12.5.12

E NOI?

 di Rossana Rossanda (Il Manifesto)

Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata, anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o Prodi o Amato.
D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi); tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.
Quel che mi preme è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva, stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere. Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti, visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base ripartire.
E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei "tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta" delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non vogliono entrare in agonia.
E pur nelle difficoltà grandi in cui si trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Melenchon - si tranquillizzi Joseph Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.

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