeti della Rete, interessanti invece a spacciare come novità rivoluzionarie ogni minima e spesso irrilevante innovazione tecnologica. Uno spirito polemico, il suo, che raggiunge l’acme acme quando affronta l’oggettività costituita dai modelli proposti dalla tecnologia digitale a partire dalla neutralità rappresentata dagli algoritmi alla base del motore di ricerca Google (Page Rank) e di quello di Facebook (Edge Rank). Al di là del ragionevole dubbio sulla loro oggettività, visto che entrambi gli algoritmi sono coperti da brevetto e che finora nessuno è riuscito a capire come funzionano, è interessante la sottolineatura che l’autore fa del fatto che dentro le multinazionali high-tech lavorano uomini e donne che vivono in una società dove sono vigenti weltanshauung egemoni che ne condizionano l’operato.
La critica alla neutralità degli algoritmi, banco di prova di una teoria critica della Rete ancora da sviluppare, viene sì nominata dallo studioso, ma non sviluppata. Per fare questo, servirebbe una analisi dei modelli epistemologici dominanti e sul regime produttivo del software e dei contenuti dentro e fuori la Rete. In altri termini, a costituire problema è il regime di sfruttamento presente nella società en general, così come costituisce problema la pretesa oggettività delle procedure e degli standard, i format imposti dalle tecnologie, che vengono sviluppate in base a una concezione dei rapporti sociali dove di oggettivo c’è ben poco. Ma è proprio sulla propagandata oggettività degli algoritmi che si manifesta il potere autoritario del «tecnopolio».
Il settore dove più evidente è la pretesa dell’internet-centrismo di funzionare come modello «universale» è l’«industria dei memi» — le parole chiave che scandiscono e orientano il flusso dentro Facebook e Twitter — per la sua capacità di condizionare l’opinione pubblica e la formazione delle decisioni politiche per salvaguardare gli interessi economici e la vision sociale delle imprese digitali. La conclusione è lapidaria: l’«internet-centrismo», così come il «tecnoescapismo» hanno molte caratteristiche delle società totalitarie del Novecento. Lo stesso vale per la difesa della privacy: un diritto ridotto a merce da acquistare a caro prezzo sul mercato.
UNA PRIVACY DI CLASSE
Il self tracking, infatti, è ritenuto il settore economico in espansione. Il monitoraggio della informazioni sulla propria vita e la possibilità di eliminare i dati che non vogliono essere resi pubblici sta diventando infatti una prerogative delle élite globali che vogliono salvaguardare la privacy rispetto alle tecnologie del controllo esistenti. Ma come sostengono gli attivisti e ricercatori del gruppo italiano Ippolita, il rispetto della privacy sta acquisendo sempre più caratteristiche di classe: chi può riesce a garantirsi zone d’ombre sulla propria vita; per la maggioranza dellla popolazione connessa alla rete, la propria vita diviene semplicemente trasparente ai colossi dei Big Data.
C’è il rischio che le tesi di Morozov abbiano come conseguenza – e in alcune parti del saggio è evidente una deriva «conservatrice» — un auspicato ritorno all’ordine sociale, economico e politico precedente la cosiddetta «rivoluzione digitale», compresa la difesa del welfare state e dell’intervento dello stato in economia in quanto soggetto economico, non solo come momento regolativo dell’attività economica, momento che non è mai venuto meno, come hanno d’altronde documentato da critici marxisti e da teorici della biopolitica. Ciò che però interessa Morozov è introdurre elementi di moderazione nell’ideologia dominante. È infatti assente ogni analisi sui rapporti sociali e produttivi nella Rete. Ignorati sono i meccanismi di appropriazione privata dei dati personali, elaborati e codificati per definire «profili» da vendere al migliore offerente; nessun accenno a come viene prodotto innovazione tecnologica e sociale; rimangono avvolti nel mistero i meccanismi di sfruttamento nella produzione di software e di contenuti.
Sono solo alcuni degli elementi che potrebbe consentire lo sviluppo di una puntuale teoria critica della Rete. Obiettivo diverso da quello di Morozov. La sua critica al «cyberutopismo» aiuta però a una pratica del dubbio che induce a resistere al canto delle sirene dello status quo.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
Visualizzazione post con etichetta Vecchi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Vecchi. Mostra tutti i post
24.7.14
12.4.12
Il vecchietto dove lo metto
Massimo Gramellini
Diventar vecchi è una tragedia. Ma fortunatamente non più per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia del Fondo Monetario Internazionale, noto ente benefico con il cuore a forma di trappola. «Se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già elevati costi del Welfare crescerebbero del 50 per cento». Lo scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (basta vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavoratori precari e precocemente invecchiati. I fondi pensione - senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.
Come scongiurare lo sfacelo annunciato? Qualcuno dovrà pur sacrificarsi. Escludendo che quel qualcuno sia il Fondo Monetario, non restiamo che noi, i vecchietti del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratamente protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione avanzata dallo scrittore Martin Amis: entrare in una cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e adios. Per lo spread, questo e altro.
Diventar vecchi è una tragedia. Ma fortunatamente non più per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia del Fondo Monetario Internazionale, noto ente benefico con il cuore a forma di trappola. «Se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già elevati costi del Welfare crescerebbero del 50 per cento». Lo scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (basta vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavoratori precari e precocemente invecchiati. I fondi pensione - senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.
Come scongiurare lo sfacelo annunciato? Qualcuno dovrà pur sacrificarsi. Escludendo che quel qualcuno sia il Fondo Monetario, non restiamo che noi, i vecchietti del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratamente protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione avanzata dallo scrittore Martin Amis: entrare in una cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e adios. Per lo spread, questo e altro.
Etichette:
crisi economica,
Gramellini,
La Stampa,
pensioni,
sacrifici,
Vecchi
25.4.09
Sodalizi e conflitti tra gemelli siamesi
di Benedetto Vecchi
CAPITALISMO E DEMOCRAZIA - Intervista con Prem Shankar Jha
Il destino incerto della democrazia. È questo il tema attorno al quale ruota l'iniziativa in corso a Torino, che non a caso ha come titolo «Biennale democrazia». Tema articolato in più sessione, attraverso «parole chiave» che hanno accompagnato la discussione sullo stato di salute dei sistemi politici appunto democratici. Il multiculturalismo, il potere pervasivo dei media, ma anche i rischi che la attuale crisi economica possa determinare la crescita di un populismo che in nome del popolo limita libertà civili, politiche e ridimensiona ulteriormente i diritti sociali. L'economista indiano Prem Shankar Jha è stato invece chiamato a discutere di quel «caos» originato dalla crisi economica e di come quel caos possa accelerare la crisi della democrazia.
Prem Shankar Jha è, oltre che uno studioso, anche un noto commentatore dell'economia mondiale da una prospettiva, quella dell'India, cioè di una nazione considerata l'esempio vivente di una nazione che è potuta crescere economicamente grazie a quella deregolamentazione dei mercati che ha caratterizzato il cosiddetto neoliberismo. Tesi che lo studioso indiano ha più volte contestato, come d'altronde dimostra il ponderoso volume Caos prossimo venturo pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno. Un libro che prevedeva l'eclissi del neoliberismo. Prem Shankar Jha sarà oggi a Torino, dove terrà una «lezione» proprio sulla realtà originata dalla crisi, prefigurando ancora anni di «caos», indipendentemente da quanto sostengono alcuni commentatori sulla fine della crisi economica.
Capitalismo e democrazia. Due termini spesso in conflitto, nonostante la retorica sulla loro indissolubilità. Cosa ne pensa di questa «querelle»?
Storicamente, la democrazia politica è stata voluta dalla borghesia per contrastare il potere dei proprietari terrieri e dell'aristocrazia. Poi è stata usata dal movimento operaio per contrastare il potere del capitale, dando vita all'intensa, seppur breve stagione dei diritti sociali. Stagione tuttavia che ha reso la democrazia e il capitalismo come realtà in conflitto. Per me, sono da considerare come fratelli siamesi. Aggiungo, però, che stiamo parlando di un contesto molto preciso, quello dove lo stato-nazione esercitava la sovranità sulla nazione. La globalizzazione ha lentamente ridimensionato, se non distrutto lo stato-nazione. C'è stata l'unificazione dei mercati nazionali in un unico, grande mercato, mentre le imprese manufatturiere e finanziarie sono diventate globali e profondamente antidemocratiche. Ogni azione politica deve essere quindi globale, come le imprese. È questa la cornice antro la quale agire politicamente per ridimensionare il potere del capitale e per sviluppare l'equivalente globale di ciò che è stato il welfare state.
In «Caos prossimo venturo», lei sosteneva che la crisi dell'economia mondiale era una probabilità che non poteva essere esclusa. Il bailout delle borse ha drammaticamente confermato la sua analisi. Alcuni studiosi e economisti, come Immanuel Wallerstein, ora scrivono che la crisi attuale possa coincidere con la fine del capitalismo e con lo sviluppo di una economia di mercato senza capitalisti. Tesi molto provocatoria, non crede?
Inviterei alla cautela. È difficile infatti pensare una economia di mercato senza la proprietà privata. Più realisticamente il nodo da sciogliere è come affrontare la crisi e nessuno ha ricette pronte. Durante il cosiddetto ciclo neoliberista abbiamo assistito al divorzio tra stato-nazione e l'attività economica, fattore che ha messo fine all'«alleanza» tra il potere politico e le imprese. La crisi, invece, ripropone con urgenza un rinnovato controllo e regolazione nella circolazione dei capitali e della finanza; assieme a un maggiore rigore nella certificazione dei bilanci delle imprese. Infine, la crisi economica può favorire un cambiamento negli assetti proprietari delle imprese, come imprese a capitale misto pubblico e privato; oppure forme inedite di proprietà «sociale». Più che fine del capitalismo parlerei quindi di una trasformazione del capitalismo.
Green economy: è la parola magica per uscire dalla crisi. Lo dicono e scrivono in tanti. Il personaggio più noto a usarla è il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha illustrato la sua azione per favorire lo sviluppo di uno sviluppo economico sostenibile e compatibile con l'ambiente. Una lieta novella, non crede?
L'«economia verde» è proprio una parola magica, proprio come lo fu carbone in un mondo dove il vento e l'acqua costituiscono le uniche potenze energetiche usate nell'attività produttiva nel diciassettesimo secolo. Le stesse speranze sulla possibilità di uno sviluppo economico duraturo sono state rinnovate con il petrolio agli inizi del Novecento, il motore a scoppio, fino all'ultimo prodotto, il computer, che doveva, al pari degli altri esempi che ho fatto, garantire lo sviluppo ecconomico. Per il momento, tuttavia non ci sono tecnologie «ambientaliste» che possono essere sfruttate economicamente, cioè che possono fare da traino alle attività produttive. Quindi ci sarà un'«economia verde» solo quando si creeranno le condizioni che hanno portato il carbone, il motore a scoppio, il petrolio, l'automobile e il computer a essere fattori energetici e prodotti che potevano essere usati o prodotti secondo precisi requisiti economici e altrettanti prevedibili profitti. Allo stato attuale, per quanto riguarda le fonti energetiche non c'è infatti nessuna «vera» alternativa al petrolio. Né esistono al momento attività produttive che possono sostituire quelle attuali.
