11.3.05

La verità di Giuliana

«Hanno visto cosa avevano fatto, hanno imprecato»

«Nessuna luce, solo buio e spari. Ma i soldati dopo erano turbati»

Giuliana Sgrena racconta cosa accadde veramente quella sera, minuto per minuto «Nicola telefonava in italiano»

ROMA - Questo ricorda. E forse, questo sa. Giuliana Sgrena sta meglio. Il viso non è più martoriato. E’ seduta su una poltrona nella sua stanza d’ospedale. «Cerco di ricostruire ogni singolo momento di quello che è successo, perché mai avrei immaginato di doverlo fare». Lei è stata ostaggio, ma adesso è una testimone.
Si aspettava di essere liberata quel giorno?
«No. Sapevo che era venerdì. Da quando mi hanno presa, mi ero fatta un mio calendario. Le novità, da loro, arrivavano sempre al sabato, il giorno in cui mi hanno fatto girare i video, e mi avevano fatto scrivere la lettera come prova in vita. Però avevo notato che i due "addetti" alla mia sorveglianza, gli unici che ho sempre visto a volto scoperto, scherzavano tra loro. E la cosa mi aveva colpita. Dopo pranzo, intorno alle 15 chiedo a uno il perché di questa allegria: "E’ perché resto o perché parto?" Da giorni mi dicevano che me ne andavo. Lui svicola, l’altro mi fa capire di mettermi il cuore in pace, non è per oggi».
Poi cosa succede?
«A pomeriggio inoltrato rientrano nuovamente nella mia stanza. Noto che per la prima volta sono vestiti all’occidentale, camicia e pantaloni di flanella. Sono tesi: "Complimenti, te ne vai a Roma, vestiti in fretta"».
Quand’è che le dicono le frasi che a lei sembrano minacciose?
«In casa. Uno di loro, mentre mi fa mettere occhiali scuri imbottiti di garza, mi fa: "Sei sicura di te, non sei nervosa? Sarà una cosa difficile. Se qualcosa va storto ci rimettiamo tutti. Se ci fermano, non devi sembrare americana". Chiedo perché non mi hanno dato un vestito da donna araba, come ricordavo era stato fatto per le due Simone. Loro praticamente non mi rispondono, dicono solo "no"».
A quel punto uscite.
«Non ancora. Prima mi ridanno la mia borsa. C’è quasi tutto. Mancano 200 dei mille dollari che avevo, qualche block notes, ma ci sono i documenti, compreso il passaporto. Ci sono anche i tre accrediti per le elezioni, uno dei quali era stato rilasciato dagli americani. Si tengono soltanto il mio telefono satellitare la macchina fotografica digitale. Quando usciamo, ho la percezione che sia già buio».
Quanti sono?
«Sono certa che ci siano i miei due carcerieri abituali, e un’altra persona, al volante. E’ a lui che squilla in continuazione il cellulare. Lo sento parlare, concitato. Sono convinta che si rivolgesse a un’auto che ci precedeva».
Quanto dura il viaggio?
«Al massimo 20 minuti. Sento lo "splash" di una pozzanghera, e l’auto si ferma. Loro mi dicono di non muovermi, e se ne vanno. Sento il rumore di auto che passano, intuisco i loro fari, capisco che siamo su una via trafficata. Sopra di me volteggia un elicottero. Ricordo di aver pensato a Mogadiscio, quando stavo intervistando uno dei signori della guerra somali, ed avevamo sopra di noi un elicottero Usa. "Speriamo che non ci prendano neanche stavolta", penso. Ci sono macchine che si fermano vicino alla mia, e poi ripartono. L’attesa non dura più di mezz’ora».
Arriva Nicola Calipari.
«No. Si apre la porta sul mio lato, ma è uno dei miei carcerieri. "Dieci minuti", mi dice. Se ne va. Mi sono messa a contare, da uno a 60, e poi ricominciavo. Dopo una decina di volte, la porta del lato opposto al mio si apre. Era Nicola Calipari».
Cosa le dice?
«"Non aver paura, sei salva". Gira intorno alla macchina, apre la porta e mi tira fuori. "Abbandonati a me, seguimi". Mi guida per pochi passi. "Mi siedo vicino a te", mi dice. Partiamo. Poco dopo mi dice di togliermi le bende dagli occhi. Davanti c’è solo un’altra persona, al volante».
Eravate da soli, o c’era un’altra auto?
«Io ho pensato che fossimo da soli. Ma non posso escludere che ci fosse, un’altra macchina».
La velocità?
«Mai troppo elevata. Sui 70-80 chilometri all’ora».
Si ricorda la sequenza delle telefonate fatte dall’auto?
