Giuseppe Genna
E' dunque venuto il momento, per la cecità e sordità dei bot di
Zuckerberg, che si giunga a uno scontro tra il paradigma umanistico e
quello digitale "vuoto". Affrontiamo la questione dei diritti digitali e
delle visioni del mondo che sottendono comunità differenti: quella di
automi bluette e insenzienti tra cui non vige legame di amore, e quella
umana che professa l'amore come legge concreta e universale.
Il fatto
parrebbe di poco conto ed è qui brevemente riassunto. Da mesi accade
che il profilo Facebook dello scrittore Aldo Nove venga disabilitato per
decisioni incomprensibili da parte del centro esoterico del social
network, che Mark Zuckerberg nemmeno ha inventato. Per lo scontento
delle migliaia di utenti che seguono quotidianamente ciò che scrive un
umanista e intellettuale molto amato, quale è Aldo Nove, i suoi status
gli sono disappropriati, resi irraggiungibili, azzerati in un silenzio
gelido da refrigerazione dei server. Il fatto non è affatto di poco
conto, se si comprende che ciò che su tale Social Network impulsa
l'autore de La vita oscena: è la letteratura. L'evidente
movimento della lingua e dell'immaginario che Aldo Nove scandisce con
ritmo altalenante e ipnotico è praticamente identico al susseguirsi di
ritmi e immagini che impulsa la stessa poesia e, con essa, ogni genere
letterario. Chi non lo capisce è scemo.
Sono scemi infatti i bot di
Facebook. Probabilmente in base a segnalazioni scorrette di utenti e di
fake, preda delle neurosi da flame e da trolling che, ab initio,
contraddistingono le bacheche delle BBS, i forum digitali e i commenti
dei blog, gli algoritmi automatizzati e semiviventi di Zuckerberg, con
un pizzico di provincialismo tutto italiano, intervengono a censurare
automaticamente luoghi in cui la lingua si fa e l'umanista non può non
militare. Si scontrano in questo modo due sentimenti e visioni del mondo
opposti: da un lato l'algebra impazzita e dissociata (si legga anche:
dissociativa) dell'automatismo digitale; dall'altro l'algebra per nulla
impazzita, consapevole e autodiretta del poeta, che propone il nome e la
forma alla comunità umana in cui opera.
Si tratta di un emblema di
questi decenni stracciati, tempo di killeraggi silenziosi che faranno
fruttare killeraggi per nulla silenziosi. Si tratta di un processo
alienativo che porta l'umano a fare scorrere compulsivamente l'indice
sul touchscreen del device prediletto, lo sguardo stolido e incantato
che si svuota di presenza, una semitrance che uccide il potere della
noia e del "noi": uno scrolling potenzialmente infinito, in cui
incantarsi, per sostituire un'alienazione reale a un'alienazione
altrettanto reale - quella della routine con quella di un fantasma di
scelta.
Scegliere all'interno del recinto, costrutto con regole contraddittorie tra loro, è il fantasma del momento. Si tratta di un momento
geometrico, non temporale: è l'ampiezza di mondo in cui operano gli
artisti, hanno sempre operato, opereranno sempre. Si tratta dello spazio
immaginario che fa maturare il memorabile e lo stupore. La seminagione
linguistica e di immaginario che prosegue a realizzare uno scrittore
quale Aldo Nove è esattamente praticata in tale spazio. A questa
seminagione si oppone un agente antifecondativo e antiumano: è ciò che
l'emblema Zuckerberg rappresenta, per esempio, nelle scene iniziali di The Social Network, capolavoro cinematografico di David Fincher.
Se
si tenta il dialogo, si crolla in quel silenzio raggelato di cui sopra:
il Social Network non risponde. Esso, che impone leggi dissociate, è
fuori della legge. Principio di sovranità filosoficamente banale, che
sperava sin dagli esordi di essere praticato da ciò che è banale e dorme
insepolto nell'umano: la macchina.
A questo silenzio gelido,
emblematizzato da Facebook, gli scrittori hanno da rispondere con le
parole, i ritmi e le immagini che significano l'amore tra umani e senso.