Il neoliberismo ha alimentato la crescita di forti diseguaglianze sociali, proprio quando veniva alimentata la speranza che la ricchezza avrebbe trovato nel mercato uno straordinario strumento di redistribuzione. Lei, invece, ha spesso sostenuto il contrario, cioè che l'essenza dell'economia mondiale erano proprio le diseguaglianze sociali. In questo mondo in fibrillazione c'è chi guarda alla crisi come a una possibilità per politiche sociali più egualitarie....
Quest'ultima è proprio un'opinione bizzarra basata su un errore logico che scambia le coincidenze con la causalità. Potrebbe certo accadere che una società industriale privilegi politiche sociali più eque. Ma viviamo in un'economia di mercato dove le differenze di reddito determinano disparità nel consumo, nel mercato del lavoro e precarietà nei rapporti di lavoro. È quindi auspicabile la presenza di interventi politici tesi a ridurre le diseguaglianze sociali. Ma per questo serve limitare il potere delle imprese e favorisca la redistribuzione della ricchezza. Non vanno però nascoste le difficoltà che incontrerebbe tale azione politiche in un mondo globalizzato che vede la messa all'angolo degli stati nazionali, il luogo e il contesto cioè dove far crescere gli interventi politici necessari per ridurre le diseguaglianze sociali. Questo non significa che non bisogna comunque provarci. Lo ripeto: la necessità di una regolamentazione dell'economia è necessaria anche perché l'economia e la finanza lasciate libere di fare ciò che volevano hanno determinato questa crisi.
ilmanifesto.it
CAPITALISMO E DEMOCRAZIA - Intervista con Prem Shankar Jha
Il destino incerto della democrazia. È questo il tema attorno al quale ruota l'iniziativa in corso a Torino, che non a caso ha come titolo «Biennale democrazia». Tema articolato in più sessione, attraverso «parole chiave» che hanno accompagnato la discussione sullo stato di salute dei sistemi politici appunto democratici. Il multiculturalismo, il potere pervasivo dei media, ma anche i rischi che la attuale crisi economica possa determinare la crescita di un populismo che in nome del popolo limita libertà civili, politiche e ridimensiona ulteriormente i diritti sociali. L'economista indiano Prem Shankar Jha è stato invece chiamato a discutere di quel «caos» originato dalla crisi economica e di come quel caos possa accelerare la crisi della democrazia.
Prem Shankar Jha è, oltre che uno studioso, anche un noto commentatore dell'economia mondiale da una prospettiva, quella dell'India, cioè di una nazione considerata l'esempio vivente di una nazione che è potuta crescere economicamente grazie a quella deregolamentazione dei mercati che ha caratterizzato il cosiddetto neoliberismo. Tesi che lo studioso indiano ha più volte contestato, come d'altronde dimostra il ponderoso volume Caos prossimo venturo pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno. Un libro che prevedeva l'eclissi del neoliberismo. Prem Shankar Jha sarà oggi a Torino, dove terrà una «lezione» proprio sulla realtà originata dalla crisi, prefigurando ancora anni di «caos», indipendentemente da quanto sostengono alcuni commentatori sulla fine della crisi economica.
Capitalismo e democrazia. Due termini spesso in conflitto, nonostante la retorica sulla loro indissolubilità. Cosa ne pensa di questa «querelle»?
Storicamente, la democrazia politica è stata voluta dalla borghesia per contrastare il potere dei proprietari terrieri e dell'aristocrazia. Poi è stata usata dal movimento operaio per contrastare il potere del capitale, dando vita all'intensa, seppur breve stagione dei diritti sociali. Stagione tuttavia che ha reso la democrazia e il capitalismo come realtà in conflitto. Per me, sono da considerare come fratelli siamesi. Aggiungo, però, che stiamo parlando di un contesto molto preciso, quello dove lo stato-nazione esercitava la sovranità sulla nazione. La globalizzazione ha lentamente ridimensionato, se non distrutto lo stato-nazione. C'è stata l'unificazione dei mercati nazionali in un unico, grande mercato, mentre le imprese manufatturiere e finanziarie sono diventate globali e profondamente antidemocratiche. Ogni azione politica deve essere quindi globale, come le imprese. È questa la cornice antro la quale agire politicamente per ridimensionare il potere del capitale e per sviluppare l'equivalente globale di ciò che è stato il welfare state.
In «Caos prossimo venturo», lei sosteneva che la crisi dell'economia mondiale era una probabilità che non poteva essere esclusa. Il bailout delle borse ha drammaticamente confermato la sua analisi. Alcuni studiosi e economisti, come Immanuel Wallerstein, ora scrivono che la crisi attuale possa coincidere con la fine del capitalismo e con lo sviluppo di una economia di mercato senza capitalisti. Tesi molto provocatoria, non crede?
Inviterei alla cautela. È difficile infatti pensare una economia di mercato senza la proprietà privata. Più realisticamente il nodo da sciogliere è come affrontare la crisi e nessuno ha ricette pronte. Durante il cosiddetto ciclo neoliberista abbiamo assistito al divorzio tra stato-nazione e l'attività economica, fattore che ha messo fine all'«alleanza» tra il potere politico e le imprese. La crisi, invece, ripropone con urgenza un rinnovato controllo e regolazione nella circolazione dei capitali e della finanza; assieme a un maggiore rigore nella certificazione dei bilanci delle imprese. Infine, la crisi economica può favorire un cambiamento negli assetti proprietari delle imprese, come imprese a capitale misto pubblico e privato; oppure forme inedite di proprietà «sociale». Più che fine del capitalismo parlerei quindi di una trasformazione del capitalismo.
Green economy: è la parola magica per uscire dalla crisi. Lo dicono e scrivono in tanti. Il personaggio più noto a usarla è il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha illustrato la sua azione per favorire lo sviluppo di uno sviluppo economico sostenibile e compatibile con l'ambiente. Una lieta novella, non crede?
L'«economia verde» è proprio una parola magica, proprio come lo fu carbone in un mondo dove il vento e l'acqua costituiscono le uniche potenze energetiche usate nell'attività produttiva nel diciassettesimo secolo. Le stesse speranze sulla possibilità di uno sviluppo economico duraturo sono state rinnovate con il petrolio agli inizi del Novecento, il motore a scoppio, fino all'ultimo prodotto, il computer, che doveva, al pari degli altri esempi che ho fatto, garantire lo sviluppo ecconomico. Per il momento, tuttavia non ci sono tecnologie «ambientaliste» che possono essere sfruttate economicamente, cioè che possono fare da traino alle attività produttive. Quindi ci sarà un'«economia verde» solo quando si creeranno le condizioni che hanno portato il carbone, il motore a scoppio, il petrolio, l'automobile e il computer a essere fattori energetici e prodotti che potevano essere usati o prodotti secondo precisi requisiti economici e altrettanti prevedibili profitti. Allo stato attuale, per quanto riguarda le fonti energetiche non c'è infatti nessuna «vera» alternativa al petrolio. Né esistono al momento attività produttive che possono sostituire quelle attuali.
Il neoliberismo ha alimentato la crescita di forti diseguaglianze sociali, proprio quando veniva alimentata la speranza che la ricchezza avrebbe trovato nel mercato uno straordinario strumento di redistribuzione. Lei, invece, ha spesso sostenuto il contrario, cioè che l'essenza dell'economia mondiale erano proprio le diseguaglianze sociali. In questo mondo in fibrillazione c'è chi guarda alla crisi come a una possibilità per politiche sociali più egualitarie....
Quest'ultima è proprio un'opinione bizzarra basata su un errore logico che scambia le coincidenze con la causalità. Potrebbe certo accadere che una società industriale privilegi politiche sociali più eque. Ma viviamo in un'economia di mercato dove le differenze di reddito determinano disparità nel consumo, nel mercato del lavoro e precarietà nei rapporti di lavoro. È quindi auspicabile la presenza di interventi politici tesi a ridurre le diseguaglianze sociali. Ma per questo serve limitare il potere delle imprese e favorisca la redistribuzione della ricchezza. Non vanno però nascoste le difficoltà che incontrerebbe tale azione politiche in un mondo globalizzato che vede la messa all'angolo degli stati nazionali, il luogo e il contesto cioè dove far crescere gli interventi politici necessari per ridurre le diseguaglianze sociali. Questo non significa che non bisogna comunque provarci. Lo ripeto: la necessità di una regolamentazione dell'economia è necessaria anche perché l'economia e la finanza lasciate libere di fare ciò che volevano hanno determinato questa crisi.
ilmanifesto.it
Etichette:
capitalismo,
democrazia,
Prem Shankar Jha,
Vecchi
21.4.09
Algide mappe di una crisi irreversibile - James Ballard
Benedetto Vecchi
La morte dello scrittore inglese. Dalla guerra civile molecolare ai riti identitari legati al consumo, fino alla disperata rivolta contro il mondo delle merci. La lucida preveggenza di un autore che ha scelto come protagonisti dei suoi romanzi i conflitti di cui sono pervase le società contemporanee
I romanzi di James Ballard alimentano ricezioni che non ammettono mezze misure. Possono essere molto amati, oppure valutati come opere scadenti, con una scrittura algida e poco curata, dove il «non detto» dei personaggi annichilisce ogni «economia dell'attenzione». Eppure Ballard è stato un buon artigiano della scrittura, se con questo si intende la capacità di gettare luce sui lati oscuri della società contemporanee. Al di là delle qualifica di scrittore di fantascienza, Ballard è stato infatti un accurato cartografo dei conflitti sociali del presente. Non che la qualifica di scrittore di genere gli desse fastidio. Per Ballard significava solo che scrivere era divenuto il suo lavoro, come testimoniano le decine di racconti scritti per riviste di science fiction e pubblicati dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e che meritoriamente la casa editrice Fanucci ha pubblicato negli anni scorsi. Una fantascienza tuttavia anomala, dove gli alieni costituivano sempre l'immagine rovesciata allo specchio dei terresti, incarnandone così gli inconfessati incubi.
