In the TV Age the tube has dominated breaking news. Watching crucial moments of a big dramatic story on TV can be compelling, and the TV news audience has dwarfed newspaper readership. It is accepted wisdom that TV owns the dramatic breaking story; newspapers bat cleanup.
But maybe not. Watch a big story on cable news and you're in for acres of boring vamping and conjecture wrapped around the couple of minutes here and there that you really do want to see. And those dramatic couple of minutes are endlessly repeated until you're tired of seeing them. Fact is, video is a linear medium that sometimes isn't very efficient at advancing coverage of a story.
On the other hand, text - lowly text - may turn out to be more efficient. Text isn't real-time. Its order can be rearranged on the fly by the reader. It can point to other things - video, photos, charts, diagrams, reference information. More important, it can be skimmed to quickly find only the pieces you're looking for. With mobile devices, text can be transmitted by anyone, quickly and easily.
In the past week, the most compelling coverage of the protests in Iran hasn't been on television, it's been on the internet via Twitter. Thousands of people have been tweeting, reporting what they have seen and pointing readers to photos and video clips posted on YouTube.
Why more compelling? First, it has democratized the reporting, giving access to thousands of eye-witness reports from all over the country, rather than the accounts of a few correspondents who may not have the breadth of access that the thousands of volunteer eye-witnesses do. Perhaps just as important, the short texts are skimmable, and a number of websites have endeavored to collect and sort through the raw reports. Twitter and YouTube have made coverage that is customizeable by readers. No more Wolf Blitzer endlessly filling time while awaiting new developments.
A funny thing has happened on the way to the YouTube revolution: video everywhere has elevated the role of text. People want to watch video, but on their own terms and not in a linear stream decided by someone else. The easiest way to sort information isn't by video, it's by text. Why do people text one another rather than dial their phones and talk? Texts, in an odd way, seem easier.
In the next week or so, Google will release its Google Voice service, which will take your voice mails and convert them to text transcriptions which can be emailed to you. Why? Because voicemail can be clumsy; text takes the interaction online, where it can be controlled by the recipient. It might be easier to record a voice message, but reading that message is more efficient than dialing in to listen to a recording.
That is not to say that listening to someone's voice - the tone, the inflection, the nuance - doesn't provide more information than text. And text doesn't convey the visual experience of video. But in the future, video and audio might be considered the drill-down rather than the headline, a curious flip of the media world we have recently known where TV has offered the raw immediacy and newspapers weigh in later to add the depth.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.7.09
The Text Revolution - Why Text Is More Efficient Than TV
30.7.09
Battaglie giuste e sparate
«Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto», diceva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Gaetano Polverelli, capo ufficio stampa di Mussolini: «L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e servitù». Un ordine insensato. Uno spreco di ricchezze.
Che Luigi Meneghello, autore di libri straordinari e stralunate filastrocche («potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio») avrebbe potuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra all’università di Reading che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’italiano, l’inglese e pure il tedesco» ma che «"l’uccellino" italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’" oseléto" veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». Vale per il dialetto veneto e il siciliano, il sardo e il piemontese. Tutti.
Come dice Ferdinando Camon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putei» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini». Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giusta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di tele- italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata strumentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unitari, per ragioni di bottega. Come è un peccato che un problema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle graduatorie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più rigide e al Sud più elastiche, venga tradotto in un attacco a tutti i docenti meridionali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sembravano) accantonati.
La scuola, come sa chi raggela davanti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Paese in drammatico ritardo (con la luminosa eccezione di alcune regioni settentrionali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terroni »), non ha bisogno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de hoc sec iè car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano care ovunque) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano insegnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italiano... Ha bisogno, insomma, di un salto di qualità. Che recuperando un forte e comune sentire intorno all'idea della Patria, dell'Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all'espressione diretta del cuore».
E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po' più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Jene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell'Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell'America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.
Gian Antonio Stella
Che Luigi Meneghello, autore di libri straordinari e stralunate filastrocche («potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio») avrebbe potuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra all’università di Reading che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’italiano, l’inglese e pure il tedesco» ma che «"l’uccellino" italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’" oseléto" veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». Vale per il dialetto veneto e il siciliano, il sardo e il piemontese. Tutti.
Come dice Ferdinando Camon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putei» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini». Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giusta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di tele- italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata strumentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unitari, per ragioni di bottega. Come è un peccato che un problema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle graduatorie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più rigide e al Sud più elastiche, venga tradotto in un attacco a tutti i docenti meridionali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sembravano) accantonati.
La scuola, come sa chi raggela davanti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Paese in drammatico ritardo (con la luminosa eccezione di alcune regioni settentrionali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terroni »), non ha bisogno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de hoc sec iè car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano care ovunque) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano insegnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italiano... Ha bisogno, insomma, di un salto di qualità. Che recuperando un forte e comune sentire intorno all'idea della Patria, dell'Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all'espressione diretta del cuore».
E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po' più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Jene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell'Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell'America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.
Gian Antonio Stella
29.7.09
L'idiozia leghista
Roberto Cotroneo
Ieri scrivevo che la Lega è antistorica. L'altro ieri ho sottolineato l'assurdità e l'inopportunità delle parole di Bossi contro il nostro intervento in Afghanistan. Oggi la Lega torna a far notizia. In Commissione istruzione chiede che gli insegnanti del nord, per essere abilitati, debbano dimostrare di conoscere storia e tradizioni e dialetti della regione in cui dovranno insegnare. Persino nel Pdl sono contrari: al punto di chiedere il dibattito in aula proprio su questa proposta.
Insomma, la Lega se ne è inventata un'altra. E non va considerata come l'ennesima pagliacciata leghista. È molto peggio. Solo un'ignoranza abissale può portare a una proposta di questo genere. Un'ignoranza che conferma un aspetto che tutti fingono non voler vedere: la Lega Nord non può essere, per una serie di caratteristiche, un partito di governo. Perché ha posizioni esasperanti e antistoriche, perché indirizza tutte le sue decisioni politiche in una direzione che non ha niente a che vedere con una idea del futuro per la società italiana realistica e concreta. La cultura leghista è filtrata da una lettura falsificata della storia, da una retorica delle piccole patrie che non ha niente a che fare con la modernità.
Nessuno vuole negare il sentimento di identità e di appartenenza delle piccole comunità. Per decenni ci siamo preoccupati della perdita dei dialetti, e di alcuni dialetti che sono delle vere e proprie lingue. E tantomeno nessuno vuole irridere all'orgoglio di sentirsi parte di una terra, anche piccola, di una tradizione e persino di una lingua che può avere radici lontane.
Ma trasformare questo in una sorta di becera autarchia culturale è molto pericoloso. Claudio Magris ha scritto che: "L'identità non è un rigido dato immutabile, ma è fluida, un processo sempre in divenire, in cui continuamente ci si allontana dalle proprie origini, come il figlio che lascia la casa dei genitori, e ci si ritorna col pensiero e col sentimento; qualcosa che si perde e si rinnova, in un incessante spaesamento e rientro".
Questo vuole dire stare nel mondo, questo vuole dire tenersi le proprie radici; tenerle cercando, studiando e conoscendo quelle degli altri. Non esiste cultura o civiltà che possa fare a meno di questo. Non esiste progresso senza mescolamento, non esiste comprensione del mondo senza comprensione dell'altro. Sentire, in una commissione parlamentare di un paese moderno e civile che non è più tollerabile avere solo insegnanti meridionali che trovano posto nelle scuole del nord dà i brividi. Trovare come modelli di riferimento storici e culturali il periodo dei Comuni nel medioevo, leggendo il periodo della Lega Lombarda come un'epopea da riproporre oggi, non è soltanto ridicolo, è aberrante. Pensare al nord, alla cosiddetta padania come a una regione unitaria, che si distingue e si contrappone al centro e al sud, vuol dire non avere alcuna concezione della storia, neppure da sussidiario di scuola elementare. Mandare in Parlamento gente che a sprezzo del ridicolo bloccherà la riforma della scuola perché vuole i dialetti è sinceramente vergognoso.
Proprio in queste battaglie si capisce la vera inadeguatezza culturale dei leghisti, che in questo modo non fanno un dispetto ai professori del sud, ma ai bambini e ai ragazzi del Veneto, della Lombardia, del Piemonte, condannati a una chiusura e a un'ignoranza eterna e perdente. La Lega Nord propone una cultura rozza, antimoderna e lontana da tutto quanto è progresso, dialogo e comprensione delle cose. E tutto questo non potrà che portare il partito all'implosione, e in un tempo ragionevole alla scomparsa dei leghisti dalla politica italiana ed europea. Ma nel frattempo non si può che scongiurare tutti i politici di buon senso, a destra come a sinistra, di limitare i danni di questa gente, il più possibile.
Ieri scrivevo che la Lega è antistorica. L'altro ieri ho sottolineato l'assurdità e l'inopportunità delle parole di Bossi contro il nostro intervento in Afghanistan. Oggi la Lega torna a far notizia. In Commissione istruzione chiede che gli insegnanti del nord, per essere abilitati, debbano dimostrare di conoscere storia e tradizioni e dialetti della regione in cui dovranno insegnare. Persino nel Pdl sono contrari: al punto di chiedere il dibattito in aula proprio su questa proposta.
Insomma, la Lega se ne è inventata un'altra. E non va considerata come l'ennesima pagliacciata leghista. È molto peggio. Solo un'ignoranza abissale può portare a una proposta di questo genere. Un'ignoranza che conferma un aspetto che tutti fingono non voler vedere: la Lega Nord non può essere, per una serie di caratteristiche, un partito di governo. Perché ha posizioni esasperanti e antistoriche, perché indirizza tutte le sue decisioni politiche in una direzione che non ha niente a che vedere con una idea del futuro per la società italiana realistica e concreta. La cultura leghista è filtrata da una lettura falsificata della storia, da una retorica delle piccole patrie che non ha niente a che fare con la modernità.
Nessuno vuole negare il sentimento di identità e di appartenenza delle piccole comunità. Per decenni ci siamo preoccupati della perdita dei dialetti, e di alcuni dialetti che sono delle vere e proprie lingue. E tantomeno nessuno vuole irridere all'orgoglio di sentirsi parte di una terra, anche piccola, di una tradizione e persino di una lingua che può avere radici lontane.
Ma trasformare questo in una sorta di becera autarchia culturale è molto pericoloso. Claudio Magris ha scritto che: "L'identità non è un rigido dato immutabile, ma è fluida, un processo sempre in divenire, in cui continuamente ci si allontana dalle proprie origini, come il figlio che lascia la casa dei genitori, e ci si ritorna col pensiero e col sentimento; qualcosa che si perde e si rinnova, in un incessante spaesamento e rientro".
Questo vuole dire stare nel mondo, questo vuole dire tenersi le proprie radici; tenerle cercando, studiando e conoscendo quelle degli altri. Non esiste cultura o civiltà che possa fare a meno di questo. Non esiste progresso senza mescolamento, non esiste comprensione del mondo senza comprensione dell'altro. Sentire, in una commissione parlamentare di un paese moderno e civile che non è più tollerabile avere solo insegnanti meridionali che trovano posto nelle scuole del nord dà i brividi. Trovare come modelli di riferimento storici e culturali il periodo dei Comuni nel medioevo, leggendo il periodo della Lega Lombarda come un'epopea da riproporre oggi, non è soltanto ridicolo, è aberrante. Pensare al nord, alla cosiddetta padania come a una regione unitaria, che si distingue e si contrappone al centro e al sud, vuol dire non avere alcuna concezione della storia, neppure da sussidiario di scuola elementare. Mandare in Parlamento gente che a sprezzo del ridicolo bloccherà la riforma della scuola perché vuole i dialetti è sinceramente vergognoso.
Proprio in queste battaglie si capisce la vera inadeguatezza culturale dei leghisti, che in questo modo non fanno un dispetto ai professori del sud, ma ai bambini e ai ragazzi del Veneto, della Lombardia, del Piemonte, condannati a una chiusura e a un'ignoranza eterna e perdente. La Lega Nord propone una cultura rozza, antimoderna e lontana da tutto quanto è progresso, dialogo e comprensione delle cose. E tutto questo non potrà che portare il partito all'implosione, e in un tempo ragionevole alla scomparsa dei leghisti dalla politica italiana ed europea. Ma nel frattempo non si può che scongiurare tutti i politici di buon senso, a destra come a sinistra, di limitare i danni di questa gente, il più possibile.
26.7.09
Windows 7 Beta in prova: ecco come funziona
di Mario Cianflone e Luca Figini
Windows 7 è meglio di Vista. Senza appello. Più facile, più veloce, meno affamato di risorse. E non è fastidiosamente pedante con la sicurezza, pur essendo blindato. Sono queste le prime impressioni di una prova sul campo della versione Beta 1, quindi sperimentale e di test, del nuovo sistema operativo Microsoft, quello che volenti o nolenti è destinato a essere, a partire dal gennaio 2010, il cuore della stragrande maggioranza dei personal computer. Perché in fondo, il pc è, per quasi tutti, sotto il segno di Windows.
E "Seven" mira a riconquistare tutti quegli utenti delusi da Vista, dalla sua lentezza, dai sui fastidiosi avvisi e da un'interfaccia che, nata per essere innovativa e semplice, in realtà risultava troppo complessa e distante da quella alla quale tutti, con Xp, erano abituati. E che Vista non sia tanto amato lo testimoniano sia il successo travolgente dei netbook, tra cui spicca un Xp rinato a nuova vita, sia tutte quelle imprese che hanno rinnovato il parco dei pc ma senza utilizzare Vista.
La prima impressione è positiva: l'aspetto simile a quello di Vista, ma il look and feel è migliorato. Le funzioni si trovano subito, e non c'è bisogno di scorrere nervosamente su e giù il pannello di controllo per trovare dove sono le stampante o le impostazioni dello schermo.
Tra le innovazioni ci sono le librerie, così è più facile gestire la propria vita digitale, lavorativa o privata che sia. Da un'icona sulla taskbar si accede ai contenuti (musica, documenti, immagini, video), raggruppati per schede e con una visualizzazione a prova di miope. Così, si possono gestire i file indipendentemente da dove sono memorizzati: sul disco interno, su uno esterno, su storage di rete o su internet.
Su un notebook di media potenza...
Ma andiamo per ordine. Abbiamo installato Windows 7 Beta su un notebook Hp Compaq 6910p: una macchina recente con 2 Gb di ram e processore "Santarosa" Centrino Pro.
Nulla di straordinario quanto a risorse. E qui la prima sorpresa positiva: il pc lavora bene, in scioltezza. Anzi pare più veloce e reattivo di prima. L'installazione non è stata pulita, anzi per mettere in difficoltà la versione di prova del nuovo sistema operativo, lo abbiamo installato in upgrade di Vista Business, tra l'altro con un file di registro di configurazione malconcio e lungo da Milano a Seattle. L'installazione è proceduta senza intoppi ma è stata lenta, a iniziare dal download dal sito di Microsoft. Una volta ottenuto il file (un'immagine Iso da masterizzare su dvd), abbiamo proceduto all'istallazione del sistema. A questo punto parte un test di compatibilità e di verifica dell'hardware; una volta superato, inizia l'operazione di caricamento dei file, aggiornamento e set-up. A noi è andata bene. Senza intoppi, anche se sulla macchina utilizzata non vi erano periferiche e device particolari.
