Un percorso di lettura attraverso periodici e siti per comprendere l'ascesa, i successi e il declino di una minoranza intellettuale che dopo avere contribuito al successo di Bush è pronta per essere sacrificata
Dopo la guerra vittoriosa contro le culture progressiste degli anni `60, la recente chiusura della rivista «The Public Interest» appare come un segnale della crisi che investe il movimento conservatore americano
MATTIA DILETTI
Èdal 2002 che gli scaffali delle librerie americane ed europee si riempiono di volumi che narrano della rivoluzione neoconservatrice, dopo che quotidiani e riviste avevano dato il via all'approfondimento sul who's who del movimento neoconservatore e dei loro centri di ricerca. Dopo la fine delle grandi narrazioni e il predominio del pensiero debole degli anni Novanta, l'affacciarsi sulla scena internazionale di un gruppo di intellettuali tanto influente quanto ideologico ha scompaginato le carte. Ovviamente questa vicenda non poteva non affascinare gli intellettuali europei, un tempo così simili a loro. Abbiamo scoperto che esiste un padre spirituale del movimento (Leo Strauss, la cui primogenita ha però scritto una lettera al New York Times nel giugno 2003 per dire che suo padre non c'entra niente), che il piano per invadere una seconda volta l'Iraq era pronto almeno dal 1997 (da quando cioè è stato fondato il Pnac - www.pnac.org -, il Project for the New American Century di Wolfowitz, Kagan, Perle, Rumsfeld...), che alcuni di loro erano stati trotskisti, che si riuniscono in questi grandi centri di ricerca chiamati think tank per farsi venire le loro idee e che odiano quel tedesco di Henry Kissinger quasi quanto odiano gli altri europei (solo gli ayatollah iraniani sono peggio). Sappiamo inoltre che non sanno né pianificare né vincere le guerre.
In Italia alcuni impazziscono per loro, in primis Il Foglio di Giuliano Ferrara, che come loro ha capito che «le nobili menzogne» o l'illusione religiosa possono tornare utili all'arte del governo e che esse oggi si devono basare sul motto «Dio, Patria, Famiglia»: si tratta di signori dalla cultura laica e cosmopolita (uno di loro era persino amico di Hannah Arendt) che si sono felicemente sporcati le mani. Leggendo Ravelstein di Saul Bellow troverete descritte le loro personalità e le loro contraddizioni.
Seppellire gli anni `60
Come è ormai noto, la guerra culturale di Irving Kristol, uno dei più citati esponenti del movimento neoconservatore, era stata avviata negli anni Sessanta per combattere l'opera di «decostruzione» dell'identità americana generata dalle innovazioni e dalle sperimentazioni introdotte dal New Deal e dal progetto della Great Society, dal movimento contro la guerra in Vietnam e dalla richiesta di nuovi diritti collettivi avanzata dalle minoranze.
Le reali preoccupazioni dei neoconservatori riguardavano però il predominio delle nuove élites bianche che governavano questa trasformazione della cultura politica e giuridica: una élite definita da Daniel Bell la knowledge class, le élites della conoscenza che dalle università si muovevano verso l'amministrazione pubblica per gestire il nuovo corso dei programmi sociali. Si trattava di una nuova generazione di «tecnici» di impronta liberal, specialisti delle politiche pubbliche e sociali ideologicamente orientati. Una ricerca collettanea del 1979 di un gruppo di scienziati politici americani (tra cui Lipset e Bell) intitolato The New Class? (che riprendeva, ironicamente, il titolo dell'opera più celebre di Milovan Gilas) riassunse perfettamente le posizioni di molti neoconservatori. Secondo questi ultimi i repubblicani non avevano ancora compreso l'importanza del ruolo di questo «secondo livello» della gerarchia politica, impegnato nella pianificazione sociale ma anche - e questa appariva la colpa più grave - nella riorganizzazione dello spazio simbolico della politica americana.
Per ribaltare questo quadro vennero definiti con chiarezza alcuni strumenti e obiettivi: convertire le classi dirigenti repubblicane al neoconservatorismo (obiettivo troppo ambizioso) e allevare nei think tank e nei centri di ricerca un esercito di esperti e specialisti delle politiche pubbliche conservatrici, un esercito capace di sostituire l'intellighenzia progressista e liberal. E questo si è rivelato il loro principale contributo alla guerra vittoriosa contro le culture progressiste degli anni Sessanta. Ma oggi, mentre i progetti più radicali di George Bush segnano il passo sia a livello internazionale che interno, cosa accade ai neoconservatori? Cosa accade nei loro centri di ricerca e nelle loro riviste? Di cosa si stanno occupando i neocon nei loro siti e nei loro giornali nell'anno del Signore 2005, dopo aver scoperto che gli americani trattano con i ribelli in Iraq, i cinesi si possono permettere di comprare le aziende petrolifere americane, il progetto della ownership society non decolla, Paul Wolfowitz è stato esiliato alla Banca Mondiale, John Bolton è fermo al palo e Condoleezza Rice spadroneggia al posto loro? Il secondo Bush si è dimenticato di loro?
All'American Enterprise Institute, il think tank milionario dei neoconservatori, il 28 giugno si è discusso del «Futuro del conservatorismo» (il video del convegno si può scaricare per intero su PC dal sito www.aei.org): ospite principale era Newt Gingrich, stella (riemergente) del partito repubblicano degli anni Novanta (la sua relazione su www.newt.org). Nonostante i soliti toni trionfalistici e la violenta retorica anti-liberal qualcosa sta accadendo: la sua lunghissima relazione presenta anche novità e dubbi. Il magma del movimento conservatore americano (un vero movimento dei movimenti con un intero partito a disposizione e lobby miliardarie che lo finanziano) appare in fermento.
La prima vera e originale esperienza di elaborazione culturale del pensiero neoconservatore, The Public Interest, una rivista bimestrale fondata nel 1965, ha chiuso i battenti questa primavera. Lo stesso è accaduto alla Olin Foundation (www.jmof.org), la fondazione privata che per tanti anni ha sostenuto gli uomini e la ricerca scientifica dei neoconservatori.
The Public Interest e la Olin Foundation sono parte di un percorso comune. La fine di queste esperienze è un evento importante: il breve editoriale di Irving Kristol (il primo direttore della rivista) è un vero e proprio testamento politico che ripercorre le vicende del movimento. Gli uomini e le storie si intrecciano, le biografie si muovono tra le pieghe della storia politica nordamericana: nelle amministrazioni presidenziali, nelle università, nei think tank, sugli scaffali delle librerie.
I neoconservatori hanno assistito e partecipato alla marcia elettorale (e organizzativa) del partito Repubblicano, che in quarant'anni è passato dai minimi storici di Barry Goldwater alla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e al Senato. In questi ultimi mesi alcuni tra loro sembrano guardarsi indietro per ripensare se stessi, cercando nuovi punti di partenza.
I neocon hanno vissuto per intero un ciclo politico che hanno iniziato a cavalcare quando il partito democratico pareva aver toccato il suo apice. Scrive Kristol: «Nel 1965 il mio vecchio amico Daniel Bell (autore di La fine delle ideologie, ndr) e io eravamo seriamente preoccupati. L'origine del nostro disagio dipendeva dall'affermazione di modelli teorici politici e sociali - fuori e dentro le università - con caratteristiche ideologiche prive di senso nella realtà esistenziale della vita americana». A Bell e Kristol (all'epoca entrambi democratici) appariva fuori luogo l'idea di chi proponeva che i poveri dovessero conquistare più potere per essere meno poveri. Un'idea al di fuori della tradizione politica americana come essi la concepivano (la povertà si riscatta mettendo in condizione tutti di liberare le proprie energie imprenditoriali) e contro le loro stesse biografie: sia Bell che Kristol rivendicavano la loro storia di poveri che ce l'avevano fatta da soli. Crearono così la tribuna di The Public Interest per dare voce a chiunque condividesse quel disagio. Concordarono poche regole tra cui quella di escludere la politica estera, fonte di troppi litigi.
In quello stesso periodo Kristol scriveva regolarmente sul Wall Street Journal e di lì invitò alla riscossa le fondazioni conservatrici, fino ad allora surclassate per iniziativa e capacità da quelle filodemocratiche (in testa la Ford Foundation). Così finalmente incrociò la Olin, che finanzierà i suoi studi economici presso l'American Enterprise Institute sulla supply-side economics: The Public Interest pubblicò il primo articolo di Jude Wanniski sulla curva di Laffer, che gli economisti vicini a Reagan utilizzeranno come prova scientifica per dimostrare perché il loro piano economico avrebbe funzionato. Nel 1985 la Olin finanziò il nuovo progetto di Kristol: la pubblicazione di The National Interest (www.nationalinterest.org), la rivista di politica estera nata per sfidare l'egemonia di Foreign Affairs tra le classi dirigenti.
L'amico del cuore di Kristol alla Olin era James Piereson, che ha scritto in questa primavera un lungo necrologio a memoria della sua Fondazione su Commentary (www.commentarymagazine.com), la rivista dell'American Jewish Committee diretta da Norman Podhoretz (l'ex amico di Hannah Arendt e Norman Mailer). L'articolo si intitola Investing in Conservative Ideas: tracciando la parabola storica delle fondazioni e degli uomini d'affari che hanno finanziato la rinascita culturale di marca neoconservatrice, Piereson fa intendere che un'epoca e una generazione di donatori (quella tempratasi negli anni Sessanta) sta scomparendo, e lancia un appello affinché nuove figure emergano a sostegno della cultura neoconservatrice.
Gli intellettuali torneranno nel ghetto?
Si è a lungo discusso della relazione tra i neoconservatori e il presidente Bush e della loro prossimità ideologica, reale o presunta. Dopo aver favorito e sostenuto l'alleanza tra religione e politica che Bush rappresenta, dopo aver fornito le idee visionarie che servivano a legittimare la guerra in Iraq, la funzione dei neoconservatori sembra venire meno. Tra i potenziali successori di George W. Bush nessuno mostra una contiguità ideologica con i neoconservatori, da John McCain al nuovo figlio della Bible Belt Bill Frist.
Nel 1972 Lewis Coser pubblicava su The American Sociological Review un breve saggio dal titolo The Alien As a Servant of Power: Court Jews and Christian Renegades, che appare in realtà un pretesto polemico per parlarci del suo presente: «Con questi due esempi storici, gli ebrei di corte della Germania del `600 e i cristiani rinnegati dell'Impero ottomano all'apice del suo splendore, ho cercato di dimostrare che, ogni qual volta i sovrani intendano rafforzare la loro autonomia e si trovino di fronte a ostacoli posti dal sistema feudale o dalla burocrazia, tendono ad avvalersi dei servizi di gruppi che non hanno radici (alien groups rootless) nel paese che essi governano. Questi gruppi si piegano facilmente agli scopi del sovrano e divengono servitori ideali del potere. Lascio all'immaginazione sociologica del lettore l'evocazione di altri casi, del presente e del passato, in cui questo modello possa tornare utile».
Mentre scriveva, Coser pensava a Henry Kissinger. Noi pensiamo ai neoconservatori. Per l'America sono anch'essi Alien Group, una minoranza intellettuale che dopo aver perso il suo scontro con la realtà non è più utile a nessuno e potrà essere sacrificata. «Ho letto / molto /e sono /diventato /un capo. /Ma non /sono rimasto / a lungo /al mio posto / di comando / perché / ho continuato / a leggere». Li ricorderemo con questa poesia di Ivan Kulekov.
ilmanifesto.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
24.7.05
La parola e il mondo
il doppio respiro di Elias Canetti
Ricorre lunedì il centenario della nascita del grande scrittore di origine svizzera. Della sua opera resta la visione d'insieme sulla società del suo tempo, ma anche la capacità del frammento
Michele Cometa
Vi sono autori che non hanno bisogno di anniversari per essere ricordati. Autori la cui opera ci ha investito ad un certo momento e continua ad investirci, quotidianamente, autori che sanno rinnovare la meraviglia, la sorpresa di questo incontro senza che si debba ricorrere a ricostituenti simbolici come gli anniversari. Questo vale per i singoli lettori ma anche per intere culture.
Così è per Elias Canetti di cui festeggiamo il centenario della nascita il 25 luglio. In Italia Canetti non ha mai avuto bisogno di occasioni esteriori. In fondo è presente tra noi, a livelli diversissimi, da alcuni decenni. Almeno da quanto, nel lontano 1967, Luciano e Bianca Zagari traducevano Die Blendung (1935) con il titolo Auto da fè per Garzanti. Da quel momento la presenza di Canetti è stata costante e ha raggiunto lettori diversissimi tra loro. Da quelli interessati alle ricostruzioni ideologiche della modernità cui Furio Jesi regalò la lettura del poderoso Massa e potere (1960) apparso nel 1972 da Rizzoli, ai cultori, spesso un po' troppo entusiasti, della gioiosa apocalissi viennese introdotta da Claudio Magris e alimentata da legioni di germanisti, filosofi e storici dell'arte; agli studiosi di Kafka le cui lettere a Felice Canetti aveva così simpateticamente commemorato. E ancora: ai semplici lettori di autobiografie che, a partire da La lingua salvata (1981) con cui Adelphi inizia la sua ancora inesausta attività di traduzione, hanno trovato in quest'autore dalle mille lingue una delle forme più alte della coscienza mitteleuropea.
Alla casa editrice Adelphi, spalleggiata sapientemente da Bompiani, si deve del resto la costante presenza di Canetti nella cultura italiana. Ai grandi affreschi autobiografici - che hanno fortemente impregnato l'immagine che l'Italia si è fatta di quella straordinaria stagione che è stata il fin de siécle austriaco - Adelphi ha saputo infatti legare la costante presenza delle Aufzeichnungen (anch'esse più o meno intrise di autobiografia), gli appunti sparsi, ma tutti rigorosamente "pensati" dall'autore, che costituiscono il basso continuo della sua produzione intellettuale. Produzione che ha saputo declinare, come poche nel Novecento appena trascorso, il doppio respiro del grande affresco filosofico e sociale - si pensi a Massa e potere o ai saggi su Hitler e sulla cultura austriaca - e dell'aforisma tagliente ed apodittico, contratto in una smorfia che a fatica si lascia decifrare: potrebbe essere un sorriso, un ghigno, una smorfia di dolore.
Questo "doppio talento" di Canetti ha fatto sì che venisse letto dagli specialisti di cultura tedesca ed austriaca - laddove non va dimenticata la dimensione "svizzera" di questo autore e il melting pot delle sue origini linguistiche - ma anche dai non specialisti che in lui hanno trovato il grande respiro epico della narrazione autobiografica e biografica (indimenticabili sono le caratteristiche di Broch, Kafka, Büchner o Kraus), ma anche la provvisoria consolazione che la scrittura aforistica sa concedere nel momento del pericolo. Già, perché Canetti è scrittore che non perde mai di vista i pericoli esterni della storia e la precarietà intima dell'esistenza. Come Karl Kraus, il suo modello per tutta una vita, l'aforisma, il frammento, la sentenza arguta ed amara sono infatti la torsione tutta soggettiva di un quadro che è invece oggettivo ed epocale. Negli interstizi tra i frammenti che continuamo a leggere avidamente riluce infatti la brutalità della grande storia, l'affresco di cui noi sappiamo cogliere solo un confuso riflesso.
Per questo autori come Canetti ci accompagnano e ci consolano costantemente. In lui scorgiamo quella profondità di prospettiva che è stata data a pochi nel secolo scorso. Non si dimentichi che la sua opera affonda le radici in un tempo lontanissimo da noi e in autori che ormai consideriamo classici.
In occasione del conferimento del premio Nobel nel 1981 Canetti ce ne ha fatto un elenco: Kafka, Kraus, Musil e Broch. Il primo è anche per lui un maestro lontano nel tempo ma vicinissimo nella lingua, anzi nelle lingue. Per gli altri si tratta di uomini che ebbe la fortuna di frequentare e di conoscere intimamente. A Canetti è toccato appunto in sorte di farli giungere sino a noi, alle soglie del ventunesimo secolo. Canetti è stato l'estremo messaggero di quel mondo, un messaggero che è giunto sino a noi portando con sé - come il messo kafkiano - un testo che dobbiamo ancora interpretare. Attraverso Canetti si propaga fino a noi una forma di letteratura di cui percepiamo, insieme alla crucialità storica e sociale, tutto il contenuto immemoriale. Come Borges, infatti, Canetti sapeva che nella letteratura si trasmette certamente una cultura, ma anche qualcosa di più.
Non è un caso del resto che tutti gli appunti - forse l'opera che più di ogni altra ci può restituire la fisionomia precipua di questo scrittore-antropologo, di questo filosofo-storico - siano solo la teatrale messinscena di un conflitto: quello tra oblio e memoria, tra storia e finzione, in fin dei conti tra catastrofe e redenzione: «Bellissima - ha scritto Canetti nel 1974 - è la rianimazione del passato: essendo dimenticato da tanto tempo, adesso il passato diventa più vero. Si può continuamente dimenticarlo di nuovo, si può intensificare la verità?».
Appare chiaro che proprio colui a cui è stato dato il dono della testimonianza ha lavorato tutta la vita per ricordarci che non solo la memoria è legittimo strumento della storia e della cultura, ma anche l'oblio, che riattiva la fantasia. La letteratura è stata per Canetti la forma di una relazione, quella tra ricordo e dimenticanza. Per questo è stata la sua forma, nonostante egli stesso abbia amato pensarsi come un antropologo o un etnologo.
Significativo è il suo confrontarsi, in alcuni frammenti dei primi anni Cinquanta, con un "doppio", un "gemello" come Cesare Pavese. Con lui ha condiviso la passione per l'antropologia, come Pavese ha interpretato la sua missione di scrittore come etnografia, come intreccio, appunto, di riti contemporanei e miti immemoriali. Citiamo questa affinità elettiva non per compiaciuto sciovinismo: di questi "fratelli", di queste "controfigure" Canetti si è nutrito per la sua scrittura. La ricerca del "doppio" è stata certamente una delle forze segrete che gli ha consentito di creare un'ampia cartografia mitteleuropea che mette insieme Kafka e Pavese, Kraus a Blake. Un pensiero mimetico che ci rende indispensabile la sua testimonianza. Non è raro trovare tra i frammenti delle vere e proprie caratteristiche esaustive, delle fisionomie sintetiche che ci dicono tutto di alcuni personaggi del Novecento. Indimenticabile è, ad esempio, quella del mitologo Lévi-Strauss di cui Canetti riconosce i tratti profondamente wagneriani. Né mancano autoritratti non meno impietosi. Come quell'uomo che «decide di ergersi un Pantheon fatto di cose dimenticate». Si tratta di uno strano intellettuale che ricostruisce la storia dell'uomo sostituendo ai grandi poeti i nomi di quelli minori, alle grandi religioni i culti ormai tramontati, ai simulacri degli dèi il kitsch raccolto in "bugigattoli e letamai", alle lingue di cultura gerghi marginali. La sua controfigura più riuscita.
liberazione.it
Ricorre lunedì il centenario della nascita del grande scrittore di origine svizzera. Della sua opera resta la visione d'insieme sulla società del suo tempo, ma anche la capacità del frammento
Michele Cometa
Vi sono autori che non hanno bisogno di anniversari per essere ricordati. Autori la cui opera ci ha investito ad un certo momento e continua ad investirci, quotidianamente, autori che sanno rinnovare la meraviglia, la sorpresa di questo incontro senza che si debba ricorrere a ricostituenti simbolici come gli anniversari. Questo vale per i singoli lettori ma anche per intere culture.
Così è per Elias Canetti di cui festeggiamo il centenario della nascita il 25 luglio. In Italia Canetti non ha mai avuto bisogno di occasioni esteriori. In fondo è presente tra noi, a livelli diversissimi, da alcuni decenni. Almeno da quanto, nel lontano 1967, Luciano e Bianca Zagari traducevano Die Blendung (1935) con il titolo Auto da fè per Garzanti. Da quel momento la presenza di Canetti è stata costante e ha raggiunto lettori diversissimi tra loro. Da quelli interessati alle ricostruzioni ideologiche della modernità cui Furio Jesi regalò la lettura del poderoso Massa e potere (1960) apparso nel 1972 da Rizzoli, ai cultori, spesso un po' troppo entusiasti, della gioiosa apocalissi viennese introdotta da Claudio Magris e alimentata da legioni di germanisti, filosofi e storici dell'arte; agli studiosi di Kafka le cui lettere a Felice Canetti aveva così simpateticamente commemorato. E ancora: ai semplici lettori di autobiografie che, a partire da La lingua salvata (1981) con cui Adelphi inizia la sua ancora inesausta attività di traduzione, hanno trovato in quest'autore dalle mille lingue una delle forme più alte della coscienza mitteleuropea.
Alla casa editrice Adelphi, spalleggiata sapientemente da Bompiani, si deve del resto la costante presenza di Canetti nella cultura italiana. Ai grandi affreschi autobiografici - che hanno fortemente impregnato l'immagine che l'Italia si è fatta di quella straordinaria stagione che è stata il fin de siécle austriaco - Adelphi ha saputo infatti legare la costante presenza delle Aufzeichnungen (anch'esse più o meno intrise di autobiografia), gli appunti sparsi, ma tutti rigorosamente "pensati" dall'autore, che costituiscono il basso continuo della sua produzione intellettuale. Produzione che ha saputo declinare, come poche nel Novecento appena trascorso, il doppio respiro del grande affresco filosofico e sociale - si pensi a Massa e potere o ai saggi su Hitler e sulla cultura austriaca - e dell'aforisma tagliente ed apodittico, contratto in una smorfia che a fatica si lascia decifrare: potrebbe essere un sorriso, un ghigno, una smorfia di dolore.
Questo "doppio talento" di Canetti ha fatto sì che venisse letto dagli specialisti di cultura tedesca ed austriaca - laddove non va dimenticata la dimensione "svizzera" di questo autore e il melting pot delle sue origini linguistiche - ma anche dai non specialisti che in lui hanno trovato il grande respiro epico della narrazione autobiografica e biografica (indimenticabili sono le caratteristiche di Broch, Kafka, Büchner o Kraus), ma anche la provvisoria consolazione che la scrittura aforistica sa concedere nel momento del pericolo. Già, perché Canetti è scrittore che non perde mai di vista i pericoli esterni della storia e la precarietà intima dell'esistenza. Come Karl Kraus, il suo modello per tutta una vita, l'aforisma, il frammento, la sentenza arguta ed amara sono infatti la torsione tutta soggettiva di un quadro che è invece oggettivo ed epocale. Negli interstizi tra i frammenti che continuamo a leggere avidamente riluce infatti la brutalità della grande storia, l'affresco di cui noi sappiamo cogliere solo un confuso riflesso.