D'altronde, il rapporto con l'altro è stata sempre una costante di questo inglese nato settantotto anni fa a Shangai. E che emerge con forza nel suo romanzo più citato (Crash, Rizzoli 1990, Feltrinelli 2004), che costituisce tuttavia un punto di svolta nella produzione di Ballard, perché il medium della relazione tra «umani» è individuato nel feticcio della società capitalistica del secondo dopoguerra: l'automobile. Da allora lo scrittore inglese comincia a misurarsi con tutte le parole chiave del pensiero critico. Il feticismo delle merci, ovviamente, terreno su cui Ballard ha frequentemente scorrazzato, fino a quel Regno a venire (Feltrinelli 2006) che mette in scena gli effetti tellurici costituiti dalle città cresciute come parassiti a ridosso dei mall, i grandi centri commerciali che finiscono per costituire l'unico spazio pubblico possibile per organizzare la rivolta contro le merci. Ma in Ballard è forte anche l'attenzione verso la dissoluzione della «forma metropoli» e la fuga verso le comunità recintate, dove la vita è pianificata attentamente, alimentando così sofisticate e, al tempo stesso, impalpabili tecnologie del controllo. Da Condominio (Urania 1976, Feltrinelli 2003) a Isola di cemento (Anabasi 1993, Feltrinelli 2007), da Cocaine Nights (Baldini & Castoldi 1997, Feltrinelli 2008) a Super Cannes (Feltrinelli 2000), la metropoli diviene il teatro per una guerra civile molecolare, esito obbligato della crisi irreversibile dell'ordine sociale capitalistico.
Ed è stata questa sua «preveggenza» che lo ha reso l'autore più amato dagli scrittori cyberpunk. William Gibson e Bruce Sterling non hanno infatti mai nascosto i loro debiti verso di lui. Un'affinità elettiva dovuta al fatto che in Ballard non c'è nessuna apologia delle virtù salvifiche della tecnologia. Per Ballard, la tecnologia è semplicemente divenuta parte integrante del vivere in società. Non c'è più quindi nessun paradiso naturale perduto da invocare, ma solo la constatazione che la simbiosi tra naturale e artificiale è parte integrante della natura umana. Cioè di quella stessa realtà sapientemente descritta dal cyberpunk, come testimoniano, per restare all'Italia, le interviste alla rivista «Decoder» e la raccolta di saggi pubblicata dalla milanese Shake.
I romanzi dell'ultimo periodo - Millennium people (Feltrinelli 2004) e Il regno a venire - si concentrano invece sulle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo contemporaneo. Ballard prende di mira la favola della fine del conflitto sociale e di classe, sostenendo invece che la tanto mitizzata middle class è divenuta una classe produttiva, fatto che la spinge alla rivolta, che può, in pieno movimento no-global, scagliarsi contro il regime del lavoro salariato, ma anche subire una torsione razzista e sciovinista. Il bandolo della matassa da sciogliere, ma che Ballard non prova mai a sbrogliare, è cosa determina un esito piuttosto che un altro. Non è quello il compito che ha riservato a sé questo acuto cartografo delle società contemporanee. Il suo atteggiamento è sempre quello dello scanzonato ragazzo che nell'Impero del sole (Rizzoli 1986, Feltrinelli 2006) non riesce a contenere l'entusiasmo e la rabbia per gli aerei giapponesi che bombardano lo stile di vita di cui era prigioniero. Per stilare le mappe del presente occorre infatti curiosità e sguardo lucido: sentimenti e attitudine che Ballard ha sempre avuto.
manifesto.it
La morte dello scrittore inglese. Dalla guerra civile molecolare ai riti identitari legati al consumo, fino alla disperata rivolta contro il mondo delle merci. La lucida preveggenza di un autore che ha scelto come protagonisti dei suoi romanzi i conflitti di cui sono pervase le società contemporanee
I romanzi di James Ballard alimentano ricezioni che non ammettono mezze misure. Possono essere molto amati, oppure valutati come opere scadenti, con una scrittura algida e poco curata, dove il «non detto» dei personaggi annichilisce ogni «economia dell'attenzione». Eppure Ballard è stato un buon artigiano della scrittura, se con questo si intende la capacità di gettare luce sui lati oscuri della società contemporanee. Al di là delle qualifica di scrittore di fantascienza, Ballard è stato infatti un accurato cartografo dei conflitti sociali del presente. Non che la qualifica di scrittore di genere gli desse fastidio. Per Ballard significava solo che scrivere era divenuto il suo lavoro, come testimoniano le decine di racconti scritti per riviste di science fiction e pubblicati dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e che meritoriamente la casa editrice Fanucci ha pubblicato negli anni scorsi. Una fantascienza tuttavia anomala, dove gli alieni costituivano sempre l'immagine rovesciata allo specchio dei terresti, incarnandone così gli inconfessati incubi.
D'altronde, il rapporto con l'altro è stata sempre una costante di questo inglese nato settantotto anni fa a Shangai. E che emerge con forza nel suo romanzo più citato (Crash, Rizzoli 1990, Feltrinelli 2004), che costituisce tuttavia un punto di svolta nella produzione di Ballard, perché il medium della relazione tra «umani» è individuato nel feticcio della società capitalistica del secondo dopoguerra: l'automobile. Da allora lo scrittore inglese comincia a misurarsi con tutte le parole chiave del pensiero critico. Il feticismo delle merci, ovviamente, terreno su cui Ballard ha frequentemente scorrazzato, fino a quel Regno a venire (Feltrinelli 2006) che mette in scena gli effetti tellurici costituiti dalle città cresciute come parassiti a ridosso dei mall, i grandi centri commerciali che finiscono per costituire l'unico spazio pubblico possibile per organizzare la rivolta contro le merci. Ma in Ballard è forte anche l'attenzione verso la dissoluzione della «forma metropoli» e la fuga verso le comunità recintate, dove la vita è pianificata attentamente, alimentando così sofisticate e, al tempo stesso, impalpabili tecnologie del controllo. Da Condominio (Urania 1976, Feltrinelli 2003) a Isola di cemento (Anabasi 1993, Feltrinelli 2007), da Cocaine Nights (Baldini & Castoldi 1997, Feltrinelli 2008) a Super Cannes (Feltrinelli 2000), la metropoli diviene il teatro per una guerra civile molecolare, esito obbligato della crisi irreversibile dell'ordine sociale capitalistico.
Ed è stata questa sua «preveggenza» che lo ha reso l'autore più amato dagli scrittori cyberpunk. William Gibson e Bruce Sterling non hanno infatti mai nascosto i loro debiti verso di lui. Un'affinità elettiva dovuta al fatto che in Ballard non c'è nessuna apologia delle virtù salvifiche della tecnologia. Per Ballard, la tecnologia è semplicemente divenuta parte integrante del vivere in società. Non c'è più quindi nessun paradiso naturale perduto da invocare, ma solo la constatazione che la simbiosi tra naturale e artificiale è parte integrante della natura umana. Cioè di quella stessa realtà sapientemente descritta dal cyberpunk, come testimoniano, per restare all'Italia, le interviste alla rivista «Decoder» e la raccolta di saggi pubblicata dalla milanese Shake.
I romanzi dell'ultimo periodo - Millennium people (Feltrinelli 2004) e Il regno a venire - si concentrano invece sulle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo contemporaneo. Ballard prende di mira la favola della fine del conflitto sociale e di classe, sostenendo invece che la tanto mitizzata middle class è divenuta una classe produttiva, fatto che la spinge alla rivolta, che può, in pieno movimento no-global, scagliarsi contro il regime del lavoro salariato, ma anche subire una torsione razzista e sciovinista. Il bandolo della matassa da sciogliere, ma che Ballard non prova mai a sbrogliare, è cosa determina un esito piuttosto che un altro. Non è quello il compito che ha riservato a sé questo acuto cartografo delle società contemporanee. Il suo atteggiamento è sempre quello dello scanzonato ragazzo che nell'Impero del sole (Rizzoli 1986, Feltrinelli 2006) non riesce a contenere l'entusiasmo e la rabbia per gli aerei giapponesi che bombardano lo stile di vita di cui era prigioniero. Per stilare le mappe del presente occorre infatti curiosità e sguardo lucido: sentimenti e attitudine che Ballard ha sempre avuto.
manifesto.it
Etichette:
Ballard,
il manifesto,
libri,
Vecchi
2.4.09
Il virus del «capitalista egoista»
di Benedetto Vecchi
Negli ormai innumerevoli scaffali dedicati al capitalismo contemporaneo questo saggio dello psicologo Oliver James occupa sicuramente il posto che spetta alle analisi che non pretendono di fornire un'analisi esaustiva della realtà indagata. E tuttavia come tutti gli studi interessati a sondarne solo un «frammento» ha il pregio di esemplificare tendenze profonde delle società capitaliste. Oliver James è infatti convinto che lo «stress» emotivo non è da considerare una manifestazione di disagio individuale, quanto l'espressione di un mutamento antropologico che ha caratterizzato le società industrializzate dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni.Il capitalista egoista (Codice edizioni, pp. 150, euro 18) di cui scrive James non è infatti una figura idealtipica, ma un virus che lentamente si è diffuso nel corpo sociale fino a «infettarlo» completamente. Un virus che spinge uomini e donne a consumare, a lottare per il successo, la fama, ad «avere invece di essere», come scrive più volte, facendo riferimento agli studi di Eric Fromm sulla psicoanalisi del capitalismo affluente. Con un significativo apparato di tabelle e grafici, lo studioso inglese mostra come l'infelicità, l'anomia, la depressione, la paura di essere messi ai margini siano diventati i sentimenti che caratterizzano la vita sociale. Sentimenti «malati», sostiene lo studioso, che hanno come cura il consumo di merci sempre più deperibili e tuttavia impregnati di significati simbolici che vanno ben al di là del loro «valore d'uso». E tanto più gli uomini e donne consumano, tanto più aumenta lo stress, perché il rito del consumo attenua i sintomi, ma non cura le cause dello «stress» emotivo.L'universo di infelicità messo in evidenza da James coinvolge trasversalmente tutte le classi sociali. Dal manager al «colletto bianco», dal broker all'operaio tutti sono colpiti dagli stessi sintomi. L'autore tuttavia introduce una distinzione: chi deve fare i conti con il regno della necessità è affetto da «materialismo della sopravvivenza»; chi ha invece soddisfatto i bisogni primari è in preda al «materialismo del superfluo»; allo stesso tempo chi vive in una metropoli è sottoposto a una pressione psicologica che rende l'esistenza quasi insopportabile, mentre chi vive in campagna è meno propenso a farsi avvolgere nelle spire della «vita moderna». L'analisi del «capitalista egoista» è permeata da molte ingenuità e da una sorta di invito alla frugalità, a una «decrescita» che guarda con sospetto qualsiasi propensione al consumo. Ma non sono queste ingenuità che rendono piacevole la lettura del volume. La parte più interessante è quella in cui analizza la trasmigrazione del pensiero darwiniano attorno l'evoluzione al pensiero politico e economico. «Il capitalista egoista», infatti, è legittimato dal principio che solo i più forti, i più meritevoli, i più cinici, i più opportunisti hanno la possibilità di adattarsi a un ambiente competitivo e le risorse scarse. CONTINUAPAGINA14 Più o meno come recita la vulgata evoluzionista attorno alla selezione delle specie. Soltanto che James mette in rilievo una contraddizione: gli studiosi di Charles Darwin sono generalmente simpatizzanti per teorie politiche incentrate sulla triade «libertà, uguaglianza, fraternità», mentre il darwinismo è stato uno dei potenti dispositivi culturali che ha legittimato politiche neoliberiste dove non c'è spazio né per la fraternità né tantomeno per l'ugualitarismo. L'uso delle teorie darwiniane da parte dei sostenitori del «capitalismo egoista» è stato efficace perché considerava il capitalismo un fatto naturale e non un prodotto sociale, e quindi transitorio, della vità in società. È su questo crinale che si addensano le pagine più riuscite del saggio, laddove l'autore parla appunto delle psicopatologie che dilagano oltrepassando i confini invisibili ma tuttavia ferrei tra le classi sociali, le etnie, i generi sessuali. Psicopatologie che vengono curate attraverso l'operato dei media, che come novelli apprendisti stregoni riescono a persuadere uomini a donne a consumare; oppure con la diffusione di farmaci e antidepressivi che rendono tollerante l'inferno dove si vive. La storia della «lineare» diffusione del «capitalista egoista» che l'autore propone sarebbe ben diversa se fosse stata evocata la quantità di violenza necessaria affinché potesse propagarsi. L'autore ricorda solo l'aumento dei «disturbi mentali» dopo l'inizio della guerra in Iraq. Effetto collaterale di quella produzione di paura e incertezza a mezzo di propaganda che ha comunque ridimensionato le forme di resistenza che pure si erano manifestate. Una piccola scommessa è d'obbligo: la crisi attuale fermerà il virus del «capitalista egoista»? Domanda non peregrina, visto che la paura, l'insicurezza e la il culto dei «migliori» continuano a essere il vangelo delle società contemporanee.
