23.3.05

IL DOLORE E L’IPOCRISIA

di CLAUDIO MAGRIS

I casi estremi, come quello di Terri Schiavo, rendono più difficile ogni discorso sui princìpi morali e sui valori cui si ispirano le diverse prese di posizione, perché, oltre un certo limite, ogni comandamento o divieto, ogni imperativo categorico rischia di apparire grottesco e assurdo, quasi la caricatura di se stesso. D’altronde, se si comincia a transigere su una norma etica, non si sa dove si va a finire o meglio lo si sa benissimo: si approda a un supermarket morale in cui ogni comportamento è «optional» e ciascuno sceglie quello che gli pare o gli fa comodo. Decidere la sorte di Terri Schiavo implica l’accettazione o il rifiuto dell’eutanasia, spesso scorrettamente abbinata all’aborto, che costituisce un problema radicalmente diverso. In primo luogo c’è un momento preciso in cui inizia la vita di un individuo, mentre è spesso difficilissimo o impossibile tracciare la frontiera tra doverosa lotta alla malattia e inutile o crudele accanimento terapeutico. Ma soprattutto nell’eutanasia ci si propone di porre fine all’esistenza di un individuo nel suo interesse, per risparmiargli sofferenze o condizioni giudicate incurabili, irreversibili e intollerabili, mentre nell’aborto - almeno in quello non terapeutico - si sopprime un individuo nell’interesse di altri.
Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l’eutanasia può divenire facilmente obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale, l’arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si arroga il diritto di stabilire quale sia tale livello che autorizzi ad eliminare chi non lo possiede o non lo raggiunge. I milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono nel mondo non hanno certo tale qualità di vita - nemmeno intellettuale e spirituale, perché se si è sfiniti dalla fame, dalla sete e dalla malattia si è lesi pure nel pensiero e nella affettività - ma non è una buona ragione per eliminarli.
Il caso di Terri Schiavo - reso ancor più complicato dai conflitti fra i parenti e dai vari ordini e contrordini di staccare e riattaccare la spina - non sembra avere a che fare con questo supponente igienismo etico-sociale così frequente nei fautori dell’eutanasia. Il disaccordo fra genitori e marito dimostra quanto sia discutibile affidare la sorte di qualcuno ad altri, solo perché legati da rapporti familiari; non si può disporre della vita di un altro perché lo si è messo al mondo o si è fatto l’amore con lui o con lei. Inoltre è oltraggioso per la vita che a presentarsi quale suo difensore sia il presidente Bush, il quale vorrebbe la pena di morte per i minorenni.
Comunque, se è difficile staccare quella spina, è altrettanto difficile non farlo ed è falso e ipocrita credere che basti lasciarla attaccata per risolvere il problema e tornarsene a casa soddisfatti, abbandonando Terri Schiavo al suo destino e dimenticandola subito, come succede. Su questa vicenda le parole più giuste, acute ed umane le ha dette Ferdinando Camon, in un suo articolo che non si può far altro che riportare e parafrasare, come sto facendo io in queste righe. Camon esprime un profondo e ragionato rispetto per chi ritiene la vita umana inviolabile in ogni sua fase, pure la più spenta, anche perché non si può mai sapere cosa accada nel profondo di quell’esistenza; egli esprime un rispetto, altrettanto logicamente e umanamente motivato, anche per chi sente il dovere di porre fine alla condizione disperata di un altro. Ma in questo caso, egli dice, non basta staccare la spina ossia lasciar morire Terri Schiavo infliggendole alcuni giorni di vita in cui, egli scrive, l’organismo prova comunque delle sofferenze, pur senza averne presumibilmente coscienza, patisce in qualche modo la disidratazione e così via, tanto è vero, egli aggiunge, che in questi casi vengono spesso somministrati dei sedativi. È una pura ipocrisia e viltà, egli conclude, non praticare una iniezione che ponga subito fine a quelle probabili residue sofferenze e comunque ad una condizione che si giudica intollerabile. Non c’è differenza morale fra un’iniezione letale o una spina staccata, perché entrambe danno con certezza la morte; se, in un caso estremo, è giusto - o meno ingiusto - darla, è doveroso farlo nel modo più alleviante per il morituro e senza imbrogliare se stessi dandosi ad intendere di non aver fatto nulla e di aver lasciato fare alla cosiddetta natura.

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