FRANCESCA LAZZARATO
Qualche mese fa, sul quotidiano francese Libération, Edouard Launet ha scritto che ogni nuovo anno ci propone un lotto sempre più imponente di defunti illustri da commemorare, che i media e gli editori «fanno saltar fuori dal sepolcro come misirizzi». E certo non si può dire che il 2005 sia avaro di anniversari: da Sartre a Nizan, da Koestler a Verne, da Einstein a Mazzini, da Louise Michel a Malcom X, un'armata di spettri marcia sulle nostre librerie, quasi a volerle trasformare, sia pure per un istante, da supermercati in mausolei. Sappiamo già che soccomberanno, perché a evocarli è più l'effimera «attualità» garantita da un anniversario spesso trasformato in business, che le pur sostanziose ragioni della memoria. E tuttavia che occasione, per l'avido lettore «forte», di rifornire la propria biblioteca con traduzioni recenti di testi divenuti rari o con inediti preziosi, cui la celebrazione in corso consente di riaffiorare dal passato! È il caso, per esempio, del bicentenario della nascita di Hans Christian Andersen, che offre la possibilità di avvicinarsi ad alcuni suoi libri per adulti quasi sconosciuti ai lettori italiani, tradotti per la prima volta come Peer il fortunato (pp. 128, euro 9,50), proposto da Iperborea nell'eccellente versione di José Maria Ferrer e corredato da una nota di Bruno Berni, il massimo esperto italiano di Andersern, oppure rimessi a nuovo dopo un lungo sonno, come nel caso di Il violinista (pp. 362, euro 16,50), la cui prima, parziale e quasi illeggibile traduzione italiana edita da Treves risale al 1879, e che è stato riportato alla luce e attentamente curato da Lucio Angelini per Fazi. Entrambi fanno parte del cospicuo numero di opere anderseniane (romanzi, libri di viaggi, poesie, testi teatrali, un'autobiografia) che esulano dal corpus delle famosissime eppure mal conosciute Fiabe, capolavoro erroneamente esiliato nella stanza dei bambini e maltrattato da infiniti adattamenti. Ed entrambi sono densi - così come il precedente romanzo L'improvvisatore (1835) - di riferimenti alle vicende dell'autore. Se infatti L'improvvisatore (primo successo di Andersen, più volte edito in Italia nel corso degli ultimi sessant'anni in traduzioni diverse proposte da Vallecchi, Bompiani e Guida) racconta l'ascesa del poeta Antonio, giovane povero e ambizioso che vive in un'Italia romantica e inventata, anche Il violinista e Peer il fortunato hanno un protagonista di umili origini che ha avuto in sorte un talento senza eguali ma deve lottare contro il destino avverso. Chi conosce la vicenda biografica di Andersen può facilmente rendersi conto di quante affinità vi siano fra questi personaggi e il loro creatore. Nato a Odense il 2 aprile del 1805, lo scrittore ebbe infatti un'infanzia segnata non solo dalla più desolata miseria (suo padre era un ciabattino sognatore che percorse l'Europa con le truppe di Napoleone e tornò a casa solo per morire precocemente, sua madre una lavandaia alcolizzata) ma anche dalla certezza di essere un genio al quale il mondo avrebbe prima o poi dovuto inchinarsi. Fu questa certezza che lo spinse, quattordicenne, a raggiungere Copenaghen: un ragazzo altissimo, goffo, ingenuo e invadente all'inverosimile, che nonostante i limiti fisici e l'assoluta ignoranza vuole a tutti i costi la celebrità, pensa e pretende di poter fare il ballerino, il cantante, l'autore di teatro, e solo nel 1822 trova in Jonas Collin, direttore del Teatro reale, un protettore abbastanza lungimirante da mandarlo ad «affinarsi» nel collegio del rettore Meisling, dove però, narrano i biografi, rimase traumatizzato dalla durezza dell'insegnante e dalle avances della padrona di casa e di una domestica.
Nessuno avrebbe mai detto che quell'incolto provinciale, considerato una macchietta della vita culturale danese, avrebbe raggiunto la gloria grazie alle Fiabe, forma letteraria nella quale raggiunse la perfezione, maturando uno stile inimitabile e introducendo l'uso della lingua parlata (cosa che fece scandalo nei circoli dell'accademia, ma che conferisce ai suoi scritti un fascino «impressionista», come nota Knud Ferlov). Come il brutto anatroccolo, eroe di una delle sue fiabe più famose e parente stretto dei protagonisti dei suoi romanzi, anche Andersen diventò un cigno amato dal pubblico, riverito dai potenti, consacrato da una fama che lo vide tornare da trionfatore nella città dove aveva trascorso un'infanzia miserabile. Quando morì, il suo mito era ormai solidissimo: un mito che lui per primo aveva contribuito a costruire, elaborando la propria storia personale sino a trasformarla, per gli altri come per sé, in un'autentica fiaba (non per nulla la sua autobiografia, pubblicata nel 1855 e tradotta in italiano da Mario Carpitella per le Edizioni Paoline nel 1959, è intitolata La favola della mia vita).