Per questo autori come Canetti ci accompagnano e ci consolano costantemente. In lui scorgiamo quella profondità di prospettiva che è stata data a pochi nel secolo scorso. Non si dimentichi che la sua opera affonda le radici in un tempo lontanissimo da noi e in autori che ormai consideriamo classici.
In occasione del conferimento del premio Nobel nel 1981 Canetti ce ne ha fatto un elenco: Kafka, Kraus, Musil e Broch. Il primo è anche per lui un maestro lontano nel tempo ma vicinissimo nella lingua, anzi nelle lingue. Per gli altri si tratta di uomini che ebbe la fortuna di frequentare e di conoscere intimamente. A Canetti è toccato appunto in sorte di farli giungere sino a noi, alle soglie del ventunesimo secolo. Canetti è stato l'estremo messaggero di quel mondo, un messaggero che è giunto sino a noi portando con sé - come il messo kafkiano - un testo che dobbiamo ancora interpretare. Attraverso Canetti si propaga fino a noi una forma di letteratura di cui percepiamo, insieme alla crucialità storica e sociale, tutto il contenuto immemoriale. Come Borges, infatti, Canetti sapeva che nella letteratura si trasmette certamente una cultura, ma anche qualcosa di più.
Non è un caso del resto che tutti gli appunti - forse l'opera che più di ogni altra ci può restituire la fisionomia precipua di questo scrittore-antropologo, di questo filosofo-storico - siano solo la teatrale messinscena di un conflitto: quello tra oblio e memoria, tra storia e finzione, in fin dei conti tra catastrofe e redenzione: «Bellissima - ha scritto Canetti nel 1974 - è la rianimazione del passato: essendo dimenticato da tanto tempo, adesso il passato diventa più vero. Si può continuamente dimenticarlo di nuovo, si può intensificare la verità?».
Appare chiaro che proprio colui a cui è stato dato il dono della testimonianza ha lavorato tutta la vita per ricordarci che non solo la memoria è legittimo strumento della storia e della cultura, ma anche l'oblio, che riattiva la fantasia. La letteratura è stata per Canetti la forma di una relazione, quella tra ricordo e dimenticanza. Per questo è stata la sua forma, nonostante egli stesso abbia amato pensarsi come un antropologo o un etnologo.
Significativo è il suo confrontarsi, in alcuni frammenti dei primi anni Cinquanta, con un "doppio", un "gemello" come Cesare Pavese. Con lui ha condiviso la passione per l'antropologia, come Pavese ha interpretato la sua missione di scrittore come etnografia, come intreccio, appunto, di riti contemporanei e miti immemoriali. Citiamo questa affinità elettiva non per compiaciuto sciovinismo: di questi "fratelli", di queste "controfigure" Canetti si è nutrito per la sua scrittura. La ricerca del "doppio" è stata certamente una delle forze segrete che gli ha consentito di creare un'ampia cartografia mitteleuropea che mette insieme Kafka e Pavese, Kraus a Blake. Un pensiero mimetico che ci rende indispensabile la sua testimonianza. Non è raro trovare tra i frammenti delle vere e proprie caratteristiche esaustive, delle fisionomie sintetiche che ci dicono tutto di alcuni personaggi del Novecento. Indimenticabile è, ad esempio, quella del mitologo Lévi-Strauss di cui Canetti riconosce i tratti profondamente wagneriani. Né mancano autoritratti non meno impietosi. Come quell'uomo che «decide di ergersi un Pantheon fatto di cose dimenticate». Si tratta di uno strano intellettuale che ricostruisce la storia dell'uomo sostituendo ai grandi poeti i nomi di quelli minori, alle grandi religioni i culti ormai tramontati, ai simulacri degli dèi il kitsch raccolto in "bugigattoli e letamai", alle lingue di cultura gerghi marginali. La sua controfigura più riuscita.
liberazione.it
21.7.05
Tecnica contro Dio
ecco lo scontro di civiltà
di Emanuele Severino
Il cardinale Scola ha proposto (Corriere, 17 luglio) di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità».
Lo esigerebbero fatti come il 1989, «caduta delle utopie», globalizzazione, civiltà tecnologica, nuovo ordine internazionale, terrorismo, eccetera.
Un «laico» potrebbe chiedersi perché non esista anche un’immagine vecchia della religiosità (cristiana e no), dalla quale si debba uscire in forza di quegli stessi fatti. Ma vorrei innanzitutto invitare il cardinale Scola — del quale ho grande stima e per il quale nutro affetto (è stato anche mio allievo all’Università Cattolica di Milano) — a soffermarsi un poco su quanto dice del filosofo Habermas. Scrive di non condividere la persuasione di Habermas, che cioè «per giustificarsi, una democrazia costituzionale non ha bisogno di un "presupposto" etico o religioso».
Ma si dichiara d’accordo con lui nell’auspicio che credenti e non credenti «si predispongano a un confronto permanente ».Esi può essere subito d’accordo, perché se non ci si vuole uccidere a vicenda ci si deve continuamente confrontare nel dialogo.
Ma da che cosa deve partire questo dialogo, se non dalla discussione della tesi da cui il cardinale Scola dissente, cioè che la democrazia costituzionale non ha bisogno di alcun «presupposto » etico o religioso? Se questo punto di partenza non è chiarito, tutti i consensi, che lungo il dialogo si potranno stabilire, saranno degli equivoci. Poiché tale punto di partenza non è stato chiarito nemmeno nel dialogo che l’allora cardinal Ratzinger ebbe con Habermas nel 2004, il loro dialogo è stato in effetti un malinteso. Per affermare l’opportunità di non uccidersi ma di dialogare non c’era bisogno di scomodare Habermas e Ratzinger.
Ma quella tesi sulla democrazia non se l’è inventata Habermas. Nel summenzionato incontro con l’allora cardinal Ratzinger, Habermas la enuncia anzi di sfuggita, come cosa ovvia, scontata, sulla quale non valga la pena di soffermarsi. Come mai? Perché egli ha alle sue spalle due secoli di filosofia che sempre più perentoriamente ha mostrato l’impossibilità di ogni «presupposto» etico o religioso, cioè l’impossibilità di un’etica o di una religione che pretendano possedere la verità assoluta. Non credo che Habermas (e i molti che fanno come lui) faccia bene a dare per scontato il duro lavoro della filosofia degli ultimi due secoli: in questo modo la potenza di quel lavoro vien lasciata in cantina ad arrugginire, e appare come un semplice «relativismo» che la tradizione dell’Occidente (Cristianesimo in testa) può ritenersi legittimata a lasciar da parte (come ha proposto Giovanni Paolo II), auspicando il ritorno alla filosofia tradizionale (medioevale e antica)—ossia a quella sapienza che, scavalcata dalla filosofia moderna, da Cartesio all’Illuminismo, è responsabile (secondo Giovanni Paolo II) di tutti gli orrori del XX secolo. Nonintendo negare questa responsabilità.
Anzi, la filosofia è, da ultimo, responsabile dell’intera storia dell’Occidente (che include l’Islam, dalle fortissime radici greche), e ormai del pianeta. Ma proprio per questa responsabilità non si può pensare che la filosofia degli ultimi due secoli sia una bazzecola dalla quale ci si possa liberare agevolmente—con l’involontaria complicità di chi la lascia in cantina.
Il cardinal Scola è filosofo e queste cose le capisce al volo. Ma mi lasci dire che anche lui corre il rischio di farsi involontariamente complice di quella liberazione troppo agevole, proprio quando propone di abbandonare la vecchia immagine della laicità. Perché se il concetto di «laicità» è quanto mai ambiguo, non è per niente ambigua (nella sua essenza più profonda) la potenza con cui la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità di ogni verità assoluta, di ogni dio, di ogni fondamento che pretenda di sottrarsi al divenire del mondo. La coscienza di questa impossibilità è il fondamento ultimo di ogni «laicità» e proporsi di cambiare questo senso fondamentale della «laicità » significa chiudere gli occhi di fronte all’essenza dello sviluppo storico dell’Occidente. Propenderei anzi a mettere in secondo piano il problema della «laicità» e a portare invece in primo piano la chiarificazione dell’essenza della filosofia del nostro tempo e della sua capacità di portare al tramonto la tradizione dell’Occidente. Il che implica la chiarificazione del senso essenziale dell’intero sviluppo del pensiero filosofico.
Il cardinale Scola sa bene che il contenuto a cui si rivolgono i miei scritti non è la difesa della filosofia del nostro tempo (ma nemmenodella filosofia del passato), e sa bene che tuttavia i miei scritti danno una mano a questa filosofia, perché essa è la conseguenza rigorosa e inevitabile del modo in cui il pensiero filosofico è nato in Grecia ed è stato responsabile della storia dell’Occidente.
I fatti che egli indica (e che ho richiamato all’inizio) sono, al contrario, le conseguenze inevitabili di quell’evento essenziale in cui viene mostrata l’impossibilità di ogni Dio, di ogni verità assoluta, di ogni fondamento. La «caduta delle utopie» è appunto la caduta della convinzione che esista una verità assoluta che le alimenti. E se l’assolutismo dello «Stato etico» è una espressione della filosofia del passato, non si vede perché il cristianesimo e il suo fondamento filosofico non siano a loro volta una delle più grandiose di quelle utopie. Eci può essere «globalizzazione» perché la tecnica guida il mondo: ha emarginato quelle utopie e si muove nel clima di un pensiero filosofico che ha mostrato la loro impossibilità. Certo, l’Islam è oggi al centro della scena mondiale. Ma per lo stesso motivo per cui, in America, al centro si trova l’integralismo evangelico che ha fatto vincere Bush e, in Europa, al centro si trova la Chiesa cattolica che ambisce a ridiventarne la guida. E il motivo è che se il pensiero del nostro tempo «ha diritto» a decretare la morte della tradizione, la tradizione punta i piedi e reagisce in modo da far provvisoriamente sbandare dalla parte opposta il processo storico.
Già, il pensiero del nostro tempo ha quel «diritto». Perché? Ecco, qui incomincia il dialogo - desidero dire al cardinale Scola. Ma a questa domanda i «laici» contemporanei non danno alcuna risposta - e il dialogo con i «religiosi» è troncato sul nascere -, se si limitano a considerare quel «diritto» come cosa ovvia, e cioè se si limitano a dare per scontato, come accade nel discorso di Habermas, che la democrazia costituzionale non ha bisogno di alcun presupposto etico o religioso.
corriere.it
di Emanuele Severino
Il cardinale Scola ha proposto (Corriere, 17 luglio) di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità».
Lo esigerebbero fatti come il 1989, «caduta delle utopie», globalizzazione, civiltà tecnologica, nuovo ordine internazionale, terrorismo, eccetera.
Un «laico» potrebbe chiedersi perché non esista anche un’immagine vecchia della religiosità (cristiana e no), dalla quale si debba uscire in forza di quegli stessi fatti. Ma vorrei innanzitutto invitare il cardinale Scola — del quale ho grande stima e per il quale nutro affetto (è stato anche mio allievo all’Università Cattolica di Milano) — a soffermarsi un poco su quanto dice del filosofo Habermas. Scrive di non condividere la persuasione di Habermas, che cioè «per giustificarsi, una democrazia costituzionale non ha bisogno di un "presupposto" etico o religioso».
Ma si dichiara d’accordo con lui nell’auspicio che credenti e non credenti «si predispongano a un confronto permanente ».Esi può essere subito d’accordo, perché se non ci si vuole uccidere a vicenda ci si deve continuamente confrontare nel dialogo.
Ma da che cosa deve partire questo dialogo, se non dalla discussione della tesi da cui il cardinale Scola dissente, cioè che la democrazia costituzionale non ha bisogno di alcun «presupposto » etico o religioso? Se questo punto di partenza non è chiarito, tutti i consensi, che lungo il dialogo si potranno stabilire, saranno degli equivoci. Poiché tale punto di partenza non è stato chiarito nemmeno nel dialogo che l’allora cardinal Ratzinger ebbe con Habermas nel 2004, il loro dialogo è stato in effetti un malinteso. Per affermare l’opportunità di non uccidersi ma di dialogare non c’era bisogno di scomodare Habermas e Ratzinger.
Ma quella tesi sulla democrazia non se l’è inventata Habermas. Nel summenzionato incontro con l’allora cardinal Ratzinger, Habermas la enuncia anzi di sfuggita, come cosa ovvia, scontata, sulla quale non valga la pena di soffermarsi. Come mai? Perché egli ha alle sue spalle due secoli di filosofia che sempre più perentoriamente ha mostrato l’impossibilità di ogni «presupposto» etico o religioso, cioè l’impossibilità di un’etica o di una religione che pretendano possedere la verità assoluta. Non credo che Habermas (e i molti che fanno come lui) faccia bene a dare per scontato il duro lavoro della filosofia degli ultimi due secoli: in questo modo la potenza di quel lavoro vien lasciata in cantina ad arrugginire, e appare come un semplice «relativismo» che la tradizione dell’Occidente (Cristianesimo in testa) può ritenersi legittimata a lasciar da parte (come ha proposto Giovanni Paolo II), auspicando il ritorno alla filosofia tradizionale (medioevale e antica)—ossia a quella sapienza che, scavalcata dalla filosofia moderna, da Cartesio all’Illuminismo, è responsabile (secondo Giovanni Paolo II) di tutti gli orrori del XX secolo. Nonintendo negare questa responsabilità.
Anzi, la filosofia è, da ultimo, responsabile dell’intera storia dell’Occidente (che include l’Islam, dalle fortissime radici greche), e ormai del pianeta. Ma proprio per questa responsabilità non si può pensare che la filosofia degli ultimi due secoli sia una bazzecola dalla quale ci si possa liberare agevolmente—con l’involontaria complicità di chi la lascia in cantina.
Il cardinal Scola è filosofo e queste cose le capisce al volo. Ma mi lasci dire che anche lui corre il rischio di farsi involontariamente complice di quella liberazione troppo agevole, proprio quando propone di abbandonare la vecchia immagine della laicità. Perché se il concetto di «laicità» è quanto mai ambiguo, non è per niente ambigua (nella sua essenza più profonda) la potenza con cui la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità di ogni verità assoluta, di ogni dio, di ogni fondamento che pretenda di sottrarsi al divenire del mondo. La coscienza di questa impossibilità è il fondamento ultimo di ogni «laicità» e proporsi di cambiare questo senso fondamentale della «laicità » significa chiudere gli occhi di fronte all’essenza dello sviluppo storico dell’Occidente. Propenderei anzi a mettere in secondo piano il problema della «laicità» e a portare invece in primo piano la chiarificazione dell’essenza della filosofia del nostro tempo e della sua capacità di portare al tramonto la tradizione dell’Occidente. Il che implica la chiarificazione del senso essenziale dell’intero sviluppo del pensiero filosofico.
Il cardinale Scola sa bene che il contenuto a cui si rivolgono i miei scritti non è la difesa della filosofia del nostro tempo (ma nemmenodella filosofia del passato), e sa bene che tuttavia i miei scritti danno una mano a questa filosofia, perché essa è la conseguenza rigorosa e inevitabile del modo in cui il pensiero filosofico è nato in Grecia ed è stato responsabile della storia dell’Occidente.
I fatti che egli indica (e che ho richiamato all’inizio) sono, al contrario, le conseguenze inevitabili di quell’evento essenziale in cui viene mostrata l’impossibilità di ogni Dio, di ogni verità assoluta, di ogni fondamento. La «caduta delle utopie» è appunto la caduta della convinzione che esista una verità assoluta che le alimenti. E se l’assolutismo dello «Stato etico» è una espressione della filosofia del passato, non si vede perché il cristianesimo e il suo fondamento filosofico non siano a loro volta una delle più grandiose di quelle utopie. Eci può essere «globalizzazione» perché la tecnica guida il mondo: ha emarginato quelle utopie e si muove nel clima di un pensiero filosofico che ha mostrato la loro impossibilità. Certo, l’Islam è oggi al centro della scena mondiale. Ma per lo stesso motivo per cui, in America, al centro si trova l’integralismo evangelico che ha fatto vincere Bush e, in Europa, al centro si trova la Chiesa cattolica che ambisce a ridiventarne la guida. E il motivo è che se il pensiero del nostro tempo «ha diritto» a decretare la morte della tradizione, la tradizione punta i piedi e reagisce in modo da far provvisoriamente sbandare dalla parte opposta il processo storico.
Già, il pensiero del nostro tempo ha quel «diritto». Perché? Ecco, qui incomincia il dialogo - desidero dire al cardinale Scola. Ma a questa domanda i «laici» contemporanei non danno alcuna risposta - e il dialogo con i «religiosi» è troncato sul nascere -, se si limitano a considerare quel «diritto» come cosa ovvia, e cioè se si limitano a dare per scontato, come accade nel discorso di Habermas, che la democrazia costituzionale non ha bisogno di alcun presupposto etico o religioso.
corriere.it
20.7.05
Con la sostanza del corpo
«Riconoscimento/misconoscimento», il primo numero della nuova rivista «Postfilosofie»
Una serie di contributi e interventi anche internazionali nel semestrale diretto da Roberto Finelli e Francesco Fistetti per l'editore Cacucci
ROBERTO CICCARELLI
Si nasce dal corpo, si parla dei corpi, il corpo deve essere difeso dal diritto, la biopolitica non è se non parte dai corpi. Molto del sapere contemporaneo, dalla bioetica all'antropologia, dal diritto alla filosofia, ha assunto il corpo come obiettivo, ma l'attuale profusione dei discorsi nasconde tuttavia un'assenza di consenso su cosa esattamente sia il corpo e quali siano i limiti etici e politici delle pratiche mediche, giuridiche o politiche che a esso s'ispirano. Proliferazione dei discorsi e mancanza di sostanza del corpo, al centro di questo paradosso si colloca Postfilosofie (Cacucci, pp. 226, € 14) la nuova rivista diretta da Roberto Finelli e Francesco Fistetti. Il primo numero è dedicato al tema Riconoscimento/misconoscimento, centrale sia nella filosofia pratica tedesca sia in quella dell'antiutilitarismo francese, e raccoglie una serie di interventi internazionali di Jerome Kohn, Axel Honneth, Bryan Turner, Christian Lazzeri e Alain Caillé, insieme a quelli di Antonio De Simone, Francesca R. Recchia Luciani, Vito Santoro e Sergio Alloggio. Un prefisso, questo «post» così inflazionato, che allude tuttavia alla pluralità delle prospettive filosofiche spalancate dalla fine del momento cartesiano della filosofia come di quella del positivismo del sapere scientifico. Postfilosofie si rivolge ai nuovi saperi che non accettano di riconciliarsi con l'aberrante dualismo corpo-mente simbolizzato da Cartesio ma anche dal trascendentalismo neokantiano della filosofia del diritto e di quella più recente sui diritti umani.
Roberto Finelli sostiene che la psicoanalisi è la prima formulazione dell'ipotesi della non perfetta coincidenza del soggetto con la sua coscienza razionale. Ciò ha spinto questo soggetto al riconoscimento dell'esistenza dell'altro fuori di sé e con questo anche del fattore costitutivo del formarsi dell'identità. Su questa base, si può dunque considerare superato il canone dell'io liberale-kantiano affermato in tutta la storia del liberalismo politico e che rimane alla base dello stato di diritto.
E' su una rinnovata tensione etica, scrive Francesco Fistetti, che si fonda la libertà del soggetto, quella che Levinas definiva «la responsabilità verso gli altri». In questa seconda direzione si scopre anche la dimensione attiva della cittadinanza che il soggetto, al di là delle sue appartenenze nazionali, individua in una serie di beni collettivi pubblici (dall'acqua all'istruzione) sottratti alla privatizzazione e allo scambio delle merci.
Ciò presuppone l'esistenza di un pluralismo giuridico capace di garantire i presupposti di una reciproca comprensione tra culture e forme della razionalità differenti (Turner), ma che non può prescindere da quel bene fondamentale che è il «rispetto di sé» che consente ai cittadini di «riconoscere il proprio valore» come quello altrui. Sulla base di questo paradigma «antisacrificale» del dono formulata da Marcel Mauss le nazioni «ricche» dovrebbero subordinare i propri interessi a quello comune dell'umanità ricongiungendo così l'etica pubblica con l'economia (Lazzeri e Caillé).
La riflessione sulla categoria di riconoscimento di Axel Honneth ha il merito di sganciarsi dalla dimensione astratta cui l'aveva consegnata il trascendentalismo morale kantiano e stabilisce che la relazione tra i soggetti è il dato costitutivo della socialità umana, anche se non si discosta dai limiti del paradigma democratico-comunicativo che Honneth condivide con buona parte della filosofia politica contemporanea. La necessità di una distribuzione più giusta delle risorse, e quindi di una democrazia a livello mondiale, non sfocia in questo autore come in altri (John Rawls, Michael Ignatieff e Michael Walzer ad esempio) né in un'analisi delle condizioni socio-economiche che provocano le ingiustizie né in una fondazione dei diritti umani sulle radici corporee dell'essere umano. In bilico su fondamenta minimali e vulnerabili, scrive Francesca R. Recchia Luciani, la «cultura dei diritti umani» rimane esposta all'invocazione di intervento militare degli stati contro chi non li applica, violando così quei diritti che s'intende difendere sino ad arrivare al misconoscimento radicale del genere umano (Kohn).