Ora,
ci offriamo ai media che, terra di conquista per il robotico morituro
digitale, resta ancora parte di un comparto umanistico. Che si tratti
del Corriere della Sera o di Repubblica o de La Stampa o de l'Unità,
emblemi dei media, noi scrittori, emblemi dell'umanismo, ci rivolgiamo
al giornalismo per esplicare la battaglia per i diritti digitali. Se
l'appello non viene raccolto (ma dubito, poiché ancora costituiamo una
notizia e un diversivo: siamo divertenti), ci sposteremo in un
altro Social Network, magari Google+, che abbisogna di quota umanistica,
perché non funziona ancora in forza del fatto che è "freddo", come
testimoniano le ricerche di cui Big G è in possesso.
Come disse Franco Fortini nella sua Verifica dei poteri (1963,
con evidenza anno fatale per la letteratura italiana): "Abbiamo ancora
la testa fuori dell'acqua e siamo capaci di pensare". O, per dirla con
William S. Burroughs, a proposito di Jack Kerouac: "State attenti agli
scrittori, calcolate quanti jeans Levi's ha fatto vendere Jack".
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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10.5.13
19.2.09
Mutazione di retorica nello spettro del noir - Crime, un bilancio
Giuseppe Genna
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall'hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell'ordine, e le strategie dei nuovi serial tv
Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l'onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità. Tuttavia, per l'appunto, non è consigliabile fermarsi alle apparenze. Dal momento in cui si è imposto il genere nero, che soltanto in Italia veniva considerato di serie B, molte variabili sono mutate - essenzialmente quella sociale. Se la crime novel è passata (anche presso di noi) ai ranghi della letteratura lo deve all'opera di James Ellroy, che con il suo American Tabloid (Mondadori) ha mostrato, grazie a una lingua suprema, di quali e quante chiavi fosse dotato questo genere popolare. Istantaneo e spiazzante, il passaggio da hard boiled a romanzo epico, praticato da Ellroy, ha rappresentato un momento formativo per l'immaginario degli scrittori italiani, in ritardo su quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Grazie a quel libro si comprese finalmente quanto una crime novel fosse in grado di raccontare efficacemente la storia collettiva, quanto fosse in grado di storicizzare misteri, raccontare snodi della vicenda sociale di una nazione, utilizzare materiali controinformativi, iconizzare, rendere conto di un'intera cultura.
Per merito di Ellroy, autore anche di un'altra crime story titolata White Jazz, tutta la retorica letteraria, relegata nei Meridiani dedicati a Quintiliano, riprendeva vita e dinamismo psichico, anche avvantaggiandosi di una lingua evidentemente mutuata dalla poesia di Ginsberg. Era una fase in cui già si avvertiva l'incrinarsi di quanto l'industria culturale italiana aveva proiettato negli anni Ottanta come pacco regalo, qualcosa di cui, dal punto di vista della critica, pareva non fregare niente a nessuno: il legal thriller di Grisham e Scott Turow; il genere nero al femminile di Patricia Cornwell e Kathy Reichs; le spy story di John Le Carré e Robert Ludlum. E il meglio della narrativa di genere veniva relegato in poche nicchie. Jean-Claude Izzo con la sua quadrilogia marsigliese suscitava un culto che rimane letterariamente giustificabile, mentre non altrettanto si può dire dell'eterna furbizia narrativa di Manuel Vásquez Montalbán. In Italia gli autori che hanno dato corso a una qualche forma di sperimentazione lo hanno fatto, per lo più, allargando le gabbie di un genere che mal sopporta le gabbie. Il fenomeno Camilleri è eminentemente letterario ed è nato in quegli anni. E così il caso di Carlotto o di De Cataldo o dell'Evangelisti di Noi saremo tutto o di Biondillo o di Alan D. Altieri. La crime novel, in Italia, soprattutto grazie allo strepitoso Romanzo criminale di De Cataldo, ha compiuto una impresa che non è riuscita nel contesto politico né in quello sociale: storicizzare significa conoscere, sospettare in maniera adeguata e ambigua, però abbandonando il dramma stesso dell'ambiguità. Sono stati gli anni in cui la saggistica ha conosciuto un successo editoriale che non si registrava dai '60 - l'ansia di conoscere prevaleva sull'eventuale grado artistico dell'opera, che moltiplicava i suoi livelli di ricezione: da una parte se ne prendeva il divertimento derivato dalla soluzione di un racconto della morte, e in più la si faceva funzionare come una strategia accattivante per addivenire alla conoscenza dell'altro da noi. A distanza soltanto di qualche anno, quei testi appaiono depositati nella tradizione come testi letterari. E l'intero spettro del genere nero conosce una esplosione, quasi una forma di vaporizzazione del racconto criminale.