Anche Il violinista e Peer il fortunato sono mattoni della costruzione di questo mito e, se rispetto alle Fiabe appaiono opere minori e largamente imperfette, rivestono comunque un grande interesse per il lettore adulto di Andersen. Tra i due, Il violinista (1837) è senz'altro il più goffo dal punto di vista dello stile e della costruzione della trama, inquinata da tutte le convenzioni di un tardivo romanticismo, ma è anche il più denso di suggestioni sulla doppia natura dell'autore, che per tutta la vita si impegnò in una colossale idealizzazione di sé stesso, deciso com'era ad assimilarsi alla società aristocratica e borghese della quale sognava l'omaggio. Impossibile negare, per esempio, che i due personaggi principali (Christian, provvisto di uno straordinario genio musicale, ma destinato a morire povero e oscuro, e la sua amica d'infanzia Noemi, figlia naturale di una ragazza ebrea e di un avventuriero) siano entrambi fatti di una sostanza autobiografica che apparve chiara a Kierkegaard, feroce stroncatore del romanzo al quale dedicò la sua opera prima, ovvero Dalle carte di uno ancora in vita, edite contro il suo volere da Soren Kierkegaard (edizione italiana a cura di Dario Borso, Morcelliana 1999). Irritato dall'equazione tra genio e patimento, Kiekegaard scriveva che non c'era distinzione tra Andersen e Christian, e che l'autore faceva di sé e delle proprie sofferenze un oggetto di poesia sul quale piagnucolare, per soddisfare una robusta vanità. Non si sbagliava se non nell'individuare il «doppio» di Andersen solo nel lagnoso protagonista maschile, mentre è forse la protagonista femminile a risultare rivelatrice. Ha infatti ragione il germanista Hans Mayer quando, nel suo saggio I diversi (Garzanti 1977), afferma che «Andersen ha accumulato in lei i fenotipi della diversità sociale, senza troppo riguardo per la verosimiglianza. Che egli si identifichi eroticamente con Noemi, un lettore attuale lo riconoscerà facilmente». Travestita da uomo, in fuga con lo zingaro che ama e infine sposa infelice di un ricco marchese, Noemi è l'incarnazione femminile di Andersen, omosessuale negato che per tutta la vita celò le proprie inclinazioni dietro presunti amori per donne irraggiungibili, lasciando tuttavia filtrare nella propria opera una serie di elementi la cui lettura appare inequivocabile.
Con ben differente esito letterario, sarà ne La Sirenetta che Andersen racconterà in forma di fiaba ciò che tenacemente nascondeva agli occhi del mondo: il suo amore per gli uomini e in particolare quello infelice per Edvar Collin, figlio del suo benefattore (la stesura della fiaba coincide con il matrimonio di Edvar, che per lo scrittore fu un duro colpo), del quale scriveva: «Era l'antagonista della mia natura quasi di fanciulla». Se nelle sue opere parla apertamente di se stesso come di un outsider che alla fine trionfa, Andersen trova quindi il modo di confessare metaforicamente l'inconfessabile, alludendo al segreto che temeva gli venisse prima o poi rinfacciato come nella fiaba I vestiti nuovi dell'Imperatore, letta in genere come una satira del potere (anche se nella realtà lo scrittore fu indifferente ai tumultuosi eventi sociali e politici del suo tempo), ma nata più probabilmente dalla paranoia di chi identifica la verità con la perdita improvvisa di quanto ha conquistato.
