di Pietro Orsatti, da MicroMega
In pochi anni Beppe Grillo e il suo blog sono diventati un vero e  proprio fenomeno della Rete, l’esperimento di maggior successo in Italia  di un movimento nato e cresciuto sul web nel nome della democrazia  digitale, dell’orizzontalità della comunicazione e della trasparenza. Ma  dietro a questo risultato c’è una strategia ben pianificata. Anzi, ci  sono un nome e un’azienda: Casaleggio Associati. Ecco di cosa si tratta.
Per  raccontare il successo di un progetto non si può evitare di parlare di  chi lo ha ideato, palesemente o nell’ombra non importa. Parliamo della  svolta mediatica e politica di Beppe Grillo. Vero e proprio fenomeno che  da deriva post-televisiva oggi diventa movimento e oggetto politico  2.0, come ormai va di moda definire chi usa internet per la propria  comunicazione. Chi è l’ideatore di questa svolta del comico genovese,  trasformatosi da uomo di spettacolo a vero e proprio profeta della  «democrazia digitale»? Un nome e un’azienda. Casaleggio Associati. 
È la Casaleggio Associati a curare direttamente il blog di Grillo, la rete dei Meetup,  la comunicazione esterna, la strategia del movimento sulla Rete. E non  solo, è anche la casa editrice che cura tutte le pubblicazioni, in Rete e  non, del comico genovese e anche parte dell’organizzazione dei suoi  tour. Neanche Grillo fa mistero che il suo ritorno di visibilità e il  grande impatto del movimento dei «grillini» sia dovuto in gran parte  alla sinergia con questa azienda specializzata nella comunicazione e nel  marketing digitale. Una strategia chiaramente esplicitata, quella della  Casaleggio. «Le reti sono ovunque intorno a noi. Fino a qualche anno  fa, le relazioni tra persone, oggetti ed eventi erano attribuite al  caso. L’unico modo per ipotizzare il funzionamento dei sistemi complessi  era attribuirne le ragioni ad avvenimenti casuali. La vita e  l’evoluzione delle reti seguono invece leggi precise e la conoscenza di  queste regole ci permette di utilizzare le reti a nostro vantaggio».  Così viene presentato l’ultimo sforzo editoriale del gruppo «Tu sei  Rete», bibbia del nuovo credo internettiano.
Per  capire le origini del fenomeno Casaleggio, è necessario partire dalle  fibrillazioni societarie di Telecom fra la fine degli anni Novanta e i  primi anni Duemila. O meglio, è fondamentale analizzare le vicende di  un’azienda del gruppo allora nelle mani di Tronchetti Provera e della  Pirelli, la Webegg. Amministratore delegato della società è all’epoca  Gianroberto Casaleggio. Non lasciamoci ingannare dal suo aspetto da nerd  smanettone, dalla sua capigliatura da studente fuori corso della  Berkeley University, Gianroberto è uno dei massimi esperti in Italia di  web, reti sociali (social network), marketing elettronico. Ed è lui,  insieme ad altri quattro dipendenti dell’azienda della galassia Telecom  (Enrico Sassoon, Luca Eleuteri, il fratello Davide Casaleggio e Mario  Bucchich) a fondare nel 2004 la Casaleggio Associati. 
Ma  torniamo al «prima». Di cosa si occupava la Webegg? La Webegg Spa nel  2002, anno del suo massimo sviluppo e in cui Gianroberto Casaleggio è  l’uomo di vertice, risulta essere «un gruppo multidisciplinare per la  consulenza delle aziende e della pubblica amministrazione in Rete», come  si apprende dai documenti sul sito aziendale che indicano la sua  mission. Anzi, si tratta in quel momento del gruppo leader nel settore.  Reti interne ed esterne, efficienza aziendale, internet, capacità di  penetrazione dei prodotti sul mercato attraverso il web marketing e, per  le pubbliche amministrazioni, sistemi di efficienza mirati  all’e-governance. Insomma un grande giro di affari potenziale, ma forse  una società nata in troppo anticipo sui tempi e infatti ben presto  oggetto di veloci cambi di mano.
La Webegg all’epoca è una  società controllata al 69,8 per cento da I.T. Telecom Spa a sua volta  controllata al 100 per cento da Telecom Italia. Poi, esattamente fra  giugno e luglio 2004, I.T. Telecom Spa sottoscrive un contratto con  un’altra azienda del settore in rapida ascesa, la Value Partners Spa,  cui cede il pacchetto azionario detenuto in Webegg. Per ottenere la  maggioranza di Webegg vengono sborsati 43 milioni di euro mentre il  resto delle azioni, pari al 30,2 per cento, rimane nel portafoglio di  un’altra azienda della galassia di società Telecom, la Finsiel. Tutto  ciò viene riportato dalla stampa specializzata dell’epoca, come una  delle operazioni di fusioni strategiche più importanti nel settore. Ma  non ci si ferma qui. In seguito ad altre operazioni di fusioni e  riassetti interni alla Value Partners, nasce Value Team, azienda leader  nelle consulenze aziendali non solo in termini contenutistici ma anche  della sicurezza digitale. Dopo questo vortice di fusioni e vendite il  gruppo di dipendenti della Webegg che ruota attorno all’ormai ex  amministratore delegato decide di dare vita al nuovo progetto della  Casaleggio Associati. E portandosi dietro un pacchetto nutrito di  rapporti, partnership e competenze. Quali?
Per capire di cosa  stiamo parlando è necessario svelare prima chi sono le figure chiave  della Casaleggio Associati oggi e della Webegg prima. Partendo da Enrico  Sassoon, giornalista, dal 1977 al 2003 nel gruppo Il Sole-24 Ore, già  direttore responsabile di L’Impresa-Rivista Italiana di Management, della rivista Impresa Ambiente e del settimanale Mondo Economico.  Da suo curriculum pubblico apprendiamo anche che «è stato direttore  scientifico del gruppo Il Sole-24 Ore». Nel 1998 Sassoon è  amministratore delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy, di  fatto una lobby indirizzata a favorire i rapporti commerciali delle  corporation americane in Italia e il cui presidente è tuttora il vice di  Microsoft Italia, Umberto Paolucci. Proprio nel consiglio di  amministrazione dell’American Chamber of Commerce in Italy si comprende  quale sia uno dei fattori di successo nelle relazioni della Casaleggio  Associati. Oltre a Paolucci compaiono nel 1998 altri personaggi di  grande spessore. La lista pubblicata al momento della nomina di Sasson  vedeva, fra gli altri: Gian Battista Merlo, presidente e amministratore  delegato Exxon Mobil Mediterranea Srl; Gianmaria Donà dalle Rose,  amministratore delegato Twentieth Century Fox Home Entertainment Italia;  Massimiliano Magrini, country manager Google Italia; Luciano Martucci,  presidente e amministratore delegato Ibm Italia Spa; Gina Nieri,  consigliere di amministrazione Mediaset Spa; Maria Pierdicchi, direttore  generale Standard & Poor’s; Massimo Ponzellini, presidente  Impregilo Spa; Cristina Ravelli, country legal director The Walt Disney  Co. Italia Spa; Dario Rinero, presidente e amministratore delegato  Coca-Cola Hbc Italia Srl; Cesare Romiti, presidente onorario Rcs. 
Oggi  nell’American Chamber of Commerce in Italy troviamo altre figure di  spicco come Gianluca Comin, dirigente Enel, e Giuseppe Cattaneo  dell’Aspen Institute Italia, il prestigioso pensatoio, creatura di  Gianni Letta, presieduto da Giulio Tremonti. E l’Aspen Institute pesa,  ovunque agisca. Luogo di incontro fra intellettuali, economisti,  politici, scienziati e imprese. Nell’Aspen transita l’élite italiana,  che faccia riferimento al centro-destra o al centro-sinistra. Con quali  finalità? «L’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale,  politica e culturale del paese attraverso un libero confronto tra idee e  provenienze diverse per identificare e promuovere valori, conoscenze e  interessi comuni», si legge nella mission dell’istituto. E in che modo?  «Il “metodo Aspen” privilegia il confronto e il dibattito “a porte  chiuse”, favorisce le relazioni interpersonali e consente un effettivo  aggiornamento dei temi in discussione. Attorno al tavolo Aspen discutono  leader del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale  e culturale in condizioni di assoluta riservatezza e di libertà  espressiva». 
