17.7.05

Il furto d'impresa sul sapere comune

Conflitto aperto sulla proprietà intellettuale, tra alterne fortune. Le corporations equiparano i prodotti dell'ingegno ai beni fisici e non riconoscono che l'«opera d'arte» - il «contenuto» che poi rivendono più volte su supporti diversi - nasce in un ambiente disseminato di idee altrui, non pagate
FRANCO CARLINI
Alterne e ambigue sono le notizie dal fronte della proprietà intellettuale. Si succedono docce fredde e docce calde per gli uni, i sostenitori di copyright e brevetti, come per gli altri, i suoi avversari. Se la Corte Suprema degli Stati Uniti ritiene colpevole di violazione del copyright le aziende che offrono servizi di scambio dei file in modalità P2P, negli stessi giorni il parlamento europeo delude chi voleva brevettare tutto il software. Un assurdo brevetto per i kit diagnostici del tumore alla mammella viene riattivato in Europa, ma il consiglio inglese delle ricerche spinge per la massima circolazione delle pubblicazioni scientifiche. Queste e altre decine di notizie di segno opposto, tutte all'insegna dei diritti di proprietà intellettuale (IPR), ci ricordano che quella che stiamo vivendo è una fase di intensi conflitti tra diversi valori (il sapere pubblico contro il sapere privatizzato) e tra legittimi interessi materiali che le tecnologie digitali hanno posto in linea di collisione come mai prima: gli artisti contro le case musicali, i produttori di apparati elettronici contro i detentori dei contenuti, i consumatori contro i rivenditori eccetera.

In questo scenario i più radicali ed estremisti non sono gli hacker del software libero, ma le aziende della musica, in Italia rappresentate dalla Fimi (www.fimi.it) che negli ultimi mesi hanno abbandonato ogni prudenza linguistica e hanno scelto la linea dura: attivano loro task force alla scoperta dei diffusori di musica in rete (che poi segnalano alla Finanza), sono riuscite a far approvare emendamenti peggiorativi alla linea di relativa depenalizzazione su cui il parlamento di era impegnato a modifica del pessimo decreto Urbani e hanno scelto la linea della tolleranza zero.

Hanno imboccato insomma la strada, per loro stessi deleteria, di trattare da ladri i loro stessi clienti di musica e andranno ripagati con la stessa aggressività linguistica che hanno deciso di praticare per difendere allo spasimo la loro incapacità di adattarsi al mondo che cambia. Con la Fimi in questa fase ogni dialogo è decisamente precluso dal suo unilateralismo.

Su questa campagna della Fimi aleggia peraltro un vistoso fraintendimento: ufficialmente essa viene condotta in nome del rispetto della legalità, ma di fatto si tratta di ben altro, solo che si guardi la questione con occhio scevro da pregiudizi. «Non chiediamo niente di più che il rispetto del lavoro creativo e del legittimo diritto a goderne», si dice. Ma questa è solo la formulazione ufficiale, mentre altra è la realtà.

La realtà è un massiccio processo di furto (se preferite chiamiamola appropriazione) di conoscenze e saperi comuni da altri creati. I «ladri» sono le industrie del settore e questa operazione, per andare a buon fine, richiede non già il ripristino della legalità, ma al contrario la sua completa sovversione e destrutturazione.

Fino a ieri i beni immateriali, le opere dell'ingegno, hanno sempre goduto di una protezione limitata: lo stato accordava ai creativi un monopolio temporaneo e soggetto a molte limitazioni per incentivarli a innovare, ma insieme li obbligava a mettere in pubblico le idee e la loro espressione, a disposizione della società intera e del suo progresso.