Windows 7 presenta un'interfaccia non troppo diversa da quella di Vista. E qui, in effetti, Seven sembra più un grosso upgrade che un sistema nuovo. Tuttavia presenta delle innovazioni grafiche e funzionali che ne agevolano l'uso. Ci è piaciuto anche l'ordine: dal pulsante Start si accede a "mobile", "documenti", "programmi più usati" e "periferiche e stampa". In questo modo si va direttamente ai propri dispositivi, per esempio uno smartphone, che vengono presentati con un'icona-foto del modello esatto. Per gestire i dispositivi in modo semplice è stato introdotto Device Stage che consente di connettere e utilizzare diversi device attraverso un'interfaccia unitaria per gestire differenti dispositivi e svolgere le attività più comuni.
Tra le cose che non ci sono piaciute, spicca il "mostra desktop": ora è difficile da trovare. Sarebbe auspicabile un controllo prima del rilascio definitivo. Comoda l'organizzazione dei file per librerie, con le finestre delle cartelle che presentano inediti menu oltre al classico "organizza". Si tratta di menu relativi a "apri", "stampa", "e-mail" e "condividi". In tal modo si possono gestire file di ogni genere con una razionalità finora sconosciuta ai pc sotto Windows.
L'accesso ai file e alle applicazioni è semplificato grazie a funzionalità speciali che si chiamano Jumplist e Anteprima. Bella e razionale anche la nuova taskbar.
Positivo anche il giudizio sulla nuova funzione "play-to" che agevola lo streaming multimediale e la fruizione di file audio, video e foto all'interno di un network domestico.
...e su un netbook
Ancora più positivo il feedback se si passa su un netbook. Abbiamo provato a installare Windows 7 su un netbook Asus con processore Intel Atom N270 a 1,6 GHz assistito da 1 Gb di Ram e disco a stato solido da 16 GB (servono almeno 12 GB di spazio libero per Seven).
Giudizio in sintesi: ottimo. Anche in questo caso, nulla a che vedere con Vista che diventa un macigno insostenibile per i pc bonsai. Il nuovo sistema operativo è altrettanto efficiente di Xp su questa piattaforma dalle prestazioni limitate rispetto ai notebook tradizionali. Merito dell'approccio modulare scelto da Microsoft: a seconda della configurazione, il nucleo e i servizi di Windows si adattano all'efficienza complessiva del computer. Così, Windows Seven, con tutti gli abbellimenti grafici attivati, ha tempi di risposta brillanti anche sui mini portatili.
La Beta 1 è stata addirittura in grado di rilevare più del 90 per cento delle periferiche installate: qualche difficoltà a riconoscere solo la porta Ethernet. Una bella sorpresa, insomma, vedere operare 7, perché evidenzia come l'azienda di Redmond abbia finalmente prestato attenzione a ottimizzare l'occupazione delle risorse di sistema sviluppando un kernel più leggero e compatto.
Noi abbiamo scelto di installare la versione Ultimate, ovvero quella di Seven con tutte le funzioni accessorie disponibili. Ma si parla già di una release dedicata espressamente ai netbook.
Insomma Windows 7 passa della Beta e promette bene. Peccato che il lancio avverrà solo fra un anno. Perché una volta provato è difficile tornare a Vista o a Xp. Il viaggio sul pianeta Seven continua. Vi terremo aggiornati.
Per scaricare la beta ecco i link utili
http://www.microsoft.com/italy/windows/products/windows7/default.mspx
guarda come funziona
http://www.microsoft.com/windows/windows-7/whats-new.aspx
Windows 7 è meglio di Vista. Senza appello. Più facile, più veloce, meno affamato di risorse. E non è fastidiosamente pedante con la sicurezza, pur essendo blindato. Sono queste le prime impressioni di una prova sul campo della versione Beta 1, quindi sperimentale e di test, del nuovo sistema operativo Microsoft, quello che volenti o nolenti è destinato a essere, a partire dal gennaio 2010, il cuore della stragrande maggioranza dei personal computer. Perché in fondo, il pc è, per quasi tutti, sotto il segno di Windows.
E "Seven" mira a riconquistare tutti quegli utenti delusi da Vista, dalla sua lentezza, dai sui fastidiosi avvisi e da un'interfaccia che, nata per essere innovativa e semplice, in realtà risultava troppo complessa e distante da quella alla quale tutti, con Xp, erano abituati. E che Vista non sia tanto amato lo testimoniano sia il successo travolgente dei netbook, tra cui spicca un Xp rinato a nuova vita, sia tutte quelle imprese che hanno rinnovato il parco dei pc ma senza utilizzare Vista.
La prima impressione è positiva: l'aspetto simile a quello di Vista, ma il look and feel è migliorato. Le funzioni si trovano subito, e non c'è bisogno di scorrere nervosamente su e giù il pannello di controllo per trovare dove sono le stampante o le impostazioni dello schermo.
Tra le innovazioni ci sono le librerie, così è più facile gestire la propria vita digitale, lavorativa o privata che sia. Da un'icona sulla taskbar si accede ai contenuti (musica, documenti, immagini, video), raggruppati per schede e con una visualizzazione a prova di miope. Così, si possono gestire i file indipendentemente da dove sono memorizzati: sul disco interno, su uno esterno, su storage di rete o su internet.
Su un notebook di media potenza...
Ma andiamo per ordine. Abbiamo installato Windows 7 Beta su un notebook Hp Compaq 6910p: una macchina recente con 2 Gb di ram e processore "Santarosa" Centrino Pro.
Nulla di straordinario quanto a risorse. E qui la prima sorpresa positiva: il pc lavora bene, in scioltezza. Anzi pare più veloce e reattivo di prima. L'installazione non è stata pulita, anzi per mettere in difficoltà la versione di prova del nuovo sistema operativo, lo abbiamo installato in upgrade di Vista Business, tra l'altro con un file di registro di configurazione malconcio e lungo da Milano a Seattle. L'installazione è proceduta senza intoppi ma è stata lenta, a iniziare dal download dal sito di Microsoft. Una volta ottenuto il file (un'immagine Iso da masterizzare su dvd), abbiamo proceduto all'istallazione del sistema. A questo punto parte un test di compatibilità e di verifica dell'hardware; una volta superato, inizia l'operazione di caricamento dei file, aggiornamento e set-up. A noi è andata bene. Senza intoppi, anche se sulla macchina utilizzata non vi erano periferiche e device particolari.
Windows 7 presenta un'interfaccia non troppo diversa da quella di Vista. E qui, in effetti, Seven sembra più un grosso upgrade che un sistema nuovo. Tuttavia presenta delle innovazioni grafiche e funzionali che ne agevolano l'uso. Ci è piaciuto anche l'ordine: dal pulsante Start si accede a "mobile", "documenti", "programmi più usati" e "periferiche e stampa". In questo modo si va direttamente ai propri dispositivi, per esempio uno smartphone, che vengono presentati con un'icona-foto del modello esatto. Per gestire i dispositivi in modo semplice è stato introdotto Device Stage che consente di connettere e utilizzare diversi device attraverso un'interfaccia unitaria per gestire differenti dispositivi e svolgere le attività più comuni.
Tra le cose che non ci sono piaciute, spicca il "mostra desktop": ora è difficile da trovare. Sarebbe auspicabile un controllo prima del rilascio definitivo. Comoda l'organizzazione dei file per librerie, con le finestre delle cartelle che presentano inediti menu oltre al classico "organizza". Si tratta di menu relativi a "apri", "stampa", "e-mail" e "condividi". In tal modo si possono gestire file di ogni genere con una razionalità finora sconosciuta ai pc sotto Windows.
L'accesso ai file e alle applicazioni è semplificato grazie a funzionalità speciali che si chiamano Jumplist e Anteprima. Bella e razionale anche la nuova taskbar.
Positivo anche il giudizio sulla nuova funzione "play-to" che agevola lo streaming multimediale e la fruizione di file audio, video e foto all'interno di un network domestico.
...e su un netbook
Ancora più positivo il feedback se si passa su un netbook. Abbiamo provato a installare Windows 7 su un netbook Asus con processore Intel Atom N270 a 1,6 GHz assistito da 1 Gb di Ram e disco a stato solido da 16 GB (servono almeno 12 GB di spazio libero per Seven).
Giudizio in sintesi: ottimo. Anche in questo caso, nulla a che vedere con Vista che diventa un macigno insostenibile per i pc bonsai. Il nuovo sistema operativo è altrettanto efficiente di Xp su questa piattaforma dalle prestazioni limitate rispetto ai notebook tradizionali. Merito dell'approccio modulare scelto da Microsoft: a seconda della configurazione, il nucleo e i servizi di Windows si adattano all'efficienza complessiva del computer. Così, Windows Seven, con tutti gli abbellimenti grafici attivati, ha tempi di risposta brillanti anche sui mini portatili.
La Beta 1 è stata addirittura in grado di rilevare più del 90 per cento delle periferiche installate: qualche difficoltà a riconoscere solo la porta Ethernet. Una bella sorpresa, insomma, vedere operare 7, perché evidenzia come l'azienda di Redmond abbia finalmente prestato attenzione a ottimizzare l'occupazione delle risorse di sistema sviluppando un kernel più leggero e compatto.
Noi abbiamo scelto di installare la versione Ultimate, ovvero quella di Seven con tutte le funzioni accessorie disponibili. Ma si parla già di una release dedicata espressamente ai netbook.
Insomma Windows 7 passa della Beta e promette bene. Peccato che il lancio avverrà solo fra un anno. Perché una volta provato è difficile tornare a Vista o a Xp. Il viaggio sul pianeta Seven continua. Vi terremo aggiornati.
Per scaricare la beta ecco i link utili
http://www.microsoft.com/italy/windows/products/windows7/default.mspx
guarda come funziona
http://www.microsoft.com/windows/windows-7/whats-new.aspx
24.7.09
Conflitto spaziale
di Norma Rangeri
Pagheremo caro e pagheremo tutto. Con l'accordo tra Berlusconi e Berlusconi, cioè tra Rai e Mediaset, è nata ieri la nuova Tivu, piattaforma satellitare posseduta al 48 per cento da viale Mazzini, al 48 per cento dal Cavaliere, al 4 per cento da Telecom. In una affollata conferenza stampa a Roma, una mezza dozzina di manager dei tre gruppi editoriali ha presentato la neonata creatura: un satellite autarchico. Basso profilo, linguaggio tecnico come stessero annunciando un'offerta omaggio. La musica ufficiale di Tivu suona il piffero della filantropia: consentire a quel cinque per cento di popolazione che non riceve, per motivi geografici, il digitale terrestre, di avere ugualmente il segnale grazie al nuovo collegamento satellitare. In realtà tutto si fa per Mediaset che ora potrà combattere, anche nello spazio, la sua battaglia contro Sky, mentre la Rai ha ottime probabilità di cominciare a contare i soldi e il pubblico persi nell'incestuosa operazione.
Dopo aver speso circa 700 milioni di euro per spegnere l'analogico e accendere il digitale, più altrettanti per incentivare l'acquisto del decoder, con la triplice alleanza la Rai spicca il volo lanciandosi, sempre a nostre spese, nell'avventura spaziale: nessuno è obbligato a comprare il terzo decoder (circa 100 euro), ma di fatto saremo incentivati dal marketing all'ossimoro del volontario acquisto.
Se, come tutto lascia supporre, il servizio pubblico toglierà i canali Raisat da Sky, perderà centinaia di milioni di euro (meno audience, meno pubblicità), mentre il vero concorrente commerciale (Berlusconi), ne guadagnerà proponendosi come la reale alternativa pay a Murdoch. Oltretutto, l'uscita da Sky dei canali satellitari si porterà dietro la cancellazione dalla piattaforma dello squalo australiano anche delle reti generaliste (Raiuno, Raidue e Raitre) contraddicendo così il contratto di servizio che invece obbliga la Rai a diffondere i suoi segnali su tutte le piattaforme. Su questo non secondario aspetto della questione, il parere dell'Autorità arriverà a settembre, a cose fatte, come è usanza in Italia.
La sostanza politica dell'operazione è la costruzione di un trust nel paese dove abbiamo seppellito, in un'agonia ventennale, il conflitto di interessi, salvo vederlo resuscitare, nella contingenza della lotta congressuale del Pd, da inaspettati alfieri.
Noi, sudditi di un paese che ha abolito il pluralismo dell'informazione televisiva, assistiamo ora alla scena grottesca di vedere moltiplicati per tre i decoder nelle nostre case. Come quando con la televisione ad alta definizione venivamo persuasi che ad un'alta tecnologia sarebbe corrisposta una maggiore offerta di informazione e intrattenimento, ora con Tivu ci viene assicurato che la Rai diventerà finalmente una televisione europea. Ma, come allora continuarono a somministrarci Vespa sugli schermi a cristalli liquidi, oggi nessun decoder ci salverà dalla tv più asfittica e degradata del mondo occidentale.
Pagheremo caro e pagheremo tutto. Con l'accordo tra Berlusconi e Berlusconi, cioè tra Rai e Mediaset, è nata ieri la nuova Tivu, piattaforma satellitare posseduta al 48 per cento da viale Mazzini, al 48 per cento dal Cavaliere, al 4 per cento da Telecom. In una affollata conferenza stampa a Roma, una mezza dozzina di manager dei tre gruppi editoriali ha presentato la neonata creatura: un satellite autarchico. Basso profilo, linguaggio tecnico come stessero annunciando un'offerta omaggio. La musica ufficiale di Tivu suona il piffero della filantropia: consentire a quel cinque per cento di popolazione che non riceve, per motivi geografici, il digitale terrestre, di avere ugualmente il segnale grazie al nuovo collegamento satellitare. In realtà tutto si fa per Mediaset che ora potrà combattere, anche nello spazio, la sua battaglia contro Sky, mentre la Rai ha ottime probabilità di cominciare a contare i soldi e il pubblico persi nell'incestuosa operazione.
Dopo aver speso circa 700 milioni di euro per spegnere l'analogico e accendere il digitale, più altrettanti per incentivare l'acquisto del decoder, con la triplice alleanza la Rai spicca il volo lanciandosi, sempre a nostre spese, nell'avventura spaziale: nessuno è obbligato a comprare il terzo decoder (circa 100 euro), ma di fatto saremo incentivati dal marketing all'ossimoro del volontario acquisto.
Se, come tutto lascia supporre, il servizio pubblico toglierà i canali Raisat da Sky, perderà centinaia di milioni di euro (meno audience, meno pubblicità), mentre il vero concorrente commerciale (Berlusconi), ne guadagnerà proponendosi come la reale alternativa pay a Murdoch. Oltretutto, l'uscita da Sky dei canali satellitari si porterà dietro la cancellazione dalla piattaforma dello squalo australiano anche delle reti generaliste (Raiuno, Raidue e Raitre) contraddicendo così il contratto di servizio che invece obbliga la Rai a diffondere i suoi segnali su tutte le piattaforme. Su questo non secondario aspetto della questione, il parere dell'Autorità arriverà a settembre, a cose fatte, come è usanza in Italia.
La sostanza politica dell'operazione è la costruzione di un trust nel paese dove abbiamo seppellito, in un'agonia ventennale, il conflitto di interessi, salvo vederlo resuscitare, nella contingenza della lotta congressuale del Pd, da inaspettati alfieri.