Al termine della lettura il riconoscimento rimane in ogni caso una categoria che può essere usata tanto per valorizzare il proprio sé nell'unità tra corpo e mente, quanto per estendere il legame sociale su scala globale. Sulla possibilità, e le difficoltà, di questo sincronismo politico e filosofico ci s'interrogherà ancora, ma sulla materialità del corpo che ne costituisce il presupposto non c'è dubbio: è una svolta che ha una portata epistemica e politica d'ordine generale. Senza la quale oggi non si può difendere la vita degli uomini e delle donne.
il manifesto
Una serie di contributi e interventi anche internazionali nel semestrale diretto da Roberto Finelli e Francesco Fistetti per l'editore Cacucci
ROBERTO CICCARELLI
Si nasce dal corpo, si parla dei corpi, il corpo deve essere difeso dal diritto, la biopolitica non è se non parte dai corpi. Molto del sapere contemporaneo, dalla bioetica all'antropologia, dal diritto alla filosofia, ha assunto il corpo come obiettivo, ma l'attuale profusione dei discorsi nasconde tuttavia un'assenza di consenso su cosa esattamente sia il corpo e quali siano i limiti etici e politici delle pratiche mediche, giuridiche o politiche che a esso s'ispirano. Proliferazione dei discorsi e mancanza di sostanza del corpo, al centro di questo paradosso si colloca Postfilosofie (Cacucci, pp. 226, € 14) la nuova rivista diretta da Roberto Finelli e Francesco Fistetti. Il primo numero è dedicato al tema Riconoscimento/misconoscimento, centrale sia nella filosofia pratica tedesca sia in quella dell'antiutilitarismo francese, e raccoglie una serie di interventi internazionali di Jerome Kohn, Axel Honneth, Bryan Turner, Christian Lazzeri e Alain Caillé, insieme a quelli di Antonio De Simone, Francesca R. Recchia Luciani, Vito Santoro e Sergio Alloggio. Un prefisso, questo «post» così inflazionato, che allude tuttavia alla pluralità delle prospettive filosofiche spalancate dalla fine del momento cartesiano della filosofia come di quella del positivismo del sapere scientifico. Postfilosofie si rivolge ai nuovi saperi che non accettano di riconciliarsi con l'aberrante dualismo corpo-mente simbolizzato da Cartesio ma anche dal trascendentalismo neokantiano della filosofia del diritto e di quella più recente sui diritti umani.
Roberto Finelli sostiene che la psicoanalisi è la prima formulazione dell'ipotesi della non perfetta coincidenza del soggetto con la sua coscienza razionale. Ciò ha spinto questo soggetto al riconoscimento dell'esistenza dell'altro fuori di sé e con questo anche del fattore costitutivo del formarsi dell'identità. Su questa base, si può dunque considerare superato il canone dell'io liberale-kantiano affermato in tutta la storia del liberalismo politico e che rimane alla base dello stato di diritto.
E' su una rinnovata tensione etica, scrive Francesco Fistetti, che si fonda la libertà del soggetto, quella che Levinas definiva «la responsabilità verso gli altri». In questa seconda direzione si scopre anche la dimensione attiva della cittadinanza che il soggetto, al di là delle sue appartenenze nazionali, individua in una serie di beni collettivi pubblici (dall'acqua all'istruzione) sottratti alla privatizzazione e allo scambio delle merci.
Ciò presuppone l'esistenza di un pluralismo giuridico capace di garantire i presupposti di una reciproca comprensione tra culture e forme della razionalità differenti (Turner), ma che non può prescindere da quel bene fondamentale che è il «rispetto di sé» che consente ai cittadini di «riconoscere il proprio valore» come quello altrui. Sulla base di questo paradigma «antisacrificale» del dono formulata da Marcel Mauss le nazioni «ricche» dovrebbero subordinare i propri interessi a quello comune dell'umanità ricongiungendo così l'etica pubblica con l'economia (Lazzeri e Caillé).
La riflessione sulla categoria di riconoscimento di Axel Honneth ha il merito di sganciarsi dalla dimensione astratta cui l'aveva consegnata il trascendentalismo morale kantiano e stabilisce che la relazione tra i soggetti è il dato costitutivo della socialità umana, anche se non si discosta dai limiti del paradigma democratico-comunicativo che Honneth condivide con buona parte della filosofia politica contemporanea. La necessità di una distribuzione più giusta delle risorse, e quindi di una democrazia a livello mondiale, non sfocia in questo autore come in altri (John Rawls, Michael Ignatieff e Michael Walzer ad esempio) né in un'analisi delle condizioni socio-economiche che provocano le ingiustizie né in una fondazione dei diritti umani sulle radici corporee dell'essere umano. In bilico su fondamenta minimali e vulnerabili, scrive Francesca R. Recchia Luciani, la «cultura dei diritti umani» rimane esposta all'invocazione di intervento militare degli stati contro chi non li applica, violando così quei diritti che s'intende difendere sino ad arrivare al misconoscimento radicale del genere umano (Kohn).
Al termine della lettura il riconoscimento rimane in ogni caso una categoria che può essere usata tanto per valorizzare il proprio sé nell'unità tra corpo e mente, quanto per estendere il legame sociale su scala globale. Sulla possibilità, e le difficoltà, di questo sincronismo politico e filosofico ci s'interrogherà ancora, ma sulla materialità del corpo che ne costituisce il presupposto non c'è dubbio: è una svolta che ha una portata epistemica e politica d'ordine generale. Senza la quale oggi non si può difendere la vita degli uomini e delle donne.
il manifesto
17.7.05
Il furto d'impresa sul sapere comune
Conflitto aperto sulla proprietà intellettuale, tra alterne fortune. Le corporations equiparano i prodotti dell'ingegno ai beni fisici e non riconoscono che l'«opera d'arte» - il «contenuto» che poi rivendono più volte su supporti diversi - nasce in un ambiente disseminato di idee altrui, non pagate
FRANCO CARLINI
Alterne e ambigue sono le notizie dal fronte della proprietà intellettuale. Si succedono docce fredde e docce calde per gli uni, i sostenitori di copyright e brevetti, come per gli altri, i suoi avversari. Se la Corte Suprema degli Stati Uniti ritiene colpevole di violazione del copyright le aziende che offrono servizi di scambio dei file in modalità P2P, negli stessi giorni il parlamento europeo delude chi voleva brevettare tutto il software. Un assurdo brevetto per i kit diagnostici del tumore alla mammella viene riattivato in Europa, ma il consiglio inglese delle ricerche spinge per la massima circolazione delle pubblicazioni scientifiche. Queste e altre decine di notizie di segno opposto, tutte all'insegna dei diritti di proprietà intellettuale (IPR), ci ricordano che quella che stiamo vivendo è una fase di intensi conflitti tra diversi valori (il sapere pubblico contro il sapere privatizzato) e tra legittimi interessi materiali che le tecnologie digitali hanno posto in linea di collisione come mai prima: gli artisti contro le case musicali, i produttori di apparati elettronici contro i detentori dei contenuti, i consumatori contro i rivenditori eccetera.
In questo scenario i più radicali ed estremisti non sono gli hacker del software libero, ma le aziende della musica, in Italia rappresentate dalla Fimi (www.fimi.it) che negli ultimi mesi hanno abbandonato ogni prudenza linguistica e hanno scelto la linea dura: attivano loro task force alla scoperta dei diffusori di musica in rete (che poi segnalano alla Finanza), sono riuscite a far approvare emendamenti peggiorativi alla linea di relativa depenalizzazione su cui il parlamento di era impegnato a modifica del pessimo decreto Urbani e hanno scelto la linea della tolleranza zero.
Hanno imboccato insomma la strada, per loro stessi deleteria, di trattare da ladri i loro stessi clienti di musica e andranno ripagati con la stessa aggressività linguistica che hanno deciso di praticare per difendere allo spasimo la loro incapacità di adattarsi al mondo che cambia. Con la Fimi in questa fase ogni dialogo è decisamente precluso dal suo unilateralismo.
Su questa campagna della Fimi aleggia peraltro un vistoso fraintendimento: ufficialmente essa viene condotta in nome del rispetto della legalità, ma di fatto si tratta di ben altro, solo che si guardi la questione con occhio scevro da pregiudizi. «Non chiediamo niente di più che il rispetto del lavoro creativo e del legittimo diritto a goderne», si dice. Ma questa è solo la formulazione ufficiale, mentre altra è la realtà.
La realtà è un massiccio processo di furto (se preferite chiamiamola appropriazione) di conoscenze e saperi comuni da altri creati. I «ladri» sono le industrie del settore e questa operazione, per andare a buon fine, richiede non già il ripristino della legalità, ma al contrario la sua completa sovversione e destrutturazione.
Fino a ieri i beni immateriali, le opere dell'ingegno, hanno sempre goduto di una protezione limitata: lo stato accordava ai creativi un monopolio temporaneo e soggetto a molte limitazioni per incentivarli a innovare, ma insieme li obbligava a mettere in pubblico le idee e la loro espressione, a disposizione della società intera e del suo progresso.
Questo oggi non va più bene a Hollywood, alle case musicali e a molti artisti i quali oggi pretenderebbero di rovesciare il diritto vigente fino a rendere perenne quella che abusivamente affermano essere proprietà loro. Per farlo propongono un salto teorico vistoso, fatto di due affermazioni entrambe discutibilissime. La prima è che la proprietà sia un diritto naturale e non già un fatto storico, tema su cui la filosofia politica si interroga da sempre senza essere arrivata, com'è ovvio, a conclusioni univoche. La seconda è che la proprietà intellettuale sarebbe come quella dei beni fisici e che il possesso di una musica è come quella di un campo di patate. Dunque ogni compositore dovrebbe poter godere dei frutti del proprio lavoro in ogni tempo e luogo e lasciarlo ai suoi eredi proprio come il contadino deve poter vendere a chi vuole le sue patate e affittare o vendere il suo terreno a chi crede, lasciandolo poi a figli e nipoti.
Ma c'è una vistosa differenza che solo la malafede (anche di molti «artisti») può negare: ogni idea e ogni sua espressione non nasce dalla scintilla dell'intelligenza di un uomo solitario, ma è frutto del sapere e della cultura prodotti da milioni di altre persone delle generazioni precedenti e di quella contemporanea. Come modestamente Newton ebbe a riconoscere, ognuno si eleva «sulle spalle dei giganti» che l'hanno preceduto. Di suo ci aggiunge qualcosa, senza dubbio, ma il materiale e la cultura di partenza su cui si accende una canzone o la forma di una lampada sono in larghissima percentuale una «emergenza» basata sul patrimonio comune e storico che chiamiamo civiltà umane.
Persino le patate, del resto, non sono prodotto esclusivo di quel contadino singolo: altri le hanno portate in Europa dalle Americhe, altri le hanno incrociate e migliorate, altri hanno scoperto come coltivarle al meglio nei diversi terreni e lui stesso ora gode giustamente dei frutti di una lunghissima e diffusa conoscenza diffusa senza la quale mangeremmo ancora radici selvatiche e amarissime, essendo rimasti «cacciatori e raccoglitori», anziché allevatori e agricoltori.
Dunque il movimento attuale è per alcuni aspetti simile a quel processo di «enclosure» (recintamento) dei terreni pubblici, pascoli e campi, che si sviluppò in Inghilterra nel `600, attribuendo diritti di proprietà a dei beni che fino ad allora erano stati comuni. James Boyle, professore di legge alla Duke university lo chiama appunto «The Second Enclosure Movement» e il saggio relativo si trova all'indirizzo www.law.duke.edu/pd/papers/boyle.pdf. Questo testo è liberamente scaricabile e riusabile secondo la licenza Creative Commons, che viene usata volontariamente da molti autori per sottrarre le loro opere al copyright classico, garantendone una diffusione ampia senza fini di lucro.
La sua lettura è particolarmente utile, anche perché ci ripropone alcuni brani preziosi di uno studioso sociale troppo trascurato e il cui pensiero oggi riemerge con prepotenza, Karl Polanyi, il quale per esempio scriveva: «le enclosures sono state correttamente definite una rivoluzione dei ricchi contro i poveri. I lord e i nobili rovesciavano l'ordine sociale, rompendo la legge e le usanze precedenti talora per mezzo della violenza, spesso con pressioni e intimidazioni. Essi letteralmente derubavano i poveri delle loro quote di beni comuni».
Quando un artista va in Africa con una videocamera catturando suoni, colori e forme di quei popoli e poi torna a casa e remixandoli ne fa musiche da Sanremo, tazze da the per i supermercati, T-shirt per i giovani consumatori, borsette per via Monte Napoleone, quale prezzo paga per quel «copia e incolla» di idee altrui? E come può pretendere di avere un diritto secolare su quei prodotti? E con che faccia tosta invocherà la Guardia di finanza contro quegli africani che vendono sulle spiagge delle imitazioni dei prodotti che lui a copiato dalle loro terre e dalle loro genti?
Mai come nel caso delle idee risulta chiaro come l'idea storica di proprietà si associ sempre a un furto. E' un termine tecnico e dunque non si offendano troppo Celentano né Gino Paoli: vuol dire soltanto che tutti siamo debitori dei legami sociali e delle idee di molti altri, anche quando non lo sappiamo e non li conosciamo. Ma è giunta l'ora di saperlo.
il manifesto
FRANCO CARLINI
Alterne e ambigue sono le notizie dal fronte della proprietà intellettuale. Si succedono docce fredde e docce calde per gli uni, i sostenitori di copyright e brevetti, come per gli altri, i suoi avversari. Se la Corte Suprema degli Stati Uniti ritiene colpevole di violazione del copyright le aziende che offrono servizi di scambio dei file in modalità P2P, negli stessi giorni il parlamento europeo delude chi voleva brevettare tutto il software. Un assurdo brevetto per i kit diagnostici del tumore alla mammella viene riattivato in Europa, ma il consiglio inglese delle ricerche spinge per la massima circolazione delle pubblicazioni scientifiche. Queste e altre decine di notizie di segno opposto, tutte all'insegna dei diritti di proprietà intellettuale (IPR), ci ricordano che quella che stiamo vivendo è una fase di intensi conflitti tra diversi valori (il sapere pubblico contro il sapere privatizzato) e tra legittimi interessi materiali che le tecnologie digitali hanno posto in linea di collisione come mai prima: gli artisti contro le case musicali, i produttori di apparati elettronici contro i detentori dei contenuti, i consumatori contro i rivenditori eccetera.
In questo scenario i più radicali ed estremisti non sono gli hacker del software libero, ma le aziende della musica, in Italia rappresentate dalla Fimi (www.fimi.it) che negli ultimi mesi hanno abbandonato ogni prudenza linguistica e hanno scelto la linea dura: attivano loro task force alla scoperta dei diffusori di musica in rete (che poi segnalano alla Finanza), sono riuscite a far approvare emendamenti peggiorativi alla linea di relativa depenalizzazione su cui il parlamento di era impegnato a modifica del pessimo decreto Urbani e hanno scelto la linea della tolleranza zero.
Hanno imboccato insomma la strada, per loro stessi deleteria, di trattare da ladri i loro stessi clienti di musica e andranno ripagati con la stessa aggressività linguistica che hanno deciso di praticare per difendere allo spasimo la loro incapacità di adattarsi al mondo che cambia. Con la Fimi in questa fase ogni dialogo è decisamente precluso dal suo unilateralismo.
Su questa campagna della Fimi aleggia peraltro un vistoso fraintendimento: ufficialmente essa viene condotta in nome del rispetto della legalità, ma di fatto si tratta di ben altro, solo che si guardi la questione con occhio scevro da pregiudizi. «Non chiediamo niente di più che il rispetto del lavoro creativo e del legittimo diritto a goderne», si dice. Ma questa è solo la formulazione ufficiale, mentre altra è la realtà.
La realtà è un massiccio processo di furto (se preferite chiamiamola appropriazione) di conoscenze e saperi comuni da altri creati. I «ladri» sono le industrie del settore e questa operazione, per andare a buon fine, richiede non già il ripristino della legalità, ma al contrario la sua completa sovversione e destrutturazione.
Fino a ieri i beni immateriali, le opere dell'ingegno, hanno sempre goduto di una protezione limitata: lo stato accordava ai creativi un monopolio temporaneo e soggetto a molte limitazioni per incentivarli a innovare, ma insieme li obbligava a mettere in pubblico le idee e la loro espressione, a disposizione della società intera e del suo progresso.
Questo oggi non va più bene a Hollywood, alle case musicali e a molti artisti i quali oggi pretenderebbero di rovesciare il diritto vigente fino a rendere perenne quella che abusivamente affermano essere proprietà loro. Per farlo propongono un salto teorico vistoso, fatto di due affermazioni entrambe discutibilissime. La prima è che la proprietà sia un diritto naturale e non già un fatto storico, tema su cui la filosofia politica si interroga da sempre senza essere arrivata, com'è ovvio, a conclusioni univoche. La seconda è che la proprietà intellettuale sarebbe come quella dei beni fisici e che il possesso di una musica è come quella di un campo di patate. Dunque ogni compositore dovrebbe poter godere dei frutti del proprio lavoro in ogni tempo e luogo e lasciarlo ai suoi eredi proprio come il contadino deve poter vendere a chi vuole le sue patate e affittare o vendere il suo terreno a chi crede, lasciandolo poi a figli e nipoti.
Ma c'è una vistosa differenza che solo la malafede (anche di molti «artisti») può negare: ogni idea e ogni sua espressione non nasce dalla scintilla dell'intelligenza di un uomo solitario, ma è frutto del sapere e della cultura prodotti da milioni di altre persone delle generazioni precedenti e di quella contemporanea. Come modestamente Newton ebbe a riconoscere, ognuno si eleva «sulle spalle dei giganti» che l'hanno preceduto. Di suo ci aggiunge qualcosa, senza dubbio, ma il materiale e la cultura di partenza su cui si accende una canzone o la forma di una lampada sono in larghissima percentuale una «emergenza» basata sul patrimonio comune e storico che chiamiamo civiltà umane.
Persino le patate, del resto, non sono prodotto esclusivo di quel contadino singolo: altri le hanno portate in Europa dalle Americhe, altri le hanno incrociate e migliorate, altri hanno scoperto come coltivarle al meglio nei diversi terreni e lui stesso ora gode giustamente dei frutti di una lunghissima e diffusa conoscenza diffusa senza la quale mangeremmo ancora radici selvatiche e amarissime, essendo rimasti «cacciatori e raccoglitori», anziché allevatori e agricoltori.
Dunque il movimento attuale è per alcuni aspetti simile a quel processo di «enclosure» (recintamento) dei terreni pubblici, pascoli e campi, che si sviluppò in Inghilterra nel `600, attribuendo diritti di proprietà a dei beni che fino ad allora erano stati comuni. James Boyle, professore di legge alla Duke university lo chiama appunto «The Second Enclosure Movement» e il saggio relativo si trova all'indirizzo www.law.duke.edu/pd/papers/boyle.pdf. Questo testo è liberamente scaricabile e riusabile secondo la licenza Creative Commons, che viene usata volontariamente da molti autori per sottrarre le loro opere al copyright classico, garantendone una diffusione ampia senza fini di lucro.
La sua lettura è particolarmente utile, anche perché ci ripropone alcuni brani preziosi di uno studioso sociale troppo trascurato e il cui pensiero oggi riemerge con prepotenza, Karl Polanyi, il quale per esempio scriveva: «le enclosures sono state correttamente definite una rivoluzione dei ricchi contro i poveri. I lord e i nobili rovesciavano l'ordine sociale, rompendo la legge e le usanze precedenti talora per mezzo della violenza, spesso con pressioni e intimidazioni. Essi letteralmente derubavano i poveri delle loro quote di beni comuni».
Quando un artista va in Africa con una videocamera catturando suoni, colori e forme di quei popoli e poi torna a casa e remixandoli ne fa musiche da Sanremo, tazze da the per i supermercati, T-shirt per i giovani consumatori, borsette per via Monte Napoleone, quale prezzo paga per quel «copia e incolla» di idee altrui? E come può pretendere di avere un diritto secolare su quei prodotti? E con che faccia tosta invocherà la Guardia di finanza contro quegli africani che vendono sulle spiagge delle imitazioni dei prodotti che lui a copiato dalle loro terre e dalle loro genti?
Mai come nel caso delle idee risulta chiaro come l'idea storica di proprietà si associ sempre a un furto. E' un termine tecnico e dunque non si offendano troppo Celentano né Gino Paoli: vuol dire soltanto che tutti siamo debitori dei legami sociali e delle idee di molti altri, anche quando non lo sappiamo e non li conosciamo. Ma è giunta l'ora di saperlo.
il manifesto
16.7.05
L'immagine a flusso globale
ARTE E POLITICA
Una ricognizione del panorama attuale dove il carattere di testimonianza intrinseco a tante espressioni artistiche rende evidente la ripresa del riferimento etico-politico. Trent'anni dopo molto è cambiato ma altrettanti elementi ci riportano alla stagione della inderogabilità dell'impegno
MASSIMO CARBONI
Chi si aggira per le sale e gli ambienti della Biennale veneziana ancora in corso, non può non accorgersene. Una voce registrata scandisce regolamenti e cifre della mostra: dalle norme di accesso ai prezzi del bar fino al compenso del presidente Croff. È un intervento (dello spagnolo Santiago Serra) tra i tanti di questa edizione che sarebbero difficile non definire a loro modo «politici». Troppe volte preda dell'irrigidimento ideologico, della pretenziosità pedagogica, della petulanza didascalica, il rapporto tra arte e politica ha talora felicemente, più spesso tragicamente attraversato tutto il Novecento. Lasciamo perdere qui l'orizzonte più intrinsecamente teorico secondo il quale (giustamente) un'autentica opera d'arte è sempre in sé «politica» in quanto profila un universo di possibili trainati al di là dell'esistente. Concentriamoci invece sulla situazione attuale.
Il filo rosso di una stagione
Gli artisti latino-americani e quelli dell'Est europeo, l'olandese Marc Bijl e lo svizzero Gianni Motti, la palestinese Mona Hatoum, il kosovaro Sislej Xhafa, le statunitensi Guerrilla Girls, sono solo pochi esempi di una panorama che vede da qualche anno la ripresa del riferimento etico-politico nell'opera d'arte. Che si fa veicolo più o meno aggressivo del pensiero indisciplinato, di azioni di disturbo sociale e di protesta contro la globalizzazione liberista, nell'ormai acquisita (almeno si spera) consapevolezza che essa è perfettamente in grado di incorporare e rivendere la propria stessa critica debitamente spettacolarizzata. E pure è significativo che la cover story del numero della rivista «Artforum» dello scorso settembre sia dedicata alla political season e includa un lungo articolo del filosofo e critico d'arte Arthur Danto, dove si ricostruisce il filo rosso che percorre questa «stagione» dagli anni Cinquanta fino all'utilizzo da parte degli artisti delle immagini del pestaggio di Rodney King e di Abu Ghraib.
Questo, in estrema sintesi, il panorama attuale, che si incrocia con quello dell'«arte pubblica» (di cui ci siamo occupati il 4 febbraio). Sospetto e tendenzioso è l'atteggiamento di chi legge il presente unicamente alla luce del passato per dimostrare che non c'è mai nulla di nuovo; ma forse è ancor più sospetto l'atteggiamento di chi appiattisce l'attualità su se stessa tanto da farle perdere ogni spessore storico e il debito di memoria di cui deve farsi carico.