ilmanifesto.it
Negli ormai innumerevoli scaffali dedicati al capitalismo contemporaneo questo saggio dello psicologo Oliver James occupa sicuramente il posto che spetta alle analisi che non pretendono di fornire un'analisi esaustiva della realtà indagata. E tuttavia come tutti gli studi interessati a sondarne solo un «frammento» ha il pregio di esemplificare tendenze profonde delle società capitaliste. Oliver James è infatti convinto che lo «stress» emotivo non è da considerare una manifestazione di disagio individuale, quanto l'espressione di un mutamento antropologico che ha caratterizzato le società industrializzate dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni.Il capitalista egoista (Codice edizioni, pp. 150, euro 18) di cui scrive James non è infatti una figura idealtipica, ma un virus che lentamente si è diffuso nel corpo sociale fino a «infettarlo» completamente. Un virus che spinge uomini e donne a consumare, a lottare per il successo, la fama, ad «avere invece di essere», come scrive più volte, facendo riferimento agli studi di Eric Fromm sulla psicoanalisi del capitalismo affluente. Con un significativo apparato di tabelle e grafici, lo studioso inglese mostra come l'infelicità, l'anomia, la depressione, la paura di essere messi ai margini siano diventati i sentimenti che caratterizzano la vita sociale. Sentimenti «malati», sostiene lo studioso, che hanno come cura il consumo di merci sempre più deperibili e tuttavia impregnati di significati simbolici che vanno ben al di là del loro «valore d'uso». E tanto più gli uomini e donne consumano, tanto più aumenta lo stress, perché il rito del consumo attenua i sintomi, ma non cura le cause dello «stress» emotivo.L'universo di infelicità messo in evidenza da James coinvolge trasversalmente tutte le classi sociali. Dal manager al «colletto bianco», dal broker all'operaio tutti sono colpiti dagli stessi sintomi. L'autore tuttavia introduce una distinzione: chi deve fare i conti con il regno della necessità è affetto da «materialismo della sopravvivenza»; chi ha invece soddisfatto i bisogni primari è in preda al «materialismo del superfluo»; allo stesso tempo chi vive in una metropoli è sottoposto a una pressione psicologica che rende l'esistenza quasi insopportabile, mentre chi vive in campagna è meno propenso a farsi avvolgere nelle spire della «vita moderna». L'analisi del «capitalista egoista» è permeata da molte ingenuità e da una sorta di invito alla frugalità, a una «decrescita» che guarda con sospetto qualsiasi propensione al consumo. Ma non sono queste ingenuità che rendono piacevole la lettura del volume. La parte più interessante è quella in cui analizza la trasmigrazione del pensiero darwiniano attorno l'evoluzione al pensiero politico e economico. «Il capitalista egoista», infatti, è legittimato dal principio che solo i più forti, i più meritevoli, i più cinici, i più opportunisti hanno la possibilità di adattarsi a un ambiente competitivo e le risorse scarse. CONTINUAPAGINA14 Più o meno come recita la vulgata evoluzionista attorno alla selezione delle specie. Soltanto che James mette in rilievo una contraddizione: gli studiosi di Charles Darwin sono generalmente simpatizzanti per teorie politiche incentrate sulla triade «libertà, uguaglianza, fraternità», mentre il darwinismo è stato uno dei potenti dispositivi culturali che ha legittimato politiche neoliberiste dove non c'è spazio né per la fraternità né tantomeno per l'ugualitarismo. L'uso delle teorie darwiniane da parte dei sostenitori del «capitalismo egoista» è stato efficace perché considerava il capitalismo un fatto naturale e non un prodotto sociale, e quindi transitorio, della vità in società. È su questo crinale che si addensano le pagine più riuscite del saggio, laddove l'autore parla appunto delle psicopatologie che dilagano oltrepassando i confini invisibili ma tuttavia ferrei tra le classi sociali, le etnie, i generi sessuali. Psicopatologie che vengono curate attraverso l'operato dei media, che come novelli apprendisti stregoni riescono a persuadere uomini a donne a consumare; oppure con la diffusione di farmaci e antidepressivi che rendono tollerante l'inferno dove si vive. La storia della «lineare» diffusione del «capitalista egoista» che l'autore propone sarebbe ben diversa se fosse stata evocata la quantità di violenza necessaria affinché potesse propagarsi. L'autore ricorda solo l'aumento dei «disturbi mentali» dopo l'inizio della guerra in Iraq. Effetto collaterale di quella produzione di paura e incertezza a mezzo di propaganda che ha comunque ridimensionato le forme di resistenza che pure si erano manifestate. Una piccola scommessa è d'obbligo: la crisi attuale fermerà il virus del «capitalista egoista»? Domanda non peregrina, visto che la paura, l'insicurezza e la il culto dei «migliori» continuano a essere il vangelo delle società contemporanee.
ilmanifesto.it
Etichette:
capitalismo,
egoismo,
Oliver James,
Vecchi
28.3.09
La tela del ragno. Reti organizzate per sfuggire al controllo
di Benedetto Vecchi
Un percorso di lettura dedicato a Internet, a partire dal volume di Ned Rossiter. Nel frattempo, l'Europa invita gli stati nazionali a considerare l'accesso al web come un diritto di cittadinanza, mentre oggi a Roma è «Festa dei Pirati»
Sono bastati pochi anni affinché l'utopia del World Wide Web vissuto come regno della libertà lasciasse il posto alla visione di Internet come ultima frontiera da colonizzare per «fare affari». E altrettanto breve è stato il periodo in cui le imprese operanti nelle Rete sono fallite, lasciando sul campo pochi sopravvissuti. Tra questi i soliti noti - Microsoft, Oracle, Sun, Ibm, Dell -, mentre i nuovi arrivati erano nomi conosciuti solo dagli «addetti ai lavori». Google era infatti solo una piccola impresa conosciuta nei collages o nel caotico mondo dei virtuosi della programmazione. La crisi che aveva sconvolto il World Wide Web tra il 1999 e il 2001 era generalmente letta come un necessario processo di selezione «naturale» in un ambiente fortemente competitivo, dove le risorse cominciavano a scarseggiare. Ciò che gli analisti del settore non potevano immaginare è che dagli angoli meno conosciuti della rete cominciavano appunto a farsi avanti realtà che rivendicavano una sorta di ritorno alle origini di Internet, una tecnologia propedeutica alla condivisione di materiali digitali - testi, immagini, suoni - e alla comunicazione sociale.Il social networking, il peer to peer sono solo due degli esempi di questo radicale mutamento di scenario che ha caratterizzato la Rete dopo la deflagrazione delle dot-com. Il successo planetario di Google e, in misura minore di Yahoo!, era letto come il segnale che il web poteva essere comunque un habitat che favoriva gli affari, a patto però che le imprese fossero saldamente ancorate al social networking. È a queste new entry che è dedicato il volume di Nicholas Carr Il lato oscuro della rete (Rizzoli-Etas, pp. 270, euro 20), saggio utile proprio per comprendere cosa accade nella produzione high-tech, quali sono i modelli produttivi emergenti, quale il rapporto che intercorre tra imprese e cooperazione sociale. E maggiormente significativa è la pubblicazione del libro Reti organizzate di Ned Rossiter (manifestolibri, pp. 255, euro 28), densa analisi dei rapporti sociali dentro e fuori la Rete, con il pregio di prestarsi a ulteriori percorsi di ricerca.Problemi di savoir faireL'autore de Il lato oscuro della Rete, Nicholas Carr, è stato direttore di Harvard Business Review, una specie di vangelo apocrifo del libero mercato in salsa libertaria, in particolare modo per quella centralità data all'homo oeconomicus, figura tanto eterea quanto flessibile nel definire una visione della realtà in cui tanto la società che lo stato dovevano essere considerati sue variabili dipendenti. Il nome di Carr è però legato al provocatorio saggio - Doesi It matter? - dove le tecnologie digitali sono considerati fattori produttivi secondari nella nuova organizzazione dell'impresa. Per l'autore, infatti, l'elemento qualificante di un'economia di libero mercato è la valorizzazione del savoir faire della forza-lavoro, mentre alle tecnologie è delegato il compito di rendere fluido il processo lavorativo. Il potere del management sta nella sua capacità di avere una vision complessiva dei rapporti tra i diversi settori dell'impresa. Una tesi che non piacque molto ai produttori di computer e di software, data la critica che Carr muoveva al determinismo tecnologico che animava gran parte della retorica sulla nuova organizzazione produttiva basata sulle tecnologie digitali, definita di volta in volta: a «rete», «snella», «orizzontale». In questo saggio, Carr non fa certo autocritica. Le tecnologie, qualunque esse siano, sono sempre delle macchine che svolgono determinati compiti. Non hanno nulla delle virtù prometeiche che vengono loro attribuite. Semmai sono equiparate all'elettricità, che può essere venduta a chi ne ha bisogno. È su questa analogia tra tecnologie digitali e elettricità che si snoda il saggio di Carr, individuando nella potenza di calcolo e nello spazio di memoria eccedenti una utility che può essere venduta. In altri termini, una impresa si connette alla rete e può collegarsi a un sito che offre programmi applicativi specifici - dall'elaborazione dei testi, alla gestione degli archivi, dalle paghe alla gestione di cartelle cliniche - oppure può usare lo spazio di memoria che gli serve. Così le tecnologie digitali diventano una utility, proprio come l'elettricità agli inizi del Novecento. Certo, le imprese che vendono servizi destinano all'acquisto di macchine e software ingenti investimenti, ma i profitti si fanno attraverso un sofisticato sistema di tariffe che privilegiano il «mondo degli affari», ma che possono essere allargate anche ai singoli. Il saggio di Carr può essere dunque letto come l'ennesimo pamphlet sulle magnifiche sorti progressive di Internet. E molte potrebbero essere le obiezioni sul «modello di business» avanzato, ma il punto che merita di essere discusso del volume si trova in due capitoli dal titolo «Dai molti ai pochi» e «La tela del ragno» quando l'autore descrive la trasformazione del crowdsourcing in attività economica. Il potere dei moltiIl termine, praticamente intraducibile, crowdsourcing indica proprio quella cooperazione sociale che sviluppa sia programmi informatici innovativi che procedure altrettanto innovative nelle attività di rete. Carr dice espressamente che questa attività dei «molti» favorisce i guadagni per «pochi». Ciò che l'autore descrive non è altro che la classica appropriazione privata di un bene comune - la conoscenza en