È Sassoon, quindi, l’uomo delle relazioni al  massimo livello della Casaleggio Associati. Siede ai vertici di  organizzazioni d’élite, ha relazioni, opportunità di accedere alle  giuste informazioni. L’uomo, giustamente, del business. E che fa capire  quanto il gruppo Casaleggio Associati non sia affatto un collettivo di  nerd smanettoni, ma uno dei pensatoi più accreditati per quanto riguarda  le potenzialità di mercato della Rete nel nostro paese.
Il  teorico e inventore del gruppo è invece Gianroberto Casaleggio. «È stato  dirigente», si legge sul suo curriculum, «di aziende ad alto indirizzo  tecnologico», e la sua principale attività, oltre a curare personalmente  l’oggetto mediatico Grillo (e Di Pietro, oggi) è quella della  pubblicistica. E anche Casaleggio ha una storia «aziendale» di rilievo,  parallela anche se meno convenzionale a quella di Sassoon. Inizia  infatti a farsi notare non in un laboratorio di qualche campus, ma  nell’Olivetti di Roberto Colaninno, e qualche anno dopo diventa  amministratore delegato di Webegg, come abbiamo già detto suo trampolino  di lancio in seguito come guru nostrano della rivoluzione della Rete.  La Webegg ha origine da una joint-venture tra Olivetti e Finsiel (della  Telecom), ma nel 2002 l’azienda di Ivrea cede il suo 50 per cento alla  Telecom. Intanto Casaleggio ha dato vita a un’altra società, la Netikos,  dove siede per alcuni mesi nel consiglio di amministrazione accanto a  un figlio di Colaninno (Michele). Ma è un’avventura di breve durata, o  forse solo il momento di transito per creare con i vecchi amici della  Webegg qualcosa di totalmente nuovo. E infatti nel 2004 Gianroberto  chiude baracca e burattini e va a fondare con altri dirigenti Webegg la  Casaleggio Associati, attuale editore di Beppe Grillo. Tutto qua? Certo  che no. La Casaleggio è molto di più, anche se apparentemente sembra  avere un ruolo «periferico» nello sviluppo delle strategie di marketing  sulla Rete.
Gianroberto scrive molto spesso sia sul sito del  gruppo che su molti giornali di temi legati alla Rete. «L’organizzazione  di Rete», si legge nel suo curriculum online, «i modelli di e-business e  il web marketing sono tematiche che ha approfondito e applicato a  società italiane negli ultimi otto anni, anche grazie a una relazione  costante con i riferimenti mondiali del settore». Per lui la Rete è  un’ossessione, più di un mezzo, più di un media. Ne è un teorico e uno  dei guru delle nuove frontiere del marketing digitale e di cosa si possa  fare attraverso i social network grazie a strategie di marketing  «virale», forma di promozione non convenzionale che sfrutta la capacità  comunicativa di pochi soggetti interessati per trasmettere il messaggio a  un numero esponenziale di utenti. 
Casaleggio ha capito in  anticipo, almeno per quanto riguarda il mercato italiano, quali siano le  potenzialità del web e dei social network. E individua una nuova figura  di venditore propagandista in parte consapevole e in parte no:  l’influencer. «Online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per  cento degli utenti, queste persone sono gli influencer», scrive in un  articolo Casaleggio, «quando si accede alla Rete per avere  un’informazione, si accede a un’informazione che di solito è integrata  dall’influencer o è creata direttamente dall’influencer. L’influencer è  un asset aziendale, senza l’influencer non si può vendere, c’è una  statistica molto interessante per le cosiddette mamme online, il 96 per  cento di tutte le mamme online che effettuano un acquisto negli Stati  Uniti, è influenzato dalle opinioni di altre mamme online che sono le  mamme online influencer». Se andiamo ad analizzare il sistema di  diffusione online del fenomeno Beppe Grillo è facile constatare quanto  questa strategia sia efficace. E non solo per Grillo, visto che il  numero dei clienti e delle partnership italiane e statunitensi vanno ben  oltre alla promozione del comico genovese. Oltre quanto?
Nel  2004, a pochi mesi dalla sua nascita, la Casaleggio Associati annunciò  pubblicamente attraverso le agenzie di stampa la nascita della  partnership con Enamics, società statunitense leader in Business  Technology Management (Btm). La Enamics ha una rete di relazioni  aziendali impressionante sia dirette che indirette grazie anche a una  rete di partnership consolidata e da più di 6 anni con due altre aziende  del settore, la Future Considerations e la Ibm Tivoli. Spiccano, come  si legge nel board sia di Enamics che dei sui partner, nomi come  Pepsico, Northrop Grumman, US Department of Tresury (Dipartimento del  Tesoro Usa), Bnp Paribas, American Financial Group e JP Morgan, banca  d’affari del gruppo Rockefeller. E poi ancora: Coca Cola, Bp,  Barclaycard, Addax Petroleum, Shell, Tesco, Kpmg Llp, Carbon Trust,  Unido (United Nations Industrial Development Organisation), London  Pension Fund Authority (Lfpa). Ecco quindi la rete di relazioni,  teoriche e aziendali, della Casaleggio Associati con le aziende più  quotate del settore negli Stati Uniti. Comunicazione, e-commerce, reti  web, sicurezza. Gli stessi settori della Webegg prima e di Casaleggio e  soci poi.
Sassoon e Casaleggio, sul rapporto dei due si gioca  tutto il peso del progetto della Casaleggio Associati. Da un lato l’uomo  delle relazioni «tradizionali» con il mondo della finanza e della  politica italiana, dall’altro il super-esperto con reti di rapporti  consolidate e partnership oltre oceano. Non si tratta quindi solo di  sperimentare nuove forme di marketing, si tratta di una solida base di  business. E questo la Casaleggio Associati fa. 
Se qualcuno  pensava ancora che la Casaleggio Associati fosse solo un gruppo di  persone appassionate della comunicazione in Rete che si dedica al blog  di Beppe Grillo (e a quello, ricordiamolo, di Antonio Di Pietro), dopo  aver letto di questo vorticoso intreccio di partnership aziendali,  clienti, collaborazioni, si dovrà ricredere. Qualche domanda se la  stanno ponendo, per esempio, molti «grillini» della prima ora che nel  corso degli ultimi anni hanno criticato alcune virate di Beppe Grillo,  castigatore senza pietà dei costumi delle imprese italiane che  lentamente (oltre all’ex padrone di Casaleggio, Telecom) sono uscite  fuori dal mirino del neo-Savonarola (l’associazione non è nostra ma  della stessa Casaleggio) ligure. 
Ora Grillo parla quasi  esclusivamente di politica e di politici. E dov’è finito il «messaggio»  della prima ora, quello della lotta contro il «signoraggio monetario»?  Se qualcuno sulla rete dei Meetup o nei commenti sul blog di  Grillo pone l’interrogativo si vedrà cancellare o non pubblicare la  propria opinione. E chi cura direttamente e capillarmente il blog di  Grillo e la rete dei Meetup? Il fratello di Gianroberto  Casaleggio, Davide. Dopo tutto le regole della «moderazione» sul web le  detta chi mette in Rete una determinata piattaforma o sito. Funziona  così ovunque, funziona così anche sul sito di Grillo. Certi argomenti,  determinate domande non compaiono. Abbiamo fatto personalmente una  prova, «postando» sul blog di Grillo determinati temi scomodi e il  commento non veniva approvato. Compariva solo se si utilizzava un  determinato termine spezzato dalla punteggiatura. Ma anche in questo  caso il commento dopo poco spariva. Come su YouTube, dove video che  criticano esplicitamete il rapporto fra Casaleggio e Grillo scompaiono  con frequenza impressionante, così avviene per gli interventi nei Meetup più «popolati». Ma la Rete è più ampia di quanto la Casaleggio possa controllare e qualche Meetup riesce a sfuggire.