Quel che nasce dalla morbosità
La ragione è che lo spettacolo che ci circonda, con tutta la sua commistione di realtà e finzione, colpisce l'immaginario anzitutto grazie alla sua percentuale di morbosità. E nulla è più morboso dell'osservazione estranea della morte, come dimostrano le code che si formano in autostrada quando nell'altra carreggiata è avvenuto un incidente e gli automobilisti rallentano per spiare la morte. Tutta questa morbosità, che ci viene compulsivamente propinata attraverso qualunque medium, è oscenamente più splatter e abissalmente più nera di qualunque narrativa. La morte, il sospetto e l'indagine sono soggetti ideali per essere spettacolarizzati con quella particolare retorica offerta dalla crime novel. E così nasce l'esaltazione televisiva dei comparti repressivi e legalisti, insomma la fiction che produce l'elogio delle forze dell'ordine: squadre di poliziotti, carabinieri, preti insieme ai carabinieri, marescialli dei carabinieri, reparti di indagine scientifica, perfino la guardia di finanza. Una narrazione rassicurante per il citoyen.
Fuori dall'Italia accade lo stesso, ma per tutt'altri motivi. Se la retorica è cambiata lo si deve soprattutto ai nuovi serial tv americani. Questi, che prima si erano limitati a utilizzare elementi della letteratura nera, hanno elaborato una strategia autonoma, psichicamente assai potente, quasi convulsiva. Serie come 24 o Lost, per non parlare di opere di sapore shakespeariano come Damages, sviluppano un arco di eventi che porta ai suoi estremi la suspence. È un genere di retorica che sbilancia ogni equilibrio preesistente, implicando perfino il cinema: quell'arco voltaico sviluppato dai serial americani è molto più coinvolgente di un action movie o di un thriller da grande schermo, perché riesce a mettere più personaggi e più tempo a disposizione del suo pubblico, che ha così maggior agio nell'affezionarsi alla vicenda e più tempo per elaborare la perdita di un protagonista, mentre ne subentra uno nuovo. Il cinema reagisce con le trilogie (valga per tutte quella di Jason Bourne) o con i dissestamenti cronotopici (per esempio, Collateral di Michael Mann). Gli scrittori reagiscono invece allargando la plastilina della crime novel, per creare nuove forme ibride. Infatti, è ormai stato avviato un nuovo spettro europeo del genere nero. Manuel Manzano, in uscita per Kowalski con il suo esilarante Le incredibili disavventure di un autentico cacasotto, trasforma il noir in surrealtà, comica all'inverosimile. Serge Quadruppani, con Y, pubblicato da Marsilio, crea un cortocircuito tra locale e globale, tra vicenda esistenziale e complotto dei poteri occulti, con una lingua di clamorosa raffinatezza, modulando sarcasmo e detournément situazionista. L'erede designato di James Ellroy, l'inglese David Peace, già autore dello sconcertante Red Riding Quartet, va a utilizzare i suoi disturbi ossessivi compulsivi nel cuore del dopoguerra giapponese, in una trilogia iniziata con Tokyo Anno Zero (il Saggiatore). Ma la più impressionante delle mutazioni interne alla crime novel è di marca italiana: si tratta, ovviamente, di Gomorra di Roberto Saviano, nato come un testo letterario piuttosto che come una nonfiction, anche se è così che, per il momento, in molti continuano a percepirlo. Altro caso rilevante è Cinacittà di Tommaso Pincio (Einaudi Stile Libero), dove una struttura noir funziona per una mappatura relazionale e psichica del sé.