Noi, sudditi di un paese che ha abolito il pluralismo dell'informazione televisiva, assistiamo ora alla scena grottesca di vedere moltiplicati per tre i decoder nelle nostre case. Come quando con la televisione ad alta definizione venivamo persuasi che ad un'alta tecnologia sarebbe corrisposta una maggiore offerta di informazione e intrattenimento, ora con Tivu ci viene assicurato che la Rai diventerà finalmente una televisione europea. Ma, come allora continuarono a somministrarci Vespa sugli schermi a cristalli liquidi, oggi nessun decoder ci salverà dalla tv più asfittica e degradata del mondo occidentale.
Etichette:
il manifesto,
Rangeri,
televisione,
Tivu
17.7.09
Unire le forze, ma per fare che cosa?
di Alberto Burgio
La discussione aperta dal manifesto sull'unità a sinistra è importante e necessaria. La frammentazione delle forze di alternativa è un dramma, e chi non lo intende mostra di vivere lontano mille miglia dai reali problemi di chi campa (sempre più stentatamente) di salario o di quanti (sempre più numerosi) non dispongono più di un pur magro e aleatorio reddito da lavoro. È molto probabile che, continuando di questo passo, quel poco che ancora è in piedi a sinistra in questo Paese venga spazzato via, aggravando una crisi di inaudita gravità. Detto ciò, le battute iniziali di questa discussione appaiono deludenti. Posto che la frammentazione è una iattura, si risponde - come per un riflesso condizionato - con un vibrante appello all'unità basato su una premessa molto discutibile. La divisione della sinistra sarebbe tutta colpa dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, descritti come una miserabile nomenclatura di mestieranti e burocrati. Siamo alla riproposizione di un rozzo codice ideologico, impostosi negli anni Ottanta, quando maturava la crisi storica dei grandi partiti di massa e si preparava il collasso del Pci. Da una parte il «Paese legale» (le istituzioni della politica come cappa oppressiva e luogo di malaffare); dall'altra, il «Paese reale» (la beneamata società civile, fonte di istanze sistematicamente frustrate). Come se la società non fosse anche la culla del peggio; come se qualche cerbero interdicesse ai virtuosi l'accesso alla politica; come se la politica fosse una qualità dell'essere e non il modo di operare della società nello svolgimento di determinate funzioni. Possibile che questo schema abbia ancora seguito a sinistra, dopo aver favorito il dilagare dell'antipolitica e della sottocultura berlusconiana e leghista? Anni fa mi capitò di obiettare a un suo esagitato fautore che le sue critiche avrebbero guadagnato credibilità se lui si fosse impegnato a migliorare le cose entrando in un partito e battendosi per emendarne i maggiori difetti. Mi rispose che non aveva tempo da perdere in futili discussioni. Oggi costui non protesta, essendo finalmente riuscito a farsi eleggere da uno dei partiti contro i quali scagliava roventi anatemi. Dunque occorre unire le forze della sinistra. Il punto è che allora dovremmo cominciare col dire perché: per fare che cosa e su che base. Sinistra, di per sé, significa ben poco. O troppo, visto che ognuno la definisce a modo suo e non è detto che tutti questi modi siano armonizzabili. Insomma, si tratta di muoversi in direzione opposta a quella «sinistra senza aggettivi» che serve solo ad assemblare cartelli elettorali e a preparare nuovi disastri. L'affermazione più sorprendente in questa discussione l'ha fatta Luigi Ferrajoli, convinto che non sussistano, a sinistra, significative differenze culturali e politiche. Questa tesi serve a sostenere che tutto il male (le divisioni) viene da quei mediocri (o loschi) figuri che guidano i partiti. Serve anche a mettere fuori gioco, prima ancora di cominciare, le posizioni che non si condividono (che legittimità hanno, posto che di differenze «rilevanti» non ce n'è?). Senonché mi pare che le cose stiano in modo totalmente opposto. L'anno scorso, quando Rifondazione comunista andava a congresso, scrissi (suscitando qualche meraviglia) che il vero terreno dello scontro erano le diverse culture politiche presenti in quel partito. Da una di esse ritenevo derivasse la volontà di dissolverlo che - come si è visto - animava una parte del gruppo dirigente. Oggi ne sono ancora più convinto. Alla base della diaspora della sinistra sta il nodo che viene stringendosi da tre decenni a questa parte: il nodo del comunismo e della sua attualità, da alcuni affermata, da altri recisamente negata. È stupefacente che in Italia, dopo trent'anni di neoliberismo, dopo la distruzione del Pci e l'eclisse della sinistra moderata, dopo lo sfondamento capitalista sui diritti del lavoro e sulla democrazia, di tutto si parli meno che della decisione di gran parte della sinistra politica e intellettuale di impegnarsi a cancellare il comunismo dalla scena pubblica di questo Paese. Come nella migliore tradizione, questo rimosso ritorna. Esige di essere affrontato. Invece si sfugge, implicitamente attribuendo ragione a quella decisione. Su questa base, quale unità a sinistra si ritiene possibile? Il comunismo. Oggi tutti assicurano di ritenere «centrale» la questione del lavoro. È di questo avviso persino il ministro Sacconi. Ma che cosa si intende con queste parole? Chi si dichiara ancora comunista e pensa che la ricostruzione di una grande forza comunista in Italia e in Europa sia necessaria per sconfiggere la destra e riprendere una battaglia di civiltà dopo il lungo inverno neoliberista dà loro un significato ben preciso sul quale varrebbe la pena di confrontarsi senza espedienti diplomatici, ponendo fine a discussioni astratte fini a se stesse. Muove dalla critica al modo di produzione, considerando inderogabili, oggi come ieri, le domande poste dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta sul come e che cosa produrre; ritiene irrinunciabile l'autonomia del lavoro (il controllo del lavoro su se stesso), per cui respinge la riscrittura neocorporativa della contrattazione, concertazione compresa; considera non negoziabile la tutela del reddito, dalla scala mobile alla generalizzazione del salario sociale; pone in cima all'agenda politica lo smantellamento della legislazione nazionale ed europea che scarica sul lavoro le rigidità del capitale in termini di precarietà, sotto-occupazione, bassi salari e attacco al welfare. In una battuta, chi si dichiara ancora comunista pensa che si può muovere nella direzione giusta solo gettando tutta la propria forza nel conflitto di lavoro e riassumendo - per dirla con Luciano Gallino - la prospettiva di classe abbandonata da gran parte della sinistra italiana ed europea in questi ultimi vent'anni. Siamo tutti d'accordo? Se così fosse, non ci spiegheremmo pressoché nulla di quanto è successo - per rimanere al recente passato - nei due anni di Prodi. Ad ogni modo, è questa la materia di cui oggettivamente si tratta. Il resto è divagazione. Tutt'al più buona - come dicevano i nostri maggiori - per incartare il pesce.
La discussione aperta dal manifesto sull'unità a sinistra è importante e necessaria. La frammentazione delle forze di alternativa è un dramma, e chi non lo intende mostra di vivere lontano mille miglia dai reali problemi di chi campa (sempre più stentatamente) di salario o di quanti (sempre più numerosi) non dispongono più di un pur magro e aleatorio reddito da lavoro. È molto probabile che, continuando di questo passo, quel poco che ancora è in piedi a sinistra in questo Paese venga spazzato via, aggravando una crisi di inaudita gravità. Detto ciò, le battute iniziali di questa discussione appaiono deludenti. Posto che la frammentazione è una iattura, si risponde - come per un riflesso condizionato - con un vibrante appello all'unità basato su una premessa molto discutibile. La divisione della sinistra sarebbe tutta colpa dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, descritti come una miserabile nomenclatura di mestieranti e burocrati. Siamo alla riproposizione di un rozzo codice ideologico, impostosi negli anni Ottanta, quando maturava la crisi storica dei grandi partiti di massa e si preparava il collasso del Pci. Da una parte il «Paese legale» (le istituzioni della politica come cappa oppressiva e luogo di malaffare); dall'altra, il «Paese reale» (la beneamata società civile, fonte di istanze sistematicamente frustrate). Come se la società non fosse anche la culla del peggio; come se qualche cerbero interdicesse ai virtuosi l'accesso alla politica; come se la politica fosse una qualità dell'essere e non il modo di operare della società nello svolgimento di determinate funzioni. Possibile che questo schema abbia ancora seguito a sinistra, dopo aver favorito il dilagare dell'antipolitica e della sottocultura berlusconiana e leghista? Anni fa mi capitò di obiettare a un suo esagitato fautore che le sue critiche avrebbero guadagnato credibilità se lui si fosse impegnato a migliorare le cose entrando in un partito e battendosi per emendarne i maggiori difetti. Mi rispose che non aveva tempo da perdere in futili discussioni. Oggi costui non protesta, essendo finalmente riuscito a farsi eleggere da uno dei partiti contro i quali scagliava roventi anatemi. Dunque occorre unire le forze della sinistra. Il punto è che allora dovremmo cominciare col dire perché: per fare che cosa e su che base. Sinistra, di per sé, significa ben poco. O troppo, visto che ognuno la definisce a modo suo e non è detto che tutti questi modi siano armonizzabili. Insomma, si tratta di muoversi in direzione opposta a quella «sinistra senza aggettivi» che serve solo ad assemblare cartelli elettorali e a preparare nuovi disastri. L'affermazione più sorprendente in questa discussione l'ha fatta Luigi Ferrajoli, convinto che non sussistano, a sinistra, significative differenze culturali e politiche. Questa tesi serve a sostenere che tutto il male (le divisioni) viene da quei mediocri (o loschi) figuri che guidano i partiti. Serve anche a mettere fuori gioco, prima ancora di cominciare, le posizioni che non si condividono (che legittimità hanno, posto che di differenze «rilevanti» non ce n'è?). Senonché mi pare che le cose stiano in modo totalmente opposto. L'anno scorso, quando Rifondazione comunista andava a congresso, scrissi (suscitando qualche meraviglia) che il vero terreno dello scontro erano le diverse culture politiche presenti in quel partito. Da una di esse ritenevo derivasse la volontà di dissolverlo che - come si è visto - animava una parte del gruppo dirigente. Oggi ne sono ancora più convinto. Alla base della diaspora della sinistra sta il nodo che viene stringendosi da tre decenni a questa parte: il nodo del comunismo e della sua attualità, da alcuni affermata, da altri recisamente negata. È stupefacente che in Italia, dopo trent'anni di neoliberismo, dopo la distruzione del Pci e l'eclisse della sinistra moderata, dopo lo sfondamento capitalista sui diritti del lavoro e sulla democrazia, di tutto si parli meno che della decisione di gran parte della sinistra politica e intellettuale di impegnarsi a cancellare il comunismo dalla scena pubblica di questo Paese. Come nella migliore tradizione, questo rimosso ritorna. Esige di essere affrontato. Invece si sfugge, implicitamente attribuendo ragione a quella decisione. Su questa base, quale unità a sinistra si ritiene possibile? Il comunismo. Oggi tutti assicurano di ritenere «centrale» la questione del lavoro. È di questo avviso persino il ministro Sacconi. Ma che cosa si intende con queste parole? Chi si dichiara ancora comunista e pensa che la ricostruzione di una grande forza comunista in Italia e in Europa sia necessaria per sconfiggere la destra e riprendere una battaglia di civiltà dopo il lungo inverno neoliberista dà loro un significato ben preciso sul quale varrebbe la pena di confrontarsi senza espedienti diplomatici, ponendo fine a discussioni astratte fini a se stesse. Muove dalla critica al modo di produzione, considerando inderogabili, oggi come ieri, le domande poste dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta sul come e che cosa produrre; ritiene irrinunciabile l'autonomia del lavoro (il controllo del lavoro su se stesso), per cui respinge la riscrittura neocorporativa della contrattazione, concertazione compresa; considera non negoziabile la tutela del reddito, dalla scala mobile alla generalizzazione del salario sociale; pone in cima all'agenda politica lo smantellamento della legislazione nazionale ed europea che scarica sul lavoro le rigidità del capitale in termini di precarietà, sotto-occupazione, bassi salari e attacco al welfare. In una battuta, chi si dichiara ancora comunista pensa che si può muovere nella direzione giusta solo gettando tutta la propria forza nel conflitto di lavoro e riassumendo - per dirla con Luciano Gallino - la prospettiva di classe abbandonata da gran parte della sinistra italiana ed europea in questi ultimi vent'anni. Siamo tutti d'accordo? Se così fosse, non ci spiegheremmo pressoché nulla di quanto è successo - per rimanere al recente passato - nei due anni di Prodi. Ad ogni modo, è questa la materia di cui oggettivamente si tratta. Il resto è divagazione. Tutt'al più buona - come dicevano i nostri maggiori - per incartare il pesce.
15.7.09
Office Live, buone idee e qualche “bug”
di Tiziano Toniutti
Office Live è una web-suite gratuita di programmi applicativi realizzata per mantenere sempre il proprio lavoro aggiornato da dovunque ci si colleghi. Una risposta a Google Docs dalle ottime potenzialità, e con qualche problemino
Certo è ancora una beta, e quindi i problemi devono esserci per forza. Ma, diciamolo subito, sono oscurati dalle eccellenti funzionalità che Microsoft Office Live, versione tutta online della suite professionale di Redmond, offre già in questa incarnazione non definitiva.
Word, Excel, Onenote, Powerpoint e tutti i "grandi classici" Microsoft sono disponibili in versione web, perfettamente funzionante e integrati con le applicazioni installate sul disco fisso del proprio Pc. Qual è l'idea? Oltre alla concorrenza diretta con Google Docs, che fa le stesse cose ma in maniera decisamente meno evoluta, il concetto di Office Live è semplice. Un utente lavora sul proprio pc, in locale, con un programma Office. Però oltre a salvare il lavoro sul disco fisso, può salvarlo anche online, in uno spazio gratuito creato appositamente. Poi magari va in un altro ufficio e può aprire il documento salvato sul web e continuare a lavorarci anche senza utilizzare il proprio computer personale.
Office Live crea uno spazio "cloud", tra le nuvole del web, di fatto un hard disk virtuale accessibile da ovunque, con un'applicazione-web che replica le principali funzioni di Office "vero", non tutte ma includendo quelle che servono davvero. Si può anche scegliere di utilizzare esclusivamente la versione online per lavorare, di fatto molto rapida nei caricamenti e intuitiva nell'interfaccia. Ma il vero gusto sta nel sincronizzare le più complete applicazioni in locale con il "cloud" e rimanere sempre allineati coi propri documenti ovunque si vada. E così è, almeno in parte.
Sì perché per ora su alcuni sistemi (noi abbiamo provato Xp e Vista con Office 2007), l'applicazione accessoria di sincronia tra locale e "cloud" non ne vuole sapere di funzionare. In alcuni casi non compare nei menu (Excel), in altri impedisce ai programmi di funzionare tout-court (Word). Disinstallando l'estensione per la sincronia, Office 2007 torna a funzionare regolarmente. A quel punto si possono sincronizzare i documenti "a manina", uploadandoli con la maschera web di Office Live. Però il gusto un po' ne perde.
Siamo certi che le imperfezioni di Office Live verranno piallate via prima del rilascio di Office 2010, in arrivo l'anno prossimo. Per adesso si può sperimentare il servizio e farsi un'idea abbastanza precisa delle possibilità che offrirà, davvero, a breve.