A  fare i conti con il controllo sulla comunicazione collegata al fenomeno  Grillo esercitato da Casaleggio è stato nel 2007 il blogger e  giornalista Piero Ricca. Chiamato per moltiplicare le offerte sul sito e  per attrarre nuovi utenti e nuovi «commentatori». Probabilmente ci si  era resi conto che in quella fase il sito, per la parte degli interventi  del pubblico, era «stagnante», che a commentare i post di grillo erano  sempre gli stessi, anche se sempre tanti. Quindi la scelta cade su un  blogger emergente, Ricca appunto. E che da accordi avrebbe dovuto essere  pagato dalla Casaleggio Associati. Duecento euro a intervista  forfettari spese incluse. Compenso che però, secondo Ricca, non gli  viene corrisposto nei termini concordati all’inizio e Gianroberto  Casaleggio ricontratterebbe la collaborazione chiedendogli di occuparsi  della comunicazione di alcune aziende sanitarie. Ricca rifiuta. Da qui  secondo Ricca il conflitto, e non si procede né sul piano economico né  sulla ridefinizione del rapporto contenutistico della collaborazione e  la situazione precipita. «A questo punto interpello direttamente Beppe  Grillo – racconta Ricca – (…) Lui è informato della decisione di  Gianroberto Casaleggio. (…) Osserva che “negli aspetti manageriali” del  blog lui non entra. Ritiene però, fidandosi del gestore, che la  difficoltà non sia di natura economica. Forse il problema – dice – è  «l’eccessiva aggressività» di qualche intervista. (…) Poi si gira verso  di me ed esprime un disagio: “Ti vedo sospettoso, non essere  sospettoso”». E Ricca scompare dal blog di Grillo. Solo per un  contenzioso relativo ai 200 euro spese incluse pattuiti per ciascuna  intervista? Secondo Gianroberto Casaleggio, a quanto risulterebbe dalle  dichiarazioni rilasciate sul blog di Grillo e su vari Meetup, sì. Fine della storia. Abbiamo fatto richiesta di spiegazioni via mail e non abbiamo ottenuto risposta.
Qualcosa  intanto si sarebbe incrinato negli ultimi tempi anche nel rapporto che  la Casaleggio Associati ha instaurato con Antonio Di Pietro e l’Idv.  Delle crepe si erano manifestate già nel corso della campagna elettorale  dell’anno scorso. Alcuni candidati «di peso» come Luigi De Magistris  avevano gentilmente rifiutato di affidarsi al modello Casaleggio  preferendo fare da sé. La ragione era molto semplice. Il modello offerto  dalla Casaleggio Associati è estremamente centralizzato. A scatola  chiusa. Per lavorare con loro, per usufruire dei loro servizi, è  necessario affidarsi totalmente alla loro organizzazione. E questo,  inevitabilmente, può entrare in contrasto con le logiche della politica.  Un contrasto, segnalano in molti dell’entourage di Tonino Di Pietro,  che in queste ultime settimane starebbe portando a una rottura. Bocche  cucite, ufficialmente, sia sul fronte politico che su quello aziendale,  ma ormai in molti si attendono da un momento all’altro l’annuncio del  divorzio.
Ritorniamo però alle strategie di marketing (politico e  no) della Casaleggio Associati, e agli influencer e all’importanza che  viene loro data, e non solo da questa società italiana. Si legge sul  sito web della Microsoft: «Uno studio della società statunitense Rubicon  Consulting ha tracciato il profilo degli influencer, la loro diffusione  e le modalità di comunicazione e di propagazione dei loro messaggi. Le  comunità online, gli spazi dove agiscono gli influencer, non sono tutte  uguali, ognuna ha peculiarità proprie». Non si capisce se questo brano  l’abbia scritto Gianroberto Casaleggio stesso o se a questo testo del  gigante statunitense si sia rifatto. E poi l’articolo della Microsoft  prosegue: «Le comunità online originate dalle connessioni, come  Facebook, sono le più frequentate (25 per cento degli utenti) e le più  importanti per i giovani sotto i 20 anni, seguono, con circa il 20 per  cento, quelle con attività in comune e condivisione di interessi. La  maggior parte degli utenti delle comunità ha un’età tra i 20 e i 40  anni. In questo contesto operano gli influencer». Ecco fatto il ritratto  del militante «grillino» tipo. E chi sono gli influencer di Grillo,  dove si muovono, dove agiscono? All’inizio sulla rete di Meetup,  la piattaforma a pagamento statunitense molto pubblicizzata dalla  Casaleggio Associati e dai loro partner statunitensi è praticamente  obbligatoria per chi voglia aderire alla rete degli amici di Grillo. Poi  su YouTube e Facebook. È qui che si è creata la fortuna del messaggio  di Grillo, nell’uso controllato capillarmente dalla Casaleggio Associati  di questi mezzi. 
E come si inseriscono le componenti  individuate da Casaleggio prima e da Microsoft poi (o viceversa?) nella  strategia che il gruppo starebbe sperimentando? E quali sono i contenuti  e le strategie di un gruppo che non fa mistero di avere un’idea ben  precisa di cosa siano e cosa dovrebbero essere la democrazia e la  politica? Ci sono due video illuminanti di quale sia l’ideologia che  muove Gianroberto Casaleggio e i suoi soci. Il primo, del 2007,  attualmente scomparso dal sito aziendale ma ancora rintracciabile sul  web, si rivolge all’informazione. Il titolo è inequivocabile: Prometeus – La Rivoluzione dei media.  E vediamo il contenuto. «L’Uomo è Dio, è ovunque, è chiunque, conosce  ogni cosa. Questo è il nuovo mondo di Prometeus. Tutto è iniziato con la  Rivoluzione dei media con internet alla fine del secolo scorso… la Rete  include e unifica tutto il contenuto: Google compra Microsoft, Amazon  compra Yahoo! diventando così i leader mondiali dell’informazione  assieme a Bbc, Cnn e Cctv… La pubblicità è scelta dai creatori di  contenuti, dagli stessi autori e diventa informazione, confronto,  esperienza. Nel 2020 Lawrence Lessing, l’autore di Cultura Libera  diventa ministro della Giustizia degli Stati Uniti e dichiara il  copyright illegale. Dispositivi che replicano i cinque sensi sono ormai  disponibili nei mondi virtuali. La realtà può essere replicata in Second  Life. (…) Nel 2022 Google lancia Prometeus l’interfaccia standard degli  Agav. Amazon crea Place, un’azienda che replica la realtà. Puoi andare  su Marte, alla battaglia di Waterloo, al SuperBowl di persona. È reale!  (…) Nel 2027 Second Life si evolve in Spirit. La vendita di memoria  diventa una normale attività commerciale. Nel 2050 Prometeus compra  Place e Spirit. La vita è virtuale è il mercato più grande del Pianeta.  Prometeus finanzia tutte le missioni spaziali alla ricerca di nuovi  mondi per i propri clienti, gli avatar terrestri». No, non è il sequel  di Nirvana di Gabriele Salvatores e meno che mai la sceneggiatura di Atto di forza  con Arnold Schwarzenegger. Questo è, secondo Casaleggio Associati, un  video di «scenario» inserito come messaggio di identità aziendale.
Il secondo video invece parla di politica. Si intitola Gaia, il futuro della politica  ed è tuttora ben visibile sulla homepage del sito aziendale. Al  contrario del precedente, in inglese ma sottotitolato in italiano,  questo è disponibile in inglese e spagnolo. Immagini e plot simili. Si  inizia con un pastone che racconta per brevi linee i progressi della  comunicazione politica nella storia, accostando con qualche azzardo  Savonarola, Gengis Khan, Obama, Beppe Grillo, Hitler, Mussolini, Bill  Clinton (ovviamente sulla strategie di innovazione della propaganda più  che della comunicazione) e poi, come nel video precedente, si lancia in  previsioni future, in cui Google, ancora una volta, diventa il centro  della rinascita della democrazia diretta fino a quando, dopo una terza  guerra mondiale, la popolazione della Terra si riduce a solo un miliardo  di abitanti e alla fine, grazie ovviamente alla Rete, nasce Gaia, il  nuovo governo mondiale. E poi: «Ogni essere umano può diventare  presidente e controllare il governo attraverso la Rete. In Gaia i  partiti, la politica, le ideologie e le religioni scompaiono». Non  temete, nel 2054, non prima.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
30.9.10
Grillo e il suo spin doctor: la Casaleggio Associati
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13.9.10
L'uso politico dei bambini e la nuova dottrina di Adro
Dice la Padania: coinvolgere nella politica «innocenti e disinformati bambini» è «meschino e spregevole». Dice Berlusconi: «È inaccettabile strumentalizzare i bambini». Dice la Gelmini: «È vergognoso che si strumentalizzino i bambini». Ma se la pensano così (a ragione) per i piccoli portati nelle piazze «rosse», come possono tacere su quella scuola di Adro marchiata di simboli leghisti? Sia chiaro, quel sindaco del Carroccio non ha scoperto niente di nuovo. L'indottrinamento dei fanciulli è da sempre una fissa di chi pensa di avere la verità in tasca. Lo hanno fatto i comunisti coi giovani pionieri devoti a Peppone Stalin che correvano per casa annunciando la rivoluzione: «Budet revolucija!». Lo hanno fatto i fascisti coi balilla che a scuola studiavano che «gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c'è Credere, Obbedire, Combattere». Lo hanno fatto i nazisti partendo da quanto aveva scritto Hitler nel «Mein Kampf»: «Lo Stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione».
