25.1.15

Piccole lezioni di Tsipras

Alessandro Gilioli (L'Espresso)

L’ho già detto e lo ripeto: non è che domani in Grecia inizia il radioso futuro del socialismo. Inizia semmai una sfida difficile e complicata. Che ritengo tuttavia da seguire in modo non neutrale: se non altro perché forse sta per nascere il primo governo europeo che non obbedisce alle ricette della Troika. Non è poca cosa, credo.

Nel frattempo, credo che la vittoria di Syriza possa mostrare due o tre cose.

Ad esempio, che la radicazione sociale ottenuta con il tempo e con la fatica non è affatto un dettaglio: anzi, è fondamentale. Secondo, che le pratiche personali e collettive sono condizioni igieniche di base, non solo per guardarsi allo specchio alla mattina ma anche per acquisire autorevolezza e consenso. Terzo, che il tormentone “si vince solo inseguendo il centro” è, o talvolta può essere, una sciocchezza totale.

Classe 1974, Alexis Tsipras inizia il suo percorso politico giovanile al fianco delle mummie della sinistra greca: nel Kke, il partito comunista ortodosso, già stalinista e comunque ancorato al marxismo-leninismo. Ma è un eretico e un movimentista, sicché se ne distacca presto per passare una formazione nuova nella galassia della sinistra locale, il Synaspismós, dove pure rappresenta l’ala più anticonformista e innovativa.

Nel 2001 cerca di venire in Italia, per il G8 di Genova, ma con i suoi compagni viene bloccato ad Ancona dalle nostre forze dell’ordine e rispedito ad Atene. Si rifarà due anni dopo, organizzando le proteste di piazza contro il Consiglio Europeo di Salonicco, che rappresentano un po’ l’atto di nascita della nuova sinistra in Grecia.

È così che nel 2006 Tsipras si lancia come candidato sindaco di Atene con una lista, Città aperta, che tenta di raccogliere le diverse anime della sinistra radicale in città: raccoglie un risultato record, oltre il 10 per cento, andando ogni giorno nei mercati e nei quartieri lontani dal centro a parlare di povertà, welfare, precarietà giovanile, ambiente, diritti delle donne.

È l’inizio di un percorso che lo porterà in pochi anni a rifondare tutta la sinistra greca, che come frazionismo e litigiosità non aveva nulla da invidiare alla nostra.

Puntando su obiettivi concreti, su diritti di base sempre più negati ai suoi connazionali, Tsipras riesce dal 2010 a fondere in Syriza le componenti più diverse, dai vetero-maoisti ai riformisti, dai neokeynesiani agli altermondialisti, dagli ecologisti ai trotskisti, giù giù fino al mondo dei movimenti e dell’associazionismo di base, perfino del nuovo mutualismo con cui nel suo Paese si cerca di far fronte alla crisi. Il tutto sulla base di un principio semplice ma dirompente: le ricette imposte dalla Troika servono solo ad aumentare la forbice sociale, a creare una piccola classe di super privilegiati e un’immensa classe di nuovi poveri.

La realtà, come noto, dà ragione a Tsipras, memorandum dopo memorandum.

In Grecia la classe media scompare o quasi, chiudono le scuole, gli ospedali mandano via chi sta male, gli ex colletti bianchi cercano cibo nei bidoni della spazzatura. Che cosa contano, di fronte a una realtà del genere, le vecchie identità ideologiche, le contrapposizioni personalistiche o di gruppo, i litigi che affondano le loro radici nelle dispute del secolo scorso? Niente – e Tsipras lo sa.

Così come sa che in politica non importa più solo quello che dici, ma anche quello che sei, cioè le tue pratiche personali: neanche i detrattori più accesi, ad esempio, ne mettono in dubbio l’onestà personale. E, al contrario di tanti altri leader politici della sinistra (anche italiana), Tsipras vive in una zona popolare e multietnica, non in un palazzo del centro storico. Da lì, ogni giorno, raggiunge il suo ufficio guidando una vecchia Skoda.

Questo tuttavia non basta, naturalmente, così come non basta la lotta contro la Troika. Ecco perché Tsipras fa di Syriza il primo partito che mette sul medesimo piano i diritti sociali e quelli civili: quindi nel suo programma ci sono allo stesso modo l’istruzione pubblica e il matrimonio gay, il controllo statale della banche e la depenalizzazione delle droghe, il salario sociale e la laicità dello Stato, la patrimoniale e il taglio delle spese militari, la tassazione delle rendite finanziarie e l’antirazzismo.

Il tutto, mescolato appunto con una robusta radicazione tra le persone: un lavoro intenso all’interno della collettività che crea legami molto forti con i ceti sacrificati dalla recessione, insomma consente a Syriza di proporsi come autentico soggetto sociale. I deputati di Tsipras escono dal Parlamento e vanno nelle case delle persone: se sono avvocati, offrono patrocinio gratuito ai lavoratori licenziati, alle famiglie sfrattate; se sono medici, aiutano nei centri di soccorso che tappano i buchi della sanità pubblica; oppure servono alle mense popolari o si arrampicano sui tralicci per riattaccare l’elettricità ai poveri a cui è stata tagliata.

In più, oltre ai programmi e alle pratiche, è anche una ‘rivoluzione cognitiva’ quella che Tsipras porta nella sinistra greca, cioè una mutazione di atteggiamento: rendendola un soggetto con ideali forti ma pragmatico, finalmente emancipato dal vecchio tic per cui «a sinistra ci si sentiva meglio nel perdere gloriosamente che nel vincere», come sintetizza l’intellettuale greco Costa Douzinas nel libro di Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli “Tsipras chi” (ah, leggetelo). Anche con imprudenza, se necessario: ad esempio scontrandosi con gli apparati del vecchio sindacato, rappresentativi ormai solo dei garantiti (sempre meno) e non della crescente marea di precari e disoccupati. O provando a rivolgersi anche a un elettorato tradizionalmente non di sinistra, come quello dei commercianti: pure loro impoveriti dalla crisi e soprattutto sempre più costretti a versare mazzette a questo o a quel politico di Nuova Democrazia e del Pasok.

Insomma: apertura mentale, movimentismo, innovazione, coraggio, utopia bilanciata dal pragmatismo.

Quello che qui non si è mai riusciti a fare: unirsi, cambiare nelle pratiche e nei linguaggi, uscire dal proprio recinto autoreferenziale e dalla propria ininfluenza, interpretando davvero il disagio dei ceti bassi e di quelli impoveriti dalla recessione.

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