Mayer ipotizza che dietro i ventinove viaggi all'estero di Andersen ci fosse proprio la difficoltà di sostenere la completa cancellazione dell'identità sessuale imposta dalla finzione quotidiana: come Platen, Thorwaldsen, Winckelmann e molti altri, anche lui si sarebbe concesso di vivere, altrove e con misurata prudenza, un'altra vita. Ma le biografie dello scrittore accennano appena a questo aspetto (del quale lo scorso novembre si è parlato durante il festival bolognese Gender Bender), quasi a confermare un altro successo di Andersen in quanto autore di una solidissima reinvenzione di se stesso. Presentatosi ne Il violinista come genio cui la sventura impedisce di essere riconosciuto, in Peer il fortunato(1870) Andersen disegna una vicenda speculare a quella di Christian, perché Peer, nonostante provenga da una famiglia poverissima e debba affrontare mille difficoltà, diverrà un famoso cantante e morirà in scena nell'attimo del successo supremo, sommerso dai fiori e dagli applausi e forse amato da una baronessina sedicenne. La trama ripercorre la vita di Andersen, senza celarne le asprezze ma levigandole accuratamente (i dolorosi anni del liceo presso il rettore Meisling, per esempio, diventano una pausa quasi idilliaca, mentre Madame Meisling assume le sembianze di una madre affettuosa) e intrecciando la storia di Peer a quella di Felix, il bambino ricco in cui non è difficile riconoscere l'amatissimo Edvar Collin, colui che dalla vita ha avuto tutto per diritto di nascita. È come se, cinque anni prima della morte, ormai anziano e onorato in tutto il mondo, Andersen sentisse il bisogno di cristallizzare la propria vicenda in un exemplum luminoso, depurato dalle angosce e dall'autocommiserazione (ma anche dalla forza del desiderio che traspare dal personaggio di Noemi) presenti nel romanzo scritto in gioventù, e che tanto irritarono Kierkegaard. Anche stavolta è la morte a concludere il romanzo, ma si tratta di una fine sublime, unico suggello possibile a un destino eccezionale.
Stilisticamente più maturo di Il violinista, Peer il fortunato è una lettura ancora oggi piacevole, che rimanda alla splendida scrittura delle Fiabe, ma anche al loro contenuto. Quanti le conoscono, vi ritroveranno infatti numerosi frammenti di narrazioni amate, da La Campana a Il brutto anatroccolo, così come ne Il violinista riaffiorano motivi comuni a La regina delle nevi, Cuore affranto, e a molte altre fiabe. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che proprio nelle centocinquantasei fiabe e storie oggi riunite nella edizione critica in sette volumi a cura di Dal, Nielsen e Hovmann (1963-1990) e indirizzate ai grandi come ai bambini - ma certo più ai primi che ai secondi -, Andersen riuscì a trasformare in grande letteratura la sua infanzia dolorosa, il suo coraggio, i suoi difetti, perfino la sua oggettiva sgradevolezza che spinse Dickens, suo buon conoscente e ospite, a ritrarlo nelle vesti poco lusinghiere di Uriah Heep, uno dei «cattivi» di David Copperfield. Perché è attraverso la fiaba che ancora oggi Andersen ci parla, raccontando a un pubblico mai stanco la storia di un bambino che testardamente riuscì a fare dei suoi sogni una realtà accettata dal mondo intero.
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SCHEDA
Fiabe catartiche senza un lieto fine
Le principali edizioni delle Fiabe di Andersen in italiano sono due: quella curata da Ada Manghi e Marcella Rinaldi per Einaudi nel 1954 (magnifica la traduzione), che comprende centosette racconti ed è tuttora in commercio nella collana I Millenni, e quella a cura di Bruno Berni, uscita nel 2001 per Donzelli, l'unica che comprenda l'intero corpus dei racconti, delle novelle e delle fiabe di Andersen in versione integrale. I volumi sono rispettivamente illustrati da disegni di bambini di tutto il mondo, e dalle incisioni ottocentesche di Vilhelm Pedersen e Lorenz Frolich. Da Bruno Berni sono tradotte anche le dieci fiabe proposte in L'ombra e altri racconti, a cura di Hamelin, (pp.128, euro 15) che l'editore Orecchio Acerbo manda a giorni in libreria, illustrate con le bellissime tavole a due colori di famosi illustratori e fumettisti italiani e stranieri, come David B., Blutch, Anke Feuchtenberger, Francesca Ghermandi, Markus Huber, Franco Matticchio, Lorenzo Mattotti, Fabian Negrin, Javier Olivares, Stefano Ricci. Le tavole, che verranno esposte in Sala Borsa a Bologna a partire dal 13 aprile, offrono una lettura modernissima dell'opera di Andersen, sottolineandone i tratti più inquietanti (non a caso è L'ombra, racconto tenebroso acutamente analizzato da Ursula K. Le Guin nel breve saggio del 1974 The Child and The Shadow, a dare il titolo alla raccolta) e mettendone in evidenza i temi fondamentali, da quello della diversità al contrasto tra povertà e miseria, dal richiamo alla fiaba folklorica all'umorismo, dal vivace ritratto del mondo popolare all'ammirata soggezione per quello aristocratico, dalla memoria dell'infanzia all'attenzione per oggetti e animali. Buona parte delle fiabe scelte (come, del resto, molte di quelle scritte da Andersen) ignorano il lieto fine: l'usignolo muore per salvare il suo signore, i piedi danzanti che calzano le scarpette rosse vengono mozzati dalla scure del boia, la sirenetta si scioglie in schiuma per un amore infelice... Ogni morte, ogni apparente sconfitta, è però l'espressione di una catarsi liberatoria, o addirittura, come nel caso della Sirenetta, di un malinconico trionfo. Come Peer il fortunato, anche gli eroi di certe fiabe anderseniane non possono trovare che nella morte la loro apoteosi .
