Genova 2019. Autobus di linea. Quando il razzismo tocca i bambini, il nostro Paese è perduto.
(sosdonne)
Succede che sali su un autobus con la tua classe per un’uscita didattica, succede che il viaggio è abbastanza lungo, succede che cerchi di sistemare i bambini in modo di averli tutti sotto controllo. Loro sono diciannove, noi insegnanti in tre. Succede che uno di loro finisca vicino ad una signora, lui non è bianco, non è italiano, ed è disabile, parla pochissimo, ma ha gli occhi buoni e intelligenti. Guarda fuori dal finestrino, è felice di essere con la sua classe, noi che lo conosciamo lo sappiamo. La mamma ci racconta che la domenica si sveglia spesso alle cinque e dice: “Io scuola, io scuola” e lei prova a spiegarle che non c’è scuola la domenica e non ci sono i suoi compagni, ma lui si dispera, si veste, vuole uscire.
La signora vicino a lui contorce la bocca e inizia a lamentarsi. “Poi non pagano nemmeno il biglietto!” esclama. Io e le mie colleghe la guardiamo incredule, non vogliamo credere che stia succedendo, lei continua, borbotta, è davvero infastidita. Così, per farla tacere, una di noi le risponde che il biglietto i bambini ce l’hanno e l’hanno pagato tutti.
La signora, se così si può chiamare, a un certo punto guarda il nostro piccolo con disprezzo, e ci chiede: “Me lo potete togliere?”. Non è infastidita dalla sua disabilità, perchè, a volte, succede anche questo, ma dal colore della sua pelle.
La mia collega le risponde pronta: “Lui non si alza, se vuole si sposti lei”.
I bambini ci guardano, è difficile essere insegnanti in quel momento, devi proteggerli, non esporli, ma come? Stando zitte, facendo finta di niente per non urtargli l’animo?
Poi pensi allo spazio che il silenzio può lasciare al razzismo, a quello che è successo nel passato dentro a questo spazio, e tu sei un’educatrice, pensi a Rosa Park e pensi che era il 1955 e queste cose accadevano tanto tempo fa, non oggi a Genova, nella tua città, con i tuoi bambini.
La signora si alza, si siede vicino ad un’altra nostra bambina e le sorride, lei va bene perchè è bianca, è bionda, parla italiano. Forse pensa che le assomigli, ma non è così. Noi tre ci guardiamo, siamo provate, avevamo appena finito di vedere uno spettacolo meraviglioso e profondo intitolato “LUCE ” di Aline Nari che parlava delle domande importanti che sanno farsi i bambini e dell’unicità di ognuno di loro, vaglielo a spiegare che tutta quella bellezza è svanita in un attimo dentro alla discriminazione di quella signora.
Lui, in nostro bambino guarda fuori, legge i cartelli con quella voce metallica a noi tanto cara, ora è contornato dai suoi compagni, sono in tre in due sedili, si strigono come fossero una cosa sola.
A me sale la rabbia, è giusto stare zitte? così, ritorno dalla signora, faccio spostare la nostra bambina ‘bianca’ in un altro posto e le dico: “Lei merita di stare da sola, qui i diritti sono di tutti, il mondo non è suo!” e mi sposto al centro dell’autobus. Lei continua a lamentarsi, inveisce contro di me, le mie colleghe le rispondono a tono, finchè non tace.
Prima di scendere mi passa davanti, mi picchietta il braccio tre volte con forza: “Non mi hai fatto paura” mi dice come se il problema fosse chi è più forte tra me e lei.
“Non ha capito niente, nessuno voleva farle paura, solo farla ragionare che il mondo è di tutti, soprattutto dei bambini e lei non ha più diritti degli altri”.
Ha alzato le spalle ed è scesa, sguardo dritto e sicuro. Legittimata anche dallo schifo di questi politicanti che non s’indignano abbastanza, questa è la verità.
Io e le mie colleghe ci siamo guardate, avevamo gli occhi lucidi. Siamo state in silenzio fino a scuola.
Ovviamente in classe abbiamo parlato con i nostri alunni, perché erano lì, ci hanno visto, uno di loro aveva le idee molto chiare su quello che era successo a un suo fratello, suo fratello, in questo caso, il fragile dei più fragili. “Quella signora era razzista” ha detto.
Ed è proprio così, perché è importante che, almeno loro, sappiano dare il nome alle cose e capiscano da che parte stare prima che sia troppo tardi.
Stasera una delle mie colleghe mi ha chiamato. “È stata una brutta giornata” ci siamo dette. Un mondo in cui degli adulti se la prendono con dei bambini è un mondo che fa paura.
Dobbiamo parlarne. Ancora e ancora, non lasciare spazio alle discriminazioni, non lasciare terreno fertile alle ingiustizie, è stato un attimo che i bambini ebrei non sono più andati a scuola e sono saliti su un treno dritti verso l’inferno.
Un attimo di silenzi e collusione. Questi atti gravi hanno trovato lo spazio di esistere non solo grazie alle politiche contro i migranti ma anche a quelle tiepide e non coraggiose di quei governi che si chiamano di “sinistra”.
Dobbiamo denunciare ogni atto razzista, dobbiamo proteggere i nostri piccoli e il loro futuro, ci siamo ribadite io e lei dentro a quella telefonata, forse per farci coraggio, forse per sentirci vicine e allontanare la rabbia.
La mia collega mi ha detto:”Dovevano fermare l’autobus!”.
“Gia”, le ho risposto io. Una cosa è certa, i nostri bambini hanno ben chiaro che sono fratelli. Siamo noi che, spesso, non siamo alla loro altezza e non impariamo nulla dalla storia, dai nostri morti, dall’odio.
E non sappiamo insegnare la Pace, perchè avere un nemico porta consensi, canalizza la rabbia, è utile per il potere.
Un nemico, appunto.