La lezione del nemico
Questo per dire che il rilievo etico e pratico-politico assunto da molti episodi artistici odierni ci rimanda dritti agli anni Settanta. Clima, contesti, condizioni diverse: certo. Ma sarebbe scontato, ovvio, banale arrendersi all'evidenza del tempo che passa e naturalmente trasforma. Più produttivo sembra, invece, muoversi in controtendenza rispetto al triviale riscontro della diversità dei contesti storici. Lasciamo perdere il prevedibile rilievo secondo cui negli anni Settanta gli artisti erano «ideologizzati» e oggi sarebbero liberi da questo fardello, perché ormai si è capito che quello sulla «fine delle ideologie» è appunto lo slogan dell'ideologia rimasta vincente. Più pregnante la constatazione, indubitabilmente corretta, sull'utilizzo odierno, da parte degli artisti, degli stessi strumenti massmediali di cui si serve la società dello spettacolo mercificato. Ma negli anni Settanta - anche se non c'era ancora Internet e il computer non era diffuso - l'atteggiamento era identico, e chi lavorava ad esempio con il video (le videoinstallazioni nacquero allora) compiva una precisa scelta politica nel piegare a fini non previsti e insubordinati un medium creato per l'intrattenimento. Che l'intimità con il nemico fornisca forze per delegittimarlo non è scoperta di oggi. Nelle opere, nelle performances a forte attinenza «politica», la componente più tradizionalmente artistico-formale (in termini aristotelici ma qui perspicui: poietica) si indebolisce a favore dell'innesco «creativo» di rapporti interpersonali, della sollecitazione di processi di presa di coscienza sociale.
È precisamente ciò che già avveniva nell'arte internazionale di trenta e più anni fa: il linguaggio, i codici stilistici, le forme erano un mezzo per un fine (la «liberazione» dei rapporti umani) che lo superava. E il Living Theatre o l'Odin di Grotowsky non erano forse, oltre che compagnie teatrali, «comunità nascenti» di donne e uomini per le quali l'arte era solo uno dei modi per risvegliare le coscienze a se stesse? Oggi sono sulla scena molti gruppi e collettivi di artisti - dai significans tedeschi ai Petra avenue svedesi, agli italiani stalker/on e out/da: dialogano, coordinano, interagiscono volta per volta con diversi gruppi di cittadini mobilitati su obbiettivi sociali (recuperi urbani, qualità della vita metropolitana), adottando una pluralità di strategie comunicative condivise e responsabili allo scopo di trasformare l'esistente. Ebbene, scontate di nuovo le ovvie differenze, bisogna avere il coraggio di dire che in questi casi emerge un ruolo che ricorda molto da vicino quello giocato (in maniera più provinciale, più naïf) dagli artisti che affiancavano le sinistre (Pci e gruppi extraparlamentari) ai tempi - metà anni Settanta - della loro affermazione negli enti locali e del conseguente decentramento culturale, autoassegnandosi compiti di animazione, socializzazione, partecipazione contro la già allora insorgente frammentazione sociale. Nell'ultimo segmento di questa stagione, una mostra su tre non poteva non toccare il rapporto tra arte e politica: da Beuys a Hans Haacke (del quale compare una lunga intervista nel già citato numero di «Artforum»), da fluxus a molti artisti concettuali fino al teatro sperimentale-politico. Non è malevola questa brevissima rievocazione, non ho lo scopo di sotterrare il nuovo nel vecchio. Ne ha un altro: l'arte moderno-contemporanea è come Proteo, può assumere ogni forma, è in perpetua trasformazione, fa continuamente esodo da se stessa. Ciò significa che il rilievo politico, la responsabilità etica dell'opera d'arte possono benissimo essere interpretati anche come stili, strategie, atteggiamenti rituali che appunto in quanto tali possono venire ripresi, citati, ri-montati in condizioni diverse. L'attuale situazione può essere letta anche sotto questa luce: non maliziosa né malfidata, ma culturalmente avvertita. Ma allora qual è il problema davvero di fondo, quello che ci consentirà di fare un passaggio che è quasi un mutamento di rotta, un ribaltamento del tavolo da gioco? «Non bisogna dipingere l'assassinio di Cesare. Bisogna essere Bruto», scriveva Blanchot. Attingere alla dimensione politica sperando di incidere sul reale, è stato uno dei tentativi attraverso i quali l'arte ha preteso di uccidere Cesare continuando a «dipingere», cioè permanendo nel cerchio magico dell'immaginario invece di accedere direttamente - ma perdendo se stessa, la propria identità simbolica - al movimento del vero. Per fare questo, però, ci vuole un popolo. E quale più grande tragedia ha vissuto nel Novecento l'arte d'avanguardia, problematica, l'arte interrogante se non quella di una frattura sociale e culturale irricomponibile?
«Noi artisti», scriveva Klee negli anni Trenta all'epoca del Bauhaus, «non abbiamo il sostegno di un popolo... ma un popolo noi lo cerchiamo». E Carmelo Bene, quarant'anni dopo: «Io faccio del teatro popolare, etnico. Ma è il popolo che manca». Qui sta il punto. Gli artisti usano i mezzi di riproduzione tecnologica avanzata dell'immagine; ma quei mezzi afferiscono di per se stessi ad un pubblico di massa (anche se composto di quante «tribù» o «nicchie» si voglia), si definiscono in relazione a quello che Klee e Bene chiamavano un popolo. Perché il rilievo della prassi politica, della responsabilità etica sia e permanga autentico ed efficace, l'arte dovrà dunque rinunciare a se stessa, mutare tanto profondamente il suo statuto, la sua fenomenologia, da non riconoscersi più come tale?
Se estendiamo l'accezione meramente artistica dell'immagine a quella più estesamente massmediale e «antropologica», allora vedremo indebolirsi i suoi tratti di innovatività, il suo carattere istitutivo, cioè di matrice di altre immagini, artistiche e non, e prevalere invece le sua capacità di comunicazione diffusa, non criptata ed elitaria (come spesso è quella dell'arte contemporanea). E soprattutto vedremo intensificarsi lo statuto collettivo, testimoniale e veridico dell'immagine, il suo carattere storico-indiziale.
Chissà, forse è questo l'orizzonte che Benjamin traguardava nel 1936 quando - a conclusione del suo celeberrimo saggio sull'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica - auspicava una politicizzazione dell'arte da opporre all'estetizzazione della politica praticata allora dai regimi nazifascisti e oggi dalle democrazie dello spettacolo.
E qui si spalancano scenari mobili, frastagliati eppure a loro modo coerenti. I temi dell'archivio e della testimonianza sono al centro dell'attuale riflessione filosofica, da Derrida a Rancière ad Agamben. Il sociologo Luc Boltansky (fratello dell'artista Christian) nello Spettacolo del dolore (ed. Cortina) analizza con grande finezza l'incrocio mediatico - e spesso perverso - tra morale umanitaria e politica. Il detonatore di Abu Ghraib e delle foto digitali che da quell'inferno sono uscite è all'inizio del percorso dell'ottimo e informatissimo L'occhio che uccide (ed. Meltemi) di Giovanni Fiorentino, sui rapporti - sospesi tra censura e flusso globale - tra l'immagine fotografica e la guerra.
Le prove visive dei campi di sterminio sono al centro dell'ultimo libro di Georges Didi-Huberman Immagini malgrado tutto (ed. Cortina) in cui la potenzialità storico-conoscitiva e politica dell'immagine collega le quattro terribili istantanee dello sterminio in atto - scattate a rischio della vita da un componente di un Sonderkammando di Auschwitz - a Histoiré(s) du cinema, l'ultima fatica di Jean Luc Godard. E ancora: l'interstizialità decostruttiva di un programma come «Blob» o le foto scattate con i cellulari e trasmesse in tempo quasi-reale dagli stessi testimoni oculari degli attentati londinesi, subito rilanciate da innumerevoli siti come Wikipedia, che le ha archiviate il giorno stesso alla voce «7 July London Bombings», non ruotano forse attorno al medesimo interrogativo? E cioè: non tanto che rapporto abbiamo noi con l'immagine (come ne fossimo fuori), bensì in che modo e quanto profondamente l'immagine ridefinisce noi attraverso il suo carattere inventivo e storico, creativo e indiziale, costruito e testimoniale. Vale a dire con un carattere che va al di là dell'opera d'arte tradizionalmente intesa. Sicuramente è all'interno di questa rimotivazione etico-politica dell'immagine o meglio - nel caso specifico - dell'immagine-sequenza, che va inserito il formidabile successo ottenuto negli ultimi anni dal genere documentario o, si potrebbe dire, dal cinema no fiction.
L'inaggirabile materialità del reale
Il lavoro di Michael Moore potrà anche apparire per certi versi sopravvalutato, ma vorrà pur dire qualcosa in termini di comunicazione critica e accoglimento sociale delle sue istanze il fatto che Fahrenheit 9/11 ha incassato negli Stati Uniti solo nelle sale - al netto quindi della vendita dei dvd - ben 119 milioni di dollari. E quello di Moore è tutt'altro che un caso isolato. Morgan Spurlock - novello body artista - per realizzare il suo Supersize me si è ingozzato come un'oca francese di coca-cola, patatine fritte e mega-hamburger Mc Donald's fin quasi al collasso ipercalorico. The Corporation è un'analisi gelidamente «scientifica» dello strapotere e dei crimini delle multinazionali. E molti altri esempi si potrebbero fare.
Le spiegazioni del successo di questo genere di opere sono numerose. Non ultima, la rinnovata messa a tema dell'inaggirabile materialità del reale dopo anni in cui (pur con indubbie ragioni) se ne era teorizzato l'assottigliamento fino all'evaporazione nel mondo mediatico (con «parole d'ordine» del tipo la baudrillardiana «la guerre du Golfe n'a pas eu lieu»). Ciò tuttavia non significa (basta vedere solo uno di questi film no fiction per rendersene conto) un ritorno alla credenza ingenua nell'esposizione immediata di una realtà che parlerebbe da sola (il vecchio «cinema-verità»). Al contrario, è evidente la consapevolezza della medialità linguistica del prodotto e dell'artificialità del punto di vista - rappresentato in prima istanza dal montaggio - che rende intelligibile il reale. La verità è sempre una costruzione, mai un semplice riscontro. Qui, si tratta di una realtà-verità «costruita» testimonialmente e non finzionalmente.
Il feticcio della comunicazione
E dunque? È forse arrivato il tempo in cui l'arte sta compiutamente assumendo quel «carattere di passato» che Hegel profetizzava quasi due secoli fa? Se così accadesse, e se la posta in palio fosse l'intelligibilità creativa del presente, nessun rimpianto. Ma giunti a questa soglia estrema, ci accorgiamo che resta esente da critica e tacitamente presupposto il concetto (o il feticcio?) di comunicazione. Certo: si cerca di comunicare in maniera radicalmente diversa dalle forme dell'intrattenimento alienante di massa. Ma comunque di comunicare, funzione costitutiva dell'umano. «I tiranni odierni non hanno nessuna paura di coloro che parlano... È molto più temibile il silenzio» scriveva Jünger in Oltre la linea. Sarebbe questa, per chi fosse disposto a spingersi «oltre la linea», la paradossale risorsa, la forma estrema e ancora ignota di delegittimazione del potere?
il manifesto
Una ricognizione del panorama attuale dove il carattere di testimonianza intrinseco a tante espressioni artistiche rende evidente la ripresa del riferimento etico-politico. Trent'anni dopo molto è cambiato ma altrettanti elementi ci riportano alla stagione della inderogabilità dell'impegno
MASSIMO CARBONI
Chi si aggira per le sale e gli ambienti della Biennale veneziana ancora in corso, non può non accorgersene. Una voce registrata scandisce regolamenti e cifre della mostra: dalle norme di accesso ai prezzi del bar fino al compenso del presidente Croff. È un intervento (dello spagnolo Santiago Serra) tra i tanti di questa edizione che sarebbero difficile non definire a loro modo «politici». Troppe volte preda dell'irrigidimento ideologico, della pretenziosità pedagogica, della petulanza didascalica, il rapporto tra arte e politica ha talora felicemente, più spesso tragicamente attraversato tutto il Novecento. Lasciamo perdere qui l'orizzonte più intrinsecamente teorico secondo il quale (giustamente) un'autentica opera d'arte è sempre in sé «politica» in quanto profila un universo di possibili trainati al di là dell'esistente. Concentriamoci invece sulla situazione attuale.
Il filo rosso di una stagione
Gli artisti latino-americani e quelli dell'Est europeo, l'olandese Marc Bijl e lo svizzero Gianni Motti, la palestinese Mona Hatoum, il kosovaro Sislej Xhafa, le statunitensi Guerrilla Girls, sono solo pochi esempi di una panorama che vede da qualche anno la ripresa del riferimento etico-politico nell'opera d'arte. Che si fa veicolo più o meno aggressivo del pensiero indisciplinato, di azioni di disturbo sociale e di protesta contro la globalizzazione liberista, nell'ormai acquisita (almeno si spera) consapevolezza che essa è perfettamente in grado di incorporare e rivendere la propria stessa critica debitamente spettacolarizzata. E pure è significativo che la cover story del numero della rivista «Artforum» dello scorso settembre sia dedicata alla political season e includa un lungo articolo del filosofo e critico d'arte Arthur Danto, dove si ricostruisce il filo rosso che percorre questa «stagione» dagli anni Cinquanta fino all'utilizzo da parte degli artisti delle immagini del pestaggio di Rodney King e di Abu Ghraib.
Questo, in estrema sintesi, il panorama attuale, che si incrocia con quello dell'«arte pubblica» (di cui ci siamo occupati il 4 febbraio). Sospetto e tendenzioso è l'atteggiamento di chi legge il presente unicamente alla luce del passato per dimostrare che non c'è mai nulla di nuovo; ma forse è ancor più sospetto l'atteggiamento di chi appiattisce l'attualità su se stessa tanto da farle perdere ogni spessore storico e il debito di memoria di cui deve farsi carico.
La lezione del nemico
Questo per dire che il rilievo etico e pratico-politico assunto da molti episodi artistici odierni ci rimanda dritti agli anni Settanta. Clima, contesti, condizioni diverse: certo. Ma sarebbe scontato, ovvio, banale arrendersi all'evidenza del tempo che passa e naturalmente trasforma. Più produttivo sembra, invece, muoversi in controtendenza rispetto al triviale riscontro della diversità dei contesti storici. Lasciamo perdere il prevedibile rilievo secondo cui negli anni Settanta gli artisti erano «ideologizzati» e oggi sarebbero liberi da questo fardello, perché ormai si è capito che quello sulla «fine delle ideologie» è appunto lo slogan dell'ideologia rimasta vincente. Più pregnante la constatazione, indubitabilmente corretta, sull'utilizzo odierno, da parte degli artisti, degli stessi strumenti massmediali di cui si serve la società dello spettacolo mercificato. Ma negli anni Settanta - anche se non c'era ancora Internet e il computer non era diffuso - l'atteggiamento era identico, e chi lavorava ad esempio con il video (le videoinstallazioni nacquero allora) compiva una precisa scelta politica nel piegare a fini non previsti e insubordinati un medium creato per l'intrattenimento. Che l'intimità con il nemico fornisca forze per delegittimarlo non è scoperta di oggi. Nelle opere, nelle performances a forte attinenza «politica», la componente più tradizionalmente artistico-formale (in termini aristotelici ma qui perspicui: poietica) si indebolisce a favore dell'innesco «creativo» di rapporti interpersonali, della sollecitazione di processi di presa di coscienza sociale.
È precisamente ciò che già avveniva nell'arte internazionale di trenta e più anni fa: il linguaggio, i codici stilistici, le forme erano un mezzo per un fine (la «liberazione» dei rapporti umani) che lo superava. E il Living Theatre o l'Odin di Grotowsky non erano forse, oltre che compagnie teatrali, «comunità nascenti» di donne e uomini per le quali l'arte era solo uno dei modi per risvegliare le coscienze a se stesse? Oggi sono sulla scena molti gruppi e collettivi di artisti - dai significans tedeschi ai Petra avenue svedesi, agli italiani stalker/on e out/da: dialogano, coordinano, interagiscono volta per volta con diversi gruppi di cittadini mobilitati su obbiettivi sociali (recuperi urbani, qualità della vita metropolitana), adottando una pluralità di strategie comunicative condivise e responsabili allo scopo di trasformare l'esistente. Ebbene, scontate di nuovo le ovvie differenze, bisogna avere il coraggio di dire che in questi casi emerge un ruolo che ricorda molto da vicino quello giocato (in maniera più provinciale, più naïf) dagli artisti che affiancavano le sinistre (Pci e gruppi extraparlamentari) ai tempi - metà anni Settanta - della loro affermazione negli enti locali e del conseguente decentramento culturale, autoassegnandosi compiti di animazione, socializzazione, partecipazione contro la già allora insorgente frammentazione sociale. Nell'ultimo segmento di questa stagione, una mostra su tre non poteva non toccare il rapporto tra arte e politica: da Beuys a Hans Haacke (del quale compare una lunga intervista nel già citato numero di «Artforum»), da fluxus a molti artisti concettuali fino al teatro sperimentale-politico. Non è malevola questa brevissima rievocazione, non ho lo scopo di sotterrare il nuovo nel vecchio. Ne ha un altro: l'arte moderno-contemporanea è come Proteo, può assumere ogni forma, è in perpetua trasformazione, fa continuamente esodo da se stessa. Ciò significa che il rilievo politico, la responsabilità etica dell'opera d'arte possono benissimo essere interpretati anche come stili, strategie, atteggiamenti rituali che appunto in quanto tali possono venire ripresi, citati, ri-montati in condizioni diverse. L'attuale situazione può essere letta anche sotto questa luce: non maliziosa né malfidata, ma culturalmente avvertita. Ma allora qual è il problema davvero di fondo, quello che ci consentirà di fare un passaggio che è quasi un mutamento di rotta, un ribaltamento del tavolo da gioco? «Non bisogna dipingere l'assassinio di Cesare. Bisogna essere Bruto», scriveva Blanchot. Attingere alla dimensione politica sperando di incidere sul reale, è stato uno dei tentativi attraverso i quali l'arte ha preteso di uccidere Cesare continuando a «dipingere», cioè permanendo nel cerchio magico dell'immaginario invece di accedere direttamente - ma perdendo se stessa, la propria identità simbolica - al movimento del vero. Per fare questo, però, ci vuole un popolo. E quale più grande tragedia ha vissuto nel Novecento l'arte d'avanguardia, problematica, l'arte interrogante se non quella di una frattura sociale e culturale irricomponibile?
«Noi artisti», scriveva Klee negli anni Trenta all'epoca del Bauhaus, «non abbiamo il sostegno di un popolo... ma un popolo noi lo cerchiamo». E Carmelo Bene, quarant'anni dopo: «Io faccio del teatro popolare, etnico. Ma è il popolo che manca». Qui sta il punto. Gli artisti usano i mezzi di riproduzione tecnologica avanzata dell'immagine; ma quei mezzi afferiscono di per se stessi ad un pubblico di massa (anche se composto di quante «tribù» o «nicchie» si voglia), si definiscono in relazione a quello che Klee e Bene chiamavano un popolo. Perché il rilievo della prassi politica, della responsabilità etica sia e permanga autentico ed efficace, l'arte dovrà dunque rinunciare a se stessa, mutare tanto profondamente il suo statuto, la sua fenomenologia, da non riconoscersi più come tale?
Se estendiamo l'accezione meramente artistica dell'immagine a quella più estesamente massmediale e «antropologica», allora vedremo indebolirsi i suoi tratti di innovatività, il suo carattere istitutivo, cioè di matrice di altre immagini, artistiche e non, e prevalere invece le sua capacità di comunicazione diffusa, non criptata ed elitaria (come spesso è quella dell'arte contemporanea). E soprattutto vedremo intensificarsi lo statuto collettivo, testimoniale e veridico dell'immagine, il suo carattere storico-indiziale.
Chissà, forse è questo l'orizzonte che Benjamin traguardava nel 1936 quando - a conclusione del suo celeberrimo saggio sull'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica - auspicava una politicizzazione dell'arte da opporre all'estetizzazione della politica praticata allora dai regimi nazifascisti e oggi dalle democrazie dello spettacolo.
E qui si spalancano scenari mobili, frastagliati eppure a loro modo coerenti. I temi dell'archivio e della testimonianza sono al centro dell'attuale riflessione filosofica, da Derrida a Rancière ad Agamben. Il sociologo Luc Boltansky (fratello dell'artista Christian) nello Spettacolo del dolore (ed. Cortina) analizza con grande finezza l'incrocio mediatico - e spesso perverso - tra morale umanitaria e politica. Il detonatore di Abu Ghraib e delle foto digitali che da quell'inferno sono uscite è all'inizio del percorso dell'ottimo e informatissimo L'occhio che uccide (ed. Meltemi) di Giovanni Fiorentino, sui rapporti - sospesi tra censura e flusso globale - tra l'immagine fotografica e la guerra.
Le prove visive dei campi di sterminio sono al centro dell'ultimo libro di Georges Didi-Huberman Immagini malgrado tutto (ed. Cortina) in cui la potenzialità storico-conoscitiva e politica dell'immagine collega le quattro terribili istantanee dello sterminio in atto - scattate a rischio della vita da un componente di un Sonderkammando di Auschwitz - a Histoiré(s) du cinema, l'ultima fatica di Jean Luc Godard. E ancora: l'interstizialità decostruttiva di un programma come «Blob» o le foto scattate con i cellulari e trasmesse in tempo quasi-reale dagli stessi testimoni oculari degli attentati londinesi, subito rilanciate da innumerevoli siti come Wikipedia, che le ha archiviate il giorno stesso alla voce «7 July London Bombings», non ruotano forse attorno al medesimo interrogativo? E cioè: non tanto che rapporto abbiamo noi con l'immagine (come ne fossimo fuori), bensì in che modo e quanto profondamente l'immagine ridefinisce noi attraverso il suo carattere inventivo e storico, creativo e indiziale, costruito e testimoniale. Vale a dire con un carattere che va al di là dell'opera d'arte tradizionalmente intesa. Sicuramente è all'interno di questa rimotivazione etico-politica dell'immagine o meglio - nel caso specifico - dell'immagine-sequenza, che va inserito il formidabile successo ottenuto negli ultimi anni dal genere documentario o, si potrebbe dire, dal cinema no fiction.
