13.8.07

Il gusto perduto della critica

Una idea imperfetta ha sempre un avvenire Elias Canetti
Quarta puntata dell'agosto letterario. Solo vent'anni fa - scrive Emile Zola in questo articolo inedito, datato 1865 e di amarissima attualità - i giornali davano alla politica e alla letteratura tutto lo spazio necessario. Il pensiero critico, in quel momento felice, era a proprio agio. Ora, invece, l'assioma di ogni direttore è che articoli troppo lunghi non si leggono L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. La gente vuole no
Emile Zola

In questo momento, in Francia, non abbiamo più critica. Questa è l'espressione che sento ripetere attorno a me, da quando è morto Sainte-Beuve. Formalmente, nulla da eccepire, il ruolo della critica, in letteratura, tuttavia, ha ancora una grande importanza. Certamente, non credo alla sua influenza, diretta o meno, sul piano letterario. Non siamo più ai tempi in cui si potevano richiamare gli scrittori al rispetto dei generi e delle regole, in cui la critica distribuiva colpi di bacchetta comportandosi come un maestro di provincia. Essa non si assegna più la missione pedagogica di correggere, di segnalare gli errori come nel compito di uno studente, di imbrattare i capolavori con annotazioni da retori e grammatici. La critica si è allargata, è diventata uno studio anatomico degli scrittori e delle loro opere. Prende un uomo, prende un libro, lo seziona, si sforza di mostrare attraverso quale meccanismo quell'uomo ha prodotto il tal libro, si accontenta di spiegare, di preparare un verbale. Il temperamento dell'autore viene approfondito, stabiliti i mezzi e le circostante in cui ha lavorato, l'opera vi appare come l'inevitabile prodotto, buono o cattivo, del quale si tratta unicamente di mostrare la ragion d'essere.
Il gusto di una generazione
In questo modo, ogni operazione critica si limita a constatare un fatto, passando dalle cause che l'hanno prodotto alle conseguenze che ne deriveranno. Un lavoro del genere contiene indubbiamente una lezione e osservandosi in uno specchio tanto fedele lo scrittore può riflettere, conoscere le proprie infermità, sforzandosi di mascherarle il più possibile. Un solo fatto, però: la lezione arriva dall'alto, fuoriesce dalla verità stessa del ritratto e non è più il compassato insegnamento di un professore. La critica espone, non insegna. Essa ha compreso da sé che la propria influenza sul piano letterario era pressappoco nulla, poiché gli umori rimangono poco addomesticabili. Allora, ha preferito interpretare il bel ruolo di scrivere la storia della critica contemporanea, esplicata e commentata. La sua attuale importanza è dunque quella di segnalare i movimenti letterari in corso. Deve esserci, essere sempre presente, come un innesto, a registrare i fatti nuovi, a constatare in quale direzione marcia una generazione di scrittori. Il pubblico, che l'originalità evidentemente getta nello sconcerto, ha bisogno di essere rassicurato e condotto per mano. Un critico che possieda autorità sui propri lettori può rendere i più grandi servigi. Si accetta tutto da lui, si attende che parli per credergli sulla parola. Perciò, se è di vedute abbastanza larghe, se accoglie anche i temperamenti più originali, lui solo ha il potere di imporli al pubblico esitante. Studierà questi temperamenti, mostrerà le rare qualità di cui sono portatori, educherà in questo modo il pubblico che finirà per addomesticarsi. Non c'è ruolo migliore da interpretare che quello di abituare la grande massa agli inquietanti splendori del genio. Andrò ancora avanti, dicendo che ogni generazione, ogni gruppo di scrittori ha bisogno di avere il proprio critico che li comprenda e li volgarizzi. Si capisce che il critico, così inteso, debba nascere con la generazione di scrittori che andrà a rivelare e a imporre. Gli serve il «gusto» di questa generazione, gli stessi amori e gli stessi disamori. (...)