E vennero a prendere anche i bambini.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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16.11.19
19.4.18
Scuola, l’America fa dietrofront: più conoscenze, meno competenze
Le conclusioni di un panel di esperti consultati dall’Ente nazionale di valutazione americano: gli studenti non imparano più a leggere perché a scuola si fanno solo test e si trascurano storia e letteratura, arte e scienze
Perché gli studenti americani non riescono a migliorare le loro capacità di lettura nonostante tutti gli investimenti fatti negli ultimi due decenni proprio per rafforzare questa competenza strategica? Per tentare di rispondere a questa domanda il Naep, l’Invalsi americano, la settimana scorsa ha convocato un gruppo di esperti a Washington. E la risposta finale è stata: perché leggere non è come andare in bicicletta. Non basta saper pedalare: per capire un testo bisogna poter contare su un solido bagaglio di conoscenze, mentre il sistema scolastico americano da vent’anni a questa parte ha puntato tutto e solo sulle competenze, a scapito della ricchezza del curriculum. Era il 2001 - presidente George W. Bush - quando il Congresso americano approvò con un voto bipartisan la legge chiamata No child left behind che, almeno nelle intenzioni, doveva servire a dare a tutti i ragazzi - ricchi o poveri - delle solide competenze in lettura e matematica grazie a un sistema di test diventato negli anni sempre più pervasivo. Dai risultati di queste prove standardizzate, infatti, dipendeva una buona parte dei fondi federali, cosicché le scuole pian piano finirono per appiattire i programmi sui test (il cosiddetto «teaching to the test») impoverendo la qualità della didattica. Risultato: i livelli dei ragazzi sono rimasti gli stessi mentre la forbice fra ricchi e poveri si è ulteriormente allargata tanto che nel 2015 - presidente Barack Obama - la vecchia legge è stata sostituita dal nuovo Every Student Succeeds Act, che ha modificato (delegandoli ai singoli Stati) ma non eliminato il sistema di test standardizzati obbligatori in tutte le scuole dal terzo all’ottavo grado (cioè dalla quarta elementare alla terza media).
«Don’t know much about history»
La storia di questo fallimento educativo è stata ricostruita da The Atlantic in un lungo e documentato articolo in cui si rimarca come il meccanismo perverso dei test abbia agito negativamente soprattutto sulle scuole dei distretti più poveri, quelle che avevano più difficoltà a raggiungere i traguardi prefissati dal governo e che dunque erano più facilmente esposte al rischio di tagliare materie come la storia e la letteratura, l’arte o la scienza che, non essendo misurate dai test governativi, venivano considerate dei rami secchi, per concentrarsi solo sui test. Col risultato paradossale che così finivano per moltiplicare lo svantaggio di chi non aveva alle spalle una famiglia con un patrimonio culturale da trasmettergli. Perché la lettura è un’abilità complessa che richiede non solo la capacità di decodificare un testo ma quella assai più articolata di comprenderlo. E nelle comprensione di un brano scritto conta più il nostro bagaglio di conoscenze che le cosiddette abilità di lettura - le reading skills misurate dalle prove standardizzate. Come ha spiegato uno degli esperti che hanno partecipato alla riunione di martedì scorso, lo psicologo cognitivo Daniel Willingham, il fatto che i lettori capiscano o meno un testo dipende molto di più dalle loro conoscenze e dalla ricchezza del loro vocabolario che da quanto si sono esercitati con domande del tipo «Qual è l’argomento principale del testo?» o «Che conclusioni trai dalla lettura di questo brano?». Se un ragazzo arriva alle superiori senza sapere nulla della Guerra civile americana perché non l’ha mai studiata a scuola, non importa quanti test ha fatto: farà molta più fatica a rispondere a qualsiasi domanda relativa a quell’argomento di un suo collega più colto anche se magari meno allenato di lui nei quiz.
Alzare l’asticella
Ma non basta. Come osservato da Timothy Shanahan, professore emerito all’Università dell’Illinois e autore di oltre 200 pubblicazioni sulla «reading education», il sistema dei test commette un altro errore gravissimo: quello di misurare le capacità dei ragazzi usando dei brani considerati alla loro altezza. Mentre al contrario diverse ricerche dimostrano che gli studenti imparano molto di più quando leggono testi che sono al di sopra del loro livello di competenze e che proprio per questa ragione li portano a sforzarsi arricchendo il loro vocabolario e le loro capacità di comprensione. Perciò se vogliamo davvero migliorare le capacità di lettura degli alunni piantiamola di farli esercitare con i bugiardini dei farmaci o le istruzioni degli elettrodomestici. E semmai puntiamo su un curriculum ricco in storia scienze letteratura e arte che fornisca ai ragazzi una cassetta degli attrezzi - intesa come un sistema di nozioni e un vocabolario articolato - servibile per ogni occasione.
Articolo originale: Why American Students Haven't Gotten Better at Reading in 20 Years (The Atlantic)
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27.9.14
Teaching as a Subversive Activity
Arnold Dodge - Chairperson of the Department of Educational Leadership and Administration at LIU-Post (huffingtonpost)
I would remind you that extremism in the defense of liberty is no vice. And let me remind you also that moderation in the pursuit of justice is no virtue ~ Barry Goldwater
Recently I was talking with a friend, sharing with him that someone I know had been let go from her university faculty position. She was dismissed because she took a stand against a policy that she thought was inimical to the growth of her students and the mission of her work. And, she enlisted her students in the cause.
My friend took the position that the employer had the right to make sure that the teacher was not inciting her students to revolt. The termination, therefore, was justified.
It was at that moment that I realized how few people - even intelligent, thoughtful ones, like my friend - see classrooms as incubators for revolution - or at the very least, laboratories for change. This is particularly true today as schools are seen as "college and career ready" factories, hardly the place for questioning the establishment.