Negli Stati Uniti, che sono il punto focale e d'irradiazione del genere hard-boiled, il giallo sporcato di putridume morale e fisico sta mutando il suo genoma. Lì la strumentazione della crime novel è stata utilizzata senza tanti problemi da quella che da noi è catalogata come «letteratura alta»: basti pensare a Falconer di Cheever, a Libra di DeLillo, ad alcuni elementi portanti di Un uomo vero di Wolfe, al Lotto 49 di Pynchon. È che negli Stati Uniti la letteratura ha vissuto un'autentica stagione postmodernista, la cui radicalità risulta ignota alle nostre latitudini. Ne è una ulteriore dimostrazione il Guardiano del buio di George Pelecanos (appena pubblicato da Piemme), il cantore nero dell'ombra criminale di Washington D.C., il quale arriva a inserire tessere teologiche in un romanzo che è, probabilmente, è il suo più complesso e sofferto. Ma l'elemento più sorprendente, quello che testimonia meglio la vitalità del genere viene paradossalmente dal caso Ludlum. Robert Ludlum, infatti, è morto nel 2001, ma quest'anno è stato pubblicato a sua firma un nuovo romanzo titolato The Bourne Deception. Si dirà: certo, è l'uscita postuma di uno tra i tanti testi che giacevano nei cassetti dell'autore. Per nulla. Il fatto è che esiste una factory di eccellenti autori, organizzati e istruiti da Ludlum stesso quand'era in vita, che continuano a scrivere, con stile fedele all'originale, storie in grado di fare approdare la teoria cospirazionista di Ludlum a una sorta di epica a puntate. E non a caso: una tra le atout di questo genere narrativo, in Italia da sempre considerato paraletteratura, è che dorme in esso una chance epica, del tutto diversa da quella classica. In campo non c'è il rapporto con un dio, bensì con il mistero e con il destino. Inoltre, non c'è alcuna preoccupazione o autolimitazione stilistica, in questo genere. L'epica verso cui tende la crime novel contempla pressoché tutti i generi romanzeschi: dal comico allo psicologico all'esistenzialista al tragico. La crime novel, per sua natura, si fa forte di una spinta che non si preoccupa di attingere alla tradizione del romanzo, perché il suo compito è quello di mettere in crisi la realtà usando il mito della realtà. Ciò che è in questione non sta tanto nel raccontare un efferato omicidio, o l'arrivo di un ispettore, o la soluzione del caso: si tratta, piuttosto, di raccontare la morte, l'avvento di un messia, il superamento della morte stessa. Relegata tra i paria della letteratura insieme alla fantascienza, proprio insieme a questa (che vive una stagione calante) la crime novel incarna il massimalismo letterario allo stato potenziale. I suoi temi sono archetipici, le sue valenze sono profondamente allegoriche - a patto che gli autori che ne utilizzano la retorica siano adeguatamente avvertiti e le sappiano piegare in forme adeguate.
Per esplorare la condizione umana
Questa vocazione epica, con tutte le sue strumentazioni, viene evidenziata nel saggio letterario pop New Italian Epic, firmato da Wu Ming (Einaudi Stile Libero). Gran parte dei testi che vengono qui citati, per delineare un'instabile nebulosa epica, sono stati scritti da autori che hanno fatto esperienza del genere nero. Le tesi di Wu Ming possono essere osservate anche (ma non solo) da questa prospettiva: la crime novel ha permesso agli scrittori italiani di far fiorire una retorica tradotta in finzione e indirizzata alla collettività, con sguardi alternativi a quelli utilizzati in Italia prima di Tangentopoli: è una faglia storica che viene individuata come elemento di discontinuità rispetto a una deriva del romanzo psicologico e intimista, ma anche neoavanguardista. In questo spazio preciso, che riguarda tutti, Wu Ming pone la produzione di determinati romanzi, sfuggenti ai canoni della ristretta tradizione italiana. «La verità non sembra mai vera» scrisse Simenon nelle Memorie di Maigret - un'affermazione che poteva trovarsi in Omero o Eschilo. In quella differenza tra l'essere e il sembrare della verità, si pone quanto suona come incredibile e perturbante di una narrazione collettiva che ha nel thriller, nel noir, nell'hard-boiled e nella crime novel un passaggio aperto, per esplorare con rinnovata forza il regno umano sul pianeta.
