di Rossana Rossanda (Il Manifesto)
Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di
François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e
compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata,
anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui
tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di
rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano
malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli
Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o
Prodi o Amato.
D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare
Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente
contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare
realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese
acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli
stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta
con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono
tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale
Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal
quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si
ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà
accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi);
tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su
questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e
identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.
Quel che mi preme
è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è
disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e
il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e
il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto
antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di
quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la
tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta
porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore
del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino
che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una
forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva,
stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche
settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad
appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho
avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine
specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere
metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci
sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa
il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di
quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo
senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici
mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in
autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede
di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere.
Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare
pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare
mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la
sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti,
visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza
d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli
espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe
sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non
artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base
ripartire.
E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro
proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei
"tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la
sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano
proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una
situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni
dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in
forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra
queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su
un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra
sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta"
delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia
ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con
particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe
essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto
meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di
quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non
vogliono entrare in agonia.
E pur nelle difficoltà grandi in cui si
trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con
determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre
distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci
hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella
sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui
lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro
che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro
neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è
poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se
possibile meglio di Hollande e Melenchon - si tranquillizzi Joseph
Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.
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