Driven by the test-crazed juggernaut unleashed by No Child Left Behind and Race to the Top federal mandates, and emboldened by the poor showing the US has on international test scores, policy makers everywhere are demanding a numbers-driven accountability for teachers and their schools. It is worth noting that in its publication,Human Capital, the OECD (the Organization for Economic Co-operation and Development), which oversees PISA testing - the most well-known international testing benchmark - suggests that "individual capabilities" are a kind of capital, - an asset just like "a spinning wheel or a flour mill" which can "yield returns." 1
If you were educated to be a teacher in the 60's - as I was - you were groomed to see "teaching as a subversive activity" after the leading education prep book of the time by the same name, authored by Charles Weingartner and Neil Postman.2 Their approach to schooling, known as inquiry education, emphasized student questions more than teacher answers. Teaching was characterized as a tool for questioning the status quo, as a means to talk truth to power and as a salvo against the all too often stultifying effects of the establishment. This unique pedagogy was encouraged as an antidote to dull, lifeless and unimaginative teaching. In addition, my cohort of aspiring educators read other works from the pantheon of revolutionary thinkers, including Jonathan Kozol's Death at an Early Age, Herb Kohl's 36 Children, and A.S. Neill's Summerhill. Each offered a manifesto for teachers to change the world, first by questioning the prevailing paradigm. Today, I am afraid the clarion call encouraged of educators is not so much "change the world," as "preserve the corporation."
One way to reverse the trend of the corporatization of our schools, the "yield returns" mentality, is to re-imagine a new future in the "subversive" classroom. Two scholars weigh in on this notion:
Denny Taylor, a Literary Studies scholar, in a post based on her work, suggests:
If we are serious about preparing our children for an uncertain future, in which they will be confronted by many perils, then we must stop the corporate education revolution immediately and recreate the public school system based on democratic principles, ensuring equality and opportunity for all children to participate in projects and activities that will ensure their active engagement in re-visioning and re-imagining human life on Earth.3
And . . . Maxine Greene, who died recently at 96, assailed the establishment view of defining education as teachers who stand and deliver a prescribed curriculum. Maxine, the Dean of Columbia Teachers College, spent her life as a human bulwark against the machine, committing to what she called, "wide-awakeness" in all of us, especially teachers:
I'm not the kind of person who wants to impose an authority on people. I suppose I'll never stop trying to wake people up to ask questions and have passion about how they look at the world.4
Educators can be at the vanguard of these changes or they can be the tool of the status quo. Those who believe the latter would declare, perhaps as my friend would, that teachers need to be good soldiers.
Good teachers are not good soldiers.
In fact, the best teachers are the ones who regularly and forcefully challenge orders from on high. They fight back, or at the very least, tell their commanders that the battles being won today - increased standardized testing, a move to abolish tenure, narrowing of the curriculum, a focus on competition - are Pyrrhic victories at best.
Corporations may be people to some, but schools will never be businesses to those who understand the complexity of childhood. As David Kirp points out in a recentNew York Times piece:
It's impossible to improve education by doing an end run around inherently complicated and messy human relationships. All youngsters need to believe that they have a stake in the future, a goal worth striving for, if they are going to make it in school . . . The business model hasn't worked in reforming schools - there is simply no substitute for the personal element.5
Sadly, in schools today, the fascinating, albeit messy, work of enlivening the hearts and minds of the next generation is being overshadowed by the austere, petty, numbers-driven auditing that has become standard practice. This misbegotten approach is questioned, often and loudly, by brave educators who risk their livelihoods in the name of providing an environment that honors young people as developing human beings with a stake in shaping their own future. These are people who refuse to be quiet in the face of a politics that is sucking the life out of what used to be sacred ground. As Henry Giroux avers:
" . . . politics is being emptied of any substance as citizens are reduced to obedient recipients of power by both the dominant media and by a number of politicians at the highest level of government."6
Dr. King said there comes a time when you have to stop being a thermometer and become a thermostat that transforms the mores of society. It's time to take charge of the thermostat in our schools.
It's time to get subversive.
So with a tip of the hat to Weingartner and Postman for getting some of us started many years ago, and with gratitude to colleagues everywhere who have the guts to be subversive as necessary in the name of children and the teaching and learning process, let's all stand up together for what is right and fight the good fight.
With the unlikely duo of Barry Goldwater and Maxine Greene as our guides, I suggest we use extreme measures to awaken each other to the possibilities.
References
1.Keeley, Brian: Human capital. How what you know shapes your life. OECD Insights 2007:pp.27-30
2.Postman, N. & Weingartner, C. (1969). Teaching as a subversive activity. New York: Dell
3.Taylor, Denny (July 16, 2014) retrieved from https://www.facebook.com/denny.taylor
4.Paufler, N. & Amrein-Beardsley, A. (June 3,2014). In Memoriam: Teachers College's Maxine Green from Inside the Academy. Teachers College Record. Retrieved from http://www.tcrecord.org/Content.asp?ContentId=17555
5.Kirp, D. (2014, August 17). Teaching is Not a Business. New York Times Sunday Review, p. 4.
6.Giroux, H.(2011) Zombie politics and culture in the age of casino capitalism. New York: Peter Lang: p.96
1.Keeley, Brian: Human capital. How what you know shapes your life. OECD Insights 2007:pp.27-30
2.Postman, N. & Weingartner, C. (1969). Teaching as a subversive activity. New York: Dell
3.Taylor, Denny (July 16, 2014) retrieved from https://www.facebook.com/denny.taylor
4.Paufler, N. & Amrein-Beardsley, A. (June 3,2014). In Memoriam: Teachers College's Maxine Green from Inside the Academy. Teachers College Record. Retrieved from http://www.tcrecord.org/Content.asp?ContentId=17555
5.Kirp, D. (2014, August 17). Teaching is Not a Business. New York Times Sunday Review, p. 4.
6.Giroux, H.(2011) Zombie politics and culture in the age of casino capitalism. New York: Peter Lang: p.96
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11.5.11
Troppi test banalizzano la scuola
LUCA RICOLFI
Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.
Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.
Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.
Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice. Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.
Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.
Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.
Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.
Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.
Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.
Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.
Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.
Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.
Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.
Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.
Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.
Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice. Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.
Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.
Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.
Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.
Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.
Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.
Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.
Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.
Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.