Office Live è una web-suite gratuita di programmi applicativi realizzata per mantenere sempre il proprio lavoro aggiornato da dovunque ci si colleghi. Una risposta a Google Docs dalle ottime potenzialità, e con qualche problemino
Certo è ancora una beta, e quindi i problemi devono esserci per forza. Ma, diciamolo subito, sono oscurati dalle eccellenti funzionalità che Microsoft Office Live, versione tutta online della suite professionale di Redmond, offre già in questa incarnazione non definitiva.
Word, Excel, Onenote, Powerpoint e tutti i "grandi classici" Microsoft sono disponibili in versione web, perfettamente funzionante e integrati con le applicazioni installate sul disco fisso del proprio Pc. Qual è l'idea? Oltre alla concorrenza diretta con Google Docs, che fa le stesse cose ma in maniera decisamente meno evoluta, il concetto di Office Live è semplice. Un utente lavora sul proprio pc, in locale, con un programma Office. Però oltre a salvare il lavoro sul disco fisso, può salvarlo anche online, in uno spazio gratuito creato appositamente. Poi magari va in un altro ufficio e può aprire il documento salvato sul web e continuare a lavorarci anche senza utilizzare il proprio computer personale.
Office Live crea uno spazio "cloud", tra le nuvole del web, di fatto un hard disk virtuale accessibile da ovunque, con un'applicazione-web che replica le principali funzioni di Office "vero", non tutte ma includendo quelle che servono davvero. Si può anche scegliere di utilizzare esclusivamente la versione online per lavorare, di fatto molto rapida nei caricamenti e intuitiva nell'interfaccia. Ma il vero gusto sta nel sincronizzare le più complete applicazioni in locale con il "cloud" e rimanere sempre allineati coi propri documenti ovunque si vada. E così è, almeno in parte.
Sì perché per ora su alcuni sistemi (noi abbiamo provato Xp e Vista con Office 2007), l'applicazione accessoria di sincronia tra locale e "cloud" non ne vuole sapere di funzionare. In alcuni casi non compare nei menu (Excel), in altri impedisce ai programmi di funzionare tout-court (Word). Disinstallando l'estensione per la sincronia, Office 2007 torna a funzionare regolarmente. A quel punto si possono sincronizzare i documenti "a manina", uploadandoli con la maschera web di Office Live. Però il gusto un po' ne perde.
Siamo certi che le imperfezioni di Office Live verranno piallate via prima del rilascio di Office 2010, in arrivo l'anno prossimo. Per adesso si può sperimentare il servizio e farsi un'idea abbastanza precisa delle possibilità che offrirà, davvero, a breve.
13.7.09
Chi rompe la tregua paga
BARBARA SPINELLI
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.
Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.
Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.
Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.
Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.
Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.
Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.
Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.
Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.
Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.
Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.
L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.
Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.
Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.
Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.
Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.
Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.
Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.
Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.
Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.
Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.
Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.
L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.
9.7.09
Lo stravagante Silvio Berlusconi
Articolo di Personaggi d'Italia, pubblicato giovedì 9 luglio 2009 in Francia.
[Le Point]
Vietato ai minori. La sua passione per le giovani donne facili fa scandalo, ma non intacca affatto la sua popolarità.
“Buffone! Depravato!”. Che sia a Napoli per presentare il G8 o a Viareggio sui luoghi della catastrofe ferroviaria che è costata la vita a 21 persone, è ormai con questi insulti che Silvio Berlusconi è accolto quando si sposta nella Penisola. Buffone, si può discutere. Depravato, è sicuro.
L’inchiesta della procura di Bari ha infatti dimostrato la presenza, a più riprese, di ragazze di dubbia virtù nelle residenze del presidente del Consiglio, a Roma come in Sardegna. E Patrizia D’Addario, una di loro, si è presa la briga di registrare le peripezie della notte d’amore passata con ilpadrone di casa. Ma più che le prestazioni, fatturate 2.000 euro, è il bis ogno del Cavaliere di circondarsi di una corte di donne molto giovani che ha scioccato gli Italiani. Il mistero aleggia anche sulla strana relazione tra Silvio Berlusconi e Noemi, una minorenne napoletana.
Questa ricerca di un’eterna giovinezza al fianco di giovani donne in fiore fu immortalata la prima volta nel 2007 da un parapazzo nel giardino di villa Certosa, in Sardegna. Sulle foto si vede Berlusconi circondato da cinque attrici di serie B, candidate al “Grande fratello” o vallette di varietà televisivi. Due di loro sono sedute sulle sue ginocchia. In un altro scatto il Cavaliere passeggia tenendone per mano una da ogni parte. L’ambigua intimità collettiva che scaturisce dagli scatti aveva fatto titolare tutta la stampa sull’ “harem di Berlusconi”.
Un po’ più tardi, il presidente del Consiglio si frega da solo svelando la sua agenda per dimostrare a che punto si ammazza di lavoro per il bene del suo paese. Tra due appuntamenti politici, i giornalisti stupefatti scoprono nella stessa giornata due “pause” sospette con due giovani attrici. Alcune intercettazioni telefoniche riveleranno che Berlusconi aveva tentato di trovare loro dei ruoli in fiction della RAI. “Comincia a parlare e a diventare pericolosa”, aveva dichiarato a proposito di una di loro per giustificare la sua richiesta con il direttore della fiction della televisione pubblica.
Nel dicembre del 2007 sono 50 giovani donne, per la maggior parte provenienti dal mondo dello spettacolo, ad essere spedite in charter (”love plane”) verso la Sardegna perallietare il capodanno del presidente del Consiglio. d il Cavaliere ha offerto un braccialetto a forma di tartaruga, il simbolo di villa Certosa, e poi, al suono delle orchestre, la truppa si è gioiosamete dispersa nel parco di 100 ettari. Villa Certosa sta a Berlusconi come Neverland stava a Michael Jackson, con la pizzeria e il gelataio, il lago con 1.200 palme, il giardino dai 2.500 cactus (riscaldati da un sistema d’aria condizionata), l’ “orticello della salute”, l’anfiteatro all’aria aperta, la “cascata canadese” e le terme. Il giornodella vigilia di capodanno la moltitudine di ninfette fu condotta da uno squadrone di guardie del corpo nei negozi di Porto Rotondo per uno shopping…limitato a 2.000 euro a testa. Ma il clou del soggiorno rimane, dopo i bagni di mezzanotte in una delle piscine riscaldate e la sarabanda del trenino, l’eruzione notturna del finto vulcano con la lava sintetica che cola in fondo al giardino di villa Certosa.
Stesse scene nel 2008. E quest’anno la famosa Noemi, ancora minorenne, prendeva parte alla festa. All’eco delle risate delle giovani donne attirate dalle paillettes della televisione e dal potere si mescolano oggi i propositi di Veronica Lario che invoca pubblicamente la “malattia” di suo marito, “le vergini che si offrono al drago” e i “divertimenti dell’imperatore”.
Il cavallo di Caligola
Divertimento, ma non solo. Perché l’intimità del Cavaliere è un formidabile acceleratore di carriere politiche. Ex pin-up di calendari da camionista, Mara Carfagna è diventata…ministro delle Pari Opportunità. Lucia Ronzulli, che sorvegliava con un polso di ferro la disciplina delle giovani ospiti di Villa Certosa, è stata eletta al Parlamento di Bruxelles. E solo una rivoltadei fedelissimi di Gianfranco Fini, il presidente della Camera, ha impedito l’iscrizione di altre sette protette del Cavaliere nelle liste del Popolo della Libertà (PDL) alle ultime elezioni europee. Patrizia D’Addario e Barbara Montereale, tutte e due escort-girls di professione, figuravano nellaper le elezioni amministrative a Bari. In un’intervista, la giovane Noemi confidava dall’alto dei suoi 18 anni e con un candore disarmante: “Per il mio avvenire esito tra lo spettacolo e la politica. Si vedrà, Papi [alias Silvio Berlusconi] se ne occuperà”. Caligola aveva ben nominato senatore il suo cavallo… lista del PDL
Questa debolezza di Berlusconi per il gentil sesso lo mette alla mercé di avventurieri. Così l’affarista Gianpaolo Tarantini, ben noto alla polizia di Bari, si erapre fissato come obiettivo di entrare nelle grazie del presidente del Consiglio, che non aveva mai incontrato. Per raggiungere il suo scopo affittò per 100.000 euro, nell’agosto del 2008, una villa vicina alla residenza del Cavaliere in Sardegna. Champagne, cocaina e giovani donne hanno rapidamente fatto delle sue feste il must delle notti sarde. Il suo augusto vicino non ha resistito. “Gianpa” è diventato in qualche mese un intimo di primo rango: un posto nellatribuna del Milan, viaggi con l’aereo del presidente del Consiglio, accesso privilegiato alle più alte istanze del PDL. Fu Tarantini a presentare al Cavaliere Patrizia, all’origine dello scandalo.
“D’accordo, ma ci vuole una salute di ferro!”. Numerosi italiani, comprese molte donne, fanno riferimento con una punta d’invidia al supposto priapismo del loro presidente del Consiglio. Eppure, a quasi 73 anni, Silvio Berlusconi porta un pacemaker e ha avuto un cancro alla prostata. Piuttosto che a quella del Divin Marchese, l’universo erotico del Cavaliere sembra ispirarsi ad un assaggio di bambini destinato a celebrarlo. Con rare eccezioni, le giovani donne che hanno condiviso la sua intimità raccontano tutte le stesse serate: qualche coppa di champagne, Berlusconi al piano che interpreta il repertorio di Charles Trenet, un karaoke, la visione delle videocassette degli incontri del presidente del Consiglio con i grandi della terra, diapositive delle sue sette ville alle Bermuda, la distribuzione di gioielli di bijotteria di cui ha le tasche piene, una passeggiata nel giardino con annesso corso botanico, talvolta mano nella mano con l’eletta del momento. “Berlusconi ha il terrore di invecchiare e di morire, dichiara Marcello Veneziani, editorialista di destra e vicino del cerchio berlusconiano. Le sue patetiche dimostrazioni di vitalità servono a dimostrare che è sempre giovane. Si attacca a un mondo di paillettes e di ragazze denunate per scappare all’orrore del suo volto senza trucco, alla calvizie, ai dolori, alla vecchiaia”. Ex compagna di un ministro del primo governo Berlusconi che, per prima, ha denunciatola turpitudine della corte del presidente del Consiglio negli anni ‘90, Stefania Ariosto gli fa eco: “L’esibizionismo sessuale di Berlusconi, che si è aggravato, è dovuto alla senilità ed all’intervento chirurgico che l’ha molto indebolito”.
Silvio Berlusconi è ossessionato dalla sua immagine. L’impressione, quando lo si incontra in carne ed ossa, è stupefacente. Gli impianti, la bassa statura malgrado le scarpe con i tacchi, il volto liftato e completamente liscio sotto uno spesso strato di fondotinta arancio evocano un narcisismo forsennato. Ma molto presto l’incredibile vitalità e la naturale simpatia - Silvio è in privato un formidabile charmeur, anche i suoi avversari politici più accaniti lo riconoscono - spazzano via l’imbarazzo iniziale. Dietro questa spontaneità apparente niente è tuttavia lasciato al caso. Dapiù di vent’anni, Miti Simonetto, una delle sue più vicine collaboratrici, compra foto, vecchie o recenti, che non corrispondono all’immagine che il capo vuole riflettere. L’iconografia ufficiale ne è più che rivelatrice. Al fianco di foto che lo mostrano come un magnate davanti ai plastici di grandi progetti immobiliari, il Cavaliere ha mantenuto immagini della sua giovinezza, sigaretta in bocca e borsalino sulla testa, a metà strada fra Latin lover e il Jean Gabin dei films di gangsters. Berlusconi è molto fiero della sua virilità “bad boy” e, finché non sono diventate un problema politico, le indiscrezioni sulla sua vita privata lo hanno lusingato.
Il suo capolavoro in materia di comunicazione resta tuttavia “Una storia italiana”, l’agiografia spedita alla vigilia delle elezioni del 2001 a più di 12 milioni di famiglie italiane. Il libro mostra la famiglia Berlusconi che posa davanti alle aiuole fiorite, con bambini biondi che corrono sullo sfondo, il tutto narrato nello stile che il Cavaliere ha sempre imposto ai dirigenti delle sue televisioni: “State parlando ad un pubblico che non ha il diploma di terza media”.
“Tecnicamente immortale”.
Ma “hollywoodizzare” il suo corpo non è bastato, il Cavaliere ha voluto sacralizzarlo. Nel 1994 dichiara di essere stato “unto dal signore”. Nel giardino della sua dimora milanese, Villa San Martino, ha fatto costruire per la sua gloria il mausoleo dove riposerà circondato, quando sarà venuta anche la loro ora, dai suoi più fedeli apostoli: Emilio Fede, Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri, accessoriamente condannato a otto anni di prigione per associazione mafiosa…
Un coro d’adoratori alimenta il mito berlusconiano. Più volte ministro, Claudio Scajola non ha paura dell’enfasi quando dichiara: “Berlusconi è il sole al quale noi tutti vogliamo scaldarci”. Il suo collega Enrico La loggia propone di sconvolgere il calendario gregoriano indicando il 1994 - anno dell’entrata di Berlusconi in politica - come l’anno 1 dell’era berlusconiana. Emilio Fede, direttore del telegiornale di Rete4, una delle reti nazionali dell’imperom ediatico del Cavaliere, confessa di invidiare il cameriere del suo datore di lavoro poiché questi ne può condividere ogni mattina l’intimità. Sandro Bondi, attuale ministro della Cultura, gli dedica regolarmente delle poesie. L’inno del PDL, di cui Berlusconi è presidente, si intitola “Meno male cheSilvio c’è”. Um berto Scapagnini, ex sindaco di Catania e medico personale di Berlusconi, descrive con un’emozione mistica il raggio di sole che ha attraversato un nero cielo da temporale il momento in cui il Cavaliere arriva nella sua città. Prima di decretare il suo paziente preferito “tecnicamente immortale”. Silvio Berlusconi ringrazia, ma non chiede tanto. Immortale no, ma afferma di dormire tre ore al giorno e di fare l’amore praticamente altrettante, ed ha dichiarato, qualche mese prima del suo 73° compleanno, di sentirsi un uomo di 35 anni.
L’informazione interamente in sua gloria
Il Cavaliere non capisce come mai la stampa non tessa sistematicamente le sue lodi. “Riversano su di me un fiume di menzogne, non è che un tentativo di colpo di Stato”, ha ancora dichiarato a proposito delle timide rivelazioni sull’affare Patrizia D’Addario. Affermazione come minimo paradossale. Berlusconi è proprietario della metà delle reti televisive nazionali che distillano, con stili differenti, un’informazione interamente in sua gloria. Una menzione speciale va al giornale di Rete4, che farebbe impallidire d’invidia il “Caro Leader” nord-coreano. Silvio Berlusconi possiedeanche una serie di quotidiani, un settimanale molto influente, dei mensili e la più grande casa editrice italiana. In quanto presidente del Consiglio, ha piazzato uomini di fiducia in tutti i posti chiave della RAI. Così il TG di Rai1, la messa solenne dell’informazione italiana, non ha ancora accennato alla presenza di prostitute nel domicilio del presidente del Consiglio. “I giornalisti del mio gruppo, come quelli del servizio pubblico, sono contro di me perché vogliono mostrare la loro indipendenza”, ha tuttavia affermato recentemente il Cavaliere ai microfoni di France 2. Dimentica di averpreteso , ed ottenuto, la testa di giornalisti scomodi, nel 2001, durante un discorso tenuto a Sofia e passato ai posteri col nome di “editto bulgaro”. Solo Rai3, una rete pubblica, è sfugita alla censura del regime. Questo controllo dell’informazione permette di gestire il quotidiano, ma ha ugualmente giocato un ruolo nella berlusconizzazione del paese fino al linguaggio comune. Prima che Silvio entrasse in politica, un “azzurro” era un tifoso della nazionale di calcio italiana e un “moderato”, un elettore di centro. Oggi un “azzurro” è un militante del PDL e un “moderato”…un elettore di Berlusconi.
