Brusco sui soldi con Prodi: «Tenga al guinzaglio i suoi cani». Rude con Veltroni: «Ho vissuto sei anni in mezzo ai debiti e ora non ho nessuna intenzione di farne per organizzare le primarie del partito democratico». Spiccio coi giovani che contestavano («troppi soldi») il contributo di 10 euro proposto per chi alle primarie voterà: «Quelli che alla loro età andarono in montagna non si posero il problema della paghetta». Aspro con chi come l'ulivista Salvatore Vassallo teorizza il superamento delle feste dell'Unità e di tanti simboli identitari post-comunisti: «Qualcuno dovrebbe mettergli la museruola». Muscoloso col coro di proteste per la decisione del suo amico sindaco di Tarquinia di prendere dalla cassa l'anticipo per le spese legali di un branco di bulli che aveva violentato una ragazza: «Una indegna gazzarra».
Non bastasse, era stato scottato da roventi polemiche per l'intercettazione di una sua chiacchierata telefonica con Giovanni Consorte. Chiacchierata nella quale l'allora capo dell’Unipol impegnato nella scalata alla Bnl gli diceva: «Non sa niente nessuno, lo sai solo tu come al solito, perché sei l'unico di cui mi fido...». E lui ricambiava mostrando di condividere la prudenza sulla necessità di raccontare come stavano le cose a Piero Fassino «senza dargli dettagli» : «Niente, niente Gianni, niente...» Raccomandazione non proprio coerente, diciamo, con quanto sostiene: "La democrazia è trasparenza, conti chiari, bilanci onesti".
Certo è che, fiero d'avere avviato il risanamento del partito, ha deciso di essere franco fino in fondo, sbuffando ieri mattina con Luca Telese, del Giorna le , contro le «animelle che storcono il naso» sui costi della politica e che secondo lui «o parlano per opportunismo o sono in malafede». Poiché «i costi della politica sono cresciuti all’inverosimile», infatti, «è ora di finirla con le chiacchiere. Basta con la demagogia, facciamo sul serio. E' giunto il momento di impegnarsi in una battaglia democratica per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti». Alla faccia dei giornali che «decidono tutto». Alla faccia di chi denuncia come insopportabile scoprire che un barbiere del Senato può arrivare a prendere 133 mila euro cioè il quadruplo di un dipendente medio di Buckingham Palace e 36 mila più del Lord Chamberlain della Regina Elisabetta. Ma alla faccia, dice lui, soprattutto di tanti colleghi che lo criticano «e invece dovrebbero farmi un monumento».
Ma il finanziamento pubblico non era stato abolito dal 90,3% dei votanti al referendum del ’93? Certo, risponde Sposetti, ma tutto questo accadde «un secolo fa. Adesso è tutto cambiato». Quanto alle perplessità sulla rapidità e sul modo in cui il bilancio diessino è stato aggiustato, il tesoriere fassiniano le liquida così: «frescacce». Quali saranno la reazione degli elettori di sinistra si vedrà. Certo è che la sfida del tesoriere ds rischia di essere un cerino buttato in un deposito di polvere da sparo.
Stando a uno studio elaborato proprio per la nostra Camera dei deputati, infatti, i soldi che i partiti italiani incassano sono già molti di più di quanti vengono distribuiti negli altri principali paesi occidentali. In Francia, dove chi non raggiunge almeno il 5% dei suffragi al primo turno non ha diritto a vedersi rimborsare neppure la metà di quanto ha speso (tanto che il glorioso ma ammaccatissimo Pcf potrebbe vendere parte delle opere d'arte avute in dono negli anni buoni da artisti amici) e dove i finanziamenti vengono tagliati a chi non rispetta le «quote rose» fissate, ogni cittadino versa negli anni elettorali circa 2,54 euro. In Spagna, dove i parlamentari sono 575 (metà dei nostri), la spesa pro-capite è di 2,13 euro. In Germania, dove esiste un tetto massimo (133 milioni l'anno) agli stanziamenti statali, la quota personale è di 1,61.
Da noi, nel 2006, di 3 euro e 38 centesimi. Il doppio. Per non dire dei confronti imbarazzanti con paesi come il Regno Unito dove, spiega il dossier, «Il finanziamento pubblico - se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali - è limitato ai contributi concessi ai partiti di opposizione in Parlamento». O degli Stati Uniti, dove «il finanziamento pubblico della politica è limitato al finanziamento della campagna presidenziale» e nel 2004 è costato 206 milioni di dollari, circa 50 centesimi di euro per abitante.
Eppure, a spulciare nella nostra storia recente, non solo ogni ciclo elettorale di cinque anni (politiche, europee, regionali, amministrative) ci costa un miliardo di euro ma una inchiesta del "Sole 24 ore" ha appena dimostrato che le finanze dei partiti non sembrano proprio aver bisogno di nuovi afflussi. Stando ai bilanci, vanno tutti bene. Sono in largo attivo, non fosse per i buchi del passato, i diessini (11 milioni e mezzo, pari al 27,6% dei proventi totali del partito) e i forzisti (più quasi 47 milioni grazie a introiti pubblici nello scorso anno per la cifra record di 134 milioni) e i nazional-alleati (più 3 milioni 850 mila euro) e i casiniani dell'Udc (25 milioni 182 mila euro!) e perfino chi sta maluccio, come la Lega, non è andata in rosso. E allora?
Non bastasse, vale la pena di sottolineare un punto: non sempre, quando sono in ballo i soldi, i nostri parlamentari decidono «a partire dalla legislatura successiva» come nel caso delle sforbiciate alle pensioni o ai privilegi. Certe volte fanno anche scelte «retroattive». Come quella, passata sotto silenzio, dell'ottobre 2002. Quando, dopo aver portato tutti insieme soltanto due mesi prima (unica eccezione: i radicali) i rimborsi elettorali da 2 a 5 euro per ogni elettore iscritto alle liste, ridistribuirono i soldi per le elezioni del 2001: 125.089.621,44 euro in più rispetto a quelli già stanziati proprio per il 2002. Un bel gruzzolo supplementare che, per fare solo due esempi, fu di oltre 9 milioni per gli azzurri e di 8 per i diessini. E quel giorno, accantonando le reciproche accuse di essere goebbelsiani o stalinisti, sorrisero finalmente tutti.
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