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31.8.10
La religione ti promuove
In una scuola paritaria ragazzi promossi agrazie al 10 in religione: che però non dovrebbe esprimere un voto numerico, ma solo un giudizio. E nella mattanza di ore e di posti di lavoro prodotta dalla riforma Gelmini, l'ora di religione è la sola a non subire tagli: docenti nominati dalla Curia, ma pagati dalle tasse degli italiani
C’era una volta la laicità nel nostro Paese. E ora non c’è più. Notizia recente: in un liceo paritario romano – il Seraphicum – i ragazzi sono stati ammessi all’Esame di Stato con il contributo di 10 in religione. Violazione all’art. 309 del Testo Unico delle leggi sulla scuola che stabilisce modalità e criteri di valutazione di chi si avvale dell’Insegnamento Religione cattolica: giudizi e non voti. Il Nuovo Concordato e le successive intese applicative si uniformarono alla normativa statale, che stigmatizza ogni forma di discriminazione determinata dall’avvalersi o no di IRC, che – per ora – è ancora facoltativo. Scuola e Costituzione ha diffidato l’Ufficio scolastico del Lazio, che al momento non ha ancora risposto. Attendiamo fiduciosi.
Chi sale,chi scende
Nella mattanza di ore (e di posti di lavoro) prodotta in tutti gli ordini di scuola dalla “riforma”, l’IRC è il solo a non subìre tagli, arrivando così a una percentuale più ampia sul monte-ore: i nostri studenti fanno meno Italiano ma più Religione! Il paradosso è che negli anni del più grande licenziamento di massa della storia della scuola italiana, gli insegnanti di Rc sono addirittura aumentati: 26.000 in servizio, di cui 14.000 di ruolo. Docenti che hanno una singolare, doppia matrice giuridica: nominati (o rimossi) dalla Curia, pagati dalle tasse di tutti gli Italiani. ”L’ora di Religione non si tocca”, aveva detto Gelmini all’inizio dello scorso anno scolastico. La sollecitazione era venuta dalla “lettera cIRColare” della Congregazione Vaticana per l’Educazione cattolica, che condannava il fatto che in molti Paesi siano state introdotte “nuove regolamentazioni civili, che tendono a sostituirlo (l’insegnamento della IRC, ndr) con un insegnamento del fatto religioso di natura multiconfessionale o di etica e cultura religiosa, anche in contrasto con le scelte e l’indirizzo educativo che i genitori e la Chiesa intendono dare alla formazione delle nuove generazioni”. “Si potrebbe anche creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso se l’insegnamento della religione fosse limitato ad un’esposizione delle diverse religioni, in un modo comparativo e “neutro”. Perciò “(bisogna che) l’insegnamento religioso scolastico appaia come disciplina scolastica, con la stessa esigenza di sistematicità e rigore che hanno le altre discipline”. Infine la Congregazione “non smette di denunciare l’ingiustizia che si compie quando gli alunni cattolici e le loro famiglie vengono privati dei propri diritti educativi ed è ferita la loro libertà religiosa”. Il mondo alla rovescia: incalzano i vertici. Per il presidente della Cei, Bagnasco, l’ora di IRC “non si configura come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola”. L’arcivescovo di Torino, Poletto, sostiene che l’ora di IRC “non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo”. Perché soprassedere su pressioni così insistite? Come non interrogarsi sul senso di questo privilegio?
Le rassicurazioni della Gelmini
Intanto le scuole paritarie (la maggior parte di ispirazione cattolica) lamentano la mancata erogazione dei fondi loro destinati per l’a.s. 2009/10. Le rassicura Gelmini in persona, assicurando che le risorse sono state “rimesse nel capitolo di spesa e attendiamo il via libera dalla Conferenza Stato-Regioni” e affermando: “Nella Finanziaria 2011 i soldi per le paritarie non si toccano”. Cioè, il budget previsto per le paritarie (534 milioni) sarà regolarmente erogato: tagli brutali alla scuola pubblica, fondi inalterati per le private. Gelmini ha poi aggiunto: “Non bisogna dimenticare che la scuola paritaria permette allo Stato un risparmio di oltre 6 miliardi di euro”. Il calcolo teorico della spesa a carico dello Stato se gli studenti delle paritarie frequentassero la pubblica è ricorrente argomentazione mercantile, a cui siamo avvezzi. Che però non considera che la scuola della comunità pubblica – istituzione della Repubblica – esiste a prescindere da quelle quote di studenti. Poiché è lo Stato a garantire l’istruzione, lo spreco è la creazione di istituti privati che ricevono fondi grazie alla legge di parità. Gelmini non apprezza (e non stupisce) l’investimento della collettività in funzione dell’interesse generale e del confronto dialettico, garantiti dalla scuola pubblica. Sono concetti che non fanno parte della cultura grossolana di chi ci governa. E che, temo, stanno scomparendo anche dalla coscienza di molti di noi, nella rinuncia alla vigilanza intransigente su questo arretramento lento ma inesorabile da diritti e principi inalienabili.
C’era una volta la laicità nel nostro Paese. E ora non c’è più. Notizia recente: in un liceo paritario romano – il Seraphicum – i ragazzi sono stati ammessi all’Esame di Stato con il contributo di 10 in religione. Violazione all’art. 309 del Testo Unico delle leggi sulla scuola che stabilisce modalità e criteri di valutazione di chi si avvale dell’Insegnamento Religione cattolica: giudizi e non voti. Il Nuovo Concordato e le successive intese applicative si uniformarono alla normativa statale, che stigmatizza ogni forma di discriminazione determinata dall’avvalersi o no di IRC, che – per ora – è ancora facoltativo. Scuola e Costituzione ha diffidato l’Ufficio scolastico del Lazio, che al momento non ha ancora risposto. Attendiamo fiduciosi.