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INFINE UNA FIABA
I vestiti nuovi dell'imperatore
Molti anni fa viveva un imperatore che amava tanto avere sempre bellissimi vestiti nuovi da usare tutti i suoi soldi per vestirsi elegantemente. Non si curava dei suoi soldati né di andare a teatro o di passeggiare nel bosco, se non per sfoggiare i vestiti nuovi. Possedeva un vestito per ogni ora del giorno e come di solito si dice che un re è al consiglio, così di lui si diceva sempre: «È nello spogliatoio!». Nella grande città in cui abitava ci si divertiva molto; ogni giorno giungevano molti stranieri e una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all'altezza della loro carica e a quelli molto stupidi. “Sono proprio dei bei vestiti!” pensò l'imperatore. “Con questi potrei scoprire chi nel mio regno non è all'altezza dell'incarico che ha, e riconoscere gli stupidi dagli intelligenti. Sì, questa stoffa dev'essere immediatamente tessuta per me!” e diede ai due truffatori molti soldi, affinché potessero cominciare a lavorare.
Questi montarono due telai e fecero finta di lavorare, ma non avevano proprio nulla sul telaio. Senza scrupoli chiesero la seta più bella e l'oro più prezioso, ne riempirono le borse e lavorarono con i telai vuoti fino a notte tarda. “Mi piacerebbe sapere come proseguono i lavori per la stoffa” pensò l'imperatore, ma in verità si sentiva un po' agitato al pensiero che gli stupidi o chi non era adatto al suo incarico non potessero vedere la stoffa. Naturalmente non temeva per se stesso; tuttavia preferì mandare prima un altro a vedere come le cose proseguivano. Tutti in città sapevano che straordinario potere avesse quella stoffa e tutti erano ansiosi di scoprire quanto stupido o incompetente fosse il loro vicino. “Manderò il mio vecchio bravo ministro dai tessitori” pensò l'imperatore “lui potrà certo vedere meglio degli altri come sta venendo la stoffa, dato che ha buon senso e non c'è nessuno migliore di lui nel fare il suo lavoro.” Il vecchio ministro entrò nel salone dove i due truffatori stavano lavorando con i due telai vuoti. “Dio mi protegga!” pensò, e spalancò gli occhi “non riesco a vedere niente!” Ma non lo disse. Entrambi i truffatori lo pregarono di avvicinarsi di più e chiesero se i colori e il disegno non erano belli. Intanto indicavano i telai vuoti e il povero ministro continuò a sgranare gli occhi, ma non poté dir nulla, perché non c'era nulla. “Signore!” pensò “forse sono stupido? Non l'ho mai pensato ma non si sa mai. Forse non sono adatto al mio incarico? Non posso raccontare che non riesco a vedere la stoffa!” «Ebbene, lei non dice nulla!» esclamò uno dei tessitori. «È splendida! Bellissima!» disse il vecchio ministro guardando attraverso gli occhiali.