L'inaggirabile materialità del reale
Il lavoro di Michael Moore potrà anche apparire per certi versi sopravvalutato, ma vorrà pur dire qualcosa in termini di comunicazione critica e accoglimento sociale delle sue istanze il fatto che Fahrenheit 9/11 ha incassato negli Stati Uniti solo nelle sale - al netto quindi della vendita dei dvd - ben 119 milioni di dollari. E quello di Moore è tutt'altro che un caso isolato. Morgan Spurlock - novello body artista - per realizzare il suo Supersize me si è ingozzato come un'oca francese di coca-cola, patatine fritte e mega-hamburger Mc Donald's fin quasi al collasso ipercalorico. The Corporation è un'analisi gelidamente «scientifica» dello strapotere e dei crimini delle multinazionali. E molti altri esempi si potrebbero fare.
Le spiegazioni del successo di questo genere di opere sono numerose. Non ultima, la rinnovata messa a tema dell'inaggirabile materialità del reale dopo anni in cui (pur con indubbie ragioni) se ne era teorizzato l'assottigliamento fino all'evaporazione nel mondo mediatico (con «parole d'ordine» del tipo la baudrillardiana «la guerre du Golfe n'a pas eu lieu»). Ciò tuttavia non significa (basta vedere solo uno di questi film no fiction per rendersene conto) un ritorno alla credenza ingenua nell'esposizione immediata di una realtà che parlerebbe da sola (il vecchio «cinema-verità»). Al contrario, è evidente la consapevolezza della medialità linguistica del prodotto e dell'artificialità del punto di vista - rappresentato in prima istanza dal montaggio - che rende intelligibile il reale. La verità è sempre una costruzione, mai un semplice riscontro. Qui, si tratta di una realtà-verità «costruita» testimonialmente e non finzionalmente.
Il feticcio della comunicazione
E dunque? È forse arrivato il tempo in cui l'arte sta compiutamente assumendo quel «carattere di passato» che Hegel profetizzava quasi due secoli fa? Se così accadesse, e se la posta in palio fosse l'intelligibilità creativa del presente, nessun rimpianto. Ma giunti a questa soglia estrema, ci accorgiamo che resta esente da critica e tacitamente presupposto il concetto (o il feticcio?) di comunicazione. Certo: si cerca di comunicare in maniera radicalmente diversa dalle forme dell'intrattenimento alienante di massa. Ma comunque di comunicare, funzione costitutiva dell'umano. «I tiranni odierni non hanno nessuna paura di coloro che parlano... È molto più temibile il silenzio» scriveva Jünger in Oltre la linea. Sarebbe questa, per chi fosse disposto a spingersi «oltre la linea», la paradossale risorsa, la forma estrema e ancora ignota di delegittimazione del potere?
il manifesto
14.7.05
TRAME E REALTA’
Eco: l’inutile caccia al Grande Vecchio
di Gianni Riotta
Lo sapevate? Qualche minuto prima della strage di Londra, due agenti di Scotland Yard si sono recati presso l’ambasciata di Israele e hanno avvertito l’ex primo ministro di Gerusalemme Netanyahu, che si trovava là in riunione, di non uscire in strada. Non vi basta come teoria del complotto? Bene, allora sentite questa: come mai l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani si trovava a Londra il 7 luglio, come a Manhattan l’11 settembre? Tutte le prove del complotto sul sito www.ctrl.org , archivio di chi vede dietro ogni figura un’ombra e dietro ogni luce un buio: i complottisti. «L’umanità non resiste, un complotto per ogni evento. Ha paura di non spiegarsi quel che accade: meglio accettare che sottoterra ci sia una regia occulta. L’angoscia scatena la mania del complotto che finisce per tranquillizzarci»: in vacanza alla terme, di ritorno dal viaggio negli Usa dopo la traduzione americana del romanzo «La misteriosa fiamma della regina Loana», lo scrittore Umberto Eco ascolta, senza stupirsi, le ultime fole sulla politica segreta. Alla sindrome del complotto ha dedicato il suo secondo romanzo, «Il Pendolo di Foucault», storia dei tre redattori Belbo, Casaubon e Diotallevi, che a furia di inventare una fantomatica sedizione la vedono, tragicamente, prendere forma e forza. Concepito negli anni di piombo del terrorismo italiano, pubblicato nel 1988, il «Pendolo» dovrebbe fare giustizia di ogni tentazione dietrologica: «ma è inutile illudersi, mi indicano come il padre della reazione contro i complotti e invece è stato già il filosofo Karl Popper nel suo saggio "Congetture e confutazioni" tradotto dal Mulino, a riflettere sul bisogno che sembra innato nell’umanità di spiegarsi la realtà, non con la ragione e quel che abbiamo sotto gli occhi, ma con un segreto capro espiatorio. Tutto inutile».
La nuova stagione della «piovra nascosta» connette la strage di Londra alla presenza di un ex premier israeliano e un ex sindaco newyorkese: non sorridete, ancora oggi circola su Internet, ed è ripetuta ovunque, la storia che «nessun ebreo è morto l’11 settembre alle Torri Gemelle, perché lo spionaggio israeliano, il Mossad, avvisò tutti, uno per uno» (caddero invece almeno 300 ebrei, uomini e donne). Forse anche per questo il primo ministro britannico Tony Blair ha detto no alla commissione di inchiesta: perché cercare segreti, quando l’evidenza e la trasparenza sono l’antidoto migliore contro terrore e complicità?
«Provo a spiegare, da anni, che i soli complotti pericolosi sono quelli che diventano pubblici. Se un gruppo si affanna a tramare in segreto, e non veniamo mai a sapere di che cosa si occupa, è solo perché ha fallito, clamorosamente. I complotti che riescono affiorano dalla storia, prepotenti. Il golpe in Cile, i colpi di Stato in genere sono, sì, complotti, ma la loro importanza sta nell’essere arrivati nei libri di storia. Mi verrebbe da dire, occupiamoci di quel che conta, delle nostre vicende concrete, anziché inseguire fantasmi. Sono i dittatori che agitano spettri per distrarre l’opinione pubblica. I Protocolli dei Savi di Sion, il falso libello usato per calunniare gli ebrei, è stato venduto per decenni nelle bancarelle più sordide, ora lo si trova su Internet. Un bravissimo disegnatore l’ha denunciato in un suo libro a fumetti, si chiamava Will Eisner, è da poco scomparso e adesso il suo libro appare in italiano. L’odio seminato dai Protocolli è durato per decenni, eppure non si riesce mai a cancellare quelle falsità».
Come nascono le favole dei complotti? Come si propaga una storia come quella di Giuliani regista della strage, degli ebrei evacuati l’11 settembre? Eco usa il «teorema dell’ingorgo» per chiarire la genesi di tante falsità: «Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, una macchina dietro l’altra, non ci si muove. Gli automobilisti cominciano a imprecare, colpa del ministro, colpa delle riparazioni non fatte, colpa dei Tir, colpa a tutti pur di non ammettere la verità, la "colpa" non è di nessuno, ci sono migliaia di auto in coda. Se gli automobilisti fossero rimasti in casa, niente ingorgo». «L’ingorgo mediatico», sfruttato dal terrorismo, colpisce dunque una debolezza tipica del nostro modo di reagire: «In Scozia era riunito il G-8. Doveva discutere di Africa, di aiuti ai Paesi poveri, i leader, per una volta, si davano da fare contro la miseria. Tutto cancellato dalle coscienze e dalle prime pagine: la strage domina. Non dovrebbe essere difficile analizzare che dunque ai terroristi dell’Africa non importa proprio nulla. Eppure non leggerai nessuna interpretazione in questo senso nei siti dei complotti, si va sempre in cerca del capro espiatorio».
«Il primo libro sulle trame è l’Iliade. Anziché spiegare la guerra tra Achei e Troiani con storiche ragioni, la rimanda alla rissa degli dei, colpa loro! Poi la colpa è stata dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri Templari, i gesuiti attribuiscono la Rivoluzione francese a una manovra segreta dei massoni. Ricordiamoci del terrorismo italiano. Nacque la figura del Grande Vecchio perché, così si diceva, un pugno di trentenni inesperti non potevano certo progettare il rapimento e la morte di Aldo Moro. Bene, quando li hanno presi ci siamo accorti che erano proprio trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà che pretende di illuminare. Se a 30 anni si può governare o dirigere un’azienda, perché non si dovrebbero poter condurre azioni clandestine?».
Blair ha provato a mettere i suoi connazionali al riparo dall’infinito stillicidio di rivelazioni e smentite, denunce e ritrattazioni, gole profonde e verità superficiali, che si trasformano presto in paludi: ma la passione per le teorie della cospirazione non è solo italiana: «Ho presentato il romanzo a Dallas e mi hanno portato a vedere il museo, allestito nel vecchio magazzino dei libri dove Oswald si appostò per colpire il presidente Kennedy. Ma c’è anche un altro museo, il Museo della cospirazione, che raccoglie tutti i reperti delle varie, macchinose teorie per spiegare la morte di John Kennedy».
«Scrivendo "il Pendolo" ho usato la letteratura complottistica, fino alla peggiore spazzatura, per esorcizzarla. E invece è arrivato Dan Brown, con il "Codice da Vinci", ha preso alla lettera quei libelli e tantissimi lettori, in America, mi chiedono se davvero l’intero corpus di opere e dottrine della Chiesa cattolica è una trama»: Eco ha sperato di tosare i complotti con il rasoio di Ockam della ragione e quelli sono rispuntati insolenti, onnipresenti. «Feuerbach, e gliene lascio l’intera responsabilità, attribuisce perfino la religione a un complotto, non sappiamo spiegarci la natura, la vita e la morte e ci creiamo gli dei. Quindi se devo giudicare quel che sento sulla posizione di Tony Blair mi viene da dire che ha ragione a ritornare al G-8, che faticava su soluzioni concrete ai problemi del nostro mondo.
Così se ne esce, quella è la strada giusta. Altrimenti ci capiterà di non inseguire più Osama Bin Laden, troppo facile: un giorno leggeremo di un Grande Vecchio dietro Osama, il vero responsabile degli attentati di Al Qaeda, e lo braccheremo invano e così via all’infinito. Lo studioso Norman Cohn nel suo saggio "Licenza di genocidio" traccia la tragica parabola dai Protocolli dei Savi di Sion all’Olocausto. I finti complotti spesso ispirano verissime carneficine». Gli analisti politici diranno se la scelta di Tony Blair, niente caccia alle streghe, ma concentrarsi sulla lotta al terrorismo e alle cause del terrorismo, è stata opportuna. Mentre Eco torna alla sua stazione termale, la riflessione è quella, amara, già seguita all’11 settembre 2001. L’erbaccia dei falsi complotti è tenace, come la gramigna: denunciata in questo articolo la fola di Netanyahu e Giuliani rimbalzerà su mille siti corroborata malgrado tutto, «L’ha scritto il Corriere !», «Eco non lo ha smentito!», «Il gruppo di studio Bildeberg guida il mondo!», «Riotta è stato a Bildeberg!», «Eco è appena tornato dall’America!», «Riotta ha intervistato Giuliani e Netanyahu in America!» e il gioco, perverso, è fatto. «Gli uomini» dice il Vangelo di Giovanni «preferirono le tenebre alla luce».
corriere.it
griotta@corriere.it
di Gianni Riotta
Lo sapevate? Qualche minuto prima della strage di Londra, due agenti di Scotland Yard si sono recati presso l’ambasciata di Israele e hanno avvertito l’ex primo ministro di Gerusalemme Netanyahu, che si trovava là in riunione, di non uscire in strada. Non vi basta come teoria del complotto? Bene, allora sentite questa: come mai l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani si trovava a Londra il 7 luglio, come a Manhattan l’11 settembre? Tutte le prove del complotto sul sito www.ctrl.org , archivio di chi vede dietro ogni figura un’ombra e dietro ogni luce un buio: i complottisti. «L’umanità non resiste, un complotto per ogni evento. Ha paura di non spiegarsi quel che accade: meglio accettare che sottoterra ci sia una regia occulta. L’angoscia scatena la mania del complotto che finisce per tranquillizzarci»: in vacanza alla terme, di ritorno dal viaggio negli Usa dopo la traduzione americana del romanzo «La misteriosa fiamma della regina Loana», lo scrittore Umberto Eco ascolta, senza stupirsi, le ultime fole sulla politica segreta. Alla sindrome del complotto ha dedicato il suo secondo romanzo, «Il Pendolo di Foucault», storia dei tre redattori Belbo, Casaubon e Diotallevi, che a furia di inventare una fantomatica sedizione la vedono, tragicamente, prendere forma e forza. Concepito negli anni di piombo del terrorismo italiano, pubblicato nel 1988, il «Pendolo» dovrebbe fare giustizia di ogni tentazione dietrologica: «ma è inutile illudersi, mi indicano come il padre della reazione contro i complotti e invece è stato già il filosofo Karl Popper nel suo saggio "Congetture e confutazioni" tradotto dal Mulino, a riflettere sul bisogno che sembra innato nell’umanità di spiegarsi la realtà, non con la ragione e quel che abbiamo sotto gli occhi, ma con un segreto capro espiatorio. Tutto inutile».
La nuova stagione della «piovra nascosta» connette la strage di Londra alla presenza di un ex premier israeliano e un ex sindaco newyorkese: non sorridete, ancora oggi circola su Internet, ed è ripetuta ovunque, la storia che «nessun ebreo è morto l’11 settembre alle Torri Gemelle, perché lo spionaggio israeliano, il Mossad, avvisò tutti, uno per uno» (caddero invece almeno 300 ebrei, uomini e donne). Forse anche per questo il primo ministro britannico Tony Blair ha detto no alla commissione di inchiesta: perché cercare segreti, quando l’evidenza e la trasparenza sono l’antidoto migliore contro terrore e complicità?
«Provo a spiegare, da anni, che i soli complotti pericolosi sono quelli che diventano pubblici. Se un gruppo si affanna a tramare in segreto, e non veniamo mai a sapere di che cosa si occupa, è solo perché ha fallito, clamorosamente. I complotti che riescono affiorano dalla storia, prepotenti. Il golpe in Cile, i colpi di Stato in genere sono, sì, complotti, ma la loro importanza sta nell’essere arrivati nei libri di storia. Mi verrebbe da dire, occupiamoci di quel che conta, delle nostre vicende concrete, anziché inseguire fantasmi. Sono i dittatori che agitano spettri per distrarre l’opinione pubblica. I Protocolli dei Savi di Sion, il falso libello usato per calunniare gli ebrei, è stato venduto per decenni nelle bancarelle più sordide, ora lo si trova su Internet. Un bravissimo disegnatore l’ha denunciato in un suo libro a fumetti, si chiamava Will Eisner, è da poco scomparso e adesso il suo libro appare in italiano. L’odio seminato dai Protocolli è durato per decenni, eppure non si riesce mai a cancellare quelle falsità».
Come nascono le favole dei complotti? Come si propaga una storia come quella di Giuliani regista della strage, degli ebrei evacuati l’11 settembre? Eco usa il «teorema dell’ingorgo» per chiarire la genesi di tante falsità: «Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, una macchina dietro l’altra, non ci si muove. Gli automobilisti cominciano a imprecare, colpa del ministro, colpa delle riparazioni non fatte, colpa dei Tir, colpa a tutti pur di non ammettere la verità, la "colpa" non è di nessuno, ci sono migliaia di auto in coda. Se gli automobilisti fossero rimasti in casa, niente ingorgo». «L’ingorgo mediatico», sfruttato dal terrorismo, colpisce dunque una debolezza tipica del nostro modo di reagire: «In Scozia era riunito il G-8. Doveva discutere di Africa, di aiuti ai Paesi poveri, i leader, per una volta, si davano da fare contro la miseria. Tutto cancellato dalle coscienze e dalle prime pagine: la strage domina. Non dovrebbe essere difficile analizzare che dunque ai terroristi dell’Africa non importa proprio nulla. Eppure non leggerai nessuna interpretazione in questo senso nei siti dei complotti, si va sempre in cerca del capro espiatorio».
«Il primo libro sulle trame è l’Iliade. Anziché spiegare la guerra tra Achei e Troiani con storiche ragioni, la rimanda alla rissa degli dei, colpa loro! Poi la colpa è stata dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri Templari, i gesuiti attribuiscono la Rivoluzione francese a una manovra segreta dei massoni. Ricordiamoci del terrorismo italiano. Nacque la figura del Grande Vecchio perché, così si diceva, un pugno di trentenni inesperti non potevano certo progettare il rapimento e la morte di Aldo Moro. Bene, quando li hanno presi ci siamo accorti che erano proprio trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà che pretende di illuminare. Se a 30 anni si può governare o dirigere un’azienda, perché non si dovrebbero poter condurre azioni clandestine?».
Blair ha provato a mettere i suoi connazionali al riparo dall’infinito stillicidio di rivelazioni e smentite, denunce e ritrattazioni, gole profonde e verità superficiali, che si trasformano presto in paludi: ma la passione per le teorie della cospirazione non è solo italiana: «Ho presentato il romanzo a Dallas e mi hanno portato a vedere il museo, allestito nel vecchio magazzino dei libri dove Oswald si appostò per colpire il presidente Kennedy. Ma c’è anche un altro museo, il Museo della cospirazione, che raccoglie tutti i reperti delle varie, macchinose teorie per spiegare la morte di John Kennedy».
«Scrivendo "il Pendolo" ho usato la letteratura complottistica, fino alla peggiore spazzatura, per esorcizzarla. E invece è arrivato Dan Brown, con il "Codice da Vinci", ha preso alla lettera quei libelli e tantissimi lettori, in America, mi chiedono se davvero l’intero corpus di opere e dottrine della Chiesa cattolica è una trama»: Eco ha sperato di tosare i complotti con il rasoio di Ockam della ragione e quelli sono rispuntati insolenti, onnipresenti. «Feuerbach, e gliene lascio l’intera responsabilità, attribuisce perfino la religione a un complotto, non sappiamo spiegarci la natura, la vita e la morte e ci creiamo gli dei. Quindi se devo giudicare quel che sento sulla posizione di Tony Blair mi viene da dire che ha ragione a ritornare al G-8, che faticava su soluzioni concrete ai problemi del nostro mondo.
Così se ne esce, quella è la strada giusta. Altrimenti ci capiterà di non inseguire più Osama Bin Laden, troppo facile: un giorno leggeremo di un Grande Vecchio dietro Osama, il vero responsabile degli attentati di Al Qaeda, e lo braccheremo invano e così via all’infinito. Lo studioso Norman Cohn nel suo saggio "Licenza di genocidio" traccia la tragica parabola dai Protocolli dei Savi di Sion all’Olocausto. I finti complotti spesso ispirano verissime carneficine». Gli analisti politici diranno se la scelta di Tony Blair, niente caccia alle streghe, ma concentrarsi sulla lotta al terrorismo e alle cause del terrorismo, è stata opportuna. Mentre Eco torna alla sua stazione termale, la riflessione è quella, amara, già seguita all’11 settembre 2001. L’erbaccia dei falsi complotti è tenace, come la gramigna: denunciata in questo articolo la fola di Netanyahu e Giuliani rimbalzerà su mille siti corroborata malgrado tutto, «L’ha scritto il Corriere !», «Eco non lo ha smentito!», «Il gruppo di studio Bildeberg guida il mondo!», «Riotta è stato a Bildeberg!», «Eco è appena tornato dall’America!», «Riotta ha intervistato Giuliani e Netanyahu in America!» e il gioco, perverso, è fatto. «Gli uomini» dice il Vangelo di Giovanni «preferirono le tenebre alla luce».
corriere.it
griotta@corriere.it
12.7.05
La parabola della cibernetica
Nei decenni successivi il nuovo ambito disciplinare venne consegnato alle mode di breve durata. Bisognava attendere gli anni `80 per assistere alla resurrezione del prefisso cyber rinato nelle forme letterarie post-moderne e post-lisergiche, in cui le macchine si erano ormai trasformate in entità temibili e deliranti
Ascesa, caduta e risalita di un termine coniato nel 1945 e diventato presto un passe-partout. I calcolatori erano ancora delle enormi macchine-edificio ma la metafora inventata da Wiener per legare dinamiche umane e sistemi artificiali inaugurava le condizioni per una rivoluzione culturale pari a quella provocata dalla psicoanalisi
PAOLO MAROCCO
Stati Uniti, 1945: in occasione di un convegno a Princenton Norbert Wiener coniava il termine Cibernetica. Wiener era un distinto professore di matematica di origine russa, ex bambino prodigio (a undici anni aveva già terminato gli studi superiori), plurilaureato in matematica, fisica e biologia, che avrebbe in seguito contribuito al progetto dei primi calcolatori elettronici. Le sue competenze multidisciplinari lo condussero però verso progetti più ambiziosi, nei quali affrontava il rapporto tra dinamiche umane e sistemi artificiali. I nuovi principi cibernetici vennero ben presto adottati da sociologi, biologi, psicologi, e perfino da economisti; nei primi anni `60 il termine era ormai un pass-partout che aveva perfino varcato le soglie dei consigli di amministrazione delle multinazionali, sinonimo di modernità efficiente e tesa a massimizzare i profitti. È vero che i calcolatori erano ancora delle enormi macchine-edificio con impieghi limitati a processi gestionali e militari, ma la metafora attecchiva bene, e Wiener avvertiva che avrebbero potuto esserci le condizioni per una rivoluzione culturale come quella provocata dalla psicoanalisi cinquant'anni prima.
A tutto si pensi tranne che a un visionario: il sistema concettuale di Weiner riprendeva le teorie di Shannon, che riproponevano metodi statistici applicati alle nuove parole chiave della modernità: informazione e comunicazione. E la statistica, qualche decennio prima, aveva rivoluzionato la fisica delle particelle, quindi sembrava possedere le migliori credenziali per operare un rinnovamento matematico delle scienze umane. Ma la storia avrebbe contraddetto i facili entusiasmi: la cibernetica si sosteneva eccessivamente su modelli di basso livello per avere consistenti e concrete applicazioni nel mondo bio-psicologico, e l'economia aveva già alle spalle una rilevante storia di modellistica matematica. Nei decenni successivi il nuovo ambito disciplinare venne consegnato alle mode di breve durata, alla stregua dell'Hula-Op. Occorrerà attendere gli anni `80 per assistere alla resurrezione del prefisso cyber dalle ceneri del neologismo coniato dal canuto professor Wiener, rinato nelle forme letterarie post-moderne e post-lisergiche, in cui le macchine si erano ormai trasformate in entità temibili e deliranti.