Questo oggi non va più bene a Hollywood, alle case musicali e a molti artisti i quali oggi pretenderebbero di rovesciare il diritto vigente fino a rendere perenne quella che abusivamente affermano essere proprietà loro. Per farlo propongono un salto teorico vistoso, fatto di due affermazioni entrambe discutibilissime. La prima è che la proprietà sia un diritto naturale e non già un fatto storico, tema su cui la filosofia politica si interroga da sempre senza essere arrivata, com'è ovvio, a conclusioni univoche. La seconda è che la proprietà intellettuale sarebbe come quella dei beni fisici e che il possesso di una musica è come quella di un campo di patate. Dunque ogni compositore dovrebbe poter godere dei frutti del proprio lavoro in ogni tempo e luogo e lasciarlo ai suoi eredi proprio come il contadino deve poter vendere a chi vuole le sue patate e affittare o vendere il suo terreno a chi crede, lasciandolo poi a figli e nipoti.

Ma c'è una vistosa differenza che solo la malafede (anche di molti «artisti») può negare: ogni idea e ogni sua espressione non nasce dalla scintilla dell'intelligenza di un uomo solitario, ma è frutto del sapere e della cultura prodotti da milioni di altre persone delle generazioni precedenti e di quella contemporanea. Come modestamente Newton ebbe a riconoscere, ognuno si eleva «sulle spalle dei giganti» che l'hanno preceduto. Di suo ci aggiunge qualcosa, senza dubbio, ma il materiale e la cultura di partenza su cui si accende una canzone o la forma di una lampada sono in larghissima percentuale una «emergenza» basata sul patrimonio comune e storico che chiamiamo civiltà umane.

Persino le patate, del resto, non sono prodotto esclusivo di quel contadino singolo: altri le hanno portate in Europa dalle Americhe, altri le hanno incrociate e migliorate, altri hanno scoperto come coltivarle al meglio nei diversi terreni e lui stesso ora gode giustamente dei frutti di una lunghissima e diffusa conoscenza diffusa senza la quale mangeremmo ancora radici selvatiche e amarissime, essendo rimasti «cacciatori e raccoglitori», anziché allevatori e agricoltori.

Dunque il movimento attuale è per alcuni aspetti simile a quel processo di «enclosure» (recintamento) dei terreni pubblici, pascoli e campi, che si sviluppò in Inghilterra nel `600, attribuendo diritti di proprietà a dei beni che fino ad allora erano stati comuni. James Boyle, professore di legge alla Duke university lo chiama appunto «The Second Enclosure Movement» e il saggio relativo si trova all'indirizzo www.law.duke.edu/pd/papers/boyle.pdf. Questo testo è liberamente scaricabile e riusabile secondo la licenza Creative Commons, che viene usata volontariamente da molti autori per sottrarre le loro opere al copyright classico, garantendone una diffusione ampia senza fini di lucro.

La sua lettura è particolarmente utile, anche perché ci ripropone alcuni brani preziosi di uno studioso sociale troppo trascurato e il cui pensiero oggi riemerge con prepotenza, Karl Polanyi, il quale per esempio scriveva: «le enclosures sono state correttamente definite una rivoluzione dei ricchi contro i poveri. I lord e i nobili rovesciavano l'ordine sociale, rompendo la legge e le usanze precedenti talora per mezzo della violenza, spesso con pressioni e intimidazioni. Essi letteralmente derubavano i poveri delle loro quote di beni comuni».

Quando un artista va in Africa con una videocamera catturando suoni, colori e forme di quei popoli e poi torna a casa e remixandoli ne fa musiche da Sanremo, tazze da the per i supermercati, T-shirt per i giovani consumatori, borsette per via Monte Napoleone, quale prezzo paga per quel «copia e incolla» di idee altrui? E come può pretendere di avere un diritto secolare su quei prodotti? E con che faccia tosta invocherà la Guardia di finanza contro quegli africani che vendono sulle spiagge delle imitazioni dei prodotti che lui a copiato dalle loro terre e dalle loro genti?

Mai come nel caso delle idee risulta chiaro come l'idea storica di proprietà si associ sempre a un furto. E' un termine tecnico e dunque non si offendano troppo Celentano né Gino Paoli: vuol dire soltanto che tutti siamo debitori dei legami sociali e delle idee di molti altri, anche quando non lo sappiamo e non li conosciamo. Ma è giunta l'ora di saperlo.
il manifesto

3 commenti:

oakleyses ha detto...

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