L’uomo forte della Penisola nutre ugualmente un particolare rancore nei riguardi dei giornalisti stranieri, colpevoli di averlo ingiustamente ridicolizzato agli occhi del mondo. Nessuno in questo “covo di comunisti manovrati dall’opposizione” è ben visto ai suoi occhi. Il Times di Londra, il New York Times o il giornale britannico The Economist sono relegati al rango di cartastraccia marxisti. Per non parlare del quotidiano spagnolo El Pais, che ha pubblicato per primo le foto delle gioviali serate di Silvio. L’ambasciatore d’Italia a Madrid ha richiesto il licenziamento del giornalista troppo impertinente, Miguel Mora.
La difficoltà nel raccontare l’Italia berlusconiana non è tuttavia dovuta ai piccoli grattacapi quotidiani, ma all’inverosimiglianza di quello che accade. I giornali americani, in particolar modo, hanno serie difficoltà a far capire al loro pubblico tutte le sottigliezze barocche del Cavaliere. Star del blog del New York Tmes, Robert Mackey ha scelto la parabola seguente: ” Immaginate un mondo nel quale Donal Trump possedesse la NBC, fosse il presidente degli Stati Uniti e offrissea Miss California una poltrona al Senato in cambio dei suoi favori. Non sareste che a metà strada di quel che succede in Italia”.
[Articolo originale "L'extravagant Silvio Berlusconi" di Dominique Dunglas]
[Le Point]
Vietato ai minori. La sua passione per le giovani donne facili fa scandalo, ma non intacca affatto la sua popolarità.
“Buffone! Depravato!”. Che sia a Napoli per presentare il G8 o a Viareggio sui luoghi della catastrofe ferroviaria che è costata la vita a 21 persone, è ormai con questi insulti che Silvio Berlusconi è accolto quando si sposta nella Penisola. Buffone, si può discutere. Depravato, è sicuro.
L’inchiesta della procura di Bari ha infatti dimostrato la presenza, a più riprese, di ragazze di dubbia virtù nelle residenze del presidente del Consiglio, a Roma come in Sardegna. E Patrizia D’Addario, una di loro, si è presa la briga di registrare le peripezie della notte d’amore passata con ilpadrone di casa. Ma più che le prestazioni, fatturate 2.000 euro, è il bis ogno del Cavaliere di circondarsi di una corte di donne molto giovani che ha scioccato gli Italiani. Il mistero aleggia anche sulla strana relazione tra Silvio Berlusconi e Noemi, una minorenne napoletana.
Questa ricerca di un’eterna giovinezza al fianco di giovani donne in fiore fu immortalata la prima volta nel 2007 da un parapazzo nel giardino di villa Certosa, in Sardegna. Sulle foto si vede Berlusconi circondato da cinque attrici di serie B, candidate al “Grande fratello” o vallette di varietà televisivi. Due di loro sono sedute sulle sue ginocchia. In un altro scatto il Cavaliere passeggia tenendone per mano una da ogni parte. L’ambigua intimità collettiva che scaturisce dagli scatti aveva fatto titolare tutta la stampa sull’ “harem di Berlusconi”.
Un po’ più tardi, il presidente del Consiglio si frega da solo svelando la sua agenda per dimostrare a che punto si ammazza di lavoro per il bene del suo paese. Tra due appuntamenti politici, i giornalisti stupefatti scoprono nella stessa giornata due “pause” sospette con due giovani attrici. Alcune intercettazioni telefoniche riveleranno che Berlusconi aveva tentato di trovare loro dei ruoli in fiction della RAI. “Comincia a parlare e a diventare pericolosa”, aveva dichiarato a proposito di una di loro per giustificare la sua richiesta con il direttore della fiction della televisione pubblica.
Nel dicembre del 2007 sono 50 giovani donne, per la maggior parte provenienti dal mondo dello spettacolo, ad essere spedite in charter (”love plane”) verso la Sardegna perallietare il capodanno del presidente del Consiglio. d il Cavaliere ha offerto un braccialetto a forma di tartaruga, il simbolo di villa Certosa, e poi, al suono delle orchestre, la truppa si è gioiosamete dispersa nel parco di 100 ettari. Villa Certosa sta a Berlusconi come Neverland stava a Michael Jackson, con la pizzeria e il gelataio, il lago con 1.200 palme, il giardino dai 2.500 cactus (riscaldati da un sistema d’aria condizionata), l’ “orticello della salute”, l’anfiteatro all’aria aperta, la “cascata canadese” e le terme. Il giornodella vigilia di capodanno la moltitudine di ninfette fu condotta da uno squadrone di guardie del corpo nei negozi di Porto Rotondo per uno shopping…limitato a 2.000 euro a testa. Ma il clou del soggiorno rimane, dopo i bagni di mezzanotte in una delle piscine riscaldate e la sarabanda del trenino, l’eruzione notturna del finto vulcano con la lava sintetica che cola in fondo al giardino di villa Certosa.
Stesse scene nel 2008. E quest’anno la famosa Noemi, ancora minorenne, prendeva parte alla festa. All’eco delle risate delle giovani donne attirate dalle paillettes della televisione e dal potere si mescolano oggi i propositi di Veronica Lario che invoca pubblicamente la “malattia” di suo marito, “le vergini che si offrono al drago” e i “divertimenti dell’imperatore”.
Il cavallo di Caligola
Divertimento, ma non solo. Perché l’intimità del Cavaliere è un formidabile acceleratore di carriere politiche. Ex pin-up di calendari da camionista, Mara Carfagna è diventata…ministro delle Pari Opportunità. Lucia Ronzulli, che sorvegliava con un polso di ferro la disciplina delle giovani ospiti di Villa Certosa, è stata eletta al Parlamento di Bruxelles. E solo una rivoltadei fedelissimi di Gianfranco Fini, il presidente della Camera, ha impedito l’iscrizione di altre sette protette del Cavaliere nelle liste del Popolo della Libertà (PDL) alle ultime elezioni europee. Patrizia D’Addario e Barbara Montereale, tutte e due escort-girls di professione, figuravano nellaper le elezioni amministrative a Bari. In un’intervista, la giovane Noemi confidava dall’alto dei suoi 18 anni e con un candore disarmante: “Per il mio avvenire esito tra lo spettacolo e la politica. Si vedrà, Papi [alias Silvio Berlusconi] se ne occuperà”. Caligola aveva ben nominato senatore il suo cavallo… lista del PDL
Questa debolezza di Berlusconi per il gentil sesso lo mette alla mercé di avventurieri. Così l’affarista Gianpaolo Tarantini, ben noto alla polizia di Bari, si erapre fissato come obiettivo di entrare nelle grazie del presidente del Consiglio, che non aveva mai incontrato. Per raggiungere il suo scopo affittò per 100.000 euro, nell’agosto del 2008, una villa vicina alla residenza del Cavaliere in Sardegna. Champagne, cocaina e giovani donne hanno rapidamente fatto delle sue feste il must delle notti sarde. Il suo augusto vicino non ha resistito. “Gianpa” è diventato in qualche mese un intimo di primo rango: un posto nellatribuna del Milan, viaggi con l’aereo del presidente del Consiglio, accesso privilegiato alle più alte istanze del PDL. Fu Tarantini a presentare al Cavaliere Patrizia, all’origine dello scandalo.
“D’accordo, ma ci vuole una salute di ferro!”. Numerosi italiani, comprese molte donne, fanno riferimento con una punta d’invidia al supposto priapismo del loro presidente del Consiglio. Eppure, a quasi 73 anni, Silvio Berlusconi porta un pacemaker e ha avuto un cancro alla prostata. Piuttosto che a quella del Divin Marchese, l’universo erotico del Cavaliere sembra ispirarsi ad un assaggio di bambini destinato a celebrarlo. Con rare eccezioni, le giovani donne che hanno condiviso la sua intimità raccontano tutte le stesse serate: qualche coppa di champagne, Berlusconi al piano che interpreta il repertorio di Charles Trenet, un karaoke, la visione delle videocassette degli incontri del presidente del Consiglio con i grandi della terra, diapositive delle sue sette ville alle Bermuda, la distribuzione di gioielli di bijotteria di cui ha le tasche piene, una passeggiata nel giardino con annesso corso botanico, talvolta mano nella mano con l’eletta del momento. “Berlusconi ha il terrore di invecchiare e di morire, dichiara Marcello Veneziani, editorialista di destra e vicino del cerchio berlusconiano. Le sue patetiche dimostrazioni di vitalità servono a dimostrare che è sempre giovane. Si attacca a un mondo di paillettes e di ragazze denunate per scappare all’orrore del suo volto senza trucco, alla calvizie, ai dolori, alla vecchiaia”. Ex compagna di un ministro del primo governo Berlusconi che, per prima, ha denunciatola turpitudine della corte del presidente del Consiglio negli anni ‘90, Stefania Ariosto gli fa eco: “L’esibizionismo sessuale di Berlusconi, che si è aggravato, è dovuto alla senilità ed all’intervento chirurgico che l’ha molto indebolito”.
Silvio Berlusconi è ossessionato dalla sua immagine. L’impressione, quando lo si incontra in carne ed ossa, è stupefacente. Gli impianti, la bassa statura malgrado le scarpe con i tacchi, il volto liftato e completamente liscio sotto uno spesso strato di fondotinta arancio evocano un narcisismo forsennato. Ma molto presto l’incredibile vitalità e la naturale simpatia - Silvio è in privato un formidabile charmeur, anche i suoi avversari politici più accaniti lo riconoscono - spazzano via l’imbarazzo iniziale. Dietro questa spontaneità apparente niente è tuttavia lasciato al caso. Dapiù di vent’anni, Miti Simonetto, una delle sue più vicine collaboratrici, compra foto, vecchie o recenti, che non corrispondono all’immagine che il capo vuole riflettere. L’iconografia ufficiale ne è più che rivelatrice. Al fianco di foto che lo mostrano come un magnate davanti ai plastici di grandi progetti immobiliari, il Cavaliere ha mantenuto immagini della sua giovinezza, sigaretta in bocca e borsalino sulla testa, a metà strada fra Latin lover e il Jean Gabin dei films di gangsters. Berlusconi è molto fiero della sua virilità “bad boy” e, finché non sono diventate un problema politico, le indiscrezioni sulla sua vita privata lo hanno lusingato.
Il suo capolavoro in materia di comunicazione resta tuttavia “Una storia italiana”, l’agiografia spedita alla vigilia delle elezioni del 2001 a più di 12 milioni di famiglie italiane. Il libro mostra la famiglia Berlusconi che posa davanti alle aiuole fiorite, con bambini biondi che corrono sullo sfondo, il tutto narrato nello stile che il Cavaliere ha sempre imposto ai dirigenti delle sue televisioni: “State parlando ad un pubblico che non ha il diploma di terza media”.
“Tecnicamente immortale”.
Ma “hollywoodizzare” il suo corpo non è bastato, il Cavaliere ha voluto sacralizzarlo. Nel 1994 dichiara di essere stato “unto dal signore”. Nel giardino della sua dimora milanese, Villa San Martino, ha fatto costruire per la sua gloria il mausoleo dove riposerà circondato, quando sarà venuta anche la loro ora, dai suoi più fedeli apostoli: Emilio Fede, Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri, accessoriamente condannato a otto anni di prigione per associazione mafiosa…
Un coro d’adoratori alimenta il mito berlusconiano. Più volte ministro, Claudio Scajola non ha paura dell’enfasi quando dichiara: “Berlusconi è il sole al quale noi tutti vogliamo scaldarci”. Il suo collega Enrico La loggia propone di sconvolgere il calendario gregoriano indicando il 1994 - anno dell’entrata di Berlusconi in politica - come l’anno 1 dell’era berlusconiana. Emilio Fede, direttore del telegiornale di Rete4, una delle reti nazionali dell’imperom ediatico del Cavaliere, confessa di invidiare il cameriere del suo datore di lavoro poiché questi ne può condividere ogni mattina l’intimità. Sandro Bondi, attuale ministro della Cultura, gli dedica regolarmente delle poesie. L’inno del PDL, di cui Berlusconi è presidente, si intitola “Meno male cheSilvio c’è”. Um berto Scapagnini, ex sindaco di Catania e medico personale di Berlusconi, descrive con un’emozione mistica il raggio di sole che ha attraversato un nero cielo da temporale il momento in cui il Cavaliere arriva nella sua città. Prima di decretare il suo paziente preferito “tecnicamente immortale”. Silvio Berlusconi ringrazia, ma non chiede tanto. Immortale no, ma afferma di dormire tre ore al giorno e di fare l’amore praticamente altrettante, ed ha dichiarato, qualche mese prima del suo 73° compleanno, di sentirsi un uomo di 35 anni.
L’informazione interamente in sua gloria
Il Cavaliere non capisce come mai la stampa non tessa sistematicamente le sue lodi. “Riversano su di me un fiume di menzogne, non è che un tentativo di colpo di Stato”, ha ancora dichiarato a proposito delle timide rivelazioni sull’affare Patrizia D’Addario. Affermazione come minimo paradossale. Berlusconi è proprietario della metà delle reti televisive nazionali che distillano, con stili differenti, un’informazione interamente in sua gloria. Una menzione speciale va al giornale di Rete4, che farebbe impallidire d’invidia il “Caro Leader” nord-coreano. Silvio Berlusconi possiedeanche una serie di quotidiani, un settimanale molto influente, dei mensili e la più grande casa editrice italiana. In quanto presidente del Consiglio, ha piazzato uomini di fiducia in tutti i posti chiave della RAI. Così il TG di Rai1, la messa solenne dell’informazione italiana, non ha ancora accennato alla presenza di prostitute nel domicilio del presidente del Consiglio. “I giornalisti del mio gruppo, come quelli del servizio pubblico, sono contro di me perché vogliono mostrare la loro indipendenza”, ha tuttavia affermato recentemente il Cavaliere ai microfoni di France 2. Dimentica di averpreteso , ed ottenuto, la testa di giornalisti scomodi, nel 2001, durante un discorso tenuto a Sofia e passato ai posteri col nome di “editto bulgaro”. Solo Rai3, una rete pubblica, è sfugita alla censura del regime. Questo controllo dell’informazione permette di gestire il quotidiano, ma ha ugualmente giocato un ruolo nella berlusconizzazione del paese fino al linguaggio comune. Prima che Silvio entrasse in politica, un “azzurro” era un tifoso della nazionale di calcio italiana e un “moderato”, un elettore di centro. Oggi un “azzurro” è un militante del PDL e un “moderato”…un elettore di Berlusconi.