Uno dei monumenti al rapporto uomo-macchina è un famosissimo film, in qualche modo correlabile alla rinascita del cyber, Blade Runner, tratto da un romanzo che sarebbe diventato altrettanto famoso, Do the Androids Dream of Electric Sheeps? di Philip K. Dick, che risaliva al `68. Il romanzo sostiene un assunto di carattere razionalista e innatista sulla coscienza degli androidi che Dick riprende da alcune linee di ricerca dell'intelligenza artificiale, derivate a loro volta dagli studi linguistici di Noam Chomsky. Gli androidi di Blade Runner non possiedono ricordi reali, ma degli innesti di ricordi. Nel racconto questo aspetto è cruciale, perché sono proprio i ricordi simulati a tradire gli essere artificiali nel loro tentativo di imitare l'umano, e il VK Test è micidiale nel scovarne le differenze. Nonostante il film di Scott sia diventato uno dei più grandi ricettacoli di idee e immagini sugli automi in abiti umani, la questione degli «innesti cerebrali» offre ancora nuovi spunti epistemologici. La debolezza mentale degli androidi risiede concettualmente nei limiti del programma linguistico razionalista, ovvero l'intelligenza e la facoltà di linguaggio dell'androide sono vincolati a un bagaglio fissato di notizie ed esperienze: una sorta di eredità genetica artificiale già organizzata in un sapere di alto livello.
L'androide non cresce sbagliando, non detiene un dispositivo di autoregolazione rispetto ai nuovi input che gli offre il mondo, anzi teme l'errore perché lo costringe a uno smascheramento della sua imperfezione. Nel film, dove il regista si sofferma a esporre i diversi manufatti bio-tecnici delle sofisticatissime macchine, vengono trascurati i processi di apprendimento. L'ordine materiale prevale sul mentale, o meglio, è possibile mostrarlo con meno rischi e difficoltà. Di certo gli androidi di Blade Runner non seguono un approccio empirista, basato su un riconoscimento graduale della realtà di carattere statistico, dove quella data parola con cui designo un oggetto diventa vera perché viene riconosciuta molte volte, mentre quell'altra che non si stabilizza in un nessun significato possiede una bassa probabilità di essere utilizzata, e si autofalsifica.
I limiti mentali degli automi del film costituiscono una metafora non casuale di quel che avveniva nello stesso periodo in ambito scientifico, relativamente agli studi sui modelli matematici del linguaggio. Il progetto razionalista dell'intelligenza artificiale crollava rispetto ai risultati offerti da macchine che non andavano molto più in là delle nozioni che erano state scritte nel loro codice. Anche i nuovi dibattiti su mente e cervello, condizionati da una tecnologia di calcolo sempre più potente e disponibile, consegnavano le macchine a un mondo meccanicista sterile e un po' ottuso. Ma ecco che i presupposti della cibernetica riapparvero, scrollandosi quel prefisso cyber da modernariato informatico, diventato oltretutto pericoloso per l'aggiunta dell'appendice punk.
La nuova cibernetica, che non si chiamava più così, recuperava le prospettive empirico-statistiche che aveva intuito Robert Wiener. In particolare, riassumeva le posizioni forti del modello empirista, non basato su strutture iniziali ben formate, ma su strumenti che possono crescere man mano in base ad associazioni casuali, e riconoscimento di oggetti via via sempre più complessi. Nel decennio successivo la rete internet, anticipata, seppur secondo scenari visionario-appocalittici, dal ramo maledetto del cyber, avrebbe costituito il terreno eterogeneo di un universo multi-linguistico, dove le metodologie statistiche sarebbero diventate lo strumento indispensabile per la ricerca delle informazioni. E tra non molto per la sintesi e l'interrogazione dei loro significati.
il manifesto
Ascesa, caduta e risalita di un termine coniato nel 1945 e diventato presto un passe-partout. I calcolatori erano ancora delle enormi macchine-edificio ma la metafora inventata da Wiener per legare dinamiche umane e sistemi artificiali inaugurava le condizioni per una rivoluzione culturale pari a quella provocata dalla psicoanalisi
PAOLO MAROCCO
Stati Uniti, 1945: in occasione di un convegno a Princenton Norbert Wiener coniava il termine Cibernetica. Wiener era un distinto professore di matematica di origine russa, ex bambino prodigio (a undici anni aveva già terminato gli studi superiori), plurilaureato in matematica, fisica e biologia, che avrebbe in seguito contribuito al progetto dei primi calcolatori elettronici. Le sue competenze multidisciplinari lo condussero però verso progetti più ambiziosi, nei quali affrontava il rapporto tra dinamiche umane e sistemi artificiali. I nuovi principi cibernetici vennero ben presto adottati da sociologi, biologi, psicologi, e perfino da economisti; nei primi anni `60 il termine era ormai un pass-partout che aveva perfino varcato le soglie dei consigli di amministrazione delle multinazionali, sinonimo di modernità efficiente e tesa a massimizzare i profitti. È vero che i calcolatori erano ancora delle enormi macchine-edificio con impieghi limitati a processi gestionali e militari, ma la metafora attecchiva bene, e Wiener avvertiva che avrebbero potuto esserci le condizioni per una rivoluzione culturale come quella provocata dalla psicoanalisi cinquant'anni prima.
A tutto si pensi tranne che a un visionario: il sistema concettuale di Weiner riprendeva le teorie di Shannon, che riproponevano metodi statistici applicati alle nuove parole chiave della modernità: informazione e comunicazione. E la statistica, qualche decennio prima, aveva rivoluzionato la fisica delle particelle, quindi sembrava possedere le migliori credenziali per operare un rinnovamento matematico delle scienze umane. Ma la storia avrebbe contraddetto i facili entusiasmi: la cibernetica si sosteneva eccessivamente su modelli di basso livello per avere consistenti e concrete applicazioni nel mondo bio-psicologico, e l'economia aveva già alle spalle una rilevante storia di modellistica matematica. Nei decenni successivi il nuovo ambito disciplinare venne consegnato alle mode di breve durata, alla stregua dell'Hula-Op. Occorrerà attendere gli anni `80 per assistere alla resurrezione del prefisso cyber dalle ceneri del neologismo coniato dal canuto professor Wiener, rinato nelle forme letterarie post-moderne e post-lisergiche, in cui le macchine si erano ormai trasformate in entità temibili e deliranti.
Uno dei monumenti al rapporto uomo-macchina è un famosissimo film, in qualche modo correlabile alla rinascita del cyber, Blade Runner, tratto da un romanzo che sarebbe diventato altrettanto famoso, Do the Androids Dream of Electric Sheeps? di Philip K. Dick, che risaliva al `68. Il romanzo sostiene un assunto di carattere razionalista e innatista sulla coscienza degli androidi che Dick riprende da alcune linee di ricerca dell'intelligenza artificiale, derivate a loro volta dagli studi linguistici di Noam Chomsky. Gli androidi di Blade Runner non possiedono ricordi reali, ma degli innesti di ricordi. Nel racconto questo aspetto è cruciale, perché sono proprio i ricordi simulati a tradire gli essere artificiali nel loro tentativo di imitare l'umano, e il VK Test è micidiale nel scovarne le differenze. Nonostante il film di Scott sia diventato uno dei più grandi ricettacoli di idee e immagini sugli automi in abiti umani, la questione degli «innesti cerebrali» offre ancora nuovi spunti epistemologici. La debolezza mentale degli androidi risiede concettualmente nei limiti del programma linguistico razionalista, ovvero l'intelligenza e la facoltà di linguaggio dell'androide sono vincolati a un bagaglio fissato di notizie ed esperienze: una sorta di eredità genetica artificiale già organizzata in un sapere di alto livello.
L'androide non cresce sbagliando, non detiene un dispositivo di autoregolazione rispetto ai nuovi input che gli offre il mondo, anzi teme l'errore perché lo costringe a uno smascheramento della sua imperfezione. Nel film, dove il regista si sofferma a esporre i diversi manufatti bio-tecnici delle sofisticatissime macchine, vengono trascurati i processi di apprendimento. L'ordine materiale prevale sul mentale, o meglio, è possibile mostrarlo con meno rischi e difficoltà. Di certo gli androidi di Blade Runner non seguono un approccio empirista, basato su un riconoscimento graduale della realtà di carattere statistico, dove quella data parola con cui designo un oggetto diventa vera perché viene riconosciuta molte volte, mentre quell'altra che non si stabilizza in un nessun significato possiede una bassa probabilità di essere utilizzata, e si autofalsifica.
I limiti mentali degli automi del film costituiscono una metafora non casuale di quel che avveniva nello stesso periodo in ambito scientifico, relativamente agli studi sui modelli matematici del linguaggio. Il progetto razionalista dell'intelligenza artificiale crollava rispetto ai risultati offerti da macchine che non andavano molto più in là delle nozioni che erano state scritte nel loro codice. Anche i nuovi dibattiti su mente e cervello, condizionati da una tecnologia di calcolo sempre più potente e disponibile, consegnavano le macchine a un mondo meccanicista sterile e un po' ottuso. Ma ecco che i presupposti della cibernetica riapparvero, scrollandosi quel prefisso cyber da modernariato informatico, diventato oltretutto pericoloso per l'aggiunta dell'appendice punk.
La nuova cibernetica, che non si chiamava più così, recuperava le prospettive empirico-statistiche che aveva intuito Robert Wiener. In particolare, riassumeva le posizioni forti del modello empirista, non basato su strutture iniziali ben formate, ma su strumenti che possono crescere man mano in base ad associazioni casuali, e riconoscimento di oggetti via via sempre più complessi. Nel decennio successivo la rete internet, anticipata, seppur secondo scenari visionario-appocalittici, dal ramo maledetto del cyber, avrebbe costituito il terreno eterogeneo di un universo multi-linguistico, dove le metodologie statistiche sarebbero diventate lo strumento indispensabile per la ricerca delle informazioni. E tra non molto per la sintesi e l'interrogazione dei loro significati.
il manifesto
10.7.05
L'incontro di Jung con l'oriente
La filosofia taoista e lo yoga indagati dallo psichiatra svizzero nei punti che hanno in comune con i nostri processi psichici. Un confronto critico di cui rende conto il volume di Coward, Jung e il pensiero orientale curato da Paulo Barone e Vincenzo Caretti per Vivarium
MARCO DOTTI
Verso la fine del 1928, dopo quindici anni trascorsi a studiare i «processi dell'inconscio collettivo» e quella dimensione «sovraordinata all'io cosciente» denominata «sé» (Selbst), le ricerche di Carl Gustav Jung sembravano ormai languire in una sorta di impasse sperimentale. In sostanza, lo psichiatra svizzero - che nel 1912 aveva radicalizzato la propria rottura con Freud pubblicando la seconda parte di Trasformazione e simboli della libido - si chiedeva come fosse possibile indagare una complessa serie di fenomeni «cui non erano più applicabili le categorie e i metodi» della psicologia medica «a orientamento personalistico», trovando al contempo adeguati riscontri empirici e sottomentendo la teoria alla dura, ma inevitabile, prova dei fatti. Il rischio, quanto mai concreto, di sostituire agli schemi intepretativi freudiani un nuovo, e inattuale, castello metafisico aveva condotto Jung a un punto morto del proprio percorso, alimentando in lui un forte disagio teorico, acuito dal contrappunto di un malessere personale crescente. «A superare questo imbarazzo», confesserà, «mi aiutò un testo, Il segreto del fiore d'oro, inviatomi da Richard Wilhelm». Brillante sinologo, profondo conoscitore del libro dei Ching, Wilhelm aveva deciso di versare in tedesco anche questo antico trattato alchemico taoista, servendosi proprio della coppia concettuale junghiana di «animus» e «anima», per rendere i «due elementi da cui viene animato il corpo»: hun e p'o, simboleggiati, il primo, da un ideogramma «composto dai segni di demone e di nuvola», appartenente al principio «chiaro» yang, e il secondo dai segni di «demone e bianco», appartenente al principio «oscuro» yin. Ricevuto il manoscritto, ricorderà Jung, «subito lo divorai, poiché il testo mi dava una conferma, mai sognata, delle mie idee circa il mandala» e la «totalità del sé». L'annunciata edizione del Fiore d'oro e l'invito, da parte di Wilhelm, di aggiungervi un proprio commento, offrì dunque a Jung «l'occasione per poter pubblicare, almeno in forma provvisoria, alcuni risultati fondamentali» delle sue ricerche. «Mi resi conto di una affinità, potevo stabilire legami con qualcosa e con qualcuno», e sarà proprio il testo del Fiore d'oro a condurre Jung «sulla via giusta», inducendolo in seguito a soffermare la propria attenzione sulla struttura dell'alchimia medievale, vero «anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell'inconscio collettivo osservabili nell'uomo d'oggi».
Seppur concentrato in massima parte negli anni Venti e Trenta, l'interesse di Jung per l'Oriente e per lo yoga - termine da lui usato in senso generale, per indicare indistintamente tanto il pensiero quanto la pratica psicologica orientali - costituiranno tappe decisive nello sviluppo, se non proprio nell'elaborazione primaria, di concetti come «immaginazione attiva», «inconscio collettivo», «libido» e, soprattutto, di «circumambulazione del sé», ossia dell'idea - confermatagli proprio dal trattatello taoista e dal confronto con il misticismo yoga di Patanjali - che il percorso verso l'integrazione psichica non fosse lineare, ma circolare, tutto teso «al centro», verso l'individuazione. Il continuo gioco di sponda intellettuale e di confronto concettuale intrattenuto da Jung con i sistemi filosofici e religiosi d'Oriente è testimoniato da numerosi saggi, premesse e conferenze dedicati alla questione - da Lo yoga e l'Occidente, a Psicologia della meditazione orientale fino al seminario sulla Psicologia del Kundalini-Yoga, edito da Bollati Boringhieri nel 2004 -, ma anche dalla condivisione di fondo di una «via più ampia di comprensione: la comprensione attraverso la vita». Ciò nonostante, nei confronti di tali sistemi, Jung manterrà un atteggiamento sostanzialmente empirico, sconfinante, talvolta, nella diffidenza e nello scetticismo. «Io - dichiarerà - sono in primo luogo un empirico, che si è rivolto alla questione del misticismo occidentale e orientale solo per motivi empirici. Ad esempio io non prendo in alcun modo posizione sul Tao o sulle tecniche yoga, ma ho trovato che la filosofia taoista come anche lo yoga hanno molti paralleli con i processi psichici che possiamo osservare nell'uomo occidentale». Di questo doppio binario di confronto critico, più che di condivisione entusiastica, su cui corre il pensiero junghiano relativamente ai sistemi dello yoga, e sulla profonda natura dei suoi «presupposti empirici», dà conto l'interessante volume di Harold Coward, Jung e il pensiero orientale (trad. di Luciano Paoli e Maria Irmgard Wuehl, 2005, pp. 288, euro 20), con cui le edizioni Vivarium inaugurano «Visioni dell'Oriente», una nuova collana curata da Paulo Barone e Vincenzo Caretti.
Nel suo lavoro, Coward affronta la questione con un taglio decisamente scientifico, mostrando, accanto alle affinità, anche le profonde riserve mostrate da Jung nei confronti di un sistema che, in larga parte, gli sembrava ancora «pre kantiano» o «pre psicologico», criticandone, in particolare, l'idea paradossale e, a sua volta, contraddittoria, che la liberazione dagli opposti dovesse compiersi attraverso una soppressione dell'«io», lasciando campo aperto - come sottolinea Barone nella sua presentazione - a un mero stato di incoscienza. Agli occhi di Jung appare davvero perversa l'idea, che investe lo yoga, di un Io individuale destinato a essere trasceso in favore di una coscienza universale. Questo «imbroglio» gli si rivela, osserva Coward, come la mera «proiezione psicologica di una idea che non ha alcun fondamento nell'esperienza umana». Il rischio, paventato da Jung, di passare da un dualismo conflittuale, a un monismo riduttivo, suona come un avvertimento sull'impossibilità di ridurre una incolmabile differenza di mentalità. L'incontro con l'Oriente «non deve servire da alibi per eludere conti sempre aperti con la nostra identità». Forse anche per questa ragione, nel 1938, giunto a Bombay al termine del suo travagliato soggiorno indiano durato alcuni mesi, pur sopraffatto da sogni, colori e «visioni orientali», Jung decise di non lasciare la nave. Seppur fisicamente confinata in uno spazio angusto, ancora una volta la sua attenzione si stava rivolgendo altrove, decisa a «seppellirsi» nei testi e nel simbolismo dell'alchimia e nelle «troppo a lungo trascurate istanze dell'Occidente». Eppure, osserva Jung, l'«India non passò in me senza lasciare traccia». Di questa traccia profonda, Coward riesce a dar conto con una chiarezza, una competenza e un distacco critico che, di per sé, rendono il libro degno di nota e di considerazione.
il manifesto
MARCO DOTTI
Verso la fine del 1928, dopo quindici anni trascorsi a studiare i «processi dell'inconscio collettivo» e quella dimensione «sovraordinata all'io cosciente» denominata «sé» (Selbst), le ricerche di Carl Gustav Jung sembravano ormai languire in una sorta di impasse sperimentale. In sostanza, lo psichiatra svizzero - che nel 1912 aveva radicalizzato la propria rottura con Freud pubblicando la seconda parte di Trasformazione e simboli della libido - si chiedeva come fosse possibile indagare una complessa serie di fenomeni «cui non erano più applicabili le categorie e i metodi» della psicologia medica «a orientamento personalistico», trovando al contempo adeguati riscontri empirici e sottomentendo la teoria alla dura, ma inevitabile, prova dei fatti. Il rischio, quanto mai concreto, di sostituire agli schemi intepretativi freudiani un nuovo, e inattuale, castello metafisico aveva condotto Jung a un punto morto del proprio percorso, alimentando in lui un forte disagio teorico, acuito dal contrappunto di un malessere personale crescente. «A superare questo imbarazzo», confesserà, «mi aiutò un testo, Il segreto del fiore d'oro, inviatomi da Richard Wilhelm». Brillante sinologo, profondo conoscitore del libro dei Ching, Wilhelm aveva deciso di versare in tedesco anche questo antico trattato alchemico taoista, servendosi proprio della coppia concettuale junghiana di «animus» e «anima», per rendere i «due elementi da cui viene animato il corpo»: hun e p'o, simboleggiati, il primo, da un ideogramma «composto dai segni di demone e di nuvola», appartenente al principio «chiaro» yang, e il secondo dai segni di «demone e bianco», appartenente al principio «oscuro» yin. Ricevuto il manoscritto, ricorderà Jung, «subito lo divorai, poiché il testo mi dava una conferma, mai sognata, delle mie idee circa il mandala» e la «totalità del sé». L'annunciata edizione del Fiore d'oro e l'invito, da parte di Wilhelm, di aggiungervi un proprio commento, offrì dunque a Jung «l'occasione per poter pubblicare, almeno in forma provvisoria, alcuni risultati fondamentali» delle sue ricerche. «Mi resi conto di una affinità, potevo stabilire legami con qualcosa e con qualcuno», e sarà proprio il testo del Fiore d'oro a condurre Jung «sulla via giusta», inducendolo in seguito a soffermare la propria attenzione sulla struttura dell'alchimia medievale, vero «anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell'inconscio collettivo osservabili nell'uomo d'oggi».
Seppur concentrato in massima parte negli anni Venti e Trenta, l'interesse di Jung per l'Oriente e per lo yoga - termine da lui usato in senso generale, per indicare indistintamente tanto il pensiero quanto la pratica psicologica orientali - costituiranno tappe decisive nello sviluppo, se non proprio nell'elaborazione primaria, di concetti come «immaginazione attiva», «inconscio collettivo», «libido» e, soprattutto, di «circumambulazione del sé», ossia dell'idea - confermatagli proprio dal trattatello taoista e dal confronto con il misticismo yoga di Patanjali - che il percorso verso l'integrazione psichica non fosse lineare, ma circolare, tutto teso «al centro», verso l'individuazione. Il continuo gioco di sponda intellettuale e di confronto concettuale intrattenuto da Jung con i sistemi filosofici e religiosi d'Oriente è testimoniato da numerosi saggi, premesse e conferenze dedicati alla questione - da Lo yoga e l'Occidente, a Psicologia della meditazione orientale fino al seminario sulla Psicologia del Kundalini-Yoga, edito da Bollati Boringhieri nel 2004 -, ma anche dalla condivisione di fondo di una «via più ampia di comprensione: la comprensione attraverso la vita». Ciò nonostante, nei confronti di tali sistemi, Jung manterrà un atteggiamento sostanzialmente empirico, sconfinante, talvolta, nella diffidenza e nello scetticismo. «Io - dichiarerà - sono in primo luogo un empirico, che si è rivolto alla questione del misticismo occidentale e orientale solo per motivi empirici. Ad esempio io non prendo in alcun modo posizione sul Tao o sulle tecniche yoga, ma ho trovato che la filosofia taoista come anche lo yoga hanno molti paralleli con i processi psichici che possiamo osservare nell'uomo occidentale». Di questo doppio binario di confronto critico, più che di condivisione entusiastica, su cui corre il pensiero junghiano relativamente ai sistemi dello yoga, e sulla profonda natura dei suoi «presupposti empirici», dà conto l'interessante volume di Harold Coward, Jung e il pensiero orientale (trad. di Luciano Paoli e Maria Irmgard Wuehl, 2005, pp. 288, euro 20), con cui le edizioni Vivarium inaugurano «Visioni dell'Oriente», una nuova collana curata da Paulo Barone e Vincenzo Caretti.