«La prima telefonata la fa l’autista. Chiama un numero, e ho la sensazione che stia parlando con qualcuno a Bagdad. "Stiamo arrivando, siamo in tre", lo ripete più volte».
E Calipari?
«Cerca il suo telefono ma non lo trova, non aveva con sé gli occhiali. L’autista allora accende la luce nell’abitacolo».
Rimarrà sempre accesa?
«Fino alla fine. Hanno dei cellulari e anche un satellitare. Ad un certo punto Calipari si arrabbia perché uno dei telefoni non funziona, ma non ricordo quale fosse. Fanno diverse telefonate, tutte in italiano».
Su questo s’è discusso molto.
«Io non ho mai detto di aver sentito parlare in inglese. Perché ne sono certa, hanno parlato sempre in italiano».
Lei riesce a capire dove si trova?
«Sì, perché riconosco la strada. E’ la via alternativa all’aeroporto, quella che secondo me passa attraverso la green zone controllata dagli americani, ed esclude le zone abitate. E’ una strada che ho già fatto più volte».
Incontrate posti di blocco?
«Nessuno. Non ci hanno mai fermato. Certo, io ero euforica, e non posso dire se c’erano soldati ai lati della strada. Ma un posto di blocco me lo ricorderei».
Ormai siete vicini all’aeroporto.
«Ad un certo punto l’autista dice a Nicola: "Sono 700 metri, siamo quasi in aeroporto, ce l’abbiamo fatta". Ricordo di aver pensato che allora la nostra sicurezza era relativa. Perché dire "ce l’abbiamo fatta?"».
Una versione del Pentagono afferma che superavate le 100 miglia, 160 all’ora.
«Assurdo. Poco dopo quella frase, l’autista frena, perché c’è una curva a gomito sulla destra. Decelera notevolmente, e non stavamo certo correndo. Mentre sta finendo le curva, gli spari. Da destra e da dietro. Raffiche e colpi singoli. Non è vero che hanno sparato al motore, da davanti».
Gli americani affermano di aver sparato in aria dopo avervi puntato un fascio di luce.
«No. I vetri della macchina esplodono all’unisono. Sono sicura anche di questo, non c’è stata nessuna scarica in aria. Ho sentito gli spari e i finestrini sono andati in mille pezzi. Nessun fascio di luce, nessuna piccola luce. Era buio, e io mi stavo guardando intorno».
A quel punto cosa succede?
«"Ci stanno attaccando, ci stanno attaccando" dice l’autista che sta armeggiando con il cellulare. E intanto ferma l’auto. Calipari non lo sento più. Ho come la sensazione che si metta addosso a me. Sono certa che mi ha salvato la vita. Gli parlo. Sento solo un rantolo. Ho capito che stava morendo».
Cosa vede dall’auto?
«Un blindato fermo, che spunta fuori dalla strada, sulla destra. E da lì, dall’alto che solo a quel momento veniamo investiti da un fascio di luce. Un soldato apre la porta dal lato destro. Quando ci vede, ho la netta sensazione che rimanga male. Impreca. Mi sembra che abbia detto "oh, shit". Anche quando arrivano gli altri, 7-8 da dietro il blindato, ho la sensazione di un loro scoramento».
Lei ha parlato di «pioggia di fuoco» e proiettili raccolti a manciate». Sembra che non sia così.
«Io i proiettili li ho visti. Non so se fossero 3-400, ma l’abitacolo era pieno di proiettili. E ricordo di aver pensato come facevo ad essere ancora viva, con tutti quei proiettili intorno a me».
E l’autista?
«Da terra, lo sento che sta parlando al telefono. Sento che urla: "Nicola e morto, lei è lontana da me ma vedo che ha gli occhi aperti"». In ospedale sanno già chi è lei? «Mi hanno chiesto subito le generalità, ma non ho notato reazioni particolari. Solo molto dopo, mi si è avvicinato un americano, dietro alla barella su cui sono stesa, e mi ha chiesto "Tu sei la giornalista italiana che è stata sequestrata, vero?"».
C’è il mistero del collier che le hanno regalato i sequestratori. Dove è finito?
«L’avevo indosso. Me l’ha tolto una infermiera, dicendomi che poi me l’avrebbe ridata. Il mattino dopo, ho chiesto se me la cercavano. Mi dicono che l’hanno trovata, invece non c’è. Poi siamo partiti».
Marco Imarisio
11 marzo 2005
http://www.corriere.it/
Primo_Piano/Cronache/2005/03_Marzo/11/sgrena.shtml

2 commenti:

oakleyses ha detto...

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