Ho detto che Sainte-Beuve è stato, da noi, l'ultimo critico. Restringo qui il senso del termine «critico» a quello di critica letteraria, che giudica opere nuove, man mano che vengono pubblicate. Sainte-Beuve, dall'istinto classico, è però cresciuto in pieno movimento romantico. Viene da lì il suo intestardirsi nel non comprendere né Stendhal, né Balzac. Stendhal, in particolare, gli era completamente precluso. Quanto a Balzac, sappiamo che si è trattato di una delle sue bestie nere. Ma ciò che fa di Sainte-Beuve una delle più alte personalità di questo tempo sono le sua ammirevoli capacità di comprensione e di analisi. Sembrava fatto per comprendere ogni cosa. In questo modo, è lui che ha dato vita alla critica così come io la definivo poco fa. Si è sganciato dalla scuola di La Harpe, studiando l'uomo prima di studiare l'opera, preoccupandosi del contesto, delle circostanze, del taglio del carattere. E, cosa che sopra ogni altra bisogna notare, non ha mai avuto una dottrina, non si è mai rinserrato in un metodo o in una formula. Soltanto la natura del suo talento gli ha fatto scoprire lo strumento di cui si è servito. Nessuno ha ancora dispiegato una simile duttilità. In lui si riscontrava un tratto femminile, una maniera gentile e ammaliante di procedere, movimenti graziosi e raffinati che terminavano spesso con dolorose ferite.
Tutte le aspettative in Taine
Anche i suoi difetti derivavano da questa duttilità e da questa andatura obliqua. Si perdeva nell'incomprensibile per essere agile, finiva per incastrarsi in frasi troppo cariche di incisi, quando non voleva far passare che un abbozzo del suo vero pensiero. Altri hanno avuto la sua erudizione, la sua conoscenza sterminata della nostra letteratura, altri hanno potuto penetrare più a fondo nei libri, ma nessuno, per certo, si è addentrato così profondamente nel cuore e nell'animo di taluni scrittori.
I giovani romanzieri avevano riposto le loro speranze in Taine. Appariva loro come lo scrittore che stava per prendere la parola, in nome della verità e della libertà delle lettere. In quel momento, Taine sembrava dover ribaltare la filosofia. Portava un metodo, condensava in formule tante idee portate alla critica da Sainte-Beuve. La sua freddezza, la sua analisi ridotta a una sorta di operazione meccanica, seducevano i giovani estendendo alle cose dello spirito procedimenti usati fino a quel momento solo nell'ambito delle scienze naturali. Si trattava di una critica naturalista che marciava di pari passo con il romanzo naturalista. Si poteva anche credere che fosse finalmente arrivato il portabandiera di una nuova generazione letteraria, dal momento che Taine aveva scritto uno stupendo studio su Balzac, da lui equiparato a Shakespeare.
Oggi, quei romanzieri devono ammettere che si sono sbagliati. Taine non sarà mai il giudice che aspettano, per molte ragioni. Taine era prima di tutto un letterato: il suo occhio si chiude, soltanto la sua intelligenza funziona. Il suo ambiente ideale è una biblioteca. Fa meraviglie, scalando montagne di libri, prendendo note in quantità smisurata, traendo tutte le sue opere dalle opere altrui. È un compilatore che possiede il genio della classificazione. Ma, per la strada, non so proprio se riesca a scorgere le vetture che passano. La vita gli sfugge, la realtà non lo tocca nemmeno. Da questo fatto, forse inconsciamente, gli viene il disgusto per tutto quanto è vivo. Si è ritratto dalla bagarre contemporanea per rinserrarsi in considerevoli studi di storia e filosofia. Rimuove con amore la polvere dai vecchi documenti. Per intravedere uno scrittore, che vive e scrive accanto a lui, gli servirebbe uno sforzo considerevole. In poche parole, non respira più la stessa aria che respiriamo noi. Ripeto la frase con cui ho iniziato: nessun critico, in Francia, nell'ora presente.
Solo venti anni fa il giornale era uno strumento serio che dava alla politica e alla letteratura tutto lo spazio di cui avevano bisogno. I fatti di cronaca si trovano relegati in quarta pagina. Ci si abbonava per simpatia con questa o quella redazione, si attendevano gli articoli di questo o di quel giornalista, e li si leggeva con attenzione, fossero pure su cinque colonne. La critica, in quel momento felice, si trovava a proprio agio. Non faceva alcuna fretta, aspettava anche due mesi prima di parlare dell'ultimo libro apparso, fornendo dei giudizi seriamente motivati. Anche i lettori, da parte loro, non provavano impazienza. Domandavano, su tutto, coscienza, talento e giustizia. Ebbene, abbiamo cambiato tutto. Il nuovo giornale tende a mettere alla porta la letteratura. I fattacci di cronaca, in seguito a molteplici appelli, hanno invaso tutto. È nata la stampa per l'informazione, non si tratta più di analizzare un libro e, d'altronde, i lettori neppure lo chiedono. Occorre raccontare che cosa è successo il giorno prima in questo o quel salotto, raccontare il delitto in trecento battute, con un bel ritratto dell'assassino, cosa mangiava, cosa beveva. Bisogna ridurre tutto a piccoli fatti circostanziati e precisi, fatti bruti senza alcun ornamento. Se continuerà questo andazzo, fra cinquant'anni i giornali si saranno ridotti a semplici fogli di annunci.
Cinquanta righe, anzi due
Si può capire facilmente il colpo mortale assestato dall'informazione alla critica. Gli studi preparati con coscienza e scrupolo non sono più alla moda. Occupavano spazio. L'assioma di ogni direttore è quello che non si leggono articoli troppo lunghi. La prima parola di un caporedattore è diventata: «trattami questo argomenti in cinquanta righe, non di più!» Non è più questione di coscienza. Si pretende che l'articolo su un libro appaia il giorno seguente la pubblicazione del libro stesso o, meglio ancora, alla vigilia. Non è necessario alcuno studio, non si legge neppure. Il critico sfoglia e taglia le pagine, prendendo a casaccio una parola e, quando il libro è tagliato, ci si mette al lavoro per le proprie cinquanta righe. Spesso non parla neppure del libro, parla di qualsiasi cosa, a proposito di quel libro. Basta siano citati il titolo e il nome dell'autore. L'importante, infatti, è la notizia della messa in commercio che bisogna dare prima che la diano altri giornali. Quanto al resto, ai reali meriti dell'opera, alla sua originalità, alla sua influenza futura, poco importa. In queste condizioni, i critici improvvisati dovrebbero accontentarsi di annunciare l'uscita di un romanzo in due righe. La sfortuna è che non si è ancora giunti a questa concisione. I critici aggiungono allora a casaccio le proprie riflessioni. Lodano o biasimano per ragioni loro, nessuno ha un metodo. Ammucchiano errori, refusi, menzogne, enormità di ogni tipo. Niente di più penoso di un simile spettacolo, nei quotidiani, quando appare un libro. Non sono risparmiate banalità.
L'imperativo della fretta
La paura di annoiare ha ucciso gli studi seri. Si è data al pubblico l'abitudine di leggere in tutta fretta. Vogliamo che un uomo che vive la nostra vita frenetica trovi un quarto d'ora per leggere un articolo impegnato? Gli servirebbe riflettere, fare uno sforzo intellettuale, sarebbe disastroso. Gli bastano i luoghi comuni, le idee che tranquillamente si accomodano nel cervello. L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. Bisogna comodamente andare all'avventura, dicendo nero un giorno, e bianco il giorno dopo. I soli articoli lunghi tollerati dai giornali sono quelli fatti con estratti di opere in corso di pubblicazione. I redattori si procurano i libri, prima che vengano posti in vendita, prendono dei passaggi interessanti, vi aggiungono qualche riga, e adescano il pubblico sostenendo di essere i primi a offrire questa anticipazione. È la redazione a buon mercato. Rientra nel sistema dell'indiscrezione, che gode di grandi favori oggi giorno. Si evita ogni sforzo al pubblico, il giornalismo contemporaneo è basato sulla pigrizia dei lettori. La gente vuole notizie? Ingozziamola di notizie. I giornali di informazione sono agenti di perversione letteraria. Il male è tale che ha preso tutti. Nessuno sfugge al contagio. (Traduzione di Marco Dotti)

il manifesto del 04 Agosto 2007

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