general -. È in questa politica dell'espropriazione che si gioca la partita della rete, molto più rilevante del grande risiko tra le grandi imprese hig-tech, gioco composto da fusioni, acquisizioni, strategie di marketing e convergenza tecnologica tra telefonia mobile e informatica che appassiona i media. Ma per comprendere il conflitto tra cooperazione sociale nella rete e imprese occorre partire dalle Reti organizzate del giovane ricercatore australiano Ned Rossiter, uno dei saggi più sofisticati nel mettere in relazione la saggistica dedicata a Internet con il pensiero critico sul capitalismo contemporaneo.Il punto di partenza di Rossiter è all'opposto di quello di Carr, perché mette al centro i rapporti di lavoro, i programmi politici finalizzati alla crescita delle cosiddette «industrie creative», le norme tanto nazionali che globali sulla proprietà intellettuale e la crisi della democrazia rappresentativa. Temi letti, tutti, attraverso una griglia analitica che si avvale delle opere di autori tra loro eterogenei, da Theodore W. Adorno a Chantal Mouffe, da Harold A. Innis a Scott Lasch, da Geert Lovink a Paolo Virno. Rossiter respinge in maniera convincente le tesi secondo le quali Internet è l'atteso regno della comunicazione libera, così come rigetta il luogo comune che vede nelle relazioni di lavoro nelle imprese high-tech l'auspicato superamento delle gerarchie e del lavoro salariato. Anzi è proprio a partire da una analisi dei documenti sulle «industrie creative» che l'autore giunge alla conclusione che la trasformazione dei modelli produttivi e le norme della proprietà intellettuale dimostrano chiaramente come i meccanismi di sfruttamento più che superati siano semmai accentuati nel cyberspazio, sebbene presentino caratteristiche diverse dal passato. Da una parte, le materia prime del «lavoro creativo» - espressione che Rossiter utilizza criticamente - è la conoscenza e il sapere sociale. Dunque, ciò che è «comune» diviene proprietà di «pochi» (le imprese) attraverso le leggi della proprietà intellettuale. Allo stesso tempo le gerarchie non scompaiono, ma sono articolate nei rapporti vis-à-vis segnati dalla condivisione di uno stesso progetto lavorativo da svolgere in un'unità di tempo definita. Nell'impresa contemporanea sono quindi vigenti quelle foucaultiane «tecnologie del controllo» dove tutti controllano tutti e che hanno il loro corollario nella precarietà dei rapporti di lavoro.Il saggio di Ned Rossiter acquista maggior rilevanza per il fatto che è stato scritto dopo la crisi dell'economia delle dot-com. Cioè negli anni successivi, quando era svanito il sogno di chi aveva individuato in Internet l'«ambiente» che poteva garantire un ininterrotto sviluppo economico, sostituendo così l'industria automobilistica e quella dell'elettronica di consumo come settori trainanti dell'economia mondiale. La messa a tema della crisi da parte dell'autore può essere usata in questi tempi dove la crisi non ha coinvolto solo il cyberspazio, ma si è diffusa al di fuori dello schermo. La retorica attorno al «lavoro creativo» ha infatti lasciato il posto alla consapevolezza sulla necessità di fare i conti con il regime di accumulazione capitalistico nel suo complesso. Questo non significa che gli elementi di conoscenza e di comprensione del capitalismo contemporaneo derivanti dall'analisi della rete siano da gettare alla critica roditrice dei topi. Più realisticamente è di articolarli maggiormente. A partire dal ruolo svolto dai «molti», il contesto cioè dove maturano le innovazioni. E questo indipendentemente se il lavoro viene svolto in uno sweatshop o in una impresa tradizionale, se esso è manuale o «cognitivo», con buona pace di chi insegue ancora la chimera di un tranquillizante quarto stato. Infatti, tanto dentro che fuori lo schermo, il conflitto investe l'appropriazione privata delle innovazioni in quanto prodotto sociale.Ned Rossiter invita a pensare la rete come una realtà da organizzare in base al rifiuto di questa espropriazione della creatività da parte delle imprese. Dunque organizzare «i molti». Un invito da fare proprio in una situazione dove la crisi va agita, anche come occasione di trasformazione della realtà.
ilmanifesto.it
Un percorso di lettura dedicato a Internet, a partire dal volume di Ned Rossiter. Nel frattempo, l'Europa invita gli stati nazionali a considerare l'accesso al web come un diritto di cittadinanza, mentre oggi a Roma è «Festa dei Pirati»
Sono bastati pochi anni affinché l'utopia del World Wide Web vissuto come regno della libertà lasciasse il posto alla visione di Internet come ultima frontiera da colonizzare per «fare affari». E altrettanto breve è stato il periodo in cui le imprese operanti nelle Rete sono fallite, lasciando sul campo pochi sopravvissuti. Tra questi i soliti noti - Microsoft, Oracle, Sun, Ibm, Dell -, mentre i nuovi arrivati erano nomi conosciuti solo dagli «addetti ai lavori». Google era infatti solo una piccola impresa conosciuta nei collages o nel caotico mondo dei virtuosi della programmazione. La crisi che aveva sconvolto il World Wide Web tra il 1999 e il 2001 era generalmente letta come un necessario processo di selezione «naturale» in un ambiente fortemente competitivo, dove le risorse cominciavano a scarseggiare. Ciò che gli analisti del settore non potevano immaginare è che dagli angoli meno conosciuti della rete cominciavano appunto a farsi avanti realtà che rivendicavano una sorta di ritorno alle origini di Internet, una tecnologia propedeutica alla condivisione di materiali digitali - testi, immagini, suoni - e alla comunicazione sociale.Il social networking, il peer to peer sono solo due degli esempi di questo radicale mutamento di scenario che ha caratterizzato la Rete dopo la deflagrazione delle dot-com. Il successo planetario di Google e, in misura minore di Yahoo!, era letto come il segnale che il web poteva essere comunque un habitat che favoriva gli affari, a patto però che le imprese fossero saldamente ancorate al social networking. È a queste new entry che è dedicato il volume di Nicholas Carr Il lato oscuro della rete (Rizzoli-Etas, pp. 270, euro 20), saggio utile proprio per comprendere cosa accade nella produzione high-tech, quali sono i modelli produttivi emergenti, quale il rapporto che intercorre tra imprese e cooperazione sociale. E maggiormente significativa è la pubblicazione del libro Reti organizzate di Ned Rossiter (manifestolibri, pp. 255, euro 28), densa analisi dei rapporti sociali dentro e fuori la Rete, con il pregio di prestarsi a ulteriori percorsi di ricerca.Problemi di savoir faireL'autore de Il lato oscuro della Rete, Nicholas Carr, è stato direttore di Harvard Business Review, una specie di vangelo apocrifo del libero mercato in salsa libertaria, in particolare modo per quella centralità data all'homo oeconomicus, figura tanto eterea quanto flessibile nel definire una visione della realtà in cui tanto la società che lo stato dovevano essere considerati sue variabili dipendenti. Il nome di Carr è però legato al provocatorio saggio - Doesi It matter? - dove le tecnologie digitali sono considerati fattori produttivi secondari nella nuova organizzazione dell'impresa. Per l'autore, infatti, l'elemento qualificante di un'economia di libero mercato è la valorizzazione del savoir faire della forza-lavoro, mentre alle tecnologie è delegato il compito di rendere fluido il processo lavorativo. Il potere del management sta nella sua capacità di avere una vision complessiva dei rapporti tra i diversi settori dell'impresa. Una tesi che non piacque molto ai produttori di computer e di software, data la critica che Carr muoveva al determinismo tecnologico che animava gran parte della retorica sulla nuova organizzazione produttiva basata sulle tecnologie digitali, definita di volta in volta: a «rete», «snella», «orizzontale». In questo saggio, Carr non fa certo autocritica. Le tecnologie, qualunque esse siano, sono sempre delle macchine che svolgono determinati compiti. Non hanno nulla delle virtù prometeiche che vengono loro attribuite. Semmai sono equiparate all'elettricità, che può essere venduta a chi ne ha bisogno. È su questa analogia tra tecnologie digitali e elettricità che si snoda il saggio di Carr, individuando nella potenza di calcolo e nello spazio di memoria eccedenti una utility che può essere venduta. In altri termini, una impresa si connette alla rete e può collegarsi a un sito che offre programmi applicativi specifici - dall'elaborazione dei testi, alla gestione degli archivi, dalle paghe alla gestione di cartelle cliniche - oppure può usare lo spazio di memoria che gli serve. Così le tecnologie digitali diventano una utility, proprio come l'elettricità agli inizi del Novecento. Certo, le imprese che vendono servizi destinano all'acquisto di macchine e software ingenti investimenti, ma i profitti si fanno attraverso un sofisticato sistema di tariffe che privilegiano il «mondo degli affari», ma che possono essere allargate anche ai singoli. Il saggio di Carr può essere dunque letto come l'ennesimo pamphlet sulle magnifiche sorti progressive di Internet. E molte potrebbero essere le obiezioni sul «modello di business» avanzato, ma il punto che merita di essere discusso del volume si trova in due capitoli dal titolo «Dai molti ai pochi» e «La tela del ragno» quando l'autore descrive la trasformazione del crowdsourcing in attività economica. Il potere dei moltiIl termine, praticamente intraducibile, crowdsourcing indica proprio quella cooperazione sociale che sviluppa sia programmi informatici innovativi che procedure altrettanto innovative nelle attività di rete. Carr dice espressamente che questa attività dei «molti» favorisce i guadagni per «pochi». Ciò che l'autore descrive non è altro che la classica appropriazione privata di un bene comune - la conoscenza en general -. È in questa politica dell'espropriazione che si gioca la partita della rete, molto più rilevante del grande risiko tra le grandi imprese hig-tech, gioco composto da fusioni, acquisizioni, strategie di marketing e convergenza tecnologica tra telefonia mobile e informatica che appassiona i media. Ma per comprendere il conflitto tra cooperazione sociale nella rete e imprese occorre partire dalle Reti organizzate del giovane ricercatore australiano Ned Rossiter, uno dei saggi più sofisticati nel mettere in relazione la saggistica dedicata a Internet con il pensiero critico sul capitalismo contemporaneo.Il punto di partenza di Rossiter è all'opposto di quello di Carr, perché mette al centro i rapporti di lavoro, i programmi politici finalizzati alla crescita delle cosiddette «industrie creative», le norme tanto nazionali