16.7.05

L'immagine a flusso globale

ARTE E POLITICA

Una ricognizione del panorama attuale dove il carattere di testimonianza intrinseco a tante espressioni artistiche rende evidente la ripresa del riferimento etico-politico. Trent'anni dopo molto è cambiato ma altrettanti elementi ci riportano alla stagione della inderogabilità dell'impegno

MASSIMO CARBONI

Chi si aggira per le sale e gli ambienti della Biennale veneziana ancora in corso, non può non accorgersene. Una voce registrata scandisce regolamenti e cifre della mostra: dalle norme di accesso ai prezzi del bar fino al compenso del presidente Croff. È un intervento (dello spagnolo Santiago Serra) tra i tanti di questa edizione che sarebbero difficile non definire a loro modo «politici». Troppe volte preda dell'irrigidimento ideologico, della pretenziosità pedagogica, della petulanza didascalica, il rapporto tra arte e politica ha talora felicemente, più spesso tragicamente attraversato tutto il Novecento. Lasciamo perdere qui l'orizzonte più intrinsecamente teorico secondo il quale (giustamente) un'autentica opera d'arte è sempre in sé «politica» in quanto profila un universo di possibili trainati al di là dell'esistente. Concentriamoci invece sulla situazione attuale.

Il filo rosso di una stagione

Gli artisti latino-americani e quelli dell'Est europeo, l'olandese Marc Bijl e lo svizzero Gianni Motti, la palestinese Mona Hatoum, il kosovaro Sislej Xhafa, le statunitensi Guerrilla Girls, sono solo pochi esempi di una panorama che vede da qualche anno la ripresa del riferimento etico-politico nell'opera d'arte. Che si fa veicolo più o meno aggressivo del pensiero indisciplinato, di azioni di disturbo sociale e di protesta contro la globalizzazione liberista, nell'ormai acquisita (almeno si spera) consapevolezza che essa è perfettamente in grado di incorporare e rivendere la propria stessa critica debitamente spettacolarizzata. E pure è significativo che la cover story del numero della rivista «Artforum» dello scorso settembre sia dedicata alla political season e includa un lungo articolo del filosofo e critico d'arte Arthur Danto, dove si ricostruisce il filo rosso che percorre questa «stagione» dagli anni Cinquanta fino all'utilizzo da parte degli artisti delle immagini del pestaggio di Rodney King e di Abu Ghraib.

Questo, in estrema sintesi, il panorama attuale, che si incrocia con quello dell'«arte pubblica» (di cui ci siamo occupati il 4 febbraio). Sospetto e tendenzioso è l'atteggiamento di chi legge il presente unicamente alla luce del passato per dimostrare che non c'è mai nulla di nuovo; ma forse è ancor più sospetto l'atteggiamento di chi appiattisce l'attualità su se stessa tanto da farle perdere ogni spessore storico e il debito di memoria di cui deve farsi carico.

La lezione del nemico

Questo per dire che il rilievo etico e pratico-politico assunto da molti episodi artistici odierni ci rimanda dritti agli anni Settanta. Clima, contesti, condizioni diverse: certo. Ma sarebbe scontato, ovvio, banale arrendersi all'evidenza del tempo che passa e naturalmente trasforma. Più produttivo sembra, invece, muoversi in controtendenza rispetto al triviale riscontro della diversità dei contesti storici. Lasciamo perdere il prevedibile rilievo secondo cui negli anni Settanta gli artisti erano «ideologizzati» e oggi sarebbero liberi da questo fardello, perché ormai si è capito che quello sulla «fine delle ideologie» è appunto lo slogan dell'ideologia rimasta vincente. Più pregnante la constatazione, indubitabilmente corretta, sull'utilizzo odierno, da parte degli artisti, degli stessi strumenti massmediali di cui si serve la società dello spettacolo mercificato. Ma negli anni Settanta - anche se non c'era ancora Internet e il computer non era diffuso - l'atteggiamento era identico, e chi lavorava ad esempio con il video (le videoinstallazioni nacquero allora) compiva una precisa scelta politica nel piegare a fini non previsti e insubordinati un medium creato per l'intrattenimento. Che l'intimità con il nemico fornisca forze per delegittimarlo non è scoperta di oggi. Nelle opere, nelle performances a forte attinenza «politica», la componente più tradizionalmente artistico-formale (in termini aristotelici ma qui perspicui: poietica) si indebolisce a favore dell'innesco «creativo» di rapporti interpersonali, della sollecitazione di processi di presa di coscienza sociale.