ilmanifesto.it
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall'hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell'ordine, e le strategie dei nuovi serial tv
Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l'onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità. Tuttavia, per l'appunto, non è consigliabile fermarsi alle apparenze. Dal momento in cui si è imposto il genere nero, che soltanto in Italia veniva considerato di serie B, molte variabili sono mutate - essenzialmente quella sociale. Se la crime novel è passata (anche presso di noi) ai ranghi della letteratura lo deve all'opera di James Ellroy, che con il suo American Tabloid (Mondadori) ha mostrato, grazie a una lingua suprema, di quali e quante chiavi fosse dotato questo genere popolare. Istantaneo e spiazzante, il passaggio da hard boiled a romanzo epico, praticato da Ellroy, ha rappresentato un momento formativo per l'immaginario degli scrittori italiani, in ritardo su quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Grazie a quel libro si comprese finalmente quanto una crime novel fosse in grado di raccontare efficacemente la storia collettiva, quanto fosse in grado di storicizzare misteri, raccontare snodi della vicenda sociale di una nazione, utilizzare materiali controinformativi, iconizzare, rendere conto di un'intera cultura.
Per merito di Ellroy, autore anche di un'altra crime story titolata White Jazz, tutta la retorica letteraria, relegata nei Meridiani dedicati a Quintiliano, riprendeva vita e dinamismo psichico, anche avvantaggiandosi di una lingua evidentemente mutuata dalla poesia di Ginsberg. Era una fase in cui già si avvertiva l'incrinarsi di quanto l'industria culturale italiana aveva proiettato negli anni Ottanta come pacco regalo, qualcosa di cui, dal punto di vista della critica, pareva non fregare niente a nessuno: il legal thriller di Grisham e Scott Turow; il genere nero al femminile di Patricia Cornwell e Kathy Reichs; le spy story di John Le Carré e Robert Ludlum. E il meglio della narrativa di genere veniva relegato in poche nicchie. Jean-Claude Izzo con la sua quadrilogia marsigliese suscitava un culto che rimane letterariamente giustificabile, mentre non altrettanto si può dire dell'eterna furbizia narrativa di Manuel Vásquez Montalbán. In Italia gli autori che hanno dato corso a una qualche forma di sperimentazione lo hanno fatto, per lo più, allargando le gabbie di un genere che mal sopporta le gabbie. Il fenomeno Camilleri è eminentemente letterario ed è nato in quegli anni. E così il caso di Carlotto o di De Cataldo o dell'Evangelisti di Noi saremo tutto o di Biondillo o di Alan D. Altieri. La crime novel, in Italia, soprattutto grazie allo strepitoso Romanzo criminale di De Cataldo, ha compiuto una impresa che non è riuscita nel contesto politico né in quello sociale: storicizzare significa conoscere, sospettare in maniera adeguata e ambigua, però abbandonando il dramma stesso dell'ambiguità. Sono stati gli anni in cui la saggistica ha conosciuto un successo editoriale che non si registrava dai '60 - l'ansia di conoscere prevaleva sull'eventuale grado artistico dell'opera, che moltiplicava i suoi livelli di ricezione: da una parte se ne prendeva il divertimento derivato dalla soluzione di un racconto della morte, e in più la si faceva funzionare come una strategia accattivante per addivenire alla conoscenza dell'altro da noi. A distanza soltanto di qualche anno, quei testi appaiono depositati nella tradizione come testi letterari. E l'intero spettro del genere nero conosce una esplosione, quasi una forma di vaporizzazione del racconto criminale.
Quel che nasce dalla morbosità
La ragione è che lo spettacolo che ci circonda, con tutta la sua commistione di realtà e finzione, colpisce l'immaginario anzitutto grazie alla sua percentuale di morbosità. E nulla è più morboso dell'osservazione estranea della morte, come dimostrano le code che si formano in autostrada quando nell'altra carreggiata è avvenuto un incidente e gli automobilisti rallentano per spiare la morte. Tutta questa morbosità, che ci viene compulsivamente propinata attraverso qualunque medium, è oscenamente più splatter e abissalmente più nera di qualunque narrativa. La morte, il sospetto e l'indagine sono soggetti ideali per essere spettacolarizzati con quella particolare retorica offerta dalla crime novel. E così nasce l'esaltazione televisiva dei comparti repressivi e legalisti, insomma la fiction che produce l'elogio delle forze dell'ordine: squadre di poliziotti, carabinieri, preti insieme ai carabinieri, marescialli dei carabinieri, reparti di indagine scientifica, perfino la guardia di finanza. Una narrazione rassicurante per il citoyen.