Nel suo lavoro, Coward affronta la questione con un taglio decisamente scientifico, mostrando, accanto alle affinità, anche le profonde riserve mostrate da Jung nei confronti di un sistema che, in larga parte, gli sembrava ancora «pre kantiano» o «pre psicologico», criticandone, in particolare, l'idea paradossale e, a sua volta, contraddittoria, che la liberazione dagli opposti dovesse compiersi attraverso una soppressione dell'«io», lasciando campo aperto - come sottolinea Barone nella sua presentazione - a un mero stato di incoscienza. Agli occhi di Jung appare davvero perversa l'idea, che investe lo yoga, di un Io individuale destinato a essere trasceso in favore di una coscienza universale. Questo «imbroglio» gli si rivela, osserva Coward, come la mera «proiezione psicologica di una idea che non ha alcun fondamento nell'esperienza umana». Il rischio, paventato da Jung, di passare da un dualismo conflittuale, a un monismo riduttivo, suona come un avvertimento sull'impossibilità di ridurre una incolmabile differenza di mentalità. L'incontro con l'Oriente «non deve servire da alibi per eludere conti sempre aperti con la nostra identità». Forse anche per questa ragione, nel 1938, giunto a Bombay al termine del suo travagliato soggiorno indiano durato alcuni mesi, pur sopraffatto da sogni, colori e «visioni orientali», Jung decise di non lasciare la nave. Seppur fisicamente confinata in uno spazio angusto, ancora una volta la sua attenzione si stava rivolgendo altrove, decisa a «seppellirsi» nei testi e nel simbolismo dell'alchimia e nelle «troppo a lungo trascurate istanze dell'Occidente». Eppure, osserva Jung, l'«India non passò in me senza lasciare traccia». Di questa traccia profonda, Coward riesce a dar conto con una chiarezza, una competenza e un distacco critico che, di per sé, rendono il libro degno di nota e di considerazione.
il manifesto
8.7.05
L'enigma della vita nella logica dei robot
Oggi e domani al Telecom Italia Future Centre di Venezia un convegno, proiezioni di celebri filmati e una serie di altre iniziative descriveranno lo stato dell'arte della robotica, tra profezie fantascientifiche e investimenti miliardari
PAOLO MAROCCO
Nel 1920 lo scrittore e commediografo boemo Karel Capek scrisse un romanzo di fantapolitica, Rossum Universal Robots, nel quale coniò un termine che sarebbe diventato il modo più diffuso per definire l'essere artificiale, insieme ad automa, droide, antropoide, e tutta la catena di sinonimi che seguiranno. La parola robot ha una etimologia curiosa, poiché deriva dal vocabolo ceco robota che significa lavoro non retribuito, obbligatorio, forzato, ossia le prerogative di una creatura che, come nel romanzo di Capek, sostituisce l'uomo nei compiti che meno gli aggradano. Questa caratteristica si contrappone visibilmente al precedente passato degli automi, quelli di sette-ottocento, costruiti con finalità ludiche e ospiti dei salotti mondani, quindi lontanissimi dal sudicio vapore delle ciminiere che iniziavano a invadere le città industriali. Il primo robot della storia del cinema, o perlomeno il primo a diventare famoso in tutto il mondo, la Maria di Metropolis (1926) è una trasformazione del personaggio di Capek: nel film di Fritz Lang il popolo non gioca né si diverte, né tantomeno ci sono robot fedeli e apprensivi che lavorano duramente e cooperano con la nostra razza; l'automa però non è più coinvolto direttamente nelle operazioni meccaniche, bensì assume compiti direttivi, diventando un capo che organizzerà una rivolta. La modernità attribuisce al robot una coscienza che supera la dipendenza funzionale, gli attribuisce il libero arbitrio e la conquista di prerogative umane, inaugurando un filone che dilagherà nel nuovo secolo. Dieci anni dopo, un film americano, La bambola del diavolo di Tod Browning, riprenderà il polo ludico anche se in chiave demoniaca: la figura del giocattolo perfetto comandato dall'uomo. I piccoli protagonisti del film, a metà tra gli automi e gli umani, vengono venduti in un negozio di giocattoli, a memoria dell'industria degli home toys automatici, fiorente prima della Grande guerra.
Fino a questo punto, la sembianza umana della macchina, nella sua intelligenza e autonomia, all'interno del tempo del lavoro o del tempo libero, resta comunque tangibilmente legata al passato: l'afflato vitale è fornito da iniziative spiritistiche o da un elettromagnetismo di natura galvanica e oscura, i fulmini e le scintille che coronano la creazione dell'automa di Metropolis sono parenti stretti del Frankestein di Mary Shelley. Occorrerà ancora qualche anno affinché la tecnologia propria della modernità, inondi con la razionalità di circuiti e valvole i principi attivi della macchine: i robot di Asimov, costruiti su tecnologia positronica, un termine che oggi non significa più nulla ma che nel 1950 restituiva tutto il sapore delle recenti ricerche della fisica condito con un'ingegneria del calcolo che stava uscendo dai laboratori universitari e militari, testimoniavano la nuova era. L'automa si era accoppiato con il computer. Il fascino e lo stupore che circondano da secoli gli esseri artificiali sono sicuramente indipendenti dalla tecnologia adottata di volta in volta, e capace di varcare confini storici, culturali nonché di attraversare la moltitudine delle attività umane. Da Le Canard Digérateur dell'inventore settecentesco Jacques de Vaucanson, un'anitra meccanica che batteva le ali, ingeriva del grano e lo metabolizzava artificialmente per poi evacuarlo in appropriate forme e consistenze chimiche, ai recenti campionati di calcio dei Robot (La Robocup) la figura dell'automa ci ripropone l'enigma della vita stessa, offrendo all'uomo la possibilità di intervenire direttamente nella segreta catena creatura-creatore. Dapprima servendosi di pratiche spirituali e alchemiche, in seguito, a partire dalla rivoluzione scientifica secentesca, utilizzando manufatti meccanici non solo più controllabili ma appartenenti a competenze oggettive e comunicabili. Alla luce di questa invariante millenaria, non può che suscitare interesse il convegno «Robot, i noti ignoti» che si svolge in questi giorni a Venezia, nel quale la profetica visione della fantascienza del secolo scorso invade la realtà delle tecnologie robotiche di oggi. L'incontro, che prevede anche una show room dove verranno presentati alcuni automi all'opera, come Autoportrait il robot pittore ritrattista di Matthias Gommel e i robot capaci di autoriprodursi di Hod Lipson, si apre proprio con l'idea di offrire una panoramica sull'articolata area nel quale si muove oggi la robotica, dal fronte professionale a quello ludico.
Sebbene in tutti e due i casi la fantascienza abbia attribuito al robot una sembianza antropomorfa, la realtà delle presse robotizzate, che già negli anni ottanta costituivano le nuove formule dell'automazione di fabbrica, era ovviamente ben lontana da possedere credenziali umane. La parola robot entra nell'economia industriale come immagine di macchina che sostituisce e meccanicizza alcune attività umane di basso profilo, non certo come apparato che ambisce a trasformarsi in un essere attraente, intelligente e autonomo. Queste caratteristiche vengono catturate ancora una volta dal mercato ludico che nell'ultimo decennio, specialmente grazie alle ricerche di giapponesi e coreani, si è riappropriato dell'imitazione tout-court dell'umano, aderendo perfettamente alla tradizione secolare degli automi. A questo proposito il convegno propone, tra l'altro, un intervento di Hee Lee dell'Università di Seul, in cui emerge un aspetto che l'entusiasmo fanatico dei media non tende ad affrontare nella sua globalità, e che invece sarà tra breve sotto gli occhi di tutti: la convergenza tra le due aree di sviluppo più promettente di questo secolo: L'Information Technology da un lato, e la Robot Technology dall'altro. Sebbene si basino entrambe su una piattaforma informatica, con un valore aggiunto bio-tecnico del secondo caso, le caratteristiche socio-funzionali non potrebbero essere più lontane. L'informatica distribuita, che ormai ha aggredito il mercato delle telecomunicazioni (ossia il patchwork farraginosamente eterogeneo costituito da Pc, Web, Tv e cellulari che si profila sempre più verso la costituzione di un media unico) non rispetta ovviamente il centro deittico fondamentale dell'uomo: l'io-qui-ora che necessariamente caratterizza il parlante nel suo contesto d'azione. Ovvio: le finalità di virtuale ubiquità e di dematerializzazione posizionale del nuovo super-media nascono e crescono proprio in senso opposto. I nostri nuovi cugini, invece, i Robot antropomorfi, rispettano alla lettera il centro spazio-temporale della nostra povera e limitata realtà. L'integrazione tra i due settori rischia quindi di diventare la sorpresa del secolo nascente, dove le possibilità di controllo remoto dell'antropoide offrono sulla carta significative opportunità di intervento sia in campo esplorativo e di soccorso in aree di difficile accesso, sia in campo biomedico, dove la possibilità di pilotare a distanza strumenti chirurgici potrebbe indubbiamente favorire gli ospedali non opportunamente attrezzati. Tutto questo, assumendo il riferimento della visibilità attuale, e rispettando al meglio le possibilità altruistiche e costruttive dell'incontro tra i due settori. Ma in gioco c'è molto di più: la trasformazione di una cultura legata alla realtà sensoriale dello spazio euclideo che ci circonda, e che fin ora non ha subito troppi scossoni, proprio perché ancora centrata su esseri, noi stessi, che localizzano le attività di pensiero, e le remotizzano servendosi di strumenti dai quali sono ben distinti, e che non hanno nulla di somigliante con loro. Mentre l'ibridazione tra il dispositivo e l'essere comporta una trasformazione ben poco prevedibile perché ricorsivamente applicata a se stessa, quindi di ordine superiore.
Ad arricchire ulteriormente questo dibattito, interverrà Domenico Parisi, del Cnr di Roma, che si sofferma sul futuro della robotica, rilevando la progettualità della macchine attuali, certamente capaci di assorbire le nuove frontiere tecnologiche e comunicazionali, ma raramente condotta verso parametri evolutivi e morfologicamente adattativi all'ambiente, un limite che rinvia alla differenza fondamentale tra il biologico e le sue emulazioni. La macchina rimane alla fin fine un frutto della concettualità umana, cosa che l'uomo banalmente non è.
il manifesto
PAOLO MAROCCO
Nel 1920 lo scrittore e commediografo boemo Karel Capek scrisse un romanzo di fantapolitica, Rossum Universal Robots, nel quale coniò un termine che sarebbe diventato il modo più diffuso per definire l'essere artificiale, insieme ad automa, droide, antropoide, e tutta la catena di sinonimi che seguiranno. La parola robot ha una etimologia curiosa, poiché deriva dal vocabolo ceco robota che significa lavoro non retribuito, obbligatorio, forzato, ossia le prerogative di una creatura che, come nel romanzo di Capek, sostituisce l'uomo nei compiti che meno gli aggradano. Questa caratteristica si contrappone visibilmente al precedente passato degli automi, quelli di sette-ottocento, costruiti con finalità ludiche e ospiti dei salotti mondani, quindi lontanissimi dal sudicio vapore delle ciminiere che iniziavano a invadere le città industriali. Il primo robot della storia del cinema, o perlomeno il primo a diventare famoso in tutto il mondo, la Maria di Metropolis (1926) è una trasformazione del personaggio di Capek: nel film di Fritz Lang il popolo non gioca né si diverte, né tantomeno ci sono robot fedeli e apprensivi che lavorano duramente e cooperano con la nostra razza; l'automa però non è più coinvolto direttamente nelle operazioni meccaniche, bensì assume compiti direttivi, diventando un capo che organizzerà una rivolta. La modernità attribuisce al robot una coscienza che supera la dipendenza funzionale, gli attribuisce il libero arbitrio e la conquista di prerogative umane, inaugurando un filone che dilagherà nel nuovo secolo. Dieci anni dopo, un film americano, La bambola del diavolo di Tod Browning, riprenderà il polo ludico anche se in chiave demoniaca: la figura del giocattolo perfetto comandato dall'uomo. I piccoli protagonisti del film, a metà tra gli automi e gli umani, vengono venduti in un negozio di giocattoli, a memoria dell'industria degli home toys automatici, fiorente prima della Grande guerra.
Fino a questo punto, la sembianza umana della macchina, nella sua intelligenza e autonomia, all'interno del tempo del lavoro o del tempo libero, resta comunque tangibilmente legata al passato: l'afflato vitale è fornito da iniziative spiritistiche o da un elettromagnetismo di natura galvanica e oscura, i fulmini e le scintille che coronano la creazione dell'automa di Metropolis sono parenti stretti del Frankestein di Mary Shelley. Occorrerà ancora qualche anno affinché la tecnologia propria della modernità, inondi con la razionalità di circuiti e valvole i principi attivi della macchine: i robot di Asimov, costruiti su tecnologia positronica, un termine che oggi non significa più nulla ma che nel 1950 restituiva tutto il sapore delle recenti ricerche della fisica condito con un'ingegneria del calcolo che stava uscendo dai laboratori universitari e militari, testimoniavano la nuova era. L'automa si era accoppiato con il computer. Il fascino e lo stupore che circondano da secoli gli esseri artificiali sono sicuramente indipendenti dalla tecnologia adottata di volta in volta, e capace di varcare confini storici, culturali nonché di attraversare la moltitudine delle attività umane. Da Le Canard Digérateur dell'inventore settecentesco Jacques de Vaucanson, un'anitra meccanica che batteva le ali, ingeriva del grano e lo metabolizzava artificialmente per poi evacuarlo in appropriate forme e consistenze chimiche, ai recenti campionati di calcio dei Robot (La Robocup) la figura dell'automa ci ripropone l'enigma della vita stessa, offrendo all'uomo la possibilità di intervenire direttamente nella segreta catena creatura-creatore. Dapprima servendosi di pratiche spirituali e alchemiche, in seguito, a partire dalla rivoluzione scientifica secentesca, utilizzando manufatti meccanici non solo più controllabili ma appartenenti a competenze oggettive e comunicabili. Alla luce di questa invariante millenaria, non può che suscitare interesse il convegno «Robot, i noti ignoti» che si svolge in questi giorni a Venezia, nel quale la profetica visione della fantascienza del secolo scorso invade la realtà delle tecnologie robotiche di oggi. L'incontro, che prevede anche una show room dove verranno presentati alcuni automi all'opera, come Autoportrait il robot pittore ritrattista di Matthias Gommel e i robot capaci di autoriprodursi di Hod Lipson, si apre proprio con l'idea di offrire una panoramica sull'articolata area nel quale si muove oggi la robotica, dal fronte professionale a quello ludico.
Sebbene in tutti e due i casi la fantascienza abbia attribuito al robot una sembianza antropomorfa, la realtà delle presse robotizzate, che già negli anni ottanta costituivano le nuove formule dell'automazione di fabbrica, era ovviamente ben lontana da possedere credenziali umane. La parola robot entra nell'economia industriale come immagine di macchina che sostituisce e meccanicizza alcune attività umane di basso profilo, non certo come apparato che ambisce a trasformarsi in un essere attraente, intelligente e autonomo. Queste caratteristiche vengono catturate ancora una volta dal mercato ludico che nell'ultimo decennio, specialmente grazie alle ricerche di giapponesi e coreani, si è riappropriato dell'imitazione tout-court dell'umano, aderendo perfettamente alla tradizione secolare degli automi. A questo proposito il convegno propone, tra l'altro, un intervento di Hee Lee dell'Università di Seul, in cui emerge un aspetto che l'entusiasmo fanatico dei media non tende ad affrontare nella sua globalità, e che invece sarà tra breve sotto gli occhi di tutti: la convergenza tra le due aree di sviluppo più promettente di questo secolo: L'Information Technology da un lato, e la Robot Technology dall'altro. Sebbene si basino entrambe su una piattaforma informatica, con un valore aggiunto bio-tecnico del secondo caso, le caratteristiche socio-funzionali non potrebbero essere più lontane. L'informatica distribuita, che ormai ha aggredito il mercato delle telecomunicazioni (ossia il patchwork farraginosamente eterogeneo costituito da Pc, Web, Tv e cellulari che si profila sempre più verso la costituzione di un media unico) non rispetta ovviamente il centro deittico fondamentale dell'uomo: l'io-qui-ora che necessariamente caratterizza il parlante nel suo contesto d'azione. Ovvio: le finalità di virtuale ubiquità e di dematerializzazione posizionale del nuovo super-media nascono e crescono proprio in senso opposto. I nostri nuovi cugini, invece, i Robot antropomorfi, rispettano alla lettera il centro spazio-temporale della nostra povera e limitata realtà. L'integrazione tra i due settori rischia quindi di diventare la sorpresa del secolo nascente, dove le possibilità di controllo remoto dell'antropoide offrono sulla carta significative opportunità di intervento sia in campo esplorativo e di soccorso in aree di difficile accesso, sia in campo biomedico, dove la possibilità di pilotare a distanza strumenti chirurgici potrebbe indubbiamente favorire gli ospedali non opportunamente attrezzati. Tutto questo, assumendo il riferimento della visibilità attuale, e rispettando al meglio le possibilità altruistiche e costruttive dell'incontro tra i due settori. Ma in gioco c'è molto di più: la trasformazione di una cultura legata alla realtà sensoriale dello spazio euclideo che ci circonda, e che fin ora non ha subito troppi scossoni, proprio perché ancora centrata su esseri, noi stessi, che localizzano le attività di pensiero, e le remotizzano servendosi di strumenti dai quali sono ben distinti, e che non hanno nulla di somigliante con loro. Mentre l'ibridazione tra il dispositivo e l'essere comporta una trasformazione ben poco prevedibile perché ricorsivamente applicata a se stessa, quindi di ordine superiore.
Ad arricchire ulteriormente questo dibattito, interverrà Domenico Parisi, del Cnr di Roma, che si sofferma sul futuro della robotica, rilevando la progettualità della macchine attuali, certamente capaci di assorbire le nuove frontiere tecnologiche e comunicazionali, ma raramente condotta verso parametri evolutivi e morfologicamente adattativi all'ambiente, un limite che rinvia alla differenza fondamentale tra il biologico e le sue emulazioni. La macchina rimane alla fin fine un frutto della concettualità umana, cosa che l'uomo banalmente non è.
il manifesto
3.7.05
IL CAPRO ESPIATORIO
VERITA’ DI COMODO
di Barbara Spinelli
Ci sono momenti in cui noi tutti siamo come sequestrati e portati lontano dalla verità delle cose. Non le vediamo nella loro essenza, abbiamo gli occhi come coperti da bende. Possiamo trovare spiegazioni a quel che accade, il più delle volte possiamo perfino giustificare gli eventi nuovi cui assistiamo o che noi stessi abbiamo contribuito a generare. Ma spiegazioni e giustificazioni hanno sovente un ruolo strano: sono la stoffa stessa di cui è fatta la benda. La verità è sequestrata in una sorta di mondo parallelo, simile a quello visibile ma inaccessibile alla coscienza, alla vigilanza. Il filosofo Raymond Aron diceva del presidente Giscard d'Estaing: «Il problema è che quest’uomo non sa che la storia è tragica». Qualcosa d'analogo pare accadere alle classi dirigenti d’oggi, compresi noi giornalisti: da un certo tempo - forse da quando son cominciate sia mondializzazione sia lotta antiterrorista nel 2001 - in Italia e in parte dell'Occidente non sappiamo che la storia che stiamo facendo è tragica. Alcuni segni lo dicono, tuttavia.
Uno di questi segni ci è stato mostrato nei giorni scorsi, quando i telegiornali hanno dato notizia dello sgombero di un campo nomadi nella periferia di Milano, a via Capo Rizzuto. La decisione di radere al suolo la baraccopoli rom aveva un motivo serio - il campo era abusivo e disordinato, la maggior parte degli abitanti era clandestina, i vicini erano in allarme dopo episodi di stupro attribuiti a zingari, e da tempo avevano messo fili spinati fra sé e i nomadi - ma il modo e il linguaggio in cui s'è svolta l’operazione sono stati di una violenza singolare: inaudita, rapida, e al contempo abissalmente banale.
L’operazione ha ricevuto il nome di Blitz, lampo, mescolando come spesso accade i processi naturali con quelli bellici. E come evento del tutto naturale è stata presentata: come se d’un tratto il cielo si fosse rannuvolato, dando spazio alla pioggia. Come una stagione che trapassa in un'altra, impercettibilmente, cancellando però cammin facendo baracche, vincoli umani. Restavano le parole, pesanti: catapecchie rase al suolo, villaggio cancellato, baraccopoli in macerie. E restavano le immagini, evocative se messe a raffronto con quel che s'era visto in precedenza. Era una settimana che i telegiornali mostravano il campo, collegandolo agli stupri di Milano. Si erano viste più volte quelle case per metà di cartone per metà di lamiere, raffazzonate e improbabili, qualche elettrodomestico appoggiato fuori casa accanto alla porta, i bambini che giocavano su terra battuta, gli adulti intervistati che facevano di tutto per prender le distanze dai presunti misfatti dei connazionali. Il tutto nell’afa dei giorni scorsi; sempre il crimine sembra svolgersi sotto qualche speciale cappa meteorologica.
Poi, d’un tratto, la scena cambia. S’accende la televisione, mercoledì 29 giugno, e si apprende che il campo non c'è più. All’alba sono passate le ruspe della polizia, in quattro ore hanno liquidato quel che c’era. Sullo schermo s’accampano le macerie e gli stessi nomadi che avevano condannato gli stupri, in fuga come da un’invasore. Lamiere spezzate, catapecchie schiacciate, suppellettili alla rinfusa come pestate da zampe meccaniche, i colori delle cose non più distinti ma accorpati in un intruglio esplosivo come nell'ultima scena di blow-up di Antonioni. Strano come la televisione possa ferocemente condurre all’essenza delle cose, a volte, proprio quando falsifica i fatti omettendo spiegazioni. A conclusione del servizio prendeva la parola un funzionario del Comune a Milano, magari aveva parecchio da chiarire ma la camera gli dava appena il tempo di dire: «Son soddisfatto».
Così, com’è stata mostrata, si presenta la verità delle cose: una vendetta contro le popolazioni civili, per presunti misfatti commessi da pochi e per placare grandi paure. Un'operazione che consiste nell'accusare interi gruppi di essere all'origine dei mali di cui soffre la società e di cui sono autori individui non ancora identificati. La decisione di liquidare l'oggetto fantasmatico dei nostri terrori, affinché sia ristabilito l'ordine fin qui riconfortante: la nostra identità nazionale o la sicurezza o la diversità fra il dentro e il fuori. La storia dell'umanità è un succedersi di eventi simili - di sacrifici compiuti per fingere la soluzione di insolubili problemi - e il procedimento ha da millenni il medesimo nome: è lo scatenarsi contro il capro espiatorio, e l'obiettivo è il ristabilimento, non importa quanto fittizio, dello smarrito patto sociale.