che globali sulla proprietà intellettuale e la crisi della democrazia rappresentativa. Temi letti, tutti, attraverso una griglia analitica che si avvale delle opere di autori tra loro eterogenei, da Theodore W. Adorno a Chantal Mouffe, da Harold A. Innis a Scott Lasch, da Geert Lovink a Paolo Virno. Rossiter respinge in maniera convincente le tesi secondo le quali Internet è l'atteso regno della comunicazione libera, così come rigetta il luogo comune che vede nelle relazioni di lavoro nelle imprese high-tech l'auspicato superamento delle gerarchie e del lavoro salariato. Anzi è proprio a partire da una analisi dei documenti sulle «industrie creative» che l'autore giunge alla conclusione che la trasformazione dei modelli produttivi e le norme della proprietà intellettuale dimostrano chiaramente come i meccanismi di sfruttamento più che superati siano semmai accentuati nel cyberspazio, sebbene presentino caratteristiche diverse dal passato. Da una parte, le materia prime del «lavoro creativo» - espressione che Rossiter utilizza criticamente - è la conoscenza e il sapere sociale. Dunque, ciò che è «comune» diviene proprietà di «pochi» (le imprese) attraverso le leggi della proprietà intellettuale. Allo stesso tempo le gerarchie non scompaiono, ma sono articolate nei rapporti vis-à-vis segnati dalla condivisione di uno stesso progetto lavorativo da svolgere in un'unità di tempo definita. Nell'impresa contemporanea sono quindi vigenti quelle foucaultiane «tecnologie del controllo» dove tutti controllano tutti e che hanno il loro corollario nella precarietà dei rapporti di lavoro.Il saggio di Ned Rossiter acquista maggior rilevanza per il fatto che è stato scritto dopo la crisi dell'economia delle dot-com. Cioè negli anni successivi, quando era svanito il sogno di chi aveva individuato in Internet l'«ambiente» che poteva garantire un ininterrotto sviluppo economico, sostituendo così l'industria automobilistica e quella dell'elettronica di consumo come settori trainanti dell'economia mondiale. La messa a tema della crisi da parte dell'autore può essere usata in questi tempi dove la crisi non ha coinvolto solo il cyberspazio, ma si è diffusa al di fuori dello schermo. La retorica attorno al «lavoro creativo» ha infatti lasciato il posto alla consapevolezza sulla necessità di fare i conti con il regime di accumulazione capitalistico nel suo complesso. Questo non significa che gli elementi di conoscenza e di comprensione del capitalismo contemporaneo derivanti dall'analisi della rete siano da gettare alla critica roditrice dei topi. Più realisticamente è di articolarli maggiormente. A partire dal ruolo svolto dai «molti», il contesto cioè dove maturano le innovazioni. E questo indipendentemente se il lavoro viene svolto in uno sweatshop o in una impresa tradizionale, se esso è manuale o «cognitivo», con buona pace di chi insegue ancora la chimera di un tranquillizante quarto stato. Infatti, tanto dentro che fuori lo schermo, il conflitto investe l'appropriazione privata delle innovazioni in quanto prodotto sociale.Ned Rossiter invita a pensare la rete come una realtà da organizzare in base al rifiuto di questa espropriazione della creatività da parte delle imprese. Dunque organizzare «i molti». Un invito da fare proprio in una situazione dove la crisi va agita, anche come occasione di trasformazione della realtà.
ilmanifesto.it
19.12.08
Letture parallele di un'opera tutt'ora aperta - Ombre marxiane
di Benedetto Vecchi
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
ilmanifesto.it
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
ilmanifesto.it
Etichette:
il manifesto,
letture marxiane,
Marx,
Vecchi
12.12.08
I fanatici del popolo - da Putin a Berlusconi, il populismo è globale
di Benedetto Vecchi
«La ragione populista» del filosofo marxista Ernesto Laclau e «Populismo globale» del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista
Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.
ilmanifesto.it
«La ragione populista» del filosofo marxista Ernesto Laclau e «Populismo globale» del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista
Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.
ilmanifesto.it
27.11.08
I maestri del fare
L'ULTIMO LAVORO DELLO STUDIOSO RICHARD SENNETT
L'«Uomo artigiano», il nuovo libro dello studioso statunitense. Ritorna allo scoperto una figura del lavoro considerata estinta. Ma che ha i contorni postmoderni dei produttori del sistema operativo Linux
Benedetto Vecchi
Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.
Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animal laborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.
I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.
Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è dalla dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.
ilmanifesto.it
L'«Uomo artigiano», il nuovo libro dello studioso statunitense. Ritorna allo scoperto una figura del lavoro considerata estinta. Ma che ha i contorni postmoderni dei produttori del sistema operativo Linux
Benedetto Vecchi
Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.
Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animal laborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.
I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.
Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è dalla dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.
ilmanifesto.it
Etichette:
artigiano,
il manifesto,
Richard Sennett,
Vecchi
22.11.08
La società dei senza fili
Un sentiero di lettura a partire da una inchiesta mondiale coordinata dallo studioso Manuel Castells su «Mobile communication e trasformazione sociale». Un pianeta dove blog, chat-room e sms possono far cadere e eleggere presidenti o dare vita a «comunità intime a tempo pieno»
Benedetto Vecchi
Matrix, ovvero il dominio delle tecnologie digitali sugli umani. La trilogia dei fratelli Andy e Larry Wachowski voleva essere solo una colta performance sulla pervasività della Rete nelle produzione delle relazioni sociali e interpersonali e sulla cancellazione del confine tra reale e virtuale in una realtà plumbea dove nulla era consentito se fosse in contrasto con i rapporti di potere e le gerarchie necessari all'accumulazione di ricchezza, simboleggiata dall'energia elettrica prodotta da cavie umane. L'unica resistenza era incarnati dagli abitanti di Zion, città sotterranea e simulacro di una forma di vita altera e antagonista all'intelligenza collettiva sussunta dalle macchine.
Ma ciò che rimane interessante dell'immaginario collettivo proposto da quei film, oramai datati a causa anche della crisi economica mondiale, è l'inquietante figura dell'homo cablato, cioè gli uomini e donne costantemente connessi alla Rete. Un tema, questo, che lo studioso Manuel Castells aveva a sua volta marginalmente affrontato in un'altra trilogia, questa volta cartacea, enfaticamente salutata, tanto dai suoi detrattori che dai suoi estimatori, come la summa di una prassi culturale critica delle tendenze ambivalenti presenti nella «società in rete».
Un medium universale
Il capitalismo contemporaneo - definito informazionale da Castells, a causa della centralità dell'informazione nel processo produttivo - è così mobile che anche gli uomini e le donne devono avere la possibilità di essere connessi alla rete ovunque si trovino. I volumi di Castells furono però pubblicati quando la tecnologia wireless non era molto diffusa, mentre erano connessi a Internet solo cinquecento milioni di uomini e donne nel pianeta. Ora, i «naviganti» della rete hanno superato la soglia del miliardo, mentre il telefono cellulare è diventata la tecnologia più diffusa nel mondo, al punto che le nuove generazioni di questi manufatti digitali possono consentire non solo di telefonare, ma mandare messaggi, fare fotografie e brevi video, connettersi alla Rete, scrivere brevi testi, scambiarsi e-mail. Il medium universale del ventunesimo secolo, dicono oramai studiosi, ingegneri e teste d'uovo delle imprese transnazionali, non è il computer, ma proprio quell'oggetto facile da usare, trasportare e (relativamente) economico che è il telefono cellulare: il manufatto tecnologico che rende attuale la figura dell'homo cablato. Il quale corre molti rischi - privacy messa in pericolo, possibilità di essere continuamente tracciato e dunque controllato in ogni momento, cancellazione di ogni confine tra tempo di lavoro e tempo di vita - ma anche molte possibilità di arricchire la sua socialità. Dunque, una condizione ambivalente, dove oppressione e rivolta sono realtà e prospettive entrambi presenti.
La comunicazione è mobile
Giunge quindi a proposito la pubblicazione dell'inchiesta mondiale condotta da Manuel Castells con Mireia Fernàndez-Ardèvol, Jack Linchhuan e Araba Sey su Mobile communication e trasformazione sociale dalla casa editrice milanese Guerini e Associati (pp. 318, euro 26,50). Castells, infatti, insegna in California; Mireira Fernàndez in Spagna, Jack Linchuan a Hong Kong, Araba Sey tra Washington e l'Africa. Ognuno di loro si è occupato di un continente e dopo oltre quattro anni di lavoro hanno elaborato i dati raccolti, proponendo ipotesi interpretative su come funziona socialmente la comunicazione wireless, cioè senza fili. Un lavoro che diffida dell'enfasi scientista sulle virtù miracolistiche del telefono cellulare nel favorire la socialità e lo sviluppo economico.
Già con lo rovinosa caduta delle imprese dot.come nel 2001 Castells aveva intravisto i limiti del libero mercato, individuando nelle esperienze avanzate di welfare state - la Finlandia - una possibile prevenzione a un possibile bailout non solo finanziario, come testimonia il saggio scritto con Pekka Himanen sulla Società dell'informazione e welfare state (Guerini eAssociati). Alla luce di quanto avvenuto, il determinismo di chi vede nel mercato e nella tecnologia la mano salvifica del capitalismo ha infatti la stessa tossicità di un mutuo subprime. Interessante a questo proposito la lunga intervista a Manuel Castells contenuta nell'ultimo numero della rivista «Millepiani» (Tecnometamorfosi della soggettività contemporanea, pp. 188, euro 17), nella quale lo studioso di origine catalana respinge con decisione ogni pretesa euristica di alcuni studi che fanno discendere la realtà sociale dal potere trasformativo della tecnologia, invitando semmai a considerare i rapporti di potere la chiave di accesso alla comprensione di quanto avviene dentro e fuori lo schermo. Un'attitudine critica che emerge anche in questa inchiesta, dove gli autori smontano molti dei luoghi comuni che accompagnano le tecnologie wireles, evidenziandone le ambivalenze.