Per carità, ogni paragone tra la scuola di Adro e quelle in cui gli scolari intonavano «Heil Hitler! Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen», sarebbe una forzatura esagerata. La tragedia, è noto, si ripete spesso in farsa. Ma certo l'iniziativa di Oscar Lancini, il sindaco bossiano che ha tappezzato col marchio leghista del sole delle Alpi tutta la nuova scuola elementare, dai tavoli ai banchi, dai cestini dell'immondizia alle finestre, è una cosa sgradevolmente nuova perfino nel tormentone dell'uso e dell' abuso dei bambini nelle faccende della politica nostrana. Non c'è mai stato molto rispetto per i minori, dalle nostre parti. Basti ricordare i manifesti del Pci del 1946 con due fratellini che in mezzo a un campo di grano, mentre sventolano una bandiera rossa e una tricolore, invitavano a votare contro la monarchia. O i manifesti della DC. La bimba terrorizzata davanti ai cingoli d'un carro armato marchiato con falce martello. La mamma che protegge i figlioletti: «Madre! Salve i tuoi figli dal bolscevismo!». Il piccolo democristiano che esulta: «Mamma e papà votano per me». Lo scolaretto che tiene un comizio ai compagnucci: «E se papà e mamma non andranno a votare, noi faremo la pipì a letto!»
Né si può dire che le cose siano cambiate col passare degli anni. Lo ricorda una foto di bambini che sfilano per le vie di Milano nel ‘69 col fazzoletto rosso al collo e il “libretto rosso” in mano tra uno sventolio di bandiere dei marxisti leninisti. O l'immagine di una femminista «'n zacco alternativa» che nel 1975 tira a una manifestazione per l'aborto un carrettino dove due bimbe mostrano un cartello: «È più bello nascere se si è desiderati». O ancora la poesia letta in apertura di un congresso radicale da una «tesserata di quattro anni», Altea: «In un bel vaso di porcellana / era rinchiusa una bella cinesina / che danzava una danza americana / con il capitano della Marina. Ciao e buon congresso!» . Per non dire di quel maestro che alla periferia milanese spiegava ai bambini un alfabeto tutto suo (C come Castro, F come fucile, R come rivoluzione…) o delle processioni dei nostalgici alla tomba del Duce a Predappio con figli al seguito con fez e manganellino: «Tu levi la piccola mano, / con viso di luce irradiato. / Tu sei quel bambino italiano, / che il Duce a cavallo, ha incontrato. / Il Duce ti guarda, o innocenza. / Sull'erba, che sfiori, gli appare / la dolce e radiosa semenza…».
Si poteva sperare che cambiasse tutto con la seconda Repubblica? Magari! L'esordio, spettacolare, fu di Maria Pia Dell'Utri il giorno in cui spiegò come mai era nato a casa sua, per iniziativa a suo dire della figlioletta Araba, il primo «Baby club di Forza Italia»: «Mi ha detto: "Mamma, posso essere anch'io presidente di un club di Forza Italia per bambini?" E io: "Ma certo amore, è una splendida idea, chissà come sarà contento papà"». La bimba, spiegò la madre al giornale del quartiere ripreso da Concita de Gregorio, aveva «voluto uno striscione con scritto "Silvio facci sempre vedere i cartoni"» perché «i bambini temevano che se Berlusconi avesse perso le elezioni loro non avrebbero più avuto cartoni animati in tv».
Da allora, ne abbiamo viste, letteralmente, di tutti i colori. Neonati comunisti col pugnetto alzato per «il manifesto». Piccoli finiani (non ancora antiberlusconiani) in marcia contro i leghisti con le magliette che dicevano: «Io sono italiano». Giovanissimi crociati in calzamaglia o con strampalati costumi pseudo-celtici sui palchi dei comizi di Bossi. Devoti chierichetti al «family day». Famigliole felici e avanguardiste arruolate per i manifesti di Forza Nuova. Cuccioli di «black block» o «Tute Bianche» trascinati da babbi e mammine ai cortei alternativi. Tranne il «piccolo kamikaze coi candelottini alla cintura», non ci siamo fatti mancare niente. E ogni volta: scandalo! Da parte di chi, si capisce, stava sull'altro fronte. Indimenticabile un Maurizio Gasparri da antologia: «Trovo sgradevole l'uso dei bambini nelle manifestazioni. È sbagliato strumentalizzare e disinformare i bambini portandoli nei cortei. È una cosa gravissima e chi lo fa è un cattivo genitore». E con chi si fa fotografare al corteo del Family Day del 12 maggio? Con la sua figlioletta. Che porta al collo il badge con nome, cognome e partito di appartenenza: Alleanza Nazionale. Proprio perché questo è un tema che più di altri richiede coerenza, val la pena dunque di ricordare i giudizi della destra sui bambini portati in piazza un paio di anni fa contro Maria Stella Gelmini. «La marcia su Roma dei bambini», titolò scandalizzata la Padania, dedicando al tema altri titoli come «Che pena i bimbi in piazza». «E’ odioso vedere certi insegnanti e certi genitori, spesso senza aver letto una riga del decreto, sfruttare i bambini per la protesta», tuonò il segretario romagnolo della Lega Gianluca Pini. E via così, fino ai durissimi giudizi già ricordati del capo del governo e di Maria Stella Gelmini. La quale oggi pensa che la scelta di indottrinamento leghista della scuola di Adro sia «folklore». Ma va?
Gian Antonio Stella
Per carità, ogni paragone tra la scuola di Adro e quelle in cui gli scolari intonavano «Heil Hitler! Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen», sarebbe una forzatura esagerata. La tragedia, è noto, si ripete spesso in farsa. Ma certo l'iniziativa di Oscar Lancini, il sindaco bossiano che ha tappezzato col marchio leghista del sole delle Alpi tutta la nuova scuola elementare, dai tavoli ai banchi, dai cestini dell'immondizia alle finestre, è una cosa sgradevolmente nuova perfino nel tormentone dell'uso e dell' abuso dei bambini nelle faccende della politica nostrana. Non c'è mai stato molto rispetto per i minori, dalle nostre parti. Basti ricordare i manifesti del Pci del 1946 con due fratellini che in mezzo a un campo di grano, mentre sventolano una bandiera rossa e una tricolore, invitavano a votare contro la monarchia. O i manifesti della DC. La bimba terrorizzata davanti ai cingoli d'un carro armato marchiato con falce martello. La mamma che protegge i figlioletti: «Madre! Salve i tuoi figli dal bolscevismo!». Il piccolo democristiano che esulta: «Mamma e papà votano per me». Lo scolaretto che tiene un comizio ai compagnucci: «E se papà e mamma non andranno a votare, noi faremo la pipì a letto!»
Né si può dire che le cose siano cambiate col passare degli anni. Lo ricorda una foto di bambini che sfilano per le vie di Milano nel ‘69 col fazzoletto rosso al collo e il “libretto rosso” in mano tra uno sventolio di bandiere dei marxisti leninisti. O l'immagine di una femminista «'n zacco alternativa» che nel 1975 tira a una manifestazione per l'aborto un carrettino dove due bimbe mostrano un cartello: «È più bello nascere se si è desiderati». O ancora la poesia letta in apertura di un congresso radicale da una «tesserata di quattro anni», Altea: «In un bel vaso di porcellana / era rinchiusa una bella cinesina / che danzava una danza americana / con il capitano della Marina. Ciao e buon congresso!» . Per non dire di quel maestro che alla periferia milanese spiegava ai bambini un alfabeto tutto suo (C come Castro, F come fucile, R come rivoluzione…) o delle processioni dei nostalgici alla tomba del Duce a Predappio con figli al seguito con fez e manganellino: «Tu levi la piccola mano, / con viso di luce irradiato. / Tu sei quel bambino italiano, / che il Duce a cavallo, ha incontrato. / Il Duce ti guarda, o innocenza. / Sull'erba, che sfiori, gli appare / la dolce e radiosa semenza…».
Si poteva sperare che cambiasse tutto con la seconda Repubblica? Magari! L'esordio, spettacolare, fu di Maria Pia Dell'Utri il giorno in cui spiegò come mai era nato a casa sua, per iniziativa a suo dire della figlioletta Araba, il primo «Baby club di Forza Italia»: «Mi ha detto: "Mamma, posso essere anch'io presidente di un club di Forza Italia per bambini?" E io: "Ma certo amore, è una splendida idea, chissà come sarà contento papà"». La bimba, spiegò la madre al giornale del quartiere ripreso da Concita de Gregorio, aveva «voluto uno striscione con scritto "Silvio facci sempre vedere i cartoni"» perché «i bambini temevano che se Berlusconi avesse perso le elezioni loro non avrebbero più avuto cartoni animati in tv».