È precisamente ciò che già avveniva nell'arte internazionale di trenta e più anni fa: il linguaggio, i codici stilistici, le forme erano un mezzo per un fine (la «liberazione» dei rapporti umani) che lo superava. E il Living Theatre o l'Odin di Grotowsky non erano forse, oltre che compagnie teatrali, «comunità nascenti» di donne e uomini per le quali l'arte era solo uno dei modi per risvegliare le coscienze a se stesse? Oggi sono sulla scena molti gruppi e collettivi di artisti - dai significans tedeschi ai Petra avenue svedesi, agli italiani stalker/on e out/da: dialogano, coordinano, interagiscono volta per volta con diversi gruppi di cittadini mobilitati su obbiettivi sociali (recuperi urbani, qualità della vita metropolitana), adottando una pluralità di strategie comunicative condivise e responsabili allo scopo di trasformare l'esistente. Ebbene, scontate di nuovo le ovvie differenze, bisogna avere il coraggio di dire che in questi casi emerge un ruolo che ricorda molto da vicino quello giocato (in maniera più provinciale, più naïf) dagli artisti che affiancavano le sinistre (Pci e gruppi extraparlamentari) ai tempi - metà anni Settanta - della loro affermazione negli enti locali e del conseguente decentramento culturale, autoassegnandosi compiti di animazione, socializzazione, partecipazione contro la già allora insorgente frammentazione sociale. Nell'ultimo segmento di questa stagione, una mostra su tre non poteva non toccare il rapporto tra arte e politica: da Beuys a Hans Haacke (del quale compare una lunga intervista nel già citato numero di «Artforum»), da fluxus a molti artisti concettuali fino al teatro sperimentale-politico. Non è malevola questa brevissima rievocazione, non ho lo scopo di sotterrare il nuovo nel vecchio. Ne ha un altro: l'arte moderno-contemporanea è come Proteo, può assumere ogni forma, è in perpetua trasformazione, fa continuamente esodo da se stessa. Ciò significa che il rilievo politico, la responsabilità etica dell'opera d'arte possono benissimo essere interpretati anche come stili, strategie, atteggiamenti rituali che appunto in quanto tali possono venire ripresi, citati, ri-montati in condizioni diverse. L'attuale situazione può essere letta anche sotto questa luce: non maliziosa né malfidata, ma culturalmente avvertita. Ma allora qual è il problema davvero di fondo, quello che ci consentirà di fare un passaggio che è quasi un mutamento di rotta, un ribaltamento del tavolo da gioco? «Non bisogna dipingere l'assassinio di Cesare. Bisogna essere Bruto», scriveva Blanchot. Attingere alla dimensione politica sperando di incidere sul reale, è stato uno dei tentativi attraverso i quali l'arte ha preteso di uccidere Cesare continuando a «dipingere», cioè permanendo nel cerchio magico dell'immaginario invece di accedere direttamente - ma perdendo se stessa, la propria identità simbolica - al movimento del vero. Per fare questo, però, ci vuole un popolo. E quale più grande tragedia ha vissuto nel Novecento l'arte d'avanguardia, problematica, l'arte interrogante se non quella di una frattura sociale e culturale irricomponibile?

«Noi artisti», scriveva Klee negli anni Trenta all'epoca del Bauhaus, «non abbiamo il sostegno di un popolo... ma un popolo noi lo cerchiamo». E Carmelo Bene, quarant'anni dopo: «Io faccio del teatro popolare, etnico. Ma è il popolo che manca». Qui sta il punto. Gli artisti usano i mezzi di riproduzione tecnologica avanzata dell'immagine; ma quei mezzi afferiscono di per se stessi ad un pubblico di massa (anche se composto di quante «tribù» o «nicchie» si voglia), si definiscono in relazione a quello che Klee e Bene chiamavano un popolo. Perché il rilievo della prassi politica, della responsabilità etica sia e permanga autentico ed efficace, l'arte dovrà dunque rinunciare a se stessa, mutare tanto profondamente il suo statuto, la sua fenomenologia, da non riconoscersi più come tale?

Se estendiamo l'accezione meramente artistica dell'immagine a quella più estesamente massmediale e «antropologica», allora vedremo indebolirsi i suoi tratti di innovatività, il suo carattere istitutivo, cioè di matrice di altre immagini, artistiche e non, e prevalere invece le sua capacità di comunicazione diffusa, non criptata ed elitaria (come spesso è quella dell'arte contemporanea). E soprattutto vedremo intensificarsi lo statuto collettivo, testimoniale e veridico dell'immagine, il suo carattere storico-indiziale.

Chissà, forse è questo l'orizzonte che Benjamin traguardava nel 1936 quando - a conclusione del suo celeberrimo saggio sull'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica - auspicava una politicizzazione dell'arte da opporre all'estetizzazione della politica praticata allora dai regimi nazifascisti e oggi dalle democrazie dello spettacolo.

