Oggi e domani al Telecom Italia Future Centre di Venezia un convegno, proiezioni di celebri filmati e una serie di altre iniziative descriveranno lo stato dell'arte della robotica, tra profezie fantascientifiche e investimenti miliardari
PAOLO MAROCCO
Nel 1920 lo scrittore e commediografo boemo Karel Capek scrisse un romanzo di fantapolitica, Rossum Universal Robots, nel quale coniò un termine che sarebbe diventato il modo più diffuso per definire l'essere artificiale, insieme ad automa, droide, antropoide, e tutta la catena di sinonimi che seguiranno. La parola robot ha una etimologia curiosa, poiché deriva dal vocabolo ceco robota che significa lavoro non retribuito, obbligatorio, forzato, ossia le prerogative di una creatura che, come nel romanzo di Capek, sostituisce l'uomo nei compiti che meno gli aggradano. Questa caratteristica si contrappone visibilmente al precedente passato degli automi, quelli di sette-ottocento, costruiti con finalità ludiche e ospiti dei salotti mondani, quindi lontanissimi dal sudicio vapore delle ciminiere che iniziavano a invadere le città industriali. Il primo robot della storia del cinema, o perlomeno il primo a diventare famoso in tutto il mondo, la Maria di Metropolis (1926) è una trasformazione del personaggio di Capek: nel film di Fritz Lang il popolo non gioca né si diverte, né tantomeno ci sono robot fedeli e apprensivi che lavorano duramente e cooperano con la nostra razza; l'automa però non è più coinvolto direttamente nelle operazioni meccaniche, bensì assume compiti direttivi, diventando un capo che organizzerà una rivolta. La modernità attribuisce al robot una coscienza che supera la dipendenza funzionale, gli attribuisce il libero arbitrio e la conquista di prerogative umane, inaugurando un filone che dilagherà nel nuovo secolo. Dieci anni dopo, un film americano, La bambola del diavolo di Tod Browning, riprenderà il polo ludico anche se in chiave demoniaca: la figura del giocattolo perfetto comandato dall'uomo. I piccoli protagonisti del film, a metà tra gli automi e gli umani, vengono venduti in un negozio di giocattoli, a memoria dell'industria degli home toys automatici, fiorente prima della Grande guerra.
Fino a questo punto, la sembianza umana della macchina, nella sua intelligenza e autonomia, all'interno del tempo del lavoro o del tempo libero, resta comunque tangibilmente legata al passato: l'afflato vitale è fornito da iniziative spiritistiche o da un elettromagnetismo di natura galvanica e oscura, i fulmini e le scintille che coronano la creazione dell'automa di Metropolis sono parenti stretti del Frankestein di Mary Shelley. Occorrerà ancora qualche anno affinché la tecnologia propria della modernità, inondi con la razionalità di circuiti e valvole i principi attivi della macchine: i robot di Asimov, costruiti su tecnologia positronica, un termine che oggi non significa più nulla ma che nel 1950 restituiva tutto il sapore delle recenti ricerche della fisica condito con un'ingegneria del calcolo che stava uscendo dai laboratori universitari e militari, testimoniavano la nuova era. L'automa si era accoppiato con il computer. Il fascino e lo stupore che circondano da secoli gli esseri artificiali sono sicuramente indipendenti dalla tecnologia adottata di volta in volta, e capace di varcare confini storici, culturali nonché di attraversare la moltitudine delle attività umane. Da Le Canard Digérateur dell'inventore settecentesco Jacques de Vaucanson, un'anitra meccanica che batteva le ali, ingeriva del grano e lo metabolizzava artificialmente per poi evacuarlo in appropriate forme e consistenze chimiche, ai recenti campionati di calcio dei Robot (La Robocup) la figura dell'automa ci ripropone l'enigma della vita stessa, offrendo all'uomo la possibilità di intervenire direttamente nella segreta catena creatura-creatore. Dapprima servendosi di pratiche spirituali e alchemiche, in seguito, a partire dalla rivoluzione scientifica secentesca, utilizzando manufatti meccanici non solo più controllabili ma appartenenti a competenze oggettive e comunicabili. Alla luce di questa invariante millenaria, non può che suscitare interesse il convegno «Robot, i noti ignoti» che si svolge in questi giorni a Venezia, nel quale la profetica visione della fantascienza del secolo scorso invade la realtà delle tecnologie robotiche di oggi. L'incontro, che prevede anche una show room dove verranno presentati alcuni automi all'opera, come Autoportrait il robot pittore ritrattista di Matthias Gommel e i robot capaci di autoriprodursi di Hod Lipson, si apre proprio con l'idea di offrire una panoramica sull'articolata area nel quale si muove oggi la robotica, dal fronte professionale a quello ludico.