«Che disegni e che colori! Sì, sì, dirò all'imperatore che mi piacciono moltissimo!» «Ne siamo molto felici!» dissero i due tessitori, e cominciarono a nominare i vari colori e lo splendido disegno. Il vecchio ministro ascoltò attentamente per poter dire lo stesso una volta tornato dall'imperatore, e così infatti fece. Gli imbroglioni richiesero altri soldi, seta e oro, necessari per tessere. Ma si misero tutto in tasca; sul telaio non giunse mai nulla, e loro continuarono a tessere sui telai vuoti. L'imperatore inviò poco dopo un altro onesto funzionario per vedere come proseguivano i lavori, e quanto mancava prima che il tessuto fosse pronto. A lui successe quello che era capitato al ministro; guardò con attenzione, ma non c'era nulla da vedere se non i telai vuoti, e difatti non vide nulla. «Non è una bella stoffa?» chiesero i due truffatori, spiegando e mostrando il bel disegno che non c'era affatto. “Stupido non sono” pensò il funzionario “è dunque la carica che ho che non è adatta a me? Mi sembra strano! Comunque nessuno deve accorgersene!” e così lodò la stoffa che non vedeva e li rassicurò sulla gioia che i colori e il magnifico disegno gli procuravano. «Sì, è proprio magnifica» riferì poi all'imperatore. Tutti in città parlavano di quella magnifica stoffa. L'imperatore volle vederla personalmente mentre ancora era sul telaio. Con un gruppo di uomini scelti, tra cui anche i due funzionari che già erano stati a vederla, si recò dai furbi truffatori che stavano tessendo con grande impegno, ma senza filo. «Non è magnifique?» esclamarono i due bravi funzionari. «Sua Maestà guardi che disegno, che colori!» e indicarono il telaio vuoto, pensando che gli altri potessero vedere la stoffa. “Come sarebbe!” pensò l'imperatore. “Io non vedo nulla! È terribile! sono forse stupido? o non sono degno di essere imperatore? È la cosa più terribile che mi possa capitare”. «Oh, è bellissima!» esclamò «ha la mia piena approvazione!» e ammirava, osservandolo soddisfatto, il telaio vuoto; non voleva dire che non ci vedeva niente. Tutto il suo seguito guardò con attenzione, e non scoprì nulla di più; tutti dissero ugualmente all'imperatore: «È bellissima» e gli consigliarono di farsi un vestito con quella nuova meravigliosa stoffa e di indossarlo per la prima volta al corteo che doveva avvenire tra breve. «È magnifique, bellissima, excellente» esclamarono l'uno con l'altro, e si rallegrarono molto delle loro parole. L'imperatore consegnò ai truffatori la Croce di Cavaliere da appendere all'occhiello, e il titolo di Nobili Tessitori. Tutta la notte che precedette il corteo i truffatori restarono alzati con sedici candele accese. Così la gente poteva vedere che avevano da fare per preparare il nuovo vestito dell'imperatore. Finsero di togliere la stoffa dal telaio, tagliarono l'aria con grosse forbici e cucirono con ago senza filo, infine annunciarono: «Ora il vestito è pronto». Giunse l'imperatore in persona con i suoi illustri cavalieri, e i due imbroglioni sollevarono un braccio come se tenessero qualcosa e dissero: «Questi sono i calzoni; e poi la giacca – e infine il mantello!» e così via. «La stoffa è leggera come una tela di ragno! si potrebbe quasi credere di non aver niente addosso, ma e proprio questo il suo pregio!». «Sì» confermarono tutti i cavalieri, anche se non potevano vedere nulla, dato che non c'era nulla.
«Vuole Sua Maestà Imperiale degnarsi ora di spogliarsi?» dissero i truffatori «così le metteremo i nuovi abiti proprio qui davanti allo specchio.» L'imperatore si svestì e i truffatori finsero di porgergli le varie parti del nuovo vestito, che stavano terminando di cucire; lo presero per la vita come se gli dovessero legare qualcosa ben stretto, era lo strascico, e l'imperatore si rigirava davanti allo specchio. «Come le sta bene! come le dona!» dissero tutti. «Che disegno! che colori! È un abito preziosissimo!» «Qui fuori sono arrivati i portatori del baldacchino che dovrà essere tenuto sopra Sua Maestà durante il corteo!» annunciò il Gran Maestro del Cerimoniale. «Sì, anch'io sono pronto» rispose l'imperatore. «Mi sta proprio bene, vero?» E si rigirò ancora una volta davanti allo specchio, come se contemplasse la sua tenuta. I ciambellani che dovevano reggere lo strascico finsero di afferrarlo da terra e si avviarono tenendo l'aria, dato che non potevano far capire che non vedevano niente. E così l'imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: «Che meraviglia i nuovi vestiti dell'imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!». Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all'altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti dell'imperatore aveva mai avuto una tale successo. «Ma non ha niente addosso!» disse un bambino. «Signore sentite la voce dell'innocenza!» replicò il padre, e ognuno sussurrava all'altro quel che il bambino aveva detto.
«Non ha niente addosso! C'è un bambino che dice che non ha niente addosso!» «Non ha proprio niente addosso!» gridava alla fine tutta la gente. E l'imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: “Ormai devo restare fino alla fine”. E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c'era.
Hans Christian Andersen