28.9.09

Germania, la nazione si vendica

Barbara Spinelli

Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.

Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.
Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.

Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.

Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra (Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.
La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.

La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.

Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metter- nich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).

Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.

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