L’uomo forte della Penisola nutre ugualmente un particolare rancore nei riguardi dei giornalisti stranieri, colpevoli di averlo ingiustamente ridicolizzato agli occhi del mondo. Nessuno in questo “covo di comunisti manovrati dall’opposizione” è ben visto ai suoi occhi. Il Times di Londra, il New York Times o il giornale britannico The Economist sono relegati al rango di cartastraccia marxisti. Per non parlare del quotidiano spagnolo El Pais, che ha pubblicato per primo le foto delle gioviali serate di Silvio. L’ambasciatore d’Italia a Madrid ha richiesto il licenziamento del giornalista troppo impertinente, Miguel Mora.
La difficoltà nel raccontare l’Italia berlusconiana non è tuttavia dovuta ai piccoli grattacapi quotidiani, ma all’inverosimiglianza di quello che accade. I giornali americani, in particolar modo, hanno serie difficoltà a far capire al loro pubblico tutte le sottigliezze barocche del Cavaliere. Star del blog del New York Tmes, Robert Mackey ha scelto la parabola seguente: ” Immaginate un mondo nel quale Donal Trump possedesse la NBC, fosse il presidente degli Stati Uniti e offrissea Miss California una poltrona al Senato in cambio dei suoi favori. Non sareste che a metà strada di quel che succede in Italia”.
[Articolo originale "L'extravagant Silvio Berlusconi" di Dominique Dunglas]
7.7.09
Journalistic narcissism
At the Aspen Ideas Festival this week, Andrew Sullivan said, “Journalism has become too much about journalists.”
True. It’s not just that newspapers are covering their own demise as thoroughly as Michael Jackson’s. This is about the mythology that news needs newspapers – that without them, it’s not news.
In an offhand reference about the economics of news, Dave Winer wrote, “When you think of news as a business, except in very unusual circumstances, the sources never got paid. So the news was always free, it was the reporting of it that cost…. The new world pays the source, indirectly, and obviates the middleman.” This raises two questions: both whether news needs newsmen and whether journalists and news organizations deserve to be paid.
I tweeted Winer’s line and Howard Weaver then started a discussion with this tweet: “Is it news if it’s not reported? I don’t think so.” I don’t think he’s saying that the reporting needs to be done by a professional, but he is saying that reporting is what makes news news. Does news need the middleman?
Steve Yelvington just tweeted that “The Washington Post ’salon’ debacle is a clash between myth and reality on so many levels: ‘the select few who will actually get it done.’” Being needed.
The realization of that myth – the myth of necessity – hit me head-on when I read an unselfconsciously narcissistic feature in The New York Times this week about the room where the 4 p.m. news meeting is held. Guardian editor Alan Rusbridger has likened that meeting to a “religious ceremony.” The Times feature certainly acted as if it were taking us inside the Pope’s chapel: “The table was formidable: oval and elegant, with curves of gleaming wood. The editors no less so: 11 men and 7 women with the power to decide what was important in the world.”
Behold the hubris of that: They decide what is important. Because we can’t. That’s what it says. That’s what they believe.
I was trained to accept that myth: that journalists decide what’s important, that it’s a skill with which they are imbued: news judgment. I worked hard to gain and exercise that judgment. The myth further holds that no judgment of importance is more important than The Times’; that’s why, every night, it sends out to the rest of newspaperdom its choices. News isn’t news until it’s reported and it’s not important until The Times says so.
But why do we need anyone to tell us what’s important? We decide that. What’s important to you isn’t important to me. Why must we all share the same importance? Because we all shared the same newspaper. There is the wellspring of the myth: the press.
I am trying to cut through these many myths about newsso I can reexamine them. In something I’m writing now for another project, I say: “To start, it is critical that we understand and question every assumption that emerged from old realities – for example, that news should be a once-a-day, one-for-all, one-way experience just because that’s what the means of production and distribution of the newspaper and the TV broadcast necessitated.” And: “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition.”
No more. The press has become journalism’s curse, not only because it now brings a crushing cost burden but also because it led to all these myths: that we journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us.
The journalistic narcissism that extrudes from the press extends to so much of the journalist’s relationship with her public. Jay Rosen just tweeted his headline for Plain Dealer Connie Schultz’ return of spitball (below): “A blogger was mean to me so that means I’m right.” John McQuaid tweeted that he feared I was “only abetting Connie Schultz’s effort to turn a real debate into a bloggers vs. MSM culture war.” He’s right. Schultz didn’t address the substantive objections to her hare-brained and dangerous scheme; she made it about her.
Oh, I know, this is all a big set-up for your punchline: A blogger is talking about narcissism? Heh. Isn’t blogging the ultimate narcissism? But who called it that, who made that judgment? Journalists, as far as I’ve seen. When they talk, it’s important. When we talk, it’s narcissism. What we say can’t be important – can it? – because we’re not paid and printed. But I don’t want to replay the blog culture war, which I keep hoping is over. I want to question assumptions, to find the cause and effect of myths.
And that’s what Winer is trying to do when he reminds us that the important people in news are the sources and witnesses, who can now publish and broadcast what they know. The question journalists must ask, again, is how they add value to that. Of course, journalists can add much: reporting, curating, vetting, correcting, illustrating, giving context, writing narrative. And, of course, I’m all in favor of having journalists; I’m teaching them. But what’s hard to face is that the news can go on without them. They’re the ones who need to figure out how to make themselves needed. They can and they will but they can no longer simply rest on the press and its myths.
True. It’s not just that newspapers are covering their own demise as thoroughly as Michael Jackson’s. This is about the mythology that news needs newspapers – that without them, it’s not news.
In an offhand reference about the economics of news, Dave Winer wrote, “When you think of news as a business, except in very unusual circumstances, the sources never got paid. So the news was always free, it was the reporting of it that cost…. The new world pays the source, indirectly, and obviates the middleman.” This raises two questions: both whether news needs newsmen and whether journalists and news organizations deserve to be paid.
I tweeted Winer’s line and Howard Weaver then started a discussion with this tweet: “Is it news if it’s not reported? I don’t think so.” I don’t think he’s saying that the reporting needs to be done by a professional, but he is saying that reporting is what makes news news. Does news need the middleman?
Steve Yelvington just tweeted that “The Washington Post ’salon’ debacle is a clash between myth and reality on so many levels: ‘the select few who will actually get it done.’” Being needed.
The realization of that myth – the myth of necessity – hit me head-on when I read an unselfconsciously narcissistic feature in The New York Times this week about the room where the 4 p.m. news meeting is held. Guardian editor Alan Rusbridger has likened that meeting to a “religious ceremony.” The Times feature certainly acted as if it were taking us inside the Pope’s chapel: “The table was formidable: oval and elegant, with curves of gleaming wood. The editors no less so: 11 men and 7 women with the power to decide what was important in the world.”
Behold the hubris of that: They decide what is important. Because we can’t. That’s what it says. That’s what they believe.
I was trained to accept that myth: that journalists decide what’s important, that it’s a skill with which they are imbued: news judgment. I worked hard to gain and exercise that judgment. The myth further holds that no judgment of importance is more important than The Times’; that’s why, every night, it sends out to the rest of newspaperdom its choices. News isn’t news until it’s reported and it’s not important until The Times says so.
But why do we need anyone to tell us what’s important? We decide that. What’s important to you isn’t important to me. Why must we all share the same importance? Because we all shared the same newspaper. There is the wellspring of the myth: the press.
I am trying to cut through these many myths about newsso I can reexamine them. In something I’m writing now for another project, I say: “To start, it is critical that we understand and question every assumption that emerged from old realities – for example, that news should be a once-a-day, one-for-all, one-way experience just because that’s what the means of production and distribution of the newspaper and the TV broadcast necessitated.” And: “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition.”
No more. The press has become journalism’s curse, not only because it now brings a crushing cost burden but also because it led to all these myths: that we journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us.
The journalistic narcissism that extrudes from the press extends to so much of the journalist’s relationship with her public. Jay Rosen just tweeted his headline for Plain Dealer Connie Schultz’ return of spitball (below): “A blogger was mean to me so that means I’m right.” John McQuaid tweeted that he feared I was “only abetting Connie Schultz’s effort to turn a real debate into a bloggers vs. MSM culture war.” He’s right. Schultz didn’t address the substantive objections to her hare-brained and dangerous scheme; she made it about her.
Oh, I know, this is all a big set-up for your punchline: A blogger is talking about narcissism? Heh. Isn’t blogging the ultimate narcissism? But who called it that, who made that judgment? Journalists, as far as I’ve seen. When they talk, it’s important. When we talk, it’s narcissism. What we say can’t be important – can it? – because we’re not paid and printed. But I don’t want to replay the blog culture war, which I keep hoping is over. I want to question assumptions, to find the cause and effect of myths.
And that’s what Winer is trying to do when he reminds us that the important people in news are the sources and witnesses, who can now publish and broadcast what they know. The question journalists must ask, again, is how they add value to that. Of course, journalists can add much: reporting, curating, vetting, correcting, illustrating, giving context, writing narrative. And, of course, I’m all in favor of having journalists; I’m teaching them. But what’s hard to face is that the news can go on without them. They’re the ones who need to figure out how to make themselves needed. They can and they will but they can no longer simply rest on the press and its myths.
6.7.09
"È vero, non abbiamo rispettato gli impegni"
Bob Geldof durante l'incontro con Silvio Berlusconi
Berlusconi incalzato da Geldof ammette i ritardi nei pagamenti:
«E' la crisi, rimedierò».
«Signor presidente, tutti hanno lo stesso problema»
INTERVISTA DI MARIO CALABRESI
Silvio Berlusconi e Bob Geldof si incontrano nel cortile di Palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio è tormentato dal torcicollo, ma mantiene la promessa di rispondere alle critiche che la rock star famosa per il suo impegno per l’Africa gli ha fatto pubblicamente. Geldof, appena arrivato da Londra, sta ripassando le domande e i dati sugli aiuti italiani all’Africa. Si ritrovano un attimo dopo nello studio del presidente del Consiglio. Si siedono al centro, uno accanto all’altro; le loro squadre sono su due divani contrapposti – i consiglieri di One, la Ong per l’Africa, da un lato; e gli uomini della Farnesina e di Palazzo Chigi dall’altro, tra cui Gianni Letta e Paolo Bonaiuti. Quello che segue è il resoconto di un’intervista non convenzionale, uno scambio che a tratti è sembrato quasi un incontro di pugilato. Ho temuto un paio di volte che Berlusconi prima, Geldof poi, si alzassero abbandonando la sala, ma alla fine ce l’abbiamo fatta ad arrivare fino in fondo e lo scontro è stato leale. Geldof: «Signor presidente, vado subito alla sostanza. Lei è lo statista di più lungo corso del G8. Nel 2001, a Genova, avete creato il Fondo Globale per l’Hiv/Aids, rendendo disponibile una terapia salva vita gratuita per 3 milioni di persone in Africa. Quindi ha partecipato al vertice di Gleneagles, dove vi eravate impegnati ad investire in aiuti lo 0,51% del Prodotto Interno Lordo entro il 2010, e lo 0,7% entro il 2015: l’Italia, al momento, ha mantenuto solo il 3% di questa promessa. Dalle speranze di Genova siamo passati alla delusione di Gleneagles: non sente il peso di questa responsabilità?»
Berlusconi comincia a leggere da un appunto: «Lei ha ragione, c’è un ritardo nei pagamenti. Noi, però, siamo stati via dal governo per due anni e mezzo. Quando siamo tornati, abbiamo trovato un debito del 110% rispetto al Pil. Ora, a causa della crisi economica, questo debito è salito al 120% e l’Unione Europea non ci permette di restare a questi livelli. Nel fare la legge finanziaria, il Parlamento ha deciso di limitare le spese. Ci è dispiaciuto ridurre anche gli aiuti all’Africa, e su questo abbiamo aperto un dibattito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si è impegnato a tornare in linea con i nostri impegni entro tre anni». Geldof si innervosisce: «Il G8 è in programma fra tre giorni, non tre anni: come presidente di questo vertice, cosa si impegna a fare?». Berlusconi: «Guardi, quanto è accaduto è il contrario di ciò che sto facendo personalmente: quest’anno ho finanziato un orfanotrofio in Thailandia e un ospedale per bambini in Brasile. Comprendo la sua preoccupazione e apprezzo molto il lavoro che fa per i più poveri, ma abbiamo avuto ostacoli oggettivi». Berlusconi dà la parola al consigliere diplomatico di Tremonti, che comincia a spiegare: «Abbiamo iniziato a ripianare i ritardi nei pagamenti verso la Banca Mondiale e le altre organizzazioni finanziarie internazionali. Entro il 2010 raggiungeremo la quota dello 0,33% del Pil destinato agli aiuti, e arriveremo allo 0,51% nel 2015». Geldof lo interrompe: «Mi scusi, sono consapevole di questo. Grazie per la spiegazione». E si rivolge al presidente del Consiglio: «Non ci credo. Per riuscire a realizzare questo piano dovreste fare un lavoro incredibile. E poi non abbiamo più bisogno di piani: ora servono azioni. Sono stufo dei piani, bisogna agire. Dobbiamo avere più aiuti pubblici allo sviluppo. Quando tagliate gli aiuti, levate il cibo dalla bocca dei bambini affamati; togliete letteralmente gli aghi dalle vene dei malati. Perché dobbiamo comportarci così? L’Africa è il secondo mercato emergente del mondo, dopo la Cina. Ha più paesi democratici e meno guerre dell’Asia. Qui stiamo parlando di pochi spiccioli: perché è così difficile reperire i fondi per aiutarla? La cancelliera tedesca Merkel, il premier britannico Brown, persino il presidente francese Sarkozy ha aumentato gli aiuti, ma l’Italia li ha ridotti di 400 milioni. Le economie di tutti i paesi sono un disastro, ma tutti mantengono le promesse che hanno fatto ai poveri. Meno l’Italia. Come può guidare il G8? Dov’è la sua credibilità? E’ una questione umana, non tattica. Siamo stanchi di vedere la gente che muore di fame!» Berlusconi fa un cenno di assenso, si capisce che è stato colpito dall’immagine dei bambini affamati. Geldof aggiunge: «Le parlo come uomo d’affari. Ho visto l’accordo concluso con Gheddafi, tutto business e concretezza: perché non estendere questo atteggiamento all’intero continente? Guiderà il G8 verso una percezione diversa dell’Africa?» Berlusconi: «Sì, sì. Io sono anche il leader che ha più esperienza, e non solo su questo tema. Gli altri sono dei bambini, confronto a me. Su questo punto, però, ho dovuto seguire le posizioni del mio ministro per l’Economia. Ha una forte personalità e ritiene che come prima cosa si debbano rispettare gli obblighi con le istituzioni europee e quelle finanziarie internazionali. Però ha promesso che torneremo in linea con gli impegni presi per gli aiuti allo sviluppo entro tre anni. Vede, lei vive questo problema con intensità emotiva: i soldi sono cibo, e io apprezzo molto il suo lavoro. Ne ho parlato con Tremonti - dice Berlusconi scherzando -, ci ho pure litigato: mi ha presentato le dimissioni un mare di volte. Io però le ho respinte, perché non ho un altro ministro a disposizione. Sul tavolo del G8 ci saranno cinque o sei problemi di grande importanza: l’Africa sarà uno di questi. Dopo, nella finanziaria, vedrò di cambiare il piano per il rientro». Geldof scuote la testa. Mostra a Berlusconi i documenti che il premier aveva approvato al G8 di Gleneagles: «Qui c’è la firma di un paese e l’onore di un uomo».