Sebbene in tutti e due i casi la fantascienza abbia attribuito al robot una sembianza antropomorfa, la realtà delle presse robotizzate, che già negli anni ottanta costituivano le nuove formule dell'automazione di fabbrica, era ovviamente ben lontana da possedere credenziali umane. La parola robot entra nell'economia industriale come immagine di macchina che sostituisce e meccanicizza alcune attività umane di basso profilo, non certo come apparato che ambisce a trasformarsi in un essere attraente, intelligente e autonomo. Queste caratteristiche vengono catturate ancora una volta dal mercato ludico che nell'ultimo decennio, specialmente grazie alle ricerche di giapponesi e coreani, si è riappropriato dell'imitazione tout-court dell'umano, aderendo perfettamente alla tradizione secolare degli automi. A questo proposito il convegno propone, tra l'altro, un intervento di Hee Lee dell'Università di Seul, in cui emerge un aspetto che l'entusiasmo fanatico dei media non tende ad affrontare nella sua globalità, e che invece sarà tra breve sotto gli occhi di tutti: la convergenza tra le due aree di sviluppo più promettente di questo secolo: L'Information Technology da un lato, e la Robot Technology dall'altro. Sebbene si basino entrambe su una piattaforma informatica, con un valore aggiunto bio-tecnico del secondo caso, le caratteristiche socio-funzionali non potrebbero essere più lontane. L'informatica distribuita, che ormai ha aggredito il mercato delle telecomunicazioni (ossia il patchwork farraginosamente eterogeneo costituito da Pc, Web, Tv e cellulari che si profila sempre più verso la costituzione di un media unico) non rispetta ovviamente il centro deittico fondamentale dell'uomo: l'io-qui-ora che necessariamente caratterizza il parlante nel suo contesto d'azione. Ovvio: le finalità di virtuale ubiquità e di dematerializzazione posizionale del nuovo super-media nascono e crescono proprio in senso opposto. I nostri nuovi cugini, invece, i Robot antropomorfi, rispettano alla lettera il centro spazio-temporale della nostra povera e limitata realtà. L'integrazione tra i due settori rischia quindi di diventare la sorpresa del secolo nascente, dove le possibilità di controllo remoto dell'antropoide offrono sulla carta significative opportunità di intervento sia in campo esplorativo e di soccorso in aree di difficile accesso, sia in campo biomedico, dove la possibilità di pilotare a distanza strumenti chirurgici potrebbe indubbiamente favorire gli ospedali non opportunamente attrezzati. Tutto questo, assumendo il riferimento della visibilità attuale, e rispettando al meglio le possibilità altruistiche e costruttive dell'incontro tra i due settori. Ma in gioco c'è molto di più: la trasformazione di una cultura legata alla realtà sensoriale dello spazio euclideo che ci circonda, e che fin ora non ha subito troppi scossoni, proprio perché ancora centrata su esseri, noi stessi, che localizzano le attività di pensiero, e le remotizzano servendosi di strumenti dai quali sono ben distinti, e che non hanno nulla di somigliante con loro. Mentre l'ibridazione tra il dispositivo e l'essere comporta una trasformazione ben poco prevedibile perché ricorsivamente applicata a se stessa, quindi di ordine superiore.
Ad arricchire ulteriormente questo dibattito, interverrà Domenico Parisi, del Cnr di Roma, che si sofferma sul futuro della robotica, rilevando la progettualità della macchine attuali, certamente capaci di assorbire le nuove frontiere tecnologiche e comunicazionali, ma raramente condotta verso parametri evolutivi e morfologicamente adattativi all'ambiente, un limite che rinvia alla differenza fondamentale tra il biologico e le sue emulazioni. La macchina rimane alla fin fine un frutto della concettualità umana, cosa che l'uomo banalmente non è.
il manifesto
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