Chi sale,chi scende
Nella mattanza di ore (e di posti di lavoro) prodotta in tutti gli ordini di scuola dalla “riforma”, l’IRC è il solo a non subìre tagli, arrivando così a una percentuale più ampia sul monte-ore: i nostri studenti fanno meno Italiano ma più Religione! Il paradosso è che negli anni del più grande licenziamento di massa della storia della scuola italiana, gli insegnanti di Rc sono addirittura aumentati: 26.000 in servizio, di cui 14.000 di ruolo. Docenti che hanno una singolare, doppia matrice giuridica: nominati (o rimossi) dalla Curia, pagati dalle tasse di tutti gli Italiani. ”L’ora di Religione non si tocca”, aveva detto Gelmini all’inizio dello scorso anno scolastico. La sollecitazione era venuta dalla “lettera cIRColare” della Congregazione Vaticana per l’Educazione cattolica, che condannava il fatto che in molti Paesi siano state introdotte “nuove regolamentazioni civili, che tendono a sostituirlo (l’insegnamento della IRC, ndr) con un insegnamento del fatto religioso di natura multiconfessionale o di etica e cultura religiosa, anche in contrasto con le scelte e l’indirizzo educativo che i genitori e la Chiesa intendono dare alla formazione delle nuove generazioni”. “Si potrebbe anche creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso se l’insegnamento della religione fosse limitato ad un’esposizione delle diverse religioni, in un modo comparativo e “neutro”. Perciò “(bisogna che) l’insegnamento religioso scolastico appaia come disciplina scolastica, con la stessa esigenza di sistematicità e rigore che hanno le altre discipline”. Infine la Congregazione “non smette di denunciare l’ingiustizia che si compie quando gli alunni cattolici e le loro famiglie vengono privati dei propri diritti educativi ed è ferita la loro libertà religiosa”. Il mondo alla rovescia: incalzano i vertici. Per il presidente della Cei, Bagnasco, l’ora di IRC “non si configura come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola”. L’arcivescovo di Torino, Poletto, sostiene che l’ora di IRC “non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo”. Perché soprassedere su pressioni così insistite? Come non interrogarsi sul senso di questo privilegio?
Le rassicurazioni della Gelmini
Intanto le scuole paritarie (la maggior parte di ispirazione cattolica) lamentano la mancata erogazione dei fondi loro destinati per l’a.s. 2009/10. Le rassicura Gelmini in persona, assicurando che le risorse sono state “rimesse nel capitolo di spesa e attendiamo il via libera dalla Conferenza Stato-Regioni” e affermando: “Nella Finanziaria 2011 i soldi per le paritarie non si toccano”. Cioè, il budget previsto per le paritarie (534 milioni) sarà regolarmente erogato: tagli brutali alla scuola pubblica, fondi inalterati per le private. Gelmini ha poi aggiunto: “Non bisogna dimenticare che la scuola paritaria permette allo Stato un risparmio di oltre 6 miliardi di euro”. Il calcolo teorico della spesa a carico dello Stato se gli studenti delle paritarie frequentassero la pubblica è ricorrente argomentazione mercantile, a cui siamo avvezzi. Che però non considera che la scuola della comunità pubblica – istituzione della Repubblica – esiste a prescindere da quelle quote di studenti. Poiché è lo Stato a garantire l’istruzione, lo spreco è la creazione di istituti privati che ricevono fondi grazie alla legge di parità. Gelmini non apprezza (e non stupisce) l’investimento della collettività in funzione dell’interesse generale e del confronto dialettico, garantiti dalla scuola pubblica. Sono concetti che non fanno parte della cultura grossolana di chi ci governa. E che, temo, stanno scomparendo anche dalla coscienza di molti di noi, nella rinuncia alla vigilanza intransigente su questo arretramento lento ma inesorabile da diritti e principi inalienabili.
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28.8.09
Scuola, ecco le nuove regole per diventare insegnanti
Un anno di tirocinio per legare teoria a pratica. Assunzioni solo in base alla necessità per evitare il precariato. Più inglese e competenze tecnologiche. Cambia radicalmente la formazione iniziale degli insegnanti. Il ministro dell'Istruzione, Maria Stella Gelmini, ha presentato le novità per chi vuole accedere all'insegnamento che si sviluppano in particolare- recita una nota- su quattro grandi linee: - Il tirocinio da svolgere direttamente a contatto con le scuole e col "mestiere" di insegnante, perché insegnare non può essere solo teoria ma anche pratica; - Il numero di nuovi docenti sarà deciso in base al fabbisogno. Fine dell'accesso illimitato alla professione che creava il precariato; - Con la fine del precariato sarà consentito ai giovani l'inserimento immediato in ruolo; - Più inglese e nuove tecnologie.
Il regolamento è il frutto del lavoro della Commissione presieduta dal professor Giorgio Israel, a cui è seguita una azione di primo confronto col mondo della scuola e delle associazioni per l'integrazione scolastica. L'obiettivo dei nuovi percorsi- dice sempre il comunicato del Miur- è di garantire una più equilibrata preparazione disciplinare, didattica e pedagogica nel corso delle lauree magistrali e lo svolgimento di un anno di percorso, il Tirocinio formativo attivo, direttamente a contatto con le scuole.
"Oggi iniziamo a progettare un nuovo tassello per il cambiamento del nostro sistema scolastico. Un tassello fondamentale, perché riguarda la formazione iniziale dei futuri insegnanti". Lo ha affermato il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini.
"Prevediamo una selezione severa- ha aggiunto commentando le nuove regole diffuse dal Miur- doverosa per chi avrà in mano il futuro dell'Italia e sostituiamo alle vecchie Ssis un percorso più snello, di un anno, coprogettato da scuole e università, concentrato nel passaggio dal semplice sapere al saper insegnare".
Cambiano dunque le modalità per accedere all'insegnamento. Con il nuovo sistema per insegnare nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria sarà necessaria la laurea quinquennale, a numero programmato con prova di accesso che consentirà di conseguire l'abilitazione per la scuola primaria e dell'infanzia; sono rafforzate le competenze disciplinari e pedagogiche ed è previsto un apposito percorso di laboratorio per la lingua inglese e le nuove tecnologie; per la prima volta si è data specifica attenzione al problema degli alunni con disabilità, prevedendo che in tutti i percorsi ci siano insegnamenti in grado di consentire al docente di avere una preparazione di base sui bisogni speciali; Per insegnare nella scuola secondaria di primo e secondo grado, invece, sarà necessaria la laurea magistrale + 1 anno di Tirocinio formativo attivo; è prevista una prova di ingresso alla laurea magistrale a numero programmato basato sulle necessità del sistema nazionale di istruzione, composto da scuole pubbliche e paritarie; l'anno di tirocinio formativo attivo contempla 475 ore di tirocinio a scuola sotto la guida di un insegnante tutor; rispetto al percorso Ssis (Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario), si prende il meglio di quella esperienza, evitando la ripetizione degli insegnamenti disciplinari, approfonditi già nella laurea e nella laurea magistrale, per concentrarsi sul tirocinio, sui laboratori e le didattiche.