Berlusconi li legge e ammette: «Mi dispiace, abbiamo commesso un errore». Geldof allora riprende: «Una ragione per cui la crisi in cui ci troviamo è così grave sta proprio nel fatto che abbiamo lasciato il 50% della popolazione mondiale fuori dal nostro sistema. Come puoi vivere con meno di due dollari al giorno? E se guadagni così poco, come puoi comprare i nostri prodotti? L’Africa è un mercato più grande dell’India, del Brasile, della Russia o del Messico: non crede che dovremmo includerla? Se i cittadini africani possono comprare i nostri prodotti, ci sarebbero più posti di lavoro anche in Italia». Berlusconi stringe i pugni: «Lei ha ragione: quando si assume un impegno, bisogna mantenerlo. Noi siamo in ritardo, e questo ritardo dobbiamo colmarlo. Mi dispiace di non aver mantenuto le promesse, ci siamo fatti prendere da tutte le cose che ci sono cadute addosso. La crisi, il terremoto. Abbiamo anche una situazione di forte contrasto con l’opposizione, giudici che ci attaccano...». Geldof lo blocca ancora: «Ma questa, signor presidente, non è una discussione sui media o il sistema giudiziario: stiamo parlando di gente povera che non ha difese». A quel punto, per cercare di abbassare i toni, interviene Gianni Letta, che interrompe Geldof: «Ha sentito: il nostro presidente ha espresso la volontà di cercare una soluzione». Geldof: «D’accordo, ma il G8 è fra tre giorni. Il presidente americano Obama ha detto che vuole affrontare l’emergenza dei paesi poveri: possiamo decidere qualcosa di concreto?»
Berlusconi: «Ho avuto un ottimo incontro col presidente Obama, mi ha fatto una grande impressione. Ha detto che vuole creare un fondo per la sicurezza alimentare: lui ha promesso di stanziare un miliardo di dollari per i prossimi quattro anni, e ora chiede che gli altri sette paesi del G8 mettano un altro miliardo. Io darò una risposta positiva». Geldof: «Saranno nuovi soldi, oppure verranno dagli aiuti che avreste dovuto finanziare già in passato?» Berlusconi: «Nuovi fondi, sì. Vede che faccio sul serio? Io prima di incontrarla ho letto le cose che lei ha scritto, i rimproveri per gli impegni non rispettati, eppure non mi sono sottratto a questa intervista. L’ho fatto perché apprezzo il suo sforzo. Siamo nel torto assoluto e voglio impegnarmi con una persona come lei, che spende la sua vita in questa bellissima missione. Va bene? Cercheremo di non deluderla». Geldof: «Signor presidente, lasciamo perdere l’intervista con “La Stampa”, parliamo francamente tra noi: cosa farà di concreto?». Di nuovo Letta interviene: «Il nostro presidente raccoglierà i suoi suggerimenti ed elaborerà una risposta nei prossimi giorni». Geldof: «E’ una questione di credibilità. Credibilità politica. Lei rischia di diventare il “Signor 3%”, quello che mantiene solo il 3% delle sue promesse. Cosa farà di concreto all’Aquila?». Berlusconi non capisce cosa significhi «Mister 3%», resta interdetto. Il suo assistente Valentino Valentini, che è seduto tra loro e traduce, gli spiega l’accusa di Geldof. Allora Berlusconi si fa più serio e scandisce le parole: «Io come imprenditore non ho mai mancato ad una promessa, e con gli elettori mi sto comportando nello stesso modo. In questo caso c’è stata una impossibilità di bilancio che non è dipesa da me. Se avessimo dato i soldi in questa direzione avremmo avuto delle penalità terribili dall’Europa. Siamo stati nell’impossibilità di adempiere agli impegni, impossibilitati a spendere. Adesso dobbiamo trovare un modo per chiudere altre spese e spostare i soldi nella direzione degli aiuti. Abbiamo forse la possibilità di farlo, ma sono tutti tagli molto dolorosi». Geldof: «Ma questo sarebbe un investimento». Berlusconi: «Sì, ne sono sicuro. Ho letto l’ultima relazione dell’Onu secondo cui nei prossimi 15 anni ci saranno due miliardi di persone in più al mondo, che nasceranno nei paesi esclusi dal benessere. Ci rimettiamo tutti, se non facciamo in modo che la libertà, la democrazia e quindi il benessere si diffondano. Ma ad un certo momento non abbiamo avuto la possibilità materiale di farlo, perché l’Europa che ci minacciava delle penalità...». Geldof: «Non rimproveri Bruxelles, presidente: Bruxelles è più lontana da Roma dell’Africa. Io sono stato a Lampedusa: se volete fermare la tragedia dell’immigrazione clandestina, dovete aiutare i paesi di provenienza a creare condizioni di vita migliori e aiutare a svilupparsi le loro economie. Signor presidente, quando i ricchi diventano meno ricchi, i poveri diventano ancora più poveri». Berlusconi: «Certo: più quelle persone diventano povere, più diventano disperate. So bene che aiutarle non è solo un dovere, ma anche un nostro interesse». Geldof: «Vuol dire che a L’Aquila farà qualcosa?». «Prenderò la guida. Insieme ad Obama agiremo, ne sono assolutamente convinto. Vedremo di farlo».
Berlusconi incalzato da Geldof ammette i ritardi nei pagamenti:
«E' la crisi, rimedierò».
«Signor presidente, tutti hanno lo stesso problema»
INTERVISTA DI MARIO CALABRESI
Silvio Berlusconi e Bob Geldof si incontrano nel cortile di Palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio è tormentato dal torcicollo, ma mantiene la promessa di rispondere alle critiche che la rock star famosa per il suo impegno per l’Africa gli ha fatto pubblicamente. Geldof, appena arrivato da Londra, sta ripassando le domande e i dati sugli aiuti italiani all’Africa. Si ritrovano un attimo dopo nello studio del presidente del Consiglio. Si siedono al centro, uno accanto all’altro; le loro squadre sono su due divani contrapposti – i consiglieri di One, la Ong per l’Africa, da un lato; e gli uomini della Farnesina e di Palazzo Chigi dall’altro, tra cui Gianni Letta e Paolo Bonaiuti. Quello che segue è il resoconto di un’intervista non convenzionale, uno scambio che a tratti è sembrato quasi un incontro di pugilato. Ho temuto un paio di volte che Berlusconi prima, Geldof poi, si alzassero abbandonando la sala, ma alla fine ce l’abbiamo fatta ad arrivare fino in fondo e lo scontro è stato leale. Geldof: «Signor presidente, vado subito alla sostanza. Lei è lo statista di più lungo corso del G8. Nel 2001, a Genova, avete creato il Fondo Globale per l’Hiv/Aids, rendendo disponibile una terapia salva vita gratuita per 3 milioni di persone in Africa. Quindi ha partecipato al vertice di Gleneagles, dove vi eravate impegnati ad investire in aiuti lo 0,51% del Prodotto Interno Lordo entro il 2010, e lo 0,7% entro il 2015: l’Italia, al momento, ha mantenuto solo il 3% di questa promessa. Dalle speranze di Genova siamo passati alla delusione di Gleneagles: non sente il peso di questa responsabilità?»
Berlusconi comincia a leggere da un appunto: «Lei ha ragione, c’è un ritardo nei pagamenti. Noi, però, siamo stati via dal governo per due anni e mezzo. Quando siamo tornati, abbiamo trovato un debito del 110% rispetto al Pil. Ora, a causa della crisi economica, questo debito è salito al 120% e l’Unione Europea non ci permette di restare a questi livelli. Nel fare la legge finanziaria, il Parlamento ha deciso di limitare le spese. Ci è dispiaciuto ridurre anche gli aiuti all’Africa, e su questo abbiamo aperto un dibattito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si è impegnato a tornare in linea con i nostri impegni entro tre anni». Geldof si innervosisce: «Il G8 è in programma fra tre giorni, non tre anni: come presidente di questo vertice, cosa si impegna a fare?». Berlusconi: «Guardi, quanto è accaduto è il contrario di ciò che sto facendo personalmente: quest’anno ho finanziato un orfanotrofio in Thailandia e un ospedale per bambini in Brasile. Comprendo la sua preoccupazione e apprezzo molto il lavoro che fa per i più poveri, ma abbiamo avuto ostacoli oggettivi». Berlusconi dà la parola al consigliere diplomatico di Tremonti, che comincia a spiegare: «Abbiamo iniziato a ripianare i ritardi nei pagamenti verso la Banca Mondiale e le altre organizzazioni finanziarie internazionali. Entro il 2010 raggiungeremo la quota dello 0,33% del Pil destinato agli aiuti, e arriveremo allo 0,51% nel 2015». Geldof lo interrompe: «Mi scusi, sono consapevole di questo. Grazie per la spiegazione». E si rivolge al presidente del Consiglio: «Non ci credo. Per riuscire a realizzare questo piano dovreste fare un lavoro incredibile. E poi non abbiamo più bisogno di piani: ora servono azioni. Sono stufo dei piani, bisogna agire. Dobbiamo avere più aiuti pubblici allo sviluppo. Quando tagliate gli aiuti, levate il cibo dalla bocca dei bambini affamati; togliete letteralmente gli aghi dalle vene dei malati. Perché dobbiamo comportarci così? L’Africa è il secondo mercato emergente del mondo, dopo la Cina. Ha più paesi democratici e meno guerre dell’Asia. Qui stiamo parlando di pochi spiccioli: perché è così difficile reperire i fondi per aiutarla? La cancelliera tedesca Merkel, il premier britannico Brown, persino il presidente francese Sarkozy ha aumentato gli aiuti, ma l’Italia li ha ridotti di 400 milioni. Le economie di tutti i paesi sono un disastro, ma tutti mantengono le promesse che hanno fatto ai poveri. Meno l’Italia. Come può guidare il G8? Dov’è la sua credibilità? E’ una questione umana, non tattica. Siamo stanchi di vedere la gente che muore di fame!» Berlusconi fa un cenno di assenso, si capisce che è stato colpito dall’immagine dei bambini affamati. Geldof aggiunge: «Le parlo come uomo d’affari. Ho visto l’accordo concluso con Gheddafi, tutto business e concretezza: perché non estendere questo atteggiamento all’intero continente? Guiderà il G8 verso una percezione diversa dell’Africa?» Berlusconi: «Sì, sì. Io sono anche il leader che ha più esperienza, e non solo su questo tema. Gli altri sono dei bambini, confronto a me. Su questo punto, però, ho dovuto seguire le posizioni del mio ministro per l’Economia. Ha una forte personalità e ritiene che come prima cosa si debbano rispettare gli obblighi con le istituzioni europee e quelle finanziarie internazionali. Però ha promesso che torneremo in linea con gli impegni presi per gli aiuti allo sviluppo entro tre anni. Vede, lei vive questo problema con intensità emotiva: i soldi sono cibo, e io apprezzo molto il suo lavoro. Ne ho parlato con Tremonti - dice Berlusconi scherzando -, ci ho pure litigato: mi ha presentato le dimissioni un mare di volte. Io però le ho respinte, perché non ho un altro ministro a disposizione. Sul tavolo del G8 ci saranno cinque o sei problemi di grande importanza: l’Africa sarà uno di questi. Dopo, nella finanziaria, vedrò di cambiare il piano per il rientro». Geldof scuote la testa. Mostra a Berlusconi i documenti che il premier aveva approvato al G8 di Gleneagles: «Qui c’è la firma di un paese e l’onore di un uomo».
Berlusconi li legge e ammette: «Mi dispiace, abbiamo commesso un errore». Geldof allora riprende: «Una ragione per cui la crisi in cui ci troviamo è così grave sta proprio nel fatto che abbiamo lasciato il 50% della popolazione mondiale fuori dal nostro sistema. Come puoi vivere con meno di due dollari al giorno? E se guadagni così poco, come puoi comprare i nostri prodotti? L’Africa è un mercato più grande dell’India, del Brasile, della Russia o del Messico: non crede che dovremmo includerla? Se i cittadini africani possono comprare i nostri prodotti, ci sarebbero più posti di lavoro anche in Italia». Berlusconi stringe i pugni: «Lei ha ragione: quando si assume un impegno, bisogna mantenerlo. Noi siamo in ritardo, e questo ritardo dobbiamo colmarlo. Mi dispiace di non aver mantenuto le promesse, ci siamo fatti prendere da tutte le cose che ci sono cadute addosso. La crisi, il terremoto. Abbiamo anche una situazione di forte contrasto con l’opposizione, giudici che ci attaccano...». Geldof lo blocca ancora: «Ma questa, signor presidente, non è una discussione sui media o il sistema giudiziario: stiamo parlando di gente povera che non ha difese». A quel punto, per cercare di abbassare i toni, interviene Gianni Letta, che interrompe Geldof: «Ha sentito: il nostro presidente ha espresso la volontà di cercare una soluzione». Geldof: «D’accordo, ma il G8 è fra tre giorni. Il presidente americano Obama ha detto che vuole affrontare l’emergenza dei paesi poveri: possiamo decidere qualcosa di concreto?»
Berlusconi: «Ho avuto un ottimo incontro col presidente Obama, mi ha fatto una grande impressione. Ha detto che vuole creare un fondo per la sicurezza alimentare: lui ha promesso di stanziare un miliardo di dollari per i prossimi quattro anni, e ora chiede che gli altri sette paesi del G8 mettano un altro miliardo. Io darò una risposta positiva». Geldof: «Saranno nuovi soldi, oppure verranno dagli aiuti che avreste dovuto finanziare già in passato?» Berlusconi: «Nuovi fondi, sì. Vede che faccio sul serio? Io prima di incontrarla ho letto le cose che lei ha scritto, i rimproveri per gli impegni non rispettati, eppure non mi sono sottratto a questa intervista. L’ho fatto perché apprezzo il suo sforzo. Siamo nel torto assoluto e voglio impegnarmi con una persona come lei, che spende la sua vita in questa bellissima missione. Va bene? Cercheremo di non deluderla». Geldof: «Signor presidente, lasciamo perdere l’intervista con “La Stampa”, parliamo francamente tra noi: cosa farà di concreto?». Di nuovo Letta interviene: «Il nostro presidente raccoglierà i suoi suggerimenti ed elaborerà una risposta nei prossimi giorni». Geldof: «E’ una questione di credibilità. Credibilità politica. Lei rischia di diventare il “Signor 3%”, quello che mantiene solo il 3% delle sue promesse. Cosa farà di concreto all’Aquila?». Berlusconi non capisce cosa significhi «Mister 3%», resta interdetto. Il suo assistente Valentino Valentini, che è seduto tra loro e traduce, gli spiega l’accusa di Geldof. Allora Berlusconi si fa più serio e scandisce le parole: «Io come imprenditore non ho mai mancato ad una promessa, e con gli elettori mi sto comportando nello stesso modo. In questo caso c’è stata una impossibilità di bilancio che non è dipesa da me. Se avessimo dato i soldi in questa direzione avremmo avuto delle penalità terribili dall’Europa. Siamo stati nell’impossibilità di adempiere agli impegni, impossibilitati a spendere. Adesso dobbiamo trovare un modo per chiudere altre spese e spostare i soldi nella direzione degli aiuti. Abbiamo forse la possibilità di farlo, ma sono tutti tagli molto dolorosi». Geldof: «Ma questo sarebbe un investimento». Berlusconi: «Sì, ne sono sicuro. Ho letto l’ultima relazione dell’Onu secondo cui nei prossimi 15 anni ci saranno due miliardi di persone in più al mondo, che nasceranno nei paesi esclusi dal benessere. Ci rimettiamo tutti, se non facciamo in modo che la libertà, la democrazia e quindi il benessere si diffondano. Ma ad un certo momento non abbiamo avuto la possibilità materiale di farlo, perché l’Europa che ci minacciava delle penalità...». Geldof: «Non rimproveri Bruxelles, presidente: Bruxelles è più lontana da Roma dell’Africa. Io sono stato a Lampedusa: se volete fermare la tragedia dell’immigrazione clandestina, dovete aiutare i paesi di provenienza a creare condizioni di vita migliori e aiutare a svilupparsi le loro economie. Signor presidente, quando i ricchi diventano meno ricchi, i poveri diventano ancora più poveri». Berlusconi: «Certo: più quelle persone diventano povere, più diventano disperate. So bene che aiutarle non è solo un dovere, ma anche un nostro interesse». Geldof: «Vuol dire che a L’Aquila farà qualcosa?». «Prenderò la guida. Insieme ad Obama agiremo, ne sono assolutamente convinto. Vedremo di farlo».