La generazione txt
È indiscutibile, ad esempio, che il telefono cellulare non stia sostituendo la vecchia cornetta, sebbene il numero degli abbonati al telefono fisso sia, dal 2001, inferiore al numero dei possessori di un cellulare, strumento complementare alla comunicazione con il vecchio doppino telefonico, anche se viene usato in misura maggiore, condizionando così le strategie imprenditoriali, le quali stanno sempre più attuando una politica delle tariffe che rende i cellulari un costo «sostenibile» per tutti. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono preferiti dalle fasce delle popolazioni a basso reddito, come i migranti, i disoccupati e i precari, che scelgono le schede prepagate perché consentono una più accorta pianificazione delle spese destinante alla comunicazione. Da qui l'intensivo uso degli short message system, i famigerati sms che hanno attirato l'attenzione di semiologi e esperti della comunicazione per il linguaggio usato e perché viatico a «comunità intime a tempo pieno», dove ci si «tiene in contatto» anche quando si stanno svolgendo altre attività. Fattore, quest'ultimo, che non è solo prerogativa della cosiddetta generazione txt, come sono stati battezzati tutti quei giovani che usano i telefoni cellulari, ma anche da parte di chi fa un uso intensivo dei cellulari per lavoro. Le tecnologie wireless sono il manufatto digitale privilegiato per chi lavora senza fissa dimora, ma più che aumentare la produttività sono tecnologie che aiutano ad attenuare il senso di isolamento e di straniamento che il lavoro mobile alimenta. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono da considerare come un «guardiano senza fili», perché il lavoratore può essere costantemente controllato, come dimostrano i progetti della Samsung Electronics di monitorare gli spostamenti dei suoi dipendenti.
Continua il digital divide
Altro luogo comune che viene analizzato è relativo alla leggenda metropolitana sui telefoni cellulari usati prevalentemente dalle donne per «ciacolare». I dati sostengono invece che vengono usati per parlare con il proprio partner, i propri amici o i collghi di lavoro allo stesso modo sia dai maschi che dalle donne. Anzi, la propensione a telefonare solo «per sapere come butta» è più spiccata tra i maschi che non tra le donne. Altrettanto evidente è il fatto che la diffusione del telefono cellulare segue le geografie e le gerarchie dell'economia globale, con buona pace di chi lo aveva indicato come lo strumento per colmare il digital divide, dato che i «palmari» consentono la connessione a internet. Le tecnologie wireless sono come Internet concentrate nel nord del mondo e in particolar modo nelle grandi metropoli. Certo la Cina, l'India e l'Africa hanno conosciuto notevoli «indici di penetrazione», ma si tratta pur sempre, nella maggioranza dei casi, di cellulari con basse potenzialità tecnologiche.
Una ricerca sulla comunicazione wireless che si rispetti deve inoltre fare i conti con le modalità d'uso dei «giovani», categoria spesso schiacciata a una contingenza biografica dove si consumano tutti i riti di passaggio all'età adulta. I giovani vanno intesi, semmai, come uno specifico gruppo sociale che manifesta modalità di consumo, di rapporto intermittente con il mercato del lavoro, che sviluppa forme di vita e produce manufatti culturali. Per quanto riguarda il rapporto con la tecnologia «senza fili», i dati della ricerca presentano un quadro molto unitario, perché i cellulari, come la rete, sono medium usati proprio per costituire spazi di socialità autonomi non solo dal mondo adulto, ma anche delle istituzioni delegate al controllo e la formazione dei giovani. Da qui le bizzarrie del linguaggio usato associate a un uso delle tecnologie per essere presenze attive negli «spazi dei flussi», cioè in quelle relazioni sociali che vengono costituite oltre i confini rigidi che delimitano gli «spazi dei luoghi». L'uso intensivo degli sms e degli mms vanno quindi considerati una tecnologica complementare alle chat room e ai siti Internet peer to peer usati per condividere musica e video.
Mobilitazioni mordi e fuggi
Lo sviluppo di forme di vita e sfere pubbliche «autonome» rendono altresì incongruente la distinzione tra virtuale e reale che ha frequentemente caratterizzato le analisi sulle tecnologie digitali. Lo spazio della comunicazione diviene quindi il contesto dove il virtuale si presenta come la concretizzazione delle potenzialità inespresse nella realtà al di fuori lo schermo. L'esempio più evidente sono i flash mobs studiati dal teorico statunitense dei media Howard Rheingold nel volume Smart mobs (Raffaello Cortina), cioè quelle mobilitazioni estemporanee decise con il cellulare, che diviene lo strumento per mobilitare un gruppo più o meno numeroso di persone per raggiungere un obiettivo. E se a Tokyo è accaduto che centinaia di giovani si siano dati appuntamento in un centro commerciale tutti vestiti come il Keanu Reeves nel film Matrix, nelle Filippine e in Spagna i telefoni cellulari sono stati gli strumenti per organizzare manifestazioni contro i governi di quei paesi. A Manila per cacciare un presidente corrotto, a Madrid per smascherare le bugie di un governo che voleva addossare all'Eta l'attacco terroristico alla stazioni della capitale che ha provocato centinaia di morti. Attacco da subito rivendicato da un gruppo islamico radicale affiliato a Al Qaeda.
In entrambi i casi, sono state mobilitazioni «vincenti», perché il presidente corrotto è stato cacciato, mentre in Spagna i flash mobs hanno avuto il potere di ribaltare i risultati elettorali, determinando la sconfitta del governo conservatore di Guy Aznar. Lo stesso , anche se non coronate da successo, è accaduto negli Stati Uniti durante le primarie del 2003 con i supporter di di Howard Dean, con l'attivismo di MoveOn a favore di John Kerry o il travolgente tam-tam per invitare al voto i giovani durante le elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Barack Obama.
Esempi non tutti citati in questa ricerca, anche se i suoi autori quando analizzano gli «eventi» di Manila e Madrid non indugiamo mai in un asfittico determinismo tecnologico. Anzi, sottolineano con forza che sono state mobilitazioni vincenti perché collocate in contesti dove la «memoria» dei movimenti sociali del passato è stata conservata proprio nello spazio intangibile e virtuale della comunicazione digitale, per poi essere usata nelle manifestazioni convocate attraverso il flusso di bit e sms. Come tuttavia scrive Manuel Castells scrive in un saggio apparso lo scorso anno nell'«International Journal of Communication» (consultabile in rete all'indirizzo www.manuelcastells.info/en/index.htm), la diffusione di telefoni cellulari, la proliferazione dei blog, l'entrata in campo di palmari e persino il primo meeting sull'«attivismo mobile» accelerano la formazione dello «spazio dei flussi» all'interno del quale l'homo cablato può prendere dimora.
L'homo cablato va quindi interpretato come una figura che viene prodotta dai rapporti sociali dominanti, ma che al tempo stesso viene destrutturata e reinventata dalle pratiche sociali di uomini e donne che intessono relazioni conflittuali con le modalità con cui vengono presentate le tecnologie digitali. L'homo cablato è quindi sempre l'esito di un conflitto tra le imprese hig-tech e la realtà sociali su come debba essere usata la rete, comprendendo in essa anche le reti di telecomunicazioni «senza fili». Un conflitto che non solo modifica la sua silhouette, ma anche i processi attraverso la quale l'intelligenza collettiva diviene la materia nelle imprese che garantisce un'innovazione permanente.
L'importanza di questa ricerca non va quindi ricercato negli aggregati statistici che presenta, ma nella tesi che, dando per scontate la diffusione e pervasività delle tecnologie digitali, considera lo «spazio dei flussi» il constesto in cui prende forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del suo monopolio esercitato dallo stato. La plasticità nell'uso della rete e della tecnologia delle comunicazione senza fili è da considerare espressione del nuovo panorama prodotto dalla diffusione di queste sfere pubbliche costituite dentro, ma anche contro le regole dominanti. Anche in questo caso, l'ambivalenza è il loro tratto distintivo, perché convivono tanto proposte avanzate in nome della tradizione che di rivolta e opposizione. Ma anche di come l'intelligenza collettiva lì sviluppata possa essere ricondotta alle logiche economiche capitalistiche. In fondo, come accadeva in Matrix gli abitanti di Zion scoprono che anche la loro rivolta è propedeutica all'innovazione delle forme di controllo e dominio. La scommessa è di usare le tecnologie ditiali affinché vengano recisi i fili del controllo. Affinché non venga solo garantita l'esistenza di zone autonome, ma di poter inventare altre istituzioni da quelle vigenti.
ilmanifesto.it
Benedetto Vecchi
Matrix, ovvero il dominio delle tecnologie digitali sugli umani. La trilogia dei fratelli Andy e Larry Wachowski voleva essere solo una colta performance sulla pervasività della Rete nelle produzione delle relazioni sociali e interpersonali e sulla cancellazione del confine tra reale e virtuale in una realtà plumbea dove nulla era consentito se fosse in contrasto con i rapporti di potere e le gerarchie necessari all'accumulazione di ricchezza, simboleggiata dall'energia elettrica prodotta da cavie umane. L'unica resistenza era incarnati dagli abitanti di Zion, città sotterranea e simulacro di una forma di vita altera e antagonista all'intelligenza collettiva sussunta dalle macchine.
Ma ciò che rimane interessante dell'immaginario collettivo proposto da quei film, oramai datati a causa anche della crisi economica mondiale, è l'inquietante figura dell'homo cablato, cioè gli uomini e donne costantemente connessi alla Rete. Un tema, questo, che lo studioso Manuel Castells aveva a sua volta marginalmente affrontato in un'altra trilogia, questa volta cartacea, enfaticamente salutata, tanto dai suoi detrattori che dai suoi estimatori, come la summa di una prassi culturale critica delle tendenze ambivalenti presenti nella «società in rete».
Un medium universale
Il capitalismo contemporaneo - definito informazionale da Castells, a causa della centralità dell'informazione nel processo produttivo - è così mobile che anche gli uomini e le donne devono avere la possibilità di essere connessi alla rete ovunque si trovino. I volumi di Castells furono però pubblicati quando la tecnologia wireless non era molto diffusa, mentre erano connessi a Internet solo cinquecento milioni di uomini e donne nel pianeta. Ora, i «naviganti» della rete hanno superato la soglia del miliardo, mentre il telefono cellulare è diventata la tecnologia più diffusa nel mondo, al punto che le nuove generazioni di questi manufatti digitali possono consentire non solo di telefonare, ma mandare messaggi, fare fotografie e brevi video, connettersi alla Rete, scrivere brevi testi, scambiarsi e-mail. Il medium universale del ventunesimo secolo, dicono oramai studiosi, ingegneri e teste d'uovo delle imprese transnazionali, non è il computer, ma proprio quell'oggetto facile da usare, trasportare e (relativamente) economico che è il telefono cellulare: il manufatto tecnologico che rende attuale la figura dell'homo cablato. Il quale corre molti rischi - privacy messa in pericolo, possibilità di essere continuamente tracciato e dunque controllato in ogni momento, cancellazione di ogni confine tra tempo di lavoro e tempo di vita - ma anche molte possibilità di arricchire la sua socialità. Dunque, una condizione ambivalente, dove oppressione e rivolta sono realtà e prospettive entrambi presenti.
