GIAN ENRICO RUSCONI
Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici esattamente?
L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.
Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?
Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?
Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.
I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico continuo.
Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.
Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.
Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.
Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.
E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.
Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?
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