E qui si spalancano scenari mobili, frastagliati eppure a loro modo coerenti. I temi dell'archivio e della testimonianza sono al centro dell'attuale riflessione filosofica, da Derrida a Rancière ad Agamben. Il sociologo Luc Boltansky (fratello dell'artista Christian) nello Spettacolo del dolore (ed. Cortina) analizza con grande finezza l'incrocio mediatico - e spesso perverso - tra morale umanitaria e politica. Il detonatore di Abu Ghraib e delle foto digitali che da quell'inferno sono uscite è all'inizio del percorso dell'ottimo e informatissimo L'occhio che uccide (ed. Meltemi) di Giovanni Fiorentino, sui rapporti - sospesi tra censura e flusso globale - tra l'immagine fotografica e la guerra.

Le prove visive dei campi di sterminio sono al centro dell'ultimo libro di Georges Didi-Huberman Immagini malgrado tutto (ed. Cortina) in cui la potenzialità storico-conoscitiva e politica dell'immagine collega le quattro terribili istantanee dello sterminio in atto - scattate a rischio della vita da un componente di un Sonderkammando di Auschwitz - a Histoiré(s) du cinema, l'ultima fatica di Jean Luc Godard. E ancora: l'interstizialità decostruttiva di un programma come «Blob» o le foto scattate con i cellulari e trasmesse in tempo quasi-reale dagli stessi testimoni oculari degli attentati londinesi, subito rilanciate da innumerevoli siti come Wikipedia, che le ha archiviate il giorno stesso alla voce «7 July London Bombings», non ruotano forse attorno al medesimo interrogativo? E cioè: non tanto che rapporto abbiamo noi con l'immagine (come ne fossimo fuori), bensì in che modo e quanto profondamente l'immagine ridefinisce noi attraverso il suo carattere inventivo e storico, creativo e indiziale, costruito e testimoniale. Vale a dire con un carattere che va al di là dell'opera d'arte tradizionalmente intesa. Sicuramente è all'interno di questa rimotivazione etico-politica dell'immagine o meglio - nel caso specifico - dell'immagine-sequenza, che va inserito il formidabile successo ottenuto negli ultimi anni dal genere documentario o, si potrebbe dire, dal cinema no fiction.

L'inaggirabile materialità del reale

Il lavoro di Michael Moore potrà anche apparire per certi versi sopravvalutato, ma vorrà pur dire qualcosa in termini di comunicazione critica e accoglimento sociale delle sue istanze il fatto che Fahrenheit 9/11 ha incassato negli Stati Uniti solo nelle sale - al netto quindi della vendita dei dvd - ben 119 milioni di dollari. E quello di Moore è tutt'altro che un caso isolato. Morgan Spurlock - novello body artista - per realizzare il suo Supersize me si è ingozzato come un'oca francese di coca-cola, patatine fritte e mega-hamburger Mc Donald's fin quasi al collasso ipercalorico. The Corporation è un'analisi gelidamente «scientifica» dello strapotere e dei crimini delle multinazionali. E molti altri esempi si potrebbero fare.

Le spiegazioni del successo di questo genere di opere sono numerose. Non ultima, la rinnovata messa a tema dell'inaggirabile materialità del reale dopo anni in cui (pur con indubbie ragioni) se ne era teorizzato l'assottigliamento fino all'evaporazione nel mondo mediatico (con «parole d'ordine» del tipo la baudrillardiana «la guerre du Golfe n'a pas eu lieu»). Ciò tuttavia non significa (basta vedere solo uno di questi film no fiction per rendersene conto) un ritorno alla credenza ingenua nell'esposizione immediata di una realtà che parlerebbe da sola (il vecchio «cinema-verità»). Al contrario, è evidente la consapevolezza della medialità linguistica del prodotto e dell'artificialità del punto di vista - rappresentato in prima istanza dal montaggio - che rende intelligibile il reale. La verità è sempre una costruzione, mai un semplice riscontro. Qui, si tratta di una realtà-verità «costruita» testimonialmente e non finzionalmente.

Il feticcio della comunicazione

E dunque? È forse arrivato il tempo in cui l'arte sta compiutamente assumendo quel «carattere di passato» che Hegel profetizzava quasi due secoli fa? Se così accadesse, e se la posta in palio fosse l'intelligibilità creativa del presente, nessun rimpianto. Ma giunti a questa soglia estrema, ci accorgiamo che resta esente da critica e tacitamente presupposto il concetto (o il feticcio?) di comunicazione. Certo: si cerca di comunicare in maniera radicalmente diversa dalle forme dell'intrattenimento alienante di massa. Ma comunque di comunicare, funzione costitutiva dell'umano. «I tiranni odierni non hanno nessuna paura di coloro che parlano... È molto più temibile il silenzio» scriveva Jünger in Oltre la linea. Sarebbe questa, per chi fosse disposto a spingersi «oltre la linea», la paradossale risorsa, la forma estrema e ancora ignota di delegittimazione del potere?

il manifesto

Nessun commento: