27.8.07

Alla ricerca della mossa vincente sulla scacchiera di Walter Tevis

Sostenuto da una incredibile tensione, il romanzo dello scrittore americano titolato «La regina degli scacchi», introdotto da Tommaso Pincio per minimum fax. Protagonista, una bambina prodigio, che sfida il caos con la forza del pensiero
Francesca Borrelli

È mai possibile che un intreccio letterario generi tensione affidandosi a sequenze di ragionamenti nei quali è pressoché inimmaginabile identificarsi? È plausibile che riesca nell'intento di trascinarci fino all'ultima pagina pur descrivendo azioni che non troviamo né attraenti né ripugnanti ma semplicemente indifferenti ai nostri interessi, ambientate in un contesto sufficientemente sterile da non catturare le nostre proiezioni mentali né attentare al nostro equilibrio psichico? E, per di più, tra personaggi che frequentano poco o nulla i sentimenti, che non hanno sogni ai quali aderire o dai quali ritrarsi, perché assorbiti da una unica ossessione di cui tutte le coordinate ci sfuggono e il cui nome a mala pena riusciamo a far combaciare con una immagine dotata di senso? Forse la questione è mal posta, certo è che un romanzo affidato a queste pregiudiziali sembrerebbe avere poche chances; eppure, la tensione che percorre, e quasi fa vibrare le righe della Regina degli scacchi, scritto dall'americano Walter Tevis nel 1983, è pressoché insostenibile. Ne è protagonista una bambina di nome Beth Harmon, la cui vita seguiamo fino alla fine della adolescenza, quando raggiunge il traguardo che si è imposta e finalmente potrebbe avviarsi a sperimentare tutto ciò che fino a allora si è negata.
Strategie esistenziali
Della sua prima infanzia non sappiamo nulla, non soltanto perché è preclusa dalla scena del romanzo, ma perché Beth sembra non avere ricordi ai quali risalire, né emozioni legate alla perdita prematura dei genitori, morti in un incidente stradale. Stordita e silenziosamente rassegnata al suo destino, vive per anni in un orfanotrofio dove somministrano tranquillanti ai bambini per controllarne la docilità, senza altra amica se non una ragazza nera patentemente invidiosa di lei, che le notifica la sua condizione di «povera sfigata, bianca come una mozzarella e pure stronza». Beth, tutto sommato è d'accordo, si trova effettivamente brutta e sgraziata, non è incline a stringere rapporti, sa su cosa può contare e quel qualcosa lo ha in sé anche se non basta a darle sicurezza; infatti ingoia ansiolitici e impara a metterne da parte una scorta per le notti più insonni: è la prima strategia che elabora, arriverà persino a scassinare l'armadio dove è contenuto il barattolo delle pillole agognate. Il senso della misura non le indica qual è la soglia, e lei la oltrepasserà più volte. Ma la fortuna in qualche modo le viene incontro, un giorno scende nello scantinato dell'orfanotrofio e si trova davanti una scena incomprensibile: il custode è chino su una scacchiera, il suo sguardo è inchiodato ai pezzi che ha davanti, ogni tanto ne muove uno, Beth lo osserva e impara. Ha solo otto anni, e quando chiederà di giocare si sentirà dire che quello non è affare per bambine, l'esordio di una lunga serie di manifestazioni di diffidenza, che lei demolirà con la sua bravura. Il primo a cedere è proprio il custode che, arreso all'evidenza, le dice «sei stupefacente»; così, è a lui che Beth chiederà i cinque dollari necessari a iscriversi al suo primo torneo quando, ormai adottata da una coppia che sta insieme solo per il tempo necessario a simulare una famiglia possibile, darà inzio alla sua carriera di scacchista.
D'ora in avanti le pagine si affollano di combinazioni, di strategie di attacco, di bilanciamenti di forze lungamente ponderati, e incredibilmente incollano la nostra attenzione, sebbene ignara di quel che si sta svolgendo. È probabile che chi è in grado di seguire il gioco degli scacchi abbia a disposizione una fonte ulteriore di godimento, ma è altrettanto possibile che la sua competenza lo induca a concentrarsi sulle mosse delle partite, allontanandolo dal congegno del romanzo; è quanto è patentemente successo a Yuri Garrett, scacchista e autore di una postfazione al tempo stesso ammirata e stizzita, ma comunque benvenuta in questa edizione di minimum fax, che ci regala apparati ormai latitanti dalla stragrande maggioranza dei libri.
Un rifugio oltre il mondo reale
Dunque, Beth Harmon ha trovato la sua strada, ha gettato l'unica bambola mai avuta in regalo nella spazzatura e in compenso ha imparato a soppesare i pezzi degli scacchi, rigirandoseli voluttusamente tra le mani e considerandone la qualità. Legge riviste specializzate sulle quali studia le partite dei Grandi Maestri, poi le memorizza e le riproduce introducendo le sue varianti. Conosce ben poco del mondo, negli scacchi ha trovato «un rifugio sicuro - scrive Tommaso Pincio nella sua introduzione, al solito puntuale e felicemente espressiva - se non addirittura l'illusione di poter dominare il caos con la forza del pensiero». Per potersi concentrare, Beth ha bisogno di eliminare dal suo spazio mentale la persona che ha davanti: raramente quell'individuo merita uno sguardo, e più raramente ancora lo sguardo, comunque sfuggito, coglie un dettaglio piacevole sul quale sostare. Quella persona non è che un avversario, Beth non vede in lui altro che una minaccia alla sua sete di vittorie. «È talmente prigioniera della sua capacità di pensare in termini astratti - scrive ancora Pincio - che i desideri non riescono a cristallizzarsi in alcunché di concreto.» Proprio così; infatti è drammaticamente sola, inchiodata con il pensiero alle linee di forza incise sulla sua scacchiera mentale, eppure starle dietro in quelle mosse, benché incompresibili, è enormemente più emozionante che non seguirla nei suoi primi passi di amante, o nel vortice che la inghiotte quando comincia a bere. Evidentemente, l'interesse di Walter Tevis per il gioco, sia quello degli scacchi che quello del biliardo, non a caso sfondo del suo primo successo titolato The Hustler, è contagioso.
Ma Tevis aveva anche familiarità con l'alcol e le tossicodipendenze, inoltre il suo fisico portava il segno dei danni alla cordinazione motoria derivatigli da una malattia infantile; sapeva dunque cosa vuol dire avere un brutto aspetto e una buona disposizione alla dipendenza da farmaci psicotropi, ma nessuna di queste peculiarità riversate nel personaggio di Beth è altrettanto trascinante della sua competenza scacchistica.
Una passione, certo, ma soprattutto la sua carta per avanzare da vincente nella vita, quella vita di cui lei scansa le poche occasioni emotive, neutralizzandole tramite esagerate bevute e altrettanto esorbitanti dosi di tranquillanti. Assaggia il deterioramento della sue facoltà percettive, le cadute di attenzione, l'appannarsi della lucidità, persino lo svanire della sua motivazione al gioco. Ma ha davanti un obiettivo per lei fondamentale, battere i Grandi Maestri russi, i più temibili, i migliori al mondo. Guadagnerà le tappe a cui aspira ritrovandosi ripetutamente sola; il fatto stesso che Beth sbaragli uno dopo l'altro i suoi avversari fa sì che nessuno sosti davanti a lei per un tempo maggiore di quello necessario a essere vinto. Così tutti la ricordano come un prodigio: di bravura non certo di simpatia, e sono rari quelli che si alzano dal tavolo con la generosità necessaria a stringerle compiaciuti la mano.
Sul filo dei nervi
Tutto ciò che accompagna il suo affaccio alla notorietà - le interviste, la deferenza che le viene tributata, i piccoli lussi finalmente possibili - è descritto da Tevis in modo da costruire al tempo stesso una cornice convincente e una serie di allentamenti della tensione, che riprende non appena Beth torna al tavolo da gioco. E proprio allora, quando le parole abbandonano il campo delle descrizioni in cui è possibile orientarsi, proprio quando tornano a nominare oggetti, azioni, ragionamenti estranei alla nostra capacità di comprederli e dunque di visualizzarli, scatta il contagio, e i nostri nervi si tendono insieme a quelli di Beth.

ilmanifesto.it

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