Nei suoi libri sul capro espiatorio, René Girard ha spiegato bene i meccanismi di questo collettivo ricostruirsi, attorno al bisogno d'accanimento sul diverso. Il sacrificio del capro è destinato a calmare gli dei addomesticando l'aggressività dell'uomo: quest'ultima viene incanalata, spostandola dal primordiale linciaggio collettivo alla vittima impersonata dalla bestia. I riti sacrificali che tornano a ledere l'uomo invece dell'animale fanno apparizione nelle società sviluppate quando tale bisogno s'estende, come in Italia, e quando la politica chiede ai magistrati di «tener maggiormente conto, in certi momenti storici, del comune sentire del popolo» (così s'è espresso in febbraio il ministro Castelli). Più sostanzialmente, compaiono quando gli uomini tendono a somigliarsi troppo, e spinti dall'imitazione invidiosa precipitano nella cosiddetta indifferenziazione: il capro ristabilisce la rassicurante differenza tra Noi e Loro, maggioranza-minoranza, indigeni-allogeni. Il vocabolario cerca parole nel linguaggio dell'igiene o della guerra. Si rade al suolo, si liquida, pulisce, bonifica. Il ministro dell'Interno francese Sarkozy, candidato presidenziale, ha promesso di ripulire la Courneuve, banlieue a rischio. Urge un «nettoyage au karcher» dei quartieri difficili, sostiene: una pulizia di quelle che strappano lo sporco con formidabili getti d'acqua a pressione (metodo detto karcher).
Ma il culto del castigo e del linguaggio espiatori non cade dai cieli. È alimentato dall'indifferenza-consenso con cui i riti vengono accolti, considerati normali, commentati da quelle frasi senza rimorso - «sono soddisfatto» - dette in tv. Il sacrificio del capro, per dar l'aria di servire, deve apparire legittimo alla maggioranza della comunità: in Italia è una legittimità fortemente condivisa.
Questo forse è l'elemento nuovo del mondo che abitiamo da quando la globalizzazione ha messo radici, e le democrazie sono impegnate nella guerra contro il terrore. Globalizzazione e terrore hanno aumentato enormemente il bisogno di ristabilire la differenziazione e la sacrificabilità dell'altro, dato a Satana come «parte che gli compete». Il cattolico conservatore Andrew Bacevich sostiene che Bush conduce una guerra pericolosa, che militarizza le menti della società (The New American Militarism: How Americans Are Seduced by War, Oxford University Press 2005, citato da Tony Judt su New York Review of Books). Così in Italia, in Europa. La partecipazione alla guerra anti-terrore e l'immigrazione giustificano politiche più restrittive, anche perché i due fenomeni vengono confusi. Uno stupro non può esser trivializzato, mai. Nelle moschee spesso si predica morte. Ma portare ordine nei quartieri o collaborare con l'antiterrorismo può sfociare nella logica del capro espiatorio e nella manipolazione politica della paura, come s'è visto a via Capo Rizzuto o nell'affare della polizia parallela scoperta a Genova. E s'accorda bene con l'assenso implicito dato a una Cia che non solo viola sovranità (tra alleati non è violazione illogica, se il nemico è mondiale) ma sequestra gli imam in Italia per consegnarli sistematicamente non alla giustizia Usa ma a inquisitori in Egitto (o Arabia Saudita, Giordania, Siria, Pakistan, Uzbekistan) che la tortura la praticano senza scrupolo né controllo.
Molti diritti si sono contratti, dopo l'11 settembre. Ma arriva il momento in cui si perde l'equilibrio tra rafforzamento della disciplina e fedeltà ai principi su cui son costruite le nostre società: il momento in cui i tabù civilizzatori cadono, anche nelle parole, con la scusa che ogni tabù è un conformismo politicamente corretto. Quel radere al suolo e quel linguaggio sono una vittoria della barbarie che si dice di combattere, non della civiltà che si pretende di difendere Si può discutere di dilemmi ineludibili, ma comunque urge sapere la storia che si sta facendo. La devono sapere politici e maestri, magistrati e poliziotti, giornalisti e cardinali, che discutono di dignità dell'uomo e troppo spesso su queste cose tacciono. Che desiderano si parli delle radici cristiane d'Europa, e sembrano quasi dimenticare che proprio il cristianesimo mette fine a ogni capro espiatorio. Soprattutto deve saperlo un paese che di baraccopoli ne ha viste tante fino a pochi anni orsono, ma abitate da noi stessi.
Chi l'abbia dimenticato può rivedere la baraccopoli di Miracolo a Milano, che De Sica girò appena 54 anni fa. Il capitalista Mobbi fa radere al suolo il villaggio, ma non per questo si dichiara pubblicamente «contento». E anche gli scacciati hanno speranze che i rom non hanno. Una magica colomba vien loro in aiuto, e a cavallo di magiche scope gli sfollati s'allontanano nei cieli, «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno».
lastampa.it
di Barbara Spinelli
Ci sono momenti in cui noi tutti siamo come sequestrati e portati lontano dalla verità delle cose. Non le vediamo nella loro essenza, abbiamo gli occhi come coperti da bende. Possiamo trovare spiegazioni a quel che accade, il più delle volte possiamo perfino giustificare gli eventi nuovi cui assistiamo o che noi stessi abbiamo contribuito a generare. Ma spiegazioni e giustificazioni hanno sovente un ruolo strano: sono la stoffa stessa di cui è fatta la benda. La verità è sequestrata in una sorta di mondo parallelo, simile a quello visibile ma inaccessibile alla coscienza, alla vigilanza. Il filosofo Raymond Aron diceva del presidente Giscard d'Estaing: «Il problema è che quest’uomo non sa che la storia è tragica». Qualcosa d'analogo pare accadere alle classi dirigenti d’oggi, compresi noi giornalisti: da un certo tempo - forse da quando son cominciate sia mondializzazione sia lotta antiterrorista nel 2001 - in Italia e in parte dell'Occidente non sappiamo che la storia che stiamo facendo è tragica. Alcuni segni lo dicono, tuttavia.
Uno di questi segni ci è stato mostrato nei giorni scorsi, quando i telegiornali hanno dato notizia dello sgombero di un campo nomadi nella periferia di Milano, a via Capo Rizzuto. La decisione di radere al suolo la baraccopoli rom aveva un motivo serio - il campo era abusivo e disordinato, la maggior parte degli abitanti era clandestina, i vicini erano in allarme dopo episodi di stupro attribuiti a zingari, e da tempo avevano messo fili spinati fra sé e i nomadi - ma il modo e il linguaggio in cui s'è svolta l’operazione sono stati di una violenza singolare: inaudita, rapida, e al contempo abissalmente banale.
L’operazione ha ricevuto il nome di Blitz, lampo, mescolando come spesso accade i processi naturali con quelli bellici. E come evento del tutto naturale è stata presentata: come se d’un tratto il cielo si fosse rannuvolato, dando spazio alla pioggia. Come una stagione che trapassa in un'altra, impercettibilmente, cancellando però cammin facendo baracche, vincoli umani. Restavano le parole, pesanti: catapecchie rase al suolo, villaggio cancellato, baraccopoli in macerie. E restavano le immagini, evocative se messe a raffronto con quel che s'era visto in precedenza. Era una settimana che i telegiornali mostravano il campo, collegandolo agli stupri di Milano. Si erano viste più volte quelle case per metà di cartone per metà di lamiere, raffazzonate e improbabili, qualche elettrodomestico appoggiato fuori casa accanto alla porta, i bambini che giocavano su terra battuta, gli adulti intervistati che facevano di tutto per prender le distanze dai presunti misfatti dei connazionali. Il tutto nell’afa dei giorni scorsi; sempre il crimine sembra svolgersi sotto qualche speciale cappa meteorologica.
Poi, d’un tratto, la scena cambia. S’accende la televisione, mercoledì 29 giugno, e si apprende che il campo non c'è più. All’alba sono passate le ruspe della polizia, in quattro ore hanno liquidato quel che c’era. Sullo schermo s’accampano le macerie e gli stessi nomadi che avevano condannato gli stupri, in fuga come da un’invasore. Lamiere spezzate, catapecchie schiacciate, suppellettili alla rinfusa come pestate da zampe meccaniche, i colori delle cose non più distinti ma accorpati in un intruglio esplosivo come nell'ultima scena di blow-up di Antonioni. Strano come la televisione possa ferocemente condurre all’essenza delle cose, a volte, proprio quando falsifica i fatti omettendo spiegazioni. A conclusione del servizio prendeva la parola un funzionario del Comune a Milano, magari aveva parecchio da chiarire ma la camera gli dava appena il tempo di dire: «Son soddisfatto».
Così, com’è stata mostrata, si presenta la verità delle cose: una vendetta contro le popolazioni civili, per presunti misfatti commessi da pochi e per placare grandi paure. Un'operazione che consiste nell'accusare interi gruppi di essere all'origine dei mali di cui soffre la società e di cui sono autori individui non ancora identificati. La decisione di liquidare l'oggetto fantasmatico dei nostri terrori, affinché sia ristabilito l'ordine fin qui riconfortante: la nostra identità nazionale o la sicurezza o la diversità fra il dentro e il fuori. La storia dell'umanità è un succedersi di eventi simili - di sacrifici compiuti per fingere la soluzione di insolubili problemi - e il procedimento ha da millenni il medesimo nome: è lo scatenarsi contro il capro espiatorio, e l'obiettivo è il ristabilimento, non importa quanto fittizio, dello smarrito patto sociale.
Nei suoi libri sul capro espiatorio, René Girard ha spiegato bene i meccanismi di questo collettivo ricostruirsi, attorno al bisogno d'accanimento sul diverso. Il sacrificio del capro è destinato a calmare gli dei addomesticando l'aggressività dell'uomo: quest'ultima viene incanalata, spostandola dal primordiale linciaggio collettivo alla vittima impersonata dalla bestia. I riti sacrificali che tornano a ledere l'uomo invece dell'animale fanno apparizione nelle società sviluppate quando tale bisogno s'estende, come in Italia, e quando la politica chiede ai magistrati di «tener maggiormente conto, in certi momenti storici, del comune sentire del popolo» (così s'è espresso in febbraio il ministro Castelli). Più sostanzialmente, compaiono quando gli uomini tendono a somigliarsi troppo, e spinti dall'imitazione invidiosa precipitano nella cosiddetta indifferenziazione: il capro ristabilisce la rassicurante differenza tra Noi e Loro, maggioranza-minoranza, indigeni-allogeni. Il vocabolario cerca parole nel linguaggio dell'igiene o della guerra. Si rade al suolo, si liquida, pulisce, bonifica. Il ministro dell'Interno francese Sarkozy, candidato presidenziale, ha promesso di ripulire la Courneuve, banlieue a rischio. Urge un «nettoyage au karcher» dei quartieri difficili, sostiene: una pulizia di quelle che strappano lo sporco con formidabili getti d'acqua a pressione (metodo detto karcher).
Ma il culto del castigo e del linguaggio espiatori non cade dai cieli. È alimentato dall'indifferenza-consenso con cui i riti vengono accolti, considerati normali, commentati da quelle frasi senza rimorso - «sono soddisfatto» - dette in tv. Il sacrificio del capro, per dar l'aria di servire, deve apparire legittimo alla maggioranza della comunità: in Italia è una legittimità fortemente condivisa.
Questo forse è l'elemento nuovo del mondo che abitiamo da quando la globalizzazione ha messo radici, e le democrazie sono impegnate nella guerra contro il terrore. Globalizzazione e terrore hanno aumentato enormemente il bisogno di ristabilire la differenziazione e la sacrificabilità dell'altro, dato a Satana come «parte che gli compete». Il cattolico conservatore Andrew Bacevich sostiene che Bush conduce una guerra pericolosa, che militarizza le menti della società (The New American Militarism: How Americans Are Seduced by War, Oxford University Press 2005, citato da Tony Judt su New York Review of Books). Così in Italia, in Europa. La partecipazione alla guerra anti-terrore e l'immigrazione giustificano politiche più restrittive, anche perché i due fenomeni vengono confusi. Uno stupro non può esser trivializzato, mai. Nelle moschee spesso si predica morte. Ma portare ordine nei quartieri o collaborare con l'antiterrorismo può sfociare nella logica del capro espiatorio e nella manipolazione politica della paura, come s'è visto a via Capo Rizzuto o nell'affare della polizia parallela scoperta a Genova. E s'accorda bene con l'assenso implicito dato a una Cia che non solo viola sovranità (tra alleati non è violazione illogica, se il nemico è mondiale) ma sequestra gli imam in Italia per consegnarli sistematicamente non alla giustizia Usa ma a inquisitori in Egitto (o Arabia Saudita, Giordania, Siria, Pakistan, Uzbekistan) che la tortura la praticano senza scrupolo né controllo.
Molti diritti si sono contratti, dopo l'11 settembre. Ma arriva il momento in cui si perde l'equilibrio tra rafforzamento della disciplina e fedeltà ai principi su cui son costruite le nostre società: il momento in cui i tabù civilizzatori cadono, anche nelle parole, con la scusa che ogni tabù è un conformismo politicamente corretto. Quel radere al suolo e quel linguaggio sono una vittoria della barbarie che si dice di combattere, non della civiltà che si pretende di difendere Si può discutere di dilemmi ineludibili, ma comunque urge sapere la storia che si sta facendo. La devono sapere politici e maestri, magistrati e poliziotti, giornalisti e cardinali, che discutono di dignità dell'uomo e troppo spesso su queste cose tacciono. Che desiderano si parli delle radici cristiane d'Europa, e sembrano quasi dimenticare che proprio il cristianesimo mette fine a ogni capro espiatorio. Soprattutto deve saperlo un paese che di baraccopoli ne ha viste tante fino a pochi anni orsono, ma abitate da noi stessi.
Chi l'abbia dimenticato può rivedere la baraccopoli di Miracolo a Milano, che De Sica girò appena 54 anni fa. Il capitalista Mobbi fa radere al suolo il villaggio, ma non per questo si dichiara pubblicamente «contento». E anche gli scacciati hanno speranze che i rom non hanno. Una magica colomba vien loro in aiuto, e a cavallo di magiche scope gli sfollati s'allontanano nei cieli, «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno».
lastampa.it
2.7.05
I 5 enigmi della vita (e dell’universo)
«Science» e le grandi questioni irrisolte: mondi lontani, coscienza, geni, età, popolazione
La rivista ha chiesto ai ricercatori di individuare le domande più urgenti. Ecco il risultato
Sono numerosi gli enigmi che la scienza deve risolvere per costruire una ragionevole conoscenza della realtà (e così continuerà ad essere, senza fine, anche in futuro), ma i più importanti misteri da sciogliere oggi sono cinque e quasi tutti riguardano la natura umana e la vita sulla Terra.
La domanda di quali siano se la sono posta i curatori della rivista Science, organo della potente American Association for the Advancement of Science. Per celebrare i 125 anni della nascita della pubblicazione è stata condotta un’indagine tra i ricercatori esaminando 125 «grandi domande» ancora senza risposta sui loro tavoli. La conclusione ha portato a concentrare l’attenzione su 25 ricerche giudicate più urgenti, dalle quali sono uscite le cinque che avranno forse la possibilità di essere risolte nei prossimi 25 anni.
Di che cosa è formato l’Universo? La domanda può sembrare banale, visto che conosciamo la natura del pianeta su cui abitiamo e delle mille galassie che popolano il cielo. Invece tutto ciò che riusciamo a vedere con potenti telescopi non rappresenta neanche il cinque per cento della massa di cui l’universo dovrebbe essere formato, per confermare la correttezza delle teorie fin qui ideate per spiegare il mondo. E il restante 95 per cento costituisce la famosa «massa mancante» o «materia oscura», come l’hanno anche battezzata gli astronomi con un pizzico di sinistra fantasia.
Dove sia e quale possa essere la sua natura, nessuno scienziato è riuscito ancora a spiegarlo. Ogni tanto sembra di raccogliere qualche indizio; qualche volta c’è chi azzarda la possibilità di una materia dalle caratteristiche ignote: il risultato è che viviamo in un Universo di cui ignoriamo la vera natura.
Quali sono le basi biologiche della coscienza? Il sogno è ardito, ma inseguito da sempre, e oggi che la biologia e la chimica hanno compiuto passi da gigante c’è la legittima speranza di decifrare i mattoni fondamentali, materiali, della coscienza; cioè l’elemento che distingue l’identità umana dal resto del regno animale. L’ambizione è un sogno impossibile? Può darsi, ma per trovare una risposta si parte dalla constatazione che mentre nel diciassettesimo secolo Cartesio giudicava separati il corpo e la mente, oggi la nostra visione scientifica tende ad unirli sostenendo che l’espressione mentale è frutto di processi che avvengono nel cervello. «Sappiamo che la corteccia frontale ha un ruolo nella coscienza— notaAlberto Oliverio, direttore dell’Istituto di psicobiologia del Cnr —; siamo però lontani dal poter dare spiegazioni accettabili e ci limitiamo a constatare l’esistenza della coscienza quando alcune parti del cervello sono lese ».
Perché l’uomo ha così pochi geni? Per i biologi è stata una sorpresa scoprire, costruendo il genoma umano, che i nostri geni sono appena 25 mila, un numero circa uguale a quello del comunissimo fiore Arabidopsis thaliana, che cresce spontaneo lungo i sentieri, e poco di più del verme Caenorhabditis elegans.
L’enigma da sciogliere è legato ai meccanismi evoluti che pochi geni sanno esprimere sino a costruire la stupefacente complessità dell’uomo. Ed è nella loro combinazione e nella ricchezza delle proteine che sanno generare il vero mistero da sciogliere.
Quanto può essere allungata la vita umana? Ci sono esperimenti interessanti sui topi e su alcuni vermi che hanno permesso di estendere la vita di questi animali al di là della norma. Ciò ha spinto molti scienziati a credere nella possibilità di rallentare i meccanismi della vecchiaia umana con l’obiettivo di vivere oltre i cento anni. Ma per altri ricercatori si tratta di un’idea ottimistica perché esisterebbe una programmazione inesorabile nella nostra natura impossibile da alterare oltre una certa soglia.
La Terra potrà sostenere la crescita della popolazione? Oggi siamo sei miliardi e il numero continua crescere. In passato studiosi come Thomas Malthus sostenevano che l’aumento delle popolazione avrebbe scatenato pestilenze, malattie mortali e guerre devastanti.
A parte qualche eccezione, ciò non sembra essersi materializzato. Ma certo tutti ci chiediamo fino a quando la Terra potrà garantire il nostro sviluppo. Ed è per questo che diversi scienziati giudicano come unica via d’uscita futura la colonizzazione di Marte, dopo aver reso il pianeta abitabile.
Giovanni Caprara
corriere.it
La rivista ha chiesto ai ricercatori di individuare le domande più urgenti. Ecco il risultato
Sono numerosi gli enigmi che la scienza deve risolvere per costruire una ragionevole conoscenza della realtà (e così continuerà ad essere, senza fine, anche in futuro), ma i più importanti misteri da sciogliere oggi sono cinque e quasi tutti riguardano la natura umana e la vita sulla Terra.
La domanda di quali siano se la sono posta i curatori della rivista Science, organo della potente American Association for the Advancement of Science. Per celebrare i 125 anni della nascita della pubblicazione è stata condotta un’indagine tra i ricercatori esaminando 125 «grandi domande» ancora senza risposta sui loro tavoli. La conclusione ha portato a concentrare l’attenzione su 25 ricerche giudicate più urgenti, dalle quali sono uscite le cinque che avranno forse la possibilità di essere risolte nei prossimi 25 anni.
Di che cosa è formato l’Universo? La domanda può sembrare banale, visto che conosciamo la natura del pianeta su cui abitiamo e delle mille galassie che popolano il cielo. Invece tutto ciò che riusciamo a vedere con potenti telescopi non rappresenta neanche il cinque per cento della massa di cui l’universo dovrebbe essere formato, per confermare la correttezza delle teorie fin qui ideate per spiegare il mondo. E il restante 95 per cento costituisce la famosa «massa mancante» o «materia oscura», come l’hanno anche battezzata gli astronomi con un pizzico di sinistra fantasia.
Dove sia e quale possa essere la sua natura, nessuno scienziato è riuscito ancora a spiegarlo. Ogni tanto sembra di raccogliere qualche indizio; qualche volta c’è chi azzarda la possibilità di una materia dalle caratteristiche ignote: il risultato è che viviamo in un Universo di cui ignoriamo la vera natura.
Quali sono le basi biologiche della coscienza? Il sogno è ardito, ma inseguito da sempre, e oggi che la biologia e la chimica hanno compiuto passi da gigante c’è la legittima speranza di decifrare i mattoni fondamentali, materiali, della coscienza; cioè l’elemento che distingue l’identità umana dal resto del regno animale. L’ambizione è un sogno impossibile? Può darsi, ma per trovare una risposta si parte dalla constatazione che mentre nel diciassettesimo secolo Cartesio giudicava separati il corpo e la mente, oggi la nostra visione scientifica tende ad unirli sostenendo che l’espressione mentale è frutto di processi che avvengono nel cervello. «Sappiamo che la corteccia frontale ha un ruolo nella coscienza— notaAlberto Oliverio, direttore dell’Istituto di psicobiologia del Cnr —; siamo però lontani dal poter dare spiegazioni accettabili e ci limitiamo a constatare l’esistenza della coscienza quando alcune parti del cervello sono lese ».
Perché l’uomo ha così pochi geni? Per i biologi è stata una sorpresa scoprire, costruendo il genoma umano, che i nostri geni sono appena 25 mila, un numero circa uguale a quello del comunissimo fiore Arabidopsis thaliana, che cresce spontaneo lungo i sentieri, e poco di più del verme Caenorhabditis elegans.
L’enigma da sciogliere è legato ai meccanismi evoluti che pochi geni sanno esprimere sino a costruire la stupefacente complessità dell’uomo. Ed è nella loro combinazione e nella ricchezza delle proteine che sanno generare il vero mistero da sciogliere.
Quanto può essere allungata la vita umana? Ci sono esperimenti interessanti sui topi e su alcuni vermi che hanno permesso di estendere la vita di questi animali al di là della norma. Ciò ha spinto molti scienziati a credere nella possibilità di rallentare i meccanismi della vecchiaia umana con l’obiettivo di vivere oltre i cento anni. Ma per altri ricercatori si tratta di un’idea ottimistica perché esisterebbe una programmazione inesorabile nella nostra natura impossibile da alterare oltre una certa soglia.
La Terra potrà sostenere la crescita della popolazione? Oggi siamo sei miliardi e il numero continua crescere. In passato studiosi come Thomas Malthus sostenevano che l’aumento delle popolazione avrebbe scatenato pestilenze, malattie mortali e guerre devastanti.
A parte qualche eccezione, ciò non sembra essersi materializzato. Ma certo tutti ci chiediamo fino a quando la Terra potrà garantire il nostro sviluppo. Ed è per questo che diversi scienziati giudicano come unica via d’uscita futura la colonizzazione di Marte, dopo aver reso il pianeta abitabile.
Giovanni Caprara
corriere.it
Iscriviti a:
Post (Atom)