Da allora, ne abbiamo viste, letteralmente, di tutti i colori. Neonati comunisti col pugnetto alzato per «il manifesto». Piccoli finiani (non ancora antiberlusconiani) in marcia contro i leghisti con le magliette che dicevano: «Io sono italiano». Giovanissimi crociati in calzamaglia o con strampalati costumi pseudo-celtici sui palchi dei comizi di Bossi. Devoti chierichetti al «family day». Famigliole felici e avanguardiste arruolate per i manifesti di Forza Nuova. Cuccioli di «black block» o «Tute Bianche» trascinati da babbi e mammine ai cortei alternativi. Tranne il «piccolo kamikaze coi candelottini alla cintura», non ci siamo fatti mancare niente. E ogni volta: scandalo! Da parte di chi, si capisce, stava sull'altro fronte. Indimenticabile un Maurizio Gasparri da antologia: «Trovo sgradevole l'uso dei bambini nelle manifestazioni. È sbagliato strumentalizzare e disinformare i bambini portandoli nei cortei. È una cosa gravissima e chi lo fa è un cattivo genitore». E con chi si fa fotografare al corteo del Family Day del 12 maggio? Con la sua figlioletta. Che porta al collo il badge con nome, cognome e partito di appartenenza: Alleanza Nazionale. Proprio perché questo è un tema che più di altri richiede coerenza, val la pena dunque di ricordare i giudizi della destra sui bambini portati in piazza un paio di anni fa contro Maria Stella Gelmini. «La marcia su Roma dei bambini», titolò scandalizzata la Padania, dedicando al tema altri titoli come «Che pena i bimbi in piazza». «E’ odioso vedere certi insegnanti e certi genitori, spesso senza aver letto una riga del decreto, sfruttare i bambini per la protesta», tuonò il segretario romagnolo della Lega Gianluca Pini. E via così, fino ai durissimi giudizi già ricordati del capo del governo e di Maria Stella Gelmini. La quale oggi pensa che la scelta di indottrinamento leghista della scuola di Adro sia «folklore». Ma va?
Gian Antonio Stella
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11.9.10
Il mondo in balia di un idiota
MARIO CALABRESI
Il mondo in balia di un idiota. Di un pastore battista a cui per 63 anni non aveva dato retta nessuno, tanto che nella sua Chiesa i fedeli erano poco più degli alunni di una classe elementare. La figlia di quest’uomo, che due mesi fa restò folgorato dalla proposta di un suo seguace di commemorare l’11 Settembre dando fuoco al Corano, sostiene che «è uscito di testa».
Insomma, parliamo di un matto di una cittadina della Florida profonda in cui sei obbligato a passare solo se devi andare in Georgia o in Alabama. Un matto capace però di tenere col fiato sospeso la Casa Bianca, la Nato, il Pentagono, l’Interpol, l’Onu, eserciti e polizie di mezzo mondo, organizzazioni umanitarie e di volontariato, chiese, moschee, sinagoghe e un sacco di turisti.
Come è possibile che questo oscuro reverendo in vena di provocazioni sia diventato un fenomeno planetario, anziché essere compatito dai suoi concittadini? La risposta investe in pieno il mondo dei mezzi di comunicazione che lo hanno trasformato in una star, che lo assediano da giorni con microfoni, telecamere, registratori, taccuini e che hanno piazzato intorno alla sua roulotte decine di antenne paraboliche. Per non farsi sfuggire nulla, per rilanciare al più presto ogni sillaba incendiaria e magari anche l’immagine dell’incendio finale, quel falò di libri sacri all’Islam che avrebbe l’immediato effetto di accendere un’altra pletora di idioti che non aspettano altro a ogni latitudine. Il rapporto causa-effetto lo mostrano le due foto che pubblichiamo in prima pagina.
Le quali possono essere lette da sinistra verso destra o anche al contrario, nel senso che nessuno dei due è giustificato dall’altro per i suoi comportamenti: i bruciatori di Corani e quelli di bandiere a stelle e strisce appartengono alla stessa razza. Quella degli idioti appunto.
La domanda allora sorge spontanea e ce la siamo posta anche noi: ma perché allora dargli spazio e visibilità? Basterebbe ignorarli, come viene suggerito di fare con i matti o con i bambini che fanno troppi capricci. Sarebbe la scelta giusta se questa giostra globale non corresse così in fretta, se filmati, foto e dichiarazioni non ci bombardassero senza sosta.
Puoi decidere di ignorare il pastore, ma come fai a tacere il fatto che nel frattempo il Papa, il segretario delle Nazioni Unite, il comandante delle truppe americane in Afghanistan e il Presidente degli Stati Uniti stanno lanciando appelli proprio a quel pastore e alla sua minuscola congrega di fedeli?
Puoi decidere di non mettere nulla sul giornale, ma all’ora di pranzo le agenzie battono il comunicato dell’Interpol in cui si parla di «rischio di attacchi globali». Qualche minuto e in una manifestazione antiamericana a Kabul ci scappa il primo morto.
Così pensi che se decidessi di tenere il giornale fuori da tutto ciò sembreresti tu l’idiota, o perlomeno un insopportabile snob, e che sarebbe tutto inutile. La grande agenzia Ap ha deciso di non distribuire le eventuali foto, ma sappiamo che basta un ragazzino con un cellulare e un computer a casa per far esplodere la rete e arrivare in ogni casa del globo. Gli esempi degli ultimi anni sono centinaia, pensate alle foto di Abu Ghraib o anche solo al filmato del bambino Down picchiato dai compagni di scuola.
A Barack Obama, ieri mattina nella East Room della Casa Bianca, hanno chiesto se non avesse fatto meglio a ignorare il pastore Jones invece di dargli importanza. Il Presidente ha risposto che ha dovuto occuparsi «dell’individuo giù in Florida» - non ha voluto dargli la dignità del nome - per evitare gravi conseguenze contro cittadini e militari americani, che non poteva fare altrimenti.
Così siamo tutti prigionieri di questo «reality show», come lo ha chiamato il direttore del New York Times Bill Keller, che finisce per dettare gli umori globali e farsi guidare da questi.
Ma non c’è proprio nessuna via d’uscita da questa degenerazione della società dell’immagine che è capace di mettere tutto sullo stesso piano, di enfatizzare un particolare fino a farlo diventare un fenomeno universale, che regala ai cretini di ogni sorta il loro minuto di celebrità planetaria?
Qualche cosa si potrebbe fare: una strada esiste, ma non passa dalla censura o dal silenzio, passa invece dallo sforzo di restituire a ogni immagine i suoi veri contorni, di rimetterla a posto nel suo contesto. Bisogna fare più giornalismo, non arrendersi alla valanga di immagini artefatte o di slogan a effetto.
Tutti i giornali del mondo hanno parlato della «Moschea a Ground Zero» e molti nel mondo si sono indignati, forse l’effetto sarebbe stato diverso se tutti avessero scritto che la sala di preghiera dovrebbe nascere a tre isolati dal luogo dove sorgevano le Torri Gemelle o che a quattro isolati già esiste da anni un’altra moschea (di cui nessuno si è mai sognato di chiedere la chiusura).
Fare giornalismo di qualità per cercare di abbassare la febbre del sensazionalismo significa andare a cercare dati e statistiche per dare il giusto peso alle nostre preoccupazioni, che si tratti del numero di crimini, di immigrati illegali, di malati di influenza suina o di moschee con minareto (in Germania ce ne sono 206, in Italia 3). Significa dare voce a chi ha titolo per parlare e non solo a chi garantisce di fare più rumore o più spettacolo.
Fare giornalismo così è faticoso, ma è l’unica strada che abbiamo per salvarci dall’invasione del falso, del verosimile, per cercare di capire qualcosa in questo caos globale.
Anche la politica e la società civile però potrebbero fare qualcosa per restituire ai gesti e alle parole il loro giusto peso: al delirio del reverendo Jones dovrebbero rispondere cento reverendi che pregano insieme a rabbini e muftì davanti a quello che era Ground Zero. L’immagine avrebbe una forza emozionale ed evocativa superiore e questa volta sarebbe l’erba buona a scacciare quella cattiva.
È davvero così difficile immaginare di non arrendersi e decidere che la nostra esistenza non può essere presa in ostaggio dall’ultima immagine che passa davanti ai nostri occhi?