Dalle Ssis, quindi, al Tirocinio formativo: si passa "dal sapere al sapere insegnare", dice ancora la nota. Durante il tirocinio sarà dedicato infatti ampio spazio all'approfondimento della didattica con esperienze sul campo.
In questo regolamento è stato dato pieno riconoscimento al sistema nazionale dell'istruzione (formato dalle istituzioni scolastiche statali e paritarie), tanto nel coinvolgimento nei tirocini quanto nel calcolo dei fabbisogni di personale docente, e si inizia a prevedere la possibilità di svolgere tirocini anche nelle strutture di istruzione e formazione professionale dove c'è la sperimentazione dell'obbligo formativo.
Inoltre gli uffici scolastici regionali organizzeranno e aggiorneranno gli albi delle istituzioni scolastiche accreditate che ospiteranno i tirocini sulla base di appositi criteri stabiliti dal ministero, evidenziandone buone prassi e specificità.
Gli Usr avranno anche funzione di controllo e di verifica sui tirocini. Sino alla costituzione degli albi, le Università scelgono liberamente le scuole, di concerto con gli Usr che mantengono compiti di vigilanza. Il consiglio di corso di tirocinio, che prevede la presenza di scuola e università, ha compiti di coordinamento e di progettazione e rappresenta il terreno di incontro e di raccordo tra le due realtà. Le commissioni di abilitazione prevedono un equilibrio tra scuola e università e un peso determinante del tirocinio e della prova didattica sul voto di abilitazione. I dottori di ricerca e i "precari della ricerca", se in possesso dei requisiti curriculari, entrano in soprannumero, dopo un esame orale, nell'anno di tirocinio, vedendo valorizzato il loro percorso. L'anno di tirocinio prevede forme di interazione e co-progettazione del percorso tra istituzioni scolastiche e atenei ed è stato previsto uno specifico spazio di laboratori destinati ad approfondire quanto viene fatto in classe.
In merito alla "Formazione degli insegnanti di sostegno", è previsto che sia posta in capo alle università, pur prevedendo la possibilità di specifici accordi con gli enti del settore. Sono previsti percorsi di specializzazione per il Clil (insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado di una materia non linguistica in inglese). Il sistema Afam concorre a pieno titolo alla formazione iniziale dei docenti nelle classi di abilitazione di propria competenza. In particolare, è stata rivista la classe di abilitazione per lo strumento musicale. Sino all'entrata a regime delle nuove lauree magistrali, la programmazione del numero di abilitati e il test è previsto, per la secondaria di primo e secondo grado, prima di accedere all'anno di Tirocinio formativo attivo. Per quanto riguarda i precari non abilitati e gli ex diplomati negli istituti magistrali sono stati previsti percorsi che, dietro il superamento di prove d'accesso in grado di verificare la preparazione disciplinare, consentano di conseguire l'abilitazione.
Il regolamento sulla Formazione iniziale, dunque, punta a raggiungere tre obiettivi: 1) Focalizza nella formazione iniziale non solo le materie tradizionali, ma l'acquisizione di alcune competenze trasversali: seconda lingua inglese e competenze di didattica attraverso le nuove tecnologie; 2) Sostituisce al sistema Ssis strutture più snelle, concentrate sull'incontro e sulla co-progettazione tra istituzioni scolastiche e università evitando autoreferenzialità, costi per il sistema e per gli studenti e abbreviando di un anno il percorso di abilitazione per la scuola secondaria; 3) Prevede una programmazione dei numeri in grado di evitare la proliferazione del precariato.
Con successivo decreto si stabiliranno le lauree magistrali relative al secondo ciclo dell'istruzione, per seguire il percorso di cambiamento del secondo ciclo e delle classi di abilitazione.
Pubblicate un po’ in sordina durante l"estate, e un po’ prima rispetto al classico mese di settembre, il ministero dell'Istruzione ha reso noto le Linee guida sull'integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Lo ha fatto ai primi di agosto, mentre la maggior parte degli italiani erano in vacanza. Ma agli esperti che si occupano di scuola non è sfuggito, e presto sono arrivati i primi commenti. Positivo il giudizio espresso da Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell'handicap), che aveva anticipato il contenuto delle linee guida a fine luglio: "Pur essendo un documento che fa il punto della situazione in Italia, si tratta comunque di un segnale politico importante", ha ribadito. Meno entusiasta, invece, il commento del Coordinamento italiano degli insegnanti di sostegno (Ciis). "Nessun accenno al numero degli alunni disabili per classe, nessun cenno alla situazione di quelli impossibilitati a frequentare (per i quali si attua l'istruzione domiciliare), e neanche un richiamo all'attivazione di laboratori rivolti esclusivamente agli alunni con disabilità", si legge sul sito del coordinamento. Per quanto riguarda il "registro", molte volte "contenente il solo nome dell'alunno disabile e consegnato all'insegnante di sostegno quale 'unico mentore’, le Linee guida per l'integrazione scolastica" riportano che "gli insegnanti assegnati alle attività per il sostegno, assumendo la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano e partecipando a pieno titolo alle operazioni di valutazione periodiche e finali degli alunni della classe con diritto di voto, disporranno di registri recanti i nomi di tutti gli alunni della classe di cui sono contitolari". Che cosa si dovrà registrare in questo documento ancora non si sa, ma per il momento il Ciis ha apprezzato
l'intervento: "da tempo si avvertiva l'esigenza di far chiarezza in materia per non continuare a perpetrare l'idea che l'alunno disabile 'appartenga’ solo all'insegnante per il sostegno", dicono.
