13.3.05

Dov'è il luogo delle nostre intenzioni

Un nuovo capitolo nella critica al congnitivismo, già annunciato nel titolo dell'ultimo libro di Felice Cimatti, Il senso della mente, appena uscito da Bollati Boringhieri

MARIO DE CARO

«La scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono». Parafrasando il motto di Protagora, Wilfrid Sellars compendiava brillantemente, alcuni anni fa, una concezione filosofica divenuta poi molto comune, soprattutto nei paesi anglosassoni: il naturalismo scientifico. Questa prospettiva - condivisa, sia pure con accenti diversi, da Quine e Dennett, Nozick e Fodor, Chomsky e Kim - si regge su tre assunzioni fondamentali: che non esistono entità e proprietà soprannaturali, che la filosofia non è una forma privilegiata di sapere in grado di fondare tutte le altre (inclusa la scienza) e che l'indagine filosofica va pensata in continuità con quella scientifica. Naturalmente, questi punti generali sono stati variamente argomentati. Né si può dire che il naturalismo scientifico sia unanimente accettato dai filosofi di orientamento analitico o post-analitico: Davidson, McDowell e Putnam, ad esempio, hanno proposto forme di naturalismo moderato che, pur rispettose della conoscenza scientifica, non negano affatto la legittimità, e anzi l'indispensabilità, delle altre forme di comprensione della realtà. Sulla questione del naturalismo è dunque in corso da decenni uno dei più importanti dibattiti filosofici contemporanei. Non in Italia, però, o almeno non sino a tempi molto recenti. A lungo, infatti, il duplice retaggio di irrazionalismi di vario genere e di uno storicismo teoreticamente rinunciatario ha inibito da noi ogni seria discussione sul naturalismo e, più in generale, sulla relazione tra filosofia e scienza. Se, infatti, tradizionalmente la maggior parte dei filosofi italiani si è arroccata su posizioni di retriva antiscientificità, in genere chi ha difeso il naturalismo ne ha, per reazione, accettato acriticamente le tesi, senza preoccuparsi di articolarle e di irrobustirle. A lungo, dunque, la filosofia italiana si è mossa all'interno della mesta alternativa tra un antinaturalismo irrazionalistico e un acritico scientismo.

Ora però le cose stanno cambiando e sul naturalismo si è ormai avviato un serio dibattito, nel quadro del quale si inserisce il nuovo volume di Felice Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, appena uscito da Bollati Boringhieri. Cimatti propone una via intermedia tra l'anti-naturalismo degli ermeneuti - e, a fortiori, degli spiritualisti - e il naturalismo scientistico (o «riduzionismo», come egli preferisce dire) di molti filosofi contemporanei, in particolare di quelli influenzati dal cognitivismo - il programma di ricerca che ponendosi all'incrocio di psicologia, filosofia della mente, linguistica e intelligenza artificiale intende spiegare i processi cognitivi in termini di meccanismi di computazione dell'informazione. Al di là delle differenze, per Cimatti antinaturalismo e riduzionismo condividono l'incapacità di articolare un discorso sensato sulla mente umana: «una descrizione scientifica della mente umana non può essere né riduzionistica, perché in questo modo quel che si spiega non è la mente, né ... antinaturalistica [perché così] si salva l'autonomia della mente solo al prezzo di trasformarla in una entità misteriosamente separata dal mondo naturale: la mente è naturale ma non è una cosa».

Cimatti accenna a un altro possibile modo di studiare la mente umana, per mezzo di «una biologia inseparabile dalla più tipica delle caratteristiche della specie umana, il suo linguaggio». Resta il fatto, però, che Il senso della mente è soprattutto una serrata critica del cognitivismo: molti tra i suoi seguaci presuppongono il funzionalismo - ossia la tesi per cui gli stati mentali non sono individuati dalle loro proprietà intrinseche, ma dalle relazioni causali in cui figurano. Per il funzionalismo, il pensiero è una proprietà astratta; ma questo, secondo Cimatti, significa che se la mente «vuole essere qualcosa di reale deve diventare concreta, deve cioè diventare una cosa»; dunque, «la mente esiste, in questo modo di studiarla, solo come non mente, come cervello ad esempio, ossia come una cosa». Per Cimatti, dunque, il cognitivismo «ha molto da dirci sul cervello, ma nulla sulla mente», perché - ed è questo uno degli argomenti del libro - in primo luogo non è in grado di spiegare la costitutiva normatività del mentale ovvero il fatto che i pensieri, oltre ad essere cause delle nostre azioni, possono fungere anche da ragioni che le giustificano. In effetti, questo è un punto nevralgico del cognitivismo, come peraltro riconoscono alcuni dei suoi fautori e influenti critici come McDowell e soprattutto Putnam, che pure del cognitivismo fu uno dei fondatori. Per Cimatti, da ciò segue che «le pratiche umane che si occupano della materia non possono vantare alcuna supremazia ontologica rispetto alle pratiche che cercano di dare conto dei fenomeni mediante un perché diverso, non quello causale, bensì quello delle ragioni». Un diverso argomento è accennato fin dalla prima pagina del Senso della mente. Secondo Cimatti, sostenere che il pensiero è una parte del mondo fisico, come fa il cognitivismo, implica chiedersi «dove sta, perché soltanto le cose stanno da qualche parte - allora è sensato interrogarsi anche sul suo colore, o il suo peso, o addirittura il suo odore». Tale domanda è ovviamente assurda ma per Cimatti il cognitivismo la renderebbe lecita: e questa è una vera e propria reductio ad absurdum di tale concezione.

A questo argomento i naturalisti più riduzionisti - quelli che ammettono solo entità e proprietà fisiche - risponderebbero concendendo a Cimatti che i pensieri non hanno colori o odori; ma ciò solo in quanto nulla ha veramente colore o odore: colori e odori sono infatti proprietà secondarie ossia mere apparenze (che, notava Galileo, «rimosso lo animale sieno levate e annichilite»). La maggior parte dei cognitivisti, però, negherebbe la tesi che Cimatti attribuisce loro, ovvero che il pensiero sia materiale, che sia una cosa - e che per questo debba avere peso e colore. Affermerebbero, invece, che il pensiero è e rimane astratto, anche se ha bisogno di una base materiale per essere implementato (con la classica metafora del computer: il pensiero è il software e, come tale, ha bisogno di un hardware materiale; ma ciò non significa che il software diventi hardware).

Infine i cognitivisti più avvertiti, come Fodor, Block e Kim, accetterebbero un'altra critica di Cimatti, secondo la quale il cognitivismo non può spiegare l'aspetto fenomenico dei pensieri ovvero il modo in cui, ad esempio, si prova dolore o si esperisce piacere. Il carattere fenomenico, tuttavia, non è l'unico aspetto del pensiero: c'è anche il carattere intenzionale. E la maggiore ambizione del cognitivismo è proprio quella di spiegare quest'ultimo aspetto del mentale. È controverso, naturalmente, se tale ambizione sia ben riposta: secondo Cimatti, e gli altri naturalisti moderati, non lo è affatto.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/12-Marzo-2005/art90.html

4 commenti:

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