Il mondo in balia di un idiota. Di un pastore battista a cui per 63 anni non aveva dato retta nessuno, tanto che nella sua Chiesa i fedeli erano poco più degli alunni di una classe elementare. La figlia di quest’uomo, che due mesi fa restò folgorato dalla proposta di un suo seguace di commemorare l’11 Settembre dando fuoco al Corano, sostiene che «è uscito di testa».
Insomma, parliamo di un matto di una cittadina della Florida profonda in cui sei obbligato a passare solo se devi andare in Georgia o in Alabama. Un matto capace però di tenere col fiato sospeso la Casa Bianca, la Nato, il Pentagono, l’Interpol, l’Onu, eserciti e polizie di mezzo mondo, organizzazioni umanitarie e di volontariato, chiese, moschee, sinagoghe e un sacco di turisti.
Come è possibile che questo oscuro reverendo in vena di provocazioni sia diventato un fenomeno planetario, anziché essere compatito dai suoi concittadini? La risposta investe in pieno il mondo dei mezzi di comunicazione che lo hanno trasformato in una star, che lo assediano da giorni con microfoni, telecamere, registratori, taccuini e che hanno piazzato intorno alla sua roulotte decine di antenne paraboliche. Per non farsi sfuggire nulla, per rilanciare al più presto ogni sillaba incendiaria e magari anche l’immagine dell’incendio finale, quel falò di libri sacri all’Islam che avrebbe l’immediato effetto di accendere un’altra pletora di idioti che non aspettano altro a ogni latitudine. Il rapporto causa-effetto lo mostrano le due foto che pubblichiamo in prima pagina.
Le quali possono essere lette da sinistra verso destra o anche al contrario, nel senso che nessuno dei due è giustificato dall’altro per i suoi comportamenti: i bruciatori di Corani e quelli di bandiere a stelle e strisce appartengono alla stessa razza. Quella degli idioti appunto.
La domanda allora sorge spontanea e ce la siamo posta anche noi: ma perché allora dargli spazio e visibilità? Basterebbe ignorarli, come viene suggerito di fare con i matti o con i bambini che fanno troppi capricci. Sarebbe la scelta giusta se questa giostra globale non corresse così in fretta, se filmati, foto e dichiarazioni non ci bombardassero senza sosta.
Puoi decidere di ignorare il pastore, ma come fai a tacere il fatto che nel frattempo il Papa, il segretario delle Nazioni Unite, il comandante delle truppe americane in Afghanistan e il Presidente degli Stati Uniti stanno lanciando appelli proprio a quel pastore e alla sua minuscola congrega di fedeli?
Puoi decidere di non mettere nulla sul giornale, ma all’ora di pranzo le agenzie battono il comunicato dell’Interpol in cui si parla di «rischio di attacchi globali». Qualche minuto e in una manifestazione antiamericana a Kabul ci scappa il primo morto.
Così pensi che se decidessi di tenere il giornale fuori da tutto ciò sembreresti tu l’idiota, o perlomeno un insopportabile snob, e che sarebbe tutto inutile. La grande agenzia Ap ha deciso di non distribuire le eventuali foto, ma sappiamo che basta un ragazzino con un cellulare e un computer a casa per far esplodere la rete e arrivare in ogni casa del globo. Gli esempi degli ultimi anni sono centinaia, pensate alle foto di Abu Ghraib o anche solo al filmato del bambino Down picchiato dai compagni di scuola.
A Barack Obama, ieri mattina nella East Room della Casa Bianca, hanno chiesto se non avesse fatto meglio a ignorare il pastore Jones invece di dargli importanza. Il Presidente ha risposto che ha dovuto occuparsi «dell’individuo giù in Florida» - non ha voluto dargli la dignità del nome - per evitare gravi conseguenze contro cittadini e militari americani, che non poteva fare altrimenti.
Così siamo tutti prigionieri di questo «reality show», come lo ha chiamato il direttore del New York Times Bill Keller, che finisce per dettare gli umori globali e farsi guidare da questi.
Ma non c’è proprio nessuna via d’uscita da questa degenerazione della società dell’immagine che è capace di mettere tutto sullo stesso piano, di enfatizzare un particolare fino a farlo diventare un fenomeno universale, che regala ai cretini di ogni sorta il loro minuto di celebrità planetaria?
Qualche cosa si potrebbe fare: una strada esiste, ma non passa dalla censura o dal silenzio, passa invece dallo sforzo di restituire a ogni immagine i suoi veri contorni, di rimetterla a posto nel suo contesto. Bisogna fare più giornalismo, non arrendersi alla valanga di immagini artefatte o di slogan a effetto.
Tutti i giornali del mondo hanno parlato della «Moschea a Ground Zero» e molti nel mondo si sono indignati, forse l’effetto sarebbe stato diverso se tutti avessero scritto che la sala di preghiera dovrebbe nascere a tre isolati dal luogo dove sorgevano le Torri Gemelle o che a quattro isolati già esiste da anni un’altra moschea (di cui nessuno si è mai sognato di chiedere la chiusura).
Fare giornalismo di qualità per cercare di abbassare la febbre del sensazionalismo significa andare a cercare dati e statistiche per dare il giusto peso alle nostre preoccupazioni, che si tratti del numero di crimini, di immigrati illegali, di malati di influenza suina o di moschee con minareto (in Germania ce ne sono 206, in Italia 3). Significa dare voce a chi ha titolo per parlare e non solo a chi garantisce di fare più rumore o più spettacolo.
Fare giornalismo così è faticoso, ma è l’unica strada che abbiamo per salvarci dall’invasione del falso, del verosimile, per cercare di capire qualcosa in questo caos globale.
Anche la politica e la società civile però potrebbero fare qualcosa per restituire ai gesti e alle parole il loro giusto peso: al delirio del reverendo Jones dovrebbero rispondere cento reverendi che pregano insieme a rabbini e muftì davanti a quello che era Ground Zero. L’immagine avrebbe una forza emozionale ed evocativa superiore e questa volta sarebbe l’erba buona a scacciare quella cattiva.
È davvero così difficile immaginare di non arrendersi e decidere che la nostra esistenza non può essere presa in ostaggio dall’ultima immagine che passa davanti ai nostri occhi?
10.9.10
Impiccioni
Emilio Alessandrini, magistrato. Giorgio Ambrosoli, avvocato. Vittorio Bachelet, magistrato. Marco Biagi, professore. Paolo Borsellino, magistrato. Bruno Caccia, magistrato. Luigi Calabresi, poliziotto. Rocco Chinnici, magistrato. Carlo Casalegno, giornalista. Nini Cassarà, poliziotto. Francesco Coco, magistrato. Fulvio Croce, avvocato. Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale. Massimo D’Antona, professore. Mauro De Mauro, giornalista. Giuseppe Diana, sacerdote. Giovanni Falcone, magistrato. Francesco Fortugno, medico e politico. Boris Giuliano, poliziotto. Peppino Impastato, conduttore radiofonico. Pio La Torre, politico. Rosario Livatino, magistrato. Oreste Leonardi e con lui tutti gli agenti di scorta caduti sul lavoro. Giorgiana Masi, studentessa. Piersanti Mattarella, politico. Aldo Moro, politico. Francesca Morvillo, magistrato. Emanuele Notarbartolo, banchiere. Vittorio Occorsio, magistrato. Giuseppe «Joe» Petrosino, poliziotto. Pino Puglisi, sacerdote. Guido Rossa, sindacalista. Roberto Ruffilli, professore. Giancarlo Siani, giornalista. Antonino Scopelliti, magistrato. Giovanni Spampinato, giornalista. Ezio Tarantelli, professore. Walter Tobagi, giornalista. Angelo Vassallo, sindaco. E tanti, tanti altri.
Grazie, perché ve la siete andata a cercare. («Senatore Andreotti, come mai Ambrosoli, l’avvocato che indagava sugli illeciti di Sindona, fu ucciso da un killer nel 1979?». «Non voglio sostituirmi a polizia e giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando». Da La storia siamo noi, in onda ieri su Raitre).
Grazie, perché ve la siete andata a cercare. («Senatore Andreotti, come mai Ambrosoli, l’avvocato che indagava sugli illeciti di Sindona, fu ucciso da un killer nel 1979?». «Non voglio sostituirmi a polizia e giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando». Da La storia siamo noi, in onda ieri su Raitre).