Le direttive impartite dal ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca "si muovono nell'ambito della legislazione vigente e mirano a innalzare il livello qualitativo degli interventi formativi ed educativi a favore degli alunni disabili - si legge nella presentazione alle Linee guida per l'integrazione scolastica scritta dal vice della Direzione generale per lo studente, l'integrazione e la partecipazione del Miur Sergio Scala -. Il documento ripercorre le tappe degli interventi come fin qui concretamente realizzati nella pratica operativa al fine di valutarne la reale corrispondenza ai principi e alle norme che disciplinano la materia. L'obiettivo non è dunque quello di introdurre variazioni nelle disposizioni, quanto di fornire agli operatori scolastici una visione organica della materia che possa orientarne i comportamenti nella direzione di una loro più piena conformità ai principi dell'integrazione".
Se il ministero dell'Istruzione ha ribadito gli organici per l"anno scolastico 2009/2010 - oltre 90 mila docenti di sostegno per circa 180 mila studenti disabili, il che significa il rispetto su scala nazionale del rapporto di un insegnante ogni due studenti con disabilità - per Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell'handicap), i tagli alla scuola provocheranno comunque un effetto a catena. Nel senso che "i docenti di ruolo rimasti senza cattedra 'si ricicleranno’ come sostegno mentre quelli precari, che finora sono andati avanti con contratti annuali, perderanno il posto. Naturalmente occorre un titolo idoneo per fare l'insegnante di sostegno", precisa Nocera.Ma con il turn-over dei docenti, "la continuità didattica è fortemente a rischio". E questo fattore è molto importante per uno studente disabile. "Nel rapporto tra insegnante di sostegno e alunno, la conoscenza reciproca è spesso fondamentale, soprattutto quando si tratta di disabilità grave", osserva il vicepresidente della Fish. E il personale assunto a tempo indeterminato per il prossimo anno scolastico (circa 4.300 insegnanti di sostegno che saranno di ruolo, di cui la maggior parte in Campania, Lombardia, Sicilia e Lazio) è solo la punta dell'iceberg. "Sui 90.469 insegnanti di sostegno previsti per l'anno 2009/2010, infatti, quelli in organico di diritto diventeranno così 62.766", conclude Nocera. Gli altri docenti continueranno a essere precari.
Il regolamento è il frutto del lavoro della Commissione presieduta dal professor Giorgio Israel, a cui è seguita una azione di primo confronto col mondo della scuola e delle associazioni per l'integrazione scolastica. L'obiettivo dei nuovi percorsi- dice sempre il comunicato del Miur- è di garantire una più equilibrata preparazione disciplinare, didattica e pedagogica nel corso delle lauree magistrali e lo svolgimento di un anno di percorso, il Tirocinio formativo attivo, direttamente a contatto con le scuole.
"Oggi iniziamo a progettare un nuovo tassello per il cambiamento del nostro sistema scolastico. Un tassello fondamentale, perché riguarda la formazione iniziale dei futuri insegnanti". Lo ha affermato il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini.
"Prevediamo una selezione severa- ha aggiunto commentando le nuove regole diffuse dal Miur- doverosa per chi avrà in mano il futuro dell'Italia e sostituiamo alle vecchie Ssis un percorso più snello, di un anno, coprogettato da scuole e università, concentrato nel passaggio dal semplice sapere al saper insegnare".
Cambiano dunque le modalità per accedere all'insegnamento. Con il nuovo sistema per insegnare nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria sarà necessaria la laurea quinquennale, a numero programmato con prova di accesso che consentirà di conseguire l'abilitazione per la scuola primaria e dell'infanzia; sono rafforzate le competenze disciplinari e pedagogiche ed è previsto un apposito percorso di laboratorio per la lingua inglese e le nuove tecnologie; per la prima volta si è data specifica attenzione al problema degli alunni con disabilità, prevedendo che in tutti i percorsi ci siano insegnamenti in grado di consentire al docente di avere una preparazione di base sui bisogni speciali; Per insegnare nella scuola secondaria di primo e secondo grado, invece, sarà necessaria la laurea magistrale + 1 anno di Tirocinio formativo attivo; è prevista una prova di ingresso alla laurea magistrale a numero programmato basato sulle necessità del sistema nazionale di istruzione, composto da scuole pubbliche e paritarie; l'anno di tirocinio formativo attivo contempla 475 ore di tirocinio a scuola sotto la guida di un insegnante tutor; rispetto al percorso Ssis (Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario), si prende il meglio di quella esperienza, evitando la ripetizione degli insegnamenti disciplinari, approfonditi già nella laurea e nella laurea magistrale, per concentrarsi sul tirocinio, sui laboratori e le didattiche.
Dalle Ssis, quindi, al Tirocinio formativo: si passa "dal sapere al sapere insegnare", dice ancora la nota. Durante il tirocinio sarà dedicato infatti ampio spazio all'approfondimento della didattica con esperienze sul campo.
In questo regolamento è stato dato pieno riconoscimento al sistema nazionale dell'istruzione (formato dalle istituzioni scolastiche statali e paritarie), tanto nel coinvolgimento nei tirocini quanto nel calcolo dei fabbisogni di personale docente, e si inizia a prevedere la possibilità di svolgere tirocini anche nelle strutture di istruzione e formazione professionale dove c'è la sperimentazione dell'obbligo formativo.
Inoltre gli uffici scolastici regionali organizzeranno e aggiorneranno gli albi delle istituzioni scolastiche accreditate che ospiteranno i tirocini sulla base di appositi criteri stabiliti dal ministero, evidenziandone buone prassi e specificità.
Gli Usr avranno anche funzione di controllo e di verifica sui tirocini. Sino alla costituzione degli albi, le Università scelgono liberamente le scuole, di concerto con gli Usr che mantengono compiti di vigilanza. Il consiglio di corso di tirocinio, che prevede la presenza di scuola e università, ha compiti di coordinamento e di progettazione e rappresenta il terreno di incontro e di raccordo tra le due realtà. Le commissioni di abilitazione prevedono un equilibrio tra scuola e università e un peso determinante del tirocinio e della prova didattica sul voto di abilitazione. I dottori di ricerca e i "precari della ricerca", se in possesso dei requisiti curriculari, entrano in soprannumero, dopo un esame orale, nell'anno di tirocinio, vedendo valorizzato il loro percorso. L'anno di tirocinio prevede forme di interazione e co-progettazione del percorso tra istituzioni scolastiche e atenei ed è stato previsto uno specifico spazio di laboratori destinati ad approfondire quanto viene fatto in classe.