Cristiani, disobbedite come a Los Angeles
di padre Alex Zanotelli
Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano. Non avrei mai pensato che un paese come l’Italia avrebbe potuto varare una legge così razzista e xenofoba. Noi che siamo vissuti per secoli emigrando per cercare un tozzo di pane (sono 60 milioni gli italiani che vivono all’estero!), ora ripetiamo sugli immigrati lo stesso trattamento, anzi peggiorandolo, che noi italiani abbiamo subito un po’ ovunque nel mondo.
Questa legge è stata votata sull’onda lunga di un razzismo e una xenofobia crescente di cui la Lega è la migliore espressione.
Il cuore della legge è che il clandestino è ora un criminale. Vorrei ricordare che criminali non sono gli immigrati clandestini ma quelle strutture economico-finanziarie che obbligano le persone a emigrare. Papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris ci ricorda che emigrare è un diritto.
Fra le altre cose la legge prevede la tassa sul permesso di soggiorno (i nostri immigrati non sono già tartassati abbastanza?), le ronde, il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e matrimoni misti, il carcere fino a quattro anni per gli irregolari che non rispettano l’ordine di espulsione ed infine la proibizione per una donna clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio o di iscriverlo all’anagrafe.
Questa è una legislazione da apartheid, che viene da lontano: passando per la legge Turco-Napolitano fino alla non costituzionale Bossi-Fini. Tutto questo è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e mendicanti. Questa è una cultura razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e dell’emarginazione.
«Questo rischia di svuotare dall’interno le garanzie costituzionali erette 60 anni fa - così hanno scritto nel loro appello gli antropologi italiani - contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle leggi razziali». Vorrei far notare che la nostra Costituzione è stata scritta in buona parte da esuli politici, rientrati in patria dopo l’esilio a causa del fascismo. Per ben due volte la costituzione italiana parla di diritto d’asilo, che il parlamento non ha mai trasformato in legge.
E non solo mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno anche di essere cristiano: questa legge è la negazione di verità fondamentali della Buona Novella di Gesù di Nazareth. Chiedo alla Chiesa Italiana il coraggio di denunciare senza mezzi termini una legge che fa a pugni con i fondamenti della fede cristiana.
Penso che come cristiani dobbiamo avere il coraggio della disobbedienza civile. È l’invito che aveva fatto il cardinale R. Mahoney di Los Angeles (California) , quando nel 2006 si dibatteva negli Usa una legge analoga dove si affermava che il clandestino è un criminale. Nell’omelia del mercoledì delle ceneri nella sua cattedrale, il cardinale di Los Angeles ha detto che, se quella legge fosse stata approvata, avrebbe chiesto ai suoi preti e a tutto il personale diocesano la disobbedienza civile. Penso che i vescovi italiani dovrebbero fare oggi altrettanto.
Davanti a questa legge mi vergogno anche come missionario: sono stato ospite dei popoli d’Africa per oltre vent’anni, popoli che oggi noi respingiamo, indifferenti alle loro situazioni d’ingiustizia e d’impoverimento. Noi italiani tutti dovremmo ricordare quella Parola che Dio rivolse a Israele: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Esodo 22,20).
Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano. Non avrei mai pensato che un paese come l’Italia avrebbe potuto varare una legge così razzista e xenofoba. Noi che siamo vissuti per secoli emigrando per cercare un tozzo di pane (sono 60 milioni gli italiani che vivono all’estero!), ora ripetiamo sugli immigrati lo stesso trattamento, anzi peggiorandolo, che noi italiani abbiamo subito un po’ ovunque nel mondo.
Questa legge è stata votata sull’onda lunga di un razzismo e una xenofobia crescente di cui la Lega è la migliore espressione.
Il cuore della legge è che il clandestino è ora un criminale. Vorrei ricordare che criminali non sono gli immigrati clandestini ma quelle strutture economico-finanziarie che obbligano le persone a emigrare. Papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris ci ricorda che emigrare è un diritto.
Fra le altre cose la legge prevede la tassa sul permesso di soggiorno (i nostri immigrati non sono già tartassati abbastanza?), le ronde, il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e matrimoni misti, il carcere fino a quattro anni per gli irregolari che non rispettano l’ordine di espulsione ed infine la proibizione per una donna clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio o di iscriverlo all’anagrafe.
Questa è una legislazione da apartheid, che viene da lontano: passando per la legge Turco-Napolitano fino alla non costituzionale Bossi-Fini. Tutto questo è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e mendicanti. Questa è una cultura razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e dell’emarginazione.
«Questo rischia di svuotare dall’interno le garanzie costituzionali erette 60 anni fa - così hanno scritto nel loro appello gli antropologi italiani - contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle leggi razziali». Vorrei far notare che la nostra Costituzione è stata scritta in buona parte da esuli politici, rientrati in patria dopo l’esilio a causa del fascismo. Per ben due volte la costituzione italiana parla di diritto d’asilo, che il parlamento non ha mai trasformato in legge.
E non solo mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno anche di essere cristiano: questa legge è la negazione di verità fondamentali della Buona Novella di Gesù di Nazareth. Chiedo alla Chiesa Italiana il coraggio di denunciare senza mezzi termini una legge che fa a pugni con i fondamenti della fede cristiana.
Penso che come cristiani dobbiamo avere il coraggio della disobbedienza civile. È l’invito che aveva fatto il cardinale R. Mahoney di Los Angeles (California) , quando nel 2006 si dibatteva negli Usa una legge analoga dove si affermava che il clandestino è un criminale. Nell’omelia del mercoledì delle ceneri nella sua cattedrale, il cardinale di Los Angeles ha detto che, se quella legge fosse stata approvata, avrebbe chiesto ai suoi preti e a tutto il personale diocesano la disobbedienza civile. Penso che i vescovi italiani dovrebbero fare oggi altrettanto.
Davanti a questa legge mi vergogno anche come missionario: sono stato ospite dei popoli d’Africa per oltre vent’anni, popoli che oggi noi respingiamo, indifferenti alle loro situazioni d’ingiustizia e d’impoverimento. Noi italiani tutti dovremmo ricordare quella Parola che Dio rivolse a Israele: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Esodo 22,20).
Voltategli le spalle
di Alberto Asor Rosa
Non si può non essere d'accordo - come sempre del resto - con il Presidente Giorgio Napolitano quando invita a sospendere per un po' le «polemiche politiche» in vista della partecipazione italiana al G8. Il resto, però, - e cioè lo sterminio «non politico», l'enorme zavorra che deborda, nonostante gli sforzi, da tutti i peggiori contenitori, - ci sovrasta, e temo non ci si possa far niente. La vergogna italiana è ormai consumata al cospetto del mondo, parlarne o non parlarne è più o meno la stessa cosa. Le incerte origini di una fortuna economica colossale, la disinvolta (!) gestione dei propri affari, gli avvocati internazionali comprati, lo stalliere mafioso, il rifiuto sistematico di sottoporsi alla giustizia del proprio paese (da cui, conseguentemente, il benemerito «lodo Alfano»), l'interesse pubblico interamente giocato a favore di quello privato, lo spropositato dominio sui media e, da ultimo, il prossenetismo di massa e un'esibizione senza precedenti di abitudini personali scandalose e di vizi privati che of course non sono riusciti a diventare pubbliche virtù, costituiscono oggi, ahimé, un patrimonio nazionale peculiarmente italiano, di cui è difficile, anzi impossibile liberarsi, anche tacendone. Da questo punto di vista, ci si può affidare solo alla fortuna, ovvero allo «stellone italiano», la categoria concettuale e pratica esattamente speculare, per superficie e approssimazione, dei guai inverosimili in cui gli italiani sono capaci da sé di cacciarsi.
Se però, nonostante fortuna e buona volontà e riservatezza e discrezione, del «resto» di dovesse continuare a parlare anche in prossimità di un evento internazionale tanto importante come il G8, e magari al suo interno e durante il suo svolgimento, si tenga presente quanto segue. Noi italiani dobbiamo rassegnarci all'idea che da soli non ce l'abbiamo mai fatta: che abbiamo avuto sempre bisogno di una mano amica per tirarci fuori dai gorghi dove eravamo precipitati. Dall'interno, beninteso, affinché il meccanismo si rimettesse in moto, c'è stato bisogno che piccoli gruppi destinati solo dopo a diventare grandi, esibissero la loro propria, personale e nazionale, volontà di riscatto e di liberazione. Ma perché questi piccoli diventassero efficaci al fine coraggiosamente prescelto, fu necessario che dall'esterno altre mani si protendessero a incontrare le nostre. Questo è stato vero anche nei momenti più esaltanti e fondativi della nostra storia: il Risorgimento (Francia e Inghilterra); l'antifascismo e la Resistenza (gli Alleati, ovviamente).
Potrebbe darsi che questo sia vero anche oggi. Sarebbe bello perciò che il G8 fosse occasione per qualche manifestazione di tal natura. Sarebbe sufficiente lanciare qualche modesto messaggio da parte degli ospiti stranieri: basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione: declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito; rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa; esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte ad una risata troppo ghignante ed esibita.
Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci: dal sobrio laico laburista inglese Brown al multietnico e «libero pensatore» Obama all'onesta luterana tedesca Merkel. Se no, in che cosa consisterebbe la loro conclamata superiorità di comportamenti rispetto ai nostri, insomma, la «differenza» su cui anche noi italiani siamo costretti, e ridotti, a contare?
Mi rendo conto che questo discorso potrebbe esser considerato disfattista. Sono grande abbastanza tuttavia per ricordarmi che negli anni prima e durante la seconda Guerra mondiale gli italiani che parlavano da Radio Londra o militavano nelle diverse Resistenze europee prima che la nostra avesse inizio, venivano tacciati dai fascisti di alto tradimento, lesa maestà e, appunto, di disfattismo (anche questo, del resto, fa parte del doloroso "destino italiano": gli italiani buoni, per esser buoni, sono costretti a farsi accusare dai loro connazionali d'esser traditori). Da che parte stava allora l'onore d'Italia? Dove sta ora? L'onore non sta sempre dalla parte di chi più o meno legittimamente ci rappresenta. Oggi in Italia di sicuro sta altrove.
Non si può non essere d'accordo - come sempre del resto - con il Presidente Giorgio Napolitano quando invita a sospendere per un po' le «polemiche politiche» in vista della partecipazione italiana al G8. Il resto, però, - e cioè lo sterminio «non politico», l'enorme zavorra che deborda, nonostante gli sforzi, da tutti i peggiori contenitori, - ci sovrasta, e temo non ci si possa far niente. La vergogna italiana è ormai consumata al cospetto del mondo, parlarne o non parlarne è più o meno la stessa cosa. Le incerte origini di una fortuna economica colossale, la disinvolta (!) gestione dei propri affari, gli avvocati internazionali comprati, lo stalliere mafioso, il rifiuto sistematico di sottoporsi alla giustizia del proprio paese (da cui, conseguentemente, il benemerito «lodo Alfano»), l'interesse pubblico interamente giocato a favore di quello privato, lo spropositato dominio sui media e, da ultimo, il prossenetismo di massa e un'esibizione senza precedenti di abitudini personali scandalose e di vizi privati che of course non sono riusciti a diventare pubbliche virtù, costituiscono oggi, ahimé, un patrimonio nazionale peculiarmente italiano, di cui è difficile, anzi impossibile liberarsi, anche tacendone. Da questo punto di vista, ci si può affidare solo alla fortuna, ovvero allo «stellone italiano», la categoria concettuale e pratica esattamente speculare, per superficie e approssimazione, dei guai inverosimili in cui gli italiani sono capaci da sé di cacciarsi.
Se però, nonostante fortuna e buona volontà e riservatezza e discrezione, del «resto» di dovesse continuare a parlare anche in prossimità di un evento internazionale tanto importante come il G8, e magari al suo interno e durante il suo svolgimento, si tenga presente quanto segue. Noi italiani dobbiamo rassegnarci all'idea che da soli non ce l'abbiamo mai fatta: che abbiamo avuto sempre bisogno di una mano amica per tirarci fuori dai gorghi dove eravamo precipitati. Dall'interno, beninteso, affinché il meccanismo si rimettesse in moto, c'è stato bisogno che piccoli gruppi destinati solo dopo a diventare grandi, esibissero la loro propria, personale e nazionale, volontà di riscatto e di liberazione. Ma perché questi piccoli diventassero efficaci al fine coraggiosamente prescelto, fu necessario che dall'esterno altre mani si protendessero a incontrare le nostre. Questo è stato vero anche nei momenti più esaltanti e fondativi della nostra storia: il Risorgimento (Francia e Inghilterra); l'antifascismo e la Resistenza (gli Alleati, ovviamente).
Potrebbe darsi che questo sia vero anche oggi. Sarebbe bello perciò che il G8 fosse occasione per qualche manifestazione di tal natura. Sarebbe sufficiente lanciare qualche modesto messaggio da parte degli ospiti stranieri: basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione: declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito; rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa; esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte ad una risata troppo ghignante ed esibita.
Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci: dal sobrio laico laburista inglese Brown al multietnico e «libero pensatore» Obama all'onesta luterana tedesca Merkel. Se no, in che cosa consisterebbe la loro conclamata superiorità di comportamenti rispetto ai nostri, insomma, la «differenza» su cui anche noi italiani siamo costretti, e ridotti, a contare?
Mi rendo conto che questo discorso potrebbe esser considerato disfattista. Sono grande abbastanza tuttavia per ricordarmi che negli anni prima e durante la seconda Guerra mondiale gli italiani che parlavano da Radio Londra o militavano nelle diverse Resistenze europee prima che la nostra avesse inizio, venivano tacciati dai fascisti di alto tradimento, lesa maestà e, appunto, di disfattismo (anche questo, del resto, fa parte del doloroso "destino italiano": gli italiani buoni, per esser buoni, sono costretti a farsi accusare dai loro connazionali d'esser traditori). Da che parte stava allora l'onore d'Italia? Dove sta ora? L'onore non sta sempre dalla parte di chi più o meno legittimamente ci rappresenta. Oggi in Italia di sicuro sta altrove.
Etichette:
Asor Rosa,
berlusconismo,
il manifesto
Iscriviti a:
Post (Atom)