8.9.10
Scuola e università, Italia bocciata dal rapporto Ocse sull’istruzione
I nostri docenti sono pagati meno che negli altri Paesi. Investiamo meno della media europea in questo settore: solo la Slovacchia ha un dato peggiore
di Luigina D’Emilio
La pagella dell’Italia è negativa. Non riserva sorprese la pubblicazione del nuovo Rapporto Ocse sull’educazione “Education at a glance 2010″. Le 500 pagine che fanno il punto sull’istruzione dei 30 Paesi aderenti all’organizzazione per lo sviluppo economico, parlano chiaro: il nostro Paese spende solo il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media europea del 5,7%. Dietro di noi, tra i paesi industrializzati, solo la repubblica slovacca. Persino il Brasile, con il 5,2% e l’Estonia (5%) spendono di più.
Ogni anno il documento si arricchisce di nuovi indicatori che analizzano e confrontano lo stato dell’istruzione ai diversi livelli dei rispettivi sistemi scolastici, adulti compresi. Oltre alla percentuale della spesa per l’istruzione sul prodotto interno lordo, a rivelare in che condizioni è l’istruzione anche il numero degli stranieri iscritti all’università, il numero di ore di insegnamento dalle primarie alle secondarie superiori, gli stipendi dei docenti e il numero di allievi per classe. Nella scuola primaria il costo salariale per studente, è 2.876 dollari, 568 dollari in più della media Ocse, ma il salario medio dei docenti è inferiore di 497 dollari alla media Ocse che è di 34.496 dollari. A spingere in alto i costi sono le maggiori ore di istruzione (+534 dollari), il minore tempo di insegnamento (+202 dollari) e le dimensioni delle classi (+330 dollari).
Più nello specifico i docenti italiani sono pagati meno anche dopo aver raggiunto l’anzianità di servizio con 601 ore di insegnamento, che ci piazzano tra gli ultimi paesi anche in questo campo (media Ocse 703). Un maestro di scuola elementare che inizia con 26 mila dollari non supererà i 38 mila (media Ocse 48 mila), un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un docente di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila Ocse).
Inutile dirlo l’Italia è sotto la media, anche se si guardano gli altri numeri. La situazione del nostro Paese, infatti, è tutt’altro che incoraggiante, la spesa pubblica nella scuola, raggiunge solo il 9% della spesa pubblica totale inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti. Anche in questo caso il livello più basso tra i paesi industrializzati contro il 13,3% della media Ocse. Senza considerare che l’80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio negli altri Paesi aderenti all’organizzazione.
A rimetterci sono le università. Sul rapporto si legge che la spesa media per studente inclusa l’attività di ricerca è 8.600 dollari contro i quasi tredici mila Ocse. Va meglio alle scuole primarie e secondarie con un investimento pro capite di 7.950 dollari contro lo standard individuato in 8.200. Ma la spesa cumulativa per uno studente dalla prima elementare alla maturità è di centouno mila dollari (contro 94.500 media Ocse), cui vanno aggiunti i trentanovemila dollari dell’università contro i cinquantatremila della media Ocse.
Ne risulta dunque che l’Italia investe ancora poco e male nell’istruzione con un contraccolpo importante per lo sviluppo economico. Lo stesso segretario generale dell’organizzazione Angel Gurria, durante la presentazione del rapporto, ha sottolineato come “ l’istruzione, mentre siamo alle prese con una recessione mondiale che continua a pesare sull’occupazione, costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro”.
Ne trarrebbero beneficio anche le entrate fiscali, l’insegnamento stimolerebbe l’occupazione perché dice l’Ocse mediamente nei paesi dell’area un uomo con un diploma di scuola superiore genera 119.000 dollari in più di entrate fiscali e di contributi sociali rispetto ad un uomo diplomato della scuola secondaria. Mentre la concorrenza si intensifica sul mercato mondiale dell’istruzione, gli Stati, sottolinea l’organizzazione internazionale, devono puntare per i loro sistemi educativi ad una qualità di livello internazionale in modo da assicurare una crescita economica di lungo termine.
Ma il nostro è un Paese dove la percentuale degli abbandoni è ancora alta. Si sta sui banchi più degli altri, solo Israele ci supera e chi arriva alla fine degli studi non lo fa in ambito universitario, ma si ferma al diploma.
Anche se i dati in questione fanno riferimento al 2008, e non tengono conto delle novità intervenute, viene da chiedersi come possa il nostro Paese diventare più competitivo sul piano economico visto che la riforma Gelmini, con otto miliardi di euro di tagli spalmati in tre anni, mette l’istruzione italiana in ginocchio. Se poi si aggiungono i diecimila precari che rischiano il posto, le 3700 classi in meno dello scorso anno con ventimila alunni in più negli istituti, il conto è presto fatto. E non serviranno certo i prossimi dati Ocse per conoscere il futuro di un settore condannato al peggioramento.
di Luigina D’Emilio
La pagella dell’Italia è negativa. Non riserva sorprese la pubblicazione del nuovo Rapporto Ocse sull’educazione “Education at a glance 2010″. Le 500 pagine che fanno il punto sull’istruzione dei 30 Paesi aderenti all’organizzazione per lo sviluppo economico, parlano chiaro: il nostro Paese spende solo il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media europea del 5,7%. Dietro di noi, tra i paesi industrializzati, solo la repubblica slovacca. Persino il Brasile, con il 5,2% e l’Estonia (5%) spendono di più.
Ogni anno il documento si arricchisce di nuovi indicatori che analizzano e confrontano lo stato dell’istruzione ai diversi livelli dei rispettivi sistemi scolastici, adulti compresi. Oltre alla percentuale della spesa per l’istruzione sul prodotto interno lordo, a rivelare in che condizioni è l’istruzione anche il numero degli stranieri iscritti all’università, il numero di ore di insegnamento dalle primarie alle secondarie superiori, gli stipendi dei docenti e il numero di allievi per classe. Nella scuola primaria il costo salariale per studente, è 2.876 dollari, 568 dollari in più della media Ocse, ma il salario medio dei docenti è inferiore di 497 dollari alla media Ocse che è di 34.496 dollari. A spingere in alto i costi sono le maggiori ore di istruzione (+534 dollari), il minore tempo di insegnamento (+202 dollari) e le dimensioni delle classi (+330 dollari).
Più nello specifico i docenti italiani sono pagati meno anche dopo aver raggiunto l’anzianità di servizio con 601 ore di insegnamento, che ci piazzano tra gli ultimi paesi anche in questo campo (media Ocse 703). Un maestro di scuola elementare che inizia con 26 mila dollari non supererà i 38 mila (media Ocse 48 mila), un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un docente di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila Ocse).
Inutile dirlo l’Italia è sotto la media, anche se si guardano gli altri numeri. La situazione del nostro Paese, infatti, è tutt’altro che incoraggiante, la spesa pubblica nella scuola, raggiunge solo il 9% della spesa pubblica totale inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti. Anche in questo caso il livello più basso tra i paesi industrializzati contro il 13,3% della media Ocse. Senza considerare che l’80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio negli altri Paesi aderenti all’organizzazione.
A rimetterci sono le università. Sul rapporto si legge che la spesa media per studente inclusa l’attività di ricerca è 8.600 dollari contro i quasi tredici mila Ocse. Va meglio alle scuole primarie e secondarie con un investimento pro capite di 7.950 dollari contro lo standard individuato in 8.200. Ma la spesa cumulativa per uno studente dalla prima elementare alla maturità è di centouno mila dollari (contro 94.500 media Ocse), cui vanno aggiunti i trentanovemila dollari dell’università contro i cinquantatremila della media Ocse.
Ne risulta dunque che l’Italia investe ancora poco e male nell’istruzione con un contraccolpo importante per lo sviluppo economico. Lo stesso segretario generale dell’organizzazione Angel Gurria, durante la presentazione del rapporto, ha sottolineato come “ l’istruzione, mentre siamo alle prese con una recessione mondiale che continua a pesare sull’occupazione, costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro”.
Ne trarrebbero beneficio anche le entrate fiscali, l’insegnamento stimolerebbe l’occupazione perché dice l’Ocse mediamente nei paesi dell’area un uomo con un diploma di scuola superiore genera 119.000 dollari in più di entrate fiscali e di contributi sociali rispetto ad un uomo diplomato della scuola secondaria. Mentre la concorrenza si intensifica sul mercato mondiale dell’istruzione, gli Stati, sottolinea l’organizzazione internazionale, devono puntare per i loro sistemi educativi ad una qualità di livello internazionale in modo da assicurare una crescita economica di lungo termine.
Ma il nostro è un Paese dove la percentuale degli abbandoni è ancora alta. Si sta sui banchi più degli altri, solo Israele ci supera e chi arriva alla fine degli studi non lo fa in ambito universitario, ma si ferma al diploma.