In merito alla "Formazione degli insegnanti di sostegno", è previsto che sia posta in capo alle università, pur prevedendo la possibilità di specifici accordi con gli enti del settore. Sono previsti percorsi di specializzazione per il Clil (insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado di una materia non linguistica in inglese). Il sistema Afam concorre a pieno titolo alla formazione iniziale dei docenti nelle classi di abilitazione di propria competenza. In particolare, è stata rivista la classe di abilitazione per lo strumento musicale. Sino all'entrata a regime delle nuove lauree magistrali, la programmazione del numero di abilitati e il test è previsto, per la secondaria di primo e secondo grado, prima di accedere all'anno di Tirocinio formativo attivo. Per quanto riguarda i precari non abilitati e gli ex diplomati negli istituti magistrali sono stati previsti percorsi che, dietro il superamento di prove d'accesso in grado di verificare la preparazione disciplinare, consentano di conseguire l'abilitazione.
Il regolamento sulla Formazione iniziale, dunque, punta a raggiungere tre obiettivi: 1) Focalizza nella formazione iniziale non solo le materie tradizionali, ma l'acquisizione di alcune competenze trasversali: seconda lingua inglese e competenze di didattica attraverso le nuove tecnologie; 2) Sostituisce al sistema Ssis strutture più snelle, concentrate sull'incontro e sulla co-progettazione tra istituzioni scolastiche e università evitando autoreferenzialità, costi per il sistema e per gli studenti e abbreviando di un anno il percorso di abilitazione per la scuola secondaria; 3) Prevede una programmazione dei numeri in grado di evitare la proliferazione del precariato.
Con successivo decreto si stabiliranno le lauree magistrali relative al secondo ciclo dell'istruzione, per seguire il percorso di cambiamento del secondo ciclo e delle classi di abilitazione.
Pubblicate un po’ in sordina durante l"estate, e un po’ prima rispetto al classico mese di settembre, il ministero dell'Istruzione ha reso noto le Linee guida sull'integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Lo ha fatto ai primi di agosto, mentre la maggior parte degli italiani erano in vacanza. Ma agli esperti che si occupano di scuola non è sfuggito, e presto sono arrivati i primi commenti. Positivo il giudizio espresso da Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell'handicap), che aveva anticipato il contenuto delle linee guida a fine luglio: "Pur essendo un documento che fa il punto della situazione in Italia, si tratta comunque di un segnale politico importante", ha ribadito. Meno entusiasta, invece, il commento del Coordinamento italiano degli insegnanti di sostegno (Ciis). "Nessun accenno al numero degli alunni disabili per classe, nessun cenno alla situazione di quelli impossibilitati a frequentare (per i quali si attua l'istruzione domiciliare), e neanche un richiamo all'attivazione di laboratori rivolti esclusivamente agli alunni con disabilità", si legge sul sito del coordinamento. Per quanto riguarda il "registro", molte volte "contenente il solo nome dell'alunno disabile e consegnato all'insegnante di sostegno quale 'unico mentore’, le Linee guida per l'integrazione scolastica" riportano che "gli insegnanti assegnati alle attività per il sostegno, assumendo la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano e partecipando a pieno titolo alle operazioni di valutazione periodiche e finali degli alunni della classe con diritto di voto, disporranno di registri recanti i nomi di tutti gli alunni della classe di cui sono contitolari". Che cosa si dovrà registrare in questo documento ancora non si sa, ma per il momento il Ciis ha apprezzato
l'intervento: "da tempo si avvertiva l'esigenza di far chiarezza in materia per non continuare a perpetrare l'idea che l'alunno disabile 'appartenga’ solo all'insegnante per il sostegno", dicono.
Le direttive impartite dal ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca "si muovono nell'ambito della legislazione vigente e mirano a innalzare il livello qualitativo degli interventi formativi ed educativi a favore degli alunni disabili - si legge nella presentazione alle Linee guida per l'integrazione scolastica scritta dal vice della Direzione generale per lo studente, l'integrazione e la partecipazione del Miur Sergio Scala -. Il documento ripercorre le tappe degli interventi come fin qui concretamente realizzati nella pratica operativa al fine di valutarne la reale corrispondenza ai principi e alle norme che disciplinano la materia. L'obiettivo non è dunque quello di introdurre variazioni nelle disposizioni, quanto di fornire agli operatori scolastici una visione organica della materia che possa orientarne i comportamenti nella direzione di una loro più piena conformità ai principi dell'integrazione".
Se il ministero dell'Istruzione ha ribadito gli organici per l"anno scolastico 2009/2010 - oltre 90 mila docenti di sostegno per circa 180 mila studenti disabili, il che significa il rispetto su scala nazionale del rapporto di un insegnante ogni due studenti con disabilità - per Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell'handicap), i tagli alla scuola provocheranno comunque un effetto a catena. Nel senso che "i docenti di ruolo rimasti senza cattedra 'si ricicleranno’ come sostegno mentre quelli precari, che finora sono andati avanti con contratti annuali, perderanno il posto. Naturalmente occorre un titolo idoneo per fare l'insegnante di sostegno", precisa Nocera.Ma con il turn-over dei docenti, "la continuità didattica è fortemente a rischio". E questo fattore è molto importante per uno studente disabile. "Nel rapporto tra insegnante di sostegno e alunno, la conoscenza reciproca è spesso fondamentale, soprattutto quando si tratta di disabilità grave", osserva il vicepresidente della Fish. E il personale assunto a tempo indeterminato per il prossimo anno scolastico (circa 4.300 insegnanti di sostegno che saranno di ruolo, di cui la maggior parte in Campania, Lombardia, Sicilia e Lazio) è solo la punta dell'iceberg. "Sui 90.469 insegnanti di sostegno previsti per l'anno 2009/2010, infatti, quelli in organico di diritto diventeranno così 62.766", conclude Nocera. Gli altri docenti continueranno a essere precari.
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