La comunicazione è mobile
Giunge quindi a proposito la pubblicazione dell'inchiesta mondiale condotta da Manuel Castells con Mireia Fernàndez-Ardèvol, Jack Linchhuan e Araba Sey su Mobile communication e trasformazione sociale dalla casa editrice milanese Guerini e Associati (pp. 318, euro 26,50). Castells, infatti, insegna in California; Mireira Fernàndez in Spagna, Jack Linchuan a Hong Kong, Araba Sey tra Washington e l'Africa. Ognuno di loro si è occupato di un continente e dopo oltre quattro anni di lavoro hanno elaborato i dati raccolti, proponendo ipotesi interpretative su come funziona socialmente la comunicazione wireless, cioè senza fili. Un lavoro che diffida dell'enfasi scientista sulle virtù miracolistiche del telefono cellulare nel favorire la socialità e lo sviluppo economico.
Già con lo rovinosa caduta delle imprese dot.come nel 2001 Castells aveva intravisto i limiti del libero mercato, individuando nelle esperienze avanzate di welfare state - la Finlandia - una possibile prevenzione a un possibile bailout non solo finanziario, come testimonia il saggio scritto con Pekka Himanen sulla Società dell'informazione e welfare state (Guerini eAssociati). Alla luce di quanto avvenuto, il determinismo di chi vede nel mercato e nella tecnologia la mano salvifica del capitalismo ha infatti la stessa tossicità di un mutuo subprime. Interessante a questo proposito la lunga intervista a Manuel Castells contenuta nell'ultimo numero della rivista «Millepiani» (Tecnometamorfosi della soggettività contemporanea, pp. 188, euro 17), nella quale lo studioso di origine catalana respinge con decisione ogni pretesa euristica di alcuni studi che fanno discendere la realtà sociale dal potere trasformativo della tecnologia, invitando semmai a considerare i rapporti di potere la chiave di accesso alla comprensione di quanto avviene dentro e fuori lo schermo. Un'attitudine critica che emerge anche in questa inchiesta, dove gli autori smontano molti dei luoghi comuni che accompagnano le tecnologie wireles, evidenziandone le ambivalenze.
La generazione txt
È indiscutibile, ad esempio, che il telefono cellulare non stia sostituendo la vecchia cornetta, sebbene il numero degli abbonati al telefono fisso sia, dal 2001, inferiore al numero dei possessori di un cellulare, strumento complementare alla comunicazione con il vecchio doppino telefonico, anche se viene usato in misura maggiore, condizionando così le strategie imprenditoriali, le quali stanno sempre più attuando una politica delle tariffe che rende i cellulari un costo «sostenibile» per tutti. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono preferiti dalle fasce delle popolazioni a basso reddito, come i migranti, i disoccupati e i precari, che scelgono le schede prepagate perché consentono una più accorta pianificazione delle spese destinante alla comunicazione. Da qui l'intensivo uso degli short message system, i famigerati sms che hanno attirato l'attenzione di semiologi e esperti della comunicazione per il linguaggio usato e perché viatico a «comunità intime a tempo pieno», dove ci si «tiene in contatto» anche quando si stanno svolgendo altre attività. Fattore, quest'ultimo, che non è solo prerogativa della cosiddetta generazione txt, come sono stati battezzati tutti quei giovani che usano i telefoni cellulari, ma anche da parte di chi fa un uso intensivo dei cellulari per lavoro. Le tecnologie wireless sono il manufatto digitale privilegiato per chi lavora senza fissa dimora, ma più che aumentare la produttività sono tecnologie che aiutano ad attenuare il senso di isolamento e di straniamento che il lavoro mobile alimenta. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono da considerare come un «guardiano senza fili», perché il lavoratore può essere costantemente controllato, come dimostrano i progetti della Samsung Electronics di monitorare gli spostamenti dei suoi dipendenti.
Continua il digital divide
Altro luogo comune che viene analizzato è relativo alla leggenda metropolitana sui telefoni cellulari usati prevalentemente dalle donne per «ciacolare». I dati sostengono invece che vengono usati per parlare con il proprio partner, i propri amici o i collghi di lavoro allo stesso modo sia dai maschi che dalle donne. Anzi, la propensione a telefonare solo «per sapere come butta» è più spiccata tra i maschi che non tra le donne. Altrettanto evidente è il fatto che la diffusione del telefono cellulare segue le geografie e le gerarchie dell'economia globale, con buona pace di chi lo aveva indicato come lo strumento per colmare il digital divide, dato che i «palmari» consentono la connessione a internet. Le tecnologie wireless sono come Internet concentrate nel nord del mondo e in particolar modo nelle grandi metropoli. Certo la Cina, l'India e l'Africa hanno conosciuto notevoli «indici di penetrazione», ma si tratta pur sempre, nella maggioranza dei casi, di cellulari con basse potenzialità tecnologiche.
Una ricerca sulla comunicazione wireless che si rispetti deve inoltre fare i conti con le modalità d'uso dei «giovani», categoria spesso schiacciata a una contingenza biografica dove si consumano tutti i riti di passaggio all'età adulta. I giovani vanno intesi, semmai, come uno specifico gruppo sociale che manifesta modalità di consumo, di rapporto intermittente con il mercato del lavoro, che sviluppa forme di vita e produce manufatti culturali. Per quanto riguarda il rapporto con la tecnologia «senza fili», i dati della ricerca presentano un quadro molto unitario, perché i cellulari, come la rete, sono medium usati proprio per costituire spazi di socialità autonomi non solo dal mondo adulto, ma anche delle istituzioni delegate al controllo e la formazione dei giovani. Da qui le bizzarrie del linguaggio usato associate a un uso delle tecnologie per essere presenze attive negli «spazi dei flussi», cioè in quelle relazioni sociali che vengono costituite oltre i confini rigidi che delimitano gli «spazi dei luoghi». L'uso intensivo degli sms e degli mms vanno quindi considerati una tecnologica complementare alle chat room e ai siti Internet peer to peer usati per condividere musica e video.
Mobilitazioni mordi e fuggi
Lo sviluppo di forme di vita e sfere pubbliche «autonome» rendono altresì incongruente la distinzione tra virtuale e reale che ha frequentemente caratterizzato le analisi sulle tecnologie digitali. Lo spazio della comunicazione diviene quindi il contesto dove il virtuale si presenta come la concretizzazione delle potenzialità inespresse nella realtà al di fuori lo schermo. L'esempio più evidente sono i flash mobs studiati dal teorico statunitense dei media Howard Rheingold nel volume Smart mobs (Raffaello Cortina), cioè quelle mobilitazioni estemporanee decise con il cellulare, che diviene lo strumento per mobilitare un gruppo più o meno numeroso di persone per raggiungere un obiettivo. E se a Tokyo è accaduto che centinaia di giovani si siano dati appuntamento in un centro commerciale tutti vestiti come il Keanu Reeves nel film Matrix, nelle Filippine e in Spagna i telefoni cellulari sono stati gli strumenti per organizzare manifestazioni contro i governi di quei paesi. A Manila per cacciare un presidente corrotto, a Madrid per smascherare le bugie di un governo che voleva addossare all'Eta l'attacco terroristico alla stazioni della capitale che ha provocato centinaia di morti. Attacco da subito rivendicato da un gruppo islamico radicale affiliato a Al Qaeda.
In entrambi i casi, sono state mobilitazioni «vincenti», perché il presidente corrotto è stato cacciato, mentre in Spagna i flash mobs hanno avuto il potere di ribaltare i risultati elettorali, determinando la sconfitta del governo conservatore di Guy Aznar. Lo stesso , anche se non coronate da successo, è accaduto negli Stati Uniti durante le primarie del 2003 con i supporter di di Howard Dean, con l'attivismo di MoveOn a favore di John Kerry o il travolgente tam-tam per invitare al voto i giovani durante le elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Barack Obama.
Esempi non tutti citati in questa ricerca, anche se i suoi autori quando analizzano gli «eventi» di Manila e Madrid non indugiamo mai in un asfittico determinismo tecnologico. Anzi, sottolineano con forza che sono state mobilitazioni vincenti perché collocate in contesti dove la «memoria» dei movimenti sociali del passato è stata conservata proprio nello spazio intangibile e virtuale della comunicazione digitale, per poi essere usata nelle manifestazioni convocate attraverso il flusso di bit e sms. Come tuttavia scrive Manuel Castells scrive in un saggio apparso lo scorso anno nell'«International Journal of Communication» (consultabile in rete all'indirizzo www.manuelcastells.info/en/index.htm), la diffusione di telefoni cellulari, la proliferazione dei blog, l'entrata in campo di palmari e persino il primo meeting sull'«attivismo mobile» accelerano la formazione dello «spazio dei flussi» all'interno del quale l'homo cablato può prendere dimora.
L'homo cablato va quindi interpretato come una figura che viene prodotta dai rapporti sociali dominanti, ma che al tempo stesso viene destrutturata e reinventata dalle pratiche sociali di uomini e donne che intessono relazioni conflittuali con le modalità con cui vengono presentate le tecnologie digitali. L'homo cablato è quindi sempre l'esito di un conflitto tra le imprese hig-tech e la realtà sociali su come debba essere usata la rete, comprendendo in essa anche le reti di telecomunicazioni «senza fili». Un conflitto che non solo modifica la sua silhouette, ma anche i processi attraverso la quale l'intelligenza collettiva diviene la materia nelle imprese che garantisce un'innovazione permanente.
L'importanza di questa ricerca non va quindi ricercato negli aggregati statistici che presenta, ma nella tesi che, dando per scontate la diffusione e pervasività delle tecnologie digitali, considera lo «spazio dei flussi» il constesto in cui prende forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del suo monopolio esercitato dallo stato. La plasticità nell'uso della rete e della tecnologia delle comunicazione senza fili è da considerare espressione del nuovo panorama prodotto dalla diffusione di queste sfere pubbliche costituite dentro, ma anche contro le regole dominanti. Anche in questo caso, l'ambivalenza è il loro tratto distintivo, perché convivono tanto proposte avanzate in nome della tradizione che di rivolta e opposizione. Ma anche di come l'intelligenza collettiva lì sviluppata possa essere ricondotta alle logiche economiche capitalistiche. In fondo, come accadeva in Matrix gli abitanti di Zion scoprono che anche la loro rivolta è propedeutica all'innovazione delle forme di controllo e dominio. La scommessa è di usare le tecnologie ditiali affinché vengano recisi i fili del controllo. Affinché non venga solo garantita l'esistenza di zone autonome, ma di poter inventare altre istituzioni da quelle vigenti.
ilmanifesto.it
Etichette:
Castells,
comunicazione mobile,
il manifesto,
Vecchi
Iscriviti a:
Post (Atom)