Anche se i dati in questione fanno riferimento al 2008, e non tengono conto delle novità intervenute, viene da chiedersi come possa il nostro Paese diventare più competitivo sul piano economico visto che la riforma Gelmini, con otto miliardi di euro di tagli spalmati in tre anni, mette l’istruzione italiana in ginocchio. Se poi si aggiungono i diecimila precari che rischiano il posto, le 3700 classi in meno dello scorso anno con ventimila alunni in più negli istituti, il conto è presto fatto. E non serviranno certo i prossimi dati Ocse per conoscere il futuro di un settore condannato al peggioramento.
1.9.10
I diritti dei padroni e quelli degli operai
di Guido Viale
Per Marchionne, per la Marcegaglia e per molti altri che hanno frequentato il meeting di Comunione e liberazione la lotta di classe è un residuo di un passato da superare, così come lo è la conflittualità sindacale o la lotta «tra operai e padroni». Così si capisce meglio dove mirassero le tante polemiche fuori tempo massimo contro il '68 e la sua cultura distruttiva. Però, come giustamente ha fatto notare Adriano Sofri sulla sua piccola posta, la frase «basta lotta tra padroni e operai» prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone. In effetti per tutti costoro quello che è o va superato è la lotta degli operai contro i padroni, o dei lavoratori contro le imprese e i loro imprenditori, perché l'altra, quella dei padroni contro gli operai è in pieno corso e va a gonfie vele. Come altro si può intendere, infatti, la situazione di quelle migliaia di lavoratori lasciati sul lastrico da padroni, spesso bancarottieri, che si sono impossessati di un'impresa per distruggerla o ridimensionarla grazie ai meccanismi messi in campo dalla finanza internazionale? O le delocalizzazioni fatte per liberarsi di una manodopera troppo costosa? O la diffusione del lavoro precario che distrugge qualsiasi possibilità di costruirsi una vita e un futuro? O la tesi di Tremonti, secondo cui la normativa sulla sicurezza sul lavoro (L. 626) è ormai insostenibile per le imprese, nonostante le morti sul lavoro ufficialmente accertate siano più di mille all'anno, e altrettante, e forse più, siano non accertate, perché morti «bianche» provocate dal lavoro «nero»?
L'accondiscendenza politica e sindacale verso il primato assoluto dell'impresa - che è l'ideologia sottostante a queste prese di posizione - ha impregnato talmente il sentire comune che nell'affrontare questi temi i loro corifei non si rendono nemmeno più conto di quel che dicono. Sentite Marchionne al meeting di Rimini: «Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti». Pensa di parlare di tre degli operai che ha fatto licenziare per rappresaglia contro la Fiom, ma la stessa frase potrebbe essere letta in un altro modo. Quali sono «i diritti di pochi»? Non sono forse quelli dei padroni della fabbrica? O, meglio, degli azionisti di riferimento (gli altri sono «parco buoi») e dei manager che si sono scelti e che guadagnano, tutti quanti, milioni di euro all'anno: 3-400 volte di più dei «molti» che lavorano per loro. E chi sono quei «molti» i cui diritti vengono «piegati» dai «pochi»: quelli che un picchetto o un'assemblea in fabbrica ha magari dissuaso dal cedere al ricatto dell'azienda? O quelli «piegati» a dire di sì in un referendum sotto la minaccia di perdere per sempre il loro posto di lavoro? E ancora (è sempre Marchionne che parla): «La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Certo la dignità e i diritti di alcuni «tre», per esempio Marchionne, Elkann e Montezemolo, oppure Tremonti, Sacconi e la Sig.ra Marcegaglia, non sembrano messi in discussione. Ma che dire di migliaia di lavoratori posti di fronte al diktat di accettare condizioni di lavoro inaccettabili, contrarie alla loro dignità (ma si è mai vista la «pausa mensa» a fine turno, dopo otto ore di lavoro quasi senza pause? E perché non li si lascia andare a mangiare a casa loro? Perché siano pronti per il lavoro straordinario) e contrari ai loro diritti (quello, sacrosanto di garantirsi un brandello di vita familiare libera da turni e straordinari; o quello di scioperare). Questa storia della fine della lotta tra operai e padroni, con cui i vincenti di oggi si riempiono la bocca trattando i diritti dei perdenti come carta straccia, ricorda da vicino la storia della «fine delle ideologie». In realtà, a scomparire dai radar è stata solo l'ideologia socialista, con le sue varianti anarchica e comunista. Le altre, quella liberale, trasformata in liberismo e in «pensiero unico» è più viva che mai (anche se è più che mai un morto che cammina). E la dottrina della chiesa, trasformata in fondamentalismo cattolico («diritto alla vita» contro i diritti di chi vive), anche.
Per Marchionne, per la Marcegaglia e per molti altri che hanno frequentato il meeting di Comunione e liberazione la lotta di classe è un residuo di un passato da superare, così come lo è la conflittualità sindacale o la lotta «tra operai e padroni». Così si capisce meglio dove mirassero le tante polemiche fuori tempo massimo contro il '68 e la sua cultura distruttiva. Però, come giustamente ha fatto notare Adriano Sofri sulla sua piccola posta, la frase «basta lotta tra padroni e operai» prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone. In effetti per tutti costoro quello che è o va superato è la lotta degli operai contro i padroni, o dei lavoratori contro le imprese e i loro imprenditori, perché l'altra, quella dei padroni contro gli operai è in pieno corso e va a gonfie vele. Come altro si può intendere, infatti, la situazione di quelle migliaia di lavoratori lasciati sul lastrico da padroni, spesso bancarottieri, che si sono impossessati di un'impresa per distruggerla o ridimensionarla grazie ai meccanismi messi in campo dalla finanza internazionale? O le delocalizzazioni fatte per liberarsi di una manodopera troppo costosa? O la diffusione del lavoro precario che distrugge qualsiasi possibilità di costruirsi una vita e un futuro? O la tesi di Tremonti, secondo cui la normativa sulla sicurezza sul lavoro (L. 626) è ormai insostenibile per le imprese, nonostante le morti sul lavoro ufficialmente accertate siano più di mille all'anno, e altrettante, e forse più, siano non accertate, perché morti «bianche» provocate dal lavoro «nero»?
L'accondiscendenza politica e sindacale verso il primato assoluto dell'impresa - che è l'ideologia sottostante a queste prese di posizione - ha impregnato talmente il sentire comune che nell'affrontare questi temi i loro corifei non si rendono nemmeno più conto di quel che dicono. Sentite Marchionne al meeting di Rimini: «Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti». Pensa di parlare di tre degli operai che ha fatto licenziare per rappresaglia contro la Fiom, ma la stessa frase potrebbe essere letta in un altro modo. Quali sono «i diritti di pochi»? Non sono forse quelli dei padroni della fabbrica? O, meglio, degli azionisti di riferimento (gli altri sono «parco buoi») e dei manager che si sono scelti e che guadagnano, tutti quanti, milioni di euro all'anno: 3-400 volte di più dei «molti» che lavorano per loro. E chi sono quei «molti» i cui diritti vengono «piegati» dai «pochi»: quelli che un picchetto o un'assemblea in fabbrica ha magari dissuaso dal cedere al ricatto dell'azienda? O quelli «piegati» a dire di sì in un referendum sotto la minaccia di perdere per sempre il loro posto di lavoro? E ancora (è sempre Marchionne che parla): «La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Certo la dignità e i diritti di alcuni «tre», per esempio Marchionne, Elkann e Montezemolo, oppure Tremonti, Sacconi e la Sig.ra Marcegaglia, non sembrano messi in discussione. Ma che dire di migliaia di lavoratori posti di fronte al diktat di accettare condizioni di lavoro inaccettabili, contrarie alla loro dignità (ma si è mai vista la «pausa mensa» a fine turno, dopo otto ore di lavoro quasi senza pause? E perché non li si lascia andare a mangiare a casa loro? Perché siano pronti per il lavoro straordinario) e contrari ai loro diritti (quello, sacrosanto di garantirsi un brandello di vita familiare libera da turni e straordinari; o quello di scioperare). Questa storia della fine della lotta tra operai e padroni, con cui i vincenti di oggi si riempiono la bocca trattando i diritti dei perdenti come carta straccia, ricorda da vicino la storia della «fine delle ideologie». In realtà, a scomparire dai radar è stata solo l'ideologia socialista, con le sue varianti anarchica e comunista. Le altre, quella liberale, trasformata in liberismo e in «pensiero unico» è più viva che mai (anche se è più che mai un morto che cammina). E la dottrina della chiesa, trasformata in fondamentalismo cattolico («diritto alla vita» contro i diritti di chi vive), anche.
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