29.1.09

Se l'architettura fa solo spettacolo

di Vittorio Gregotti

La logica dell’architettura dello spettacolo e non dell’uso, uccide la città e i suoi cittadini.

Sono molti anni che vado scrivendo, e non sono il solo, intorno alla necessità per l’architettura di una sua fondazione a partire da una distanza critica rispetto al reale empirico su cui la società è fondata e come costituzione di possibilità altre, agite per mezzo della forma delle specificità della essenza della nostra disciplina. Una predicazione assai poco ascoltata constatando il successo mediatico (che si è sostituito ampiamente alla riflessione critica) delle architetture-spettacolo autoreferenziali dei nostri anni.
Alla discussione tra uso e spettacolo in architettura è dedicato un recente libro, a cura di Anthony Vidler, costituito da undici testi nati da un seminario intorno all´argomento dal titolo Architecture Between Spectacle and Use (Yale University Press - New Haven and London pagg. 189). La discussione muove a partire dalla nozione di «società dello spettacolo», promossa quarant’anni or sono dal celebre libro di Guy Debord, e analizza le idee di forma, di monumento (che è però cosa ben diversa dallo spettacolo) messe in questione dalla nostra instabilità sociale omogenea, che istituisce nuove connessioni tra architettura, moda, design e arti visuali che proprio a causa del loro stato di incertezza si diffondono con confusione spettacolare su ogni cosa ed ambiente. A sua volta nei testi del libro la forma architettonica è confrontata con la nozione di uso funzionale e sociale e le loro attuali deformazioni e con le loro connessioni con i principi della costruzione, principi che sono altra cosa rispetto a quelli della produzione, dipendendo sempre più questi ultimi direttamente dalle leggi del mercato e dalla necessità di comunicazione pubblicitaria.

Hal Foster, uno degli autori scrive giustamente, rovesciando la frase di Debord che definisce lo spettacolo come il capitale accumulato sino al punto di diventare immagine, di come essere oggi sia «un’immagine accumulata a tal punto da diventare capitale».
Si potrebbe osservare come da questa discussione siano, per forza di cose, escluse alcune tipologie architettoniche che sono state protagoniste della storia dell’architettura come chiese, palazzi, piccoli edifici privati, case popolari ed in generale gli aspetti connessi al disegno urbano. Sarah Goldhagen parla è vero, nel suo scritto, di «disegno urbano spettacolare» domandandosi però alla fine che sarebbe importante sapere di quale spettacolo si tratti, ma il tessuto urbano con i suoi enormi problemi è escluso dal discorso, anche se gli esempi antichi certo non mancano.

Ovviamente ci dovremmo anche chiedere perché la storia dell’architettura era in genere costruita sulla successione di grandi fatti monumentali spettacolari perché, pubblicamente e collettivamente significativi. Almeno per ciò che concerne la provvisorietà che è connessa all’idea di spettacolo, perché l’esibizione del potere ha sempre richiesto la costruzione di qualche ambiente in funzione cerimoniale. Anche a quello probabilmente «il pubblico dei più» era chiamato solo ad assistere mentre nella democrazia formale dei nostri anni esso partecipa attivamente come consumatore senza comunque guidarne le ragioni e sviluppi, coadiuvata dalla riproducibilità tecnica dei prodotti, persino nella loro variazione.
Certo anche, Benjamin aveva scritto del tramonto del valore culturale di classe a favore di quello espositivo, ma la società è ben lungi dall’essere una società liberata: forse neanche più una società riconoscibile come tale.

Anche per questo «lo spettacolo», compreso quelle delle arti visive oltre che dell’architettura, ha accelerato i suoi ritmi nello stesso tempo espandendoli nello spazio del mondo globalizzato, accostandoli all’incessante rinnovamento delle merci ed all’idea del colossale: la grandezza fisica vorrebbe coincidere con la grandezza del senso: «Non avendo abbastanza da fare - scrive nel libro Mark Wigley - gli architetti sovente fanno troppo». Così la diffusione sostituisce la durata (cioè, la metafora dell’eternità inseguita un tempo dalle arti) con la «bigness», l’eccesso, la novità come valore in sè, per mezzo del riutilizzo dei linguaggi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo sostituendo con lo scandalo spettacolare la loro ribellione e con la progressiva radicale riduzione dell´iniziativa della pubblica utilità; sino al tentativo populista di trasformare in spettacolo la constatazione del banale costruendo su di esso un’intera estetica.

Il grande storico Michael Baxandall scriveva «Lo stile è un documento di storia sociale» ed in questo senso lo «spettacolismo» è anch’esso un documento della storia sociale dei nostri anni ma certo il documento non è la stessa cosa delle opere dell’arte: e le due cose, credo, non vadano confuse.
E’ dunque ben riconoscibile in questa vittoria «dello spettacolo sull’uso» una logica precisa del potere della merce, anche se una logica fatale ai destini dell’architettura dei paesaggi e delle città. E, ciò che è assai peggio, dei loro cittadini.

La Repubblica (eddyburg)

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