Fuori dall'Italia accade lo stesso, ma per tutt'altri motivi. Se la retorica è cambiata lo si deve soprattutto ai nuovi serial tv americani. Questi, che prima si erano limitati a utilizzare elementi della letteratura nera, hanno elaborato una strategia autonoma, psichicamente assai potente, quasi convulsiva. Serie come 24 o Lost, per non parlare di opere di sapore shakespeariano come Damages, sviluppano un arco di eventi che porta ai suoi estremi la suspence. È un genere di retorica che sbilancia ogni equilibrio preesistente, implicando perfino il cinema: quell'arco voltaico sviluppato dai serial americani è molto più coinvolgente di un action movie o di un thriller da grande schermo, perché riesce a mettere più personaggi e più tempo a disposizione del suo pubblico, che ha così maggior agio nell'affezionarsi alla vicenda e più tempo per elaborare la perdita di un protagonista, mentre ne subentra uno nuovo. Il cinema reagisce con le trilogie (valga per tutte quella di Jason Bourne) o con i dissestamenti cronotopici (per esempio, Collateral di Michael Mann). Gli scrittori reagiscono invece allargando la plastilina della crime novel, per creare nuove forme ibride. Infatti, è ormai stato avviato un nuovo spettro europeo del genere nero. Manuel Manzano, in uscita per Kowalski con il suo esilarante Le incredibili disavventure di un autentico cacasotto, trasforma il noir in surrealtà, comica all'inverosimile. Serge Quadruppani, con Y, pubblicato da Marsilio, crea un cortocircuito tra locale e globale, tra vicenda esistenziale e complotto dei poteri occulti, con una lingua di clamorosa raffinatezza, modulando sarcasmo e detournément situazionista. L'erede designato di James Ellroy, l'inglese David Peace, già autore dello sconcertante Red Riding Quartet, va a utilizzare i suoi disturbi ossessivi compulsivi nel cuore del dopoguerra giapponese, in una trilogia iniziata con Tokyo Anno Zero (il Saggiatore). Ma la più impressionante delle mutazioni interne alla crime novel è di marca italiana: si tratta, ovviamente, di Gomorra di Roberto Saviano, nato come un testo letterario piuttosto che come una nonfiction, anche se è così che, per il momento, in molti continuano a percepirlo. Altro caso rilevante è Cinacittà di Tommaso Pincio (Einaudi Stile Libero), dove una struttura noir funziona per una mappatura relazionale e psichica del sé.
Negli Stati Uniti, che sono il punto focale e d'irradiazione del genere hard-boiled, il giallo sporcato di putridume morale e fisico sta mutando il suo genoma. Lì la strumentazione della crime novel è stata utilizzata senza tanti problemi da quella che da noi è catalogata come «letteratura alta»: basti pensare a Falconer di Cheever, a Libra di DeLillo, ad alcuni elementi portanti di Un uomo vero di Wolfe, al Lotto 49 di Pynchon. È che negli Stati Uniti la letteratura ha vissuto un'autentica stagione postmodernista, la cui radicalità risulta ignota alle nostre latitudini. Ne è una ulteriore dimostrazione il Guardiano del buio di George Pelecanos (appena pubblicato da Piemme), il cantore nero dell'ombra criminale di Washington D.C., il quale arriva a inserire tessere teologiche in un romanzo che è, probabilmente, è il suo più complesso e sofferto. Ma l'elemento più sorprendente, quello che testimonia meglio la vitalità del genere viene paradossalmente dal caso Ludlum. Robert Ludlum, infatti, è morto nel 2001, ma quest'anno è stato pubblicato a sua firma un nuovo romanzo titolato The Bourne Deception. Si dirà: certo, è l'uscita postuma di uno tra i tanti testi che giacevano nei cassetti dell'autore. Per nulla. Il fatto è che esiste una factory di eccellenti autori, organizzati e istruiti da Ludlum stesso quand'era in vita, che continuano a scrivere, con stile fedele all'originale, storie in grado di fare approdare la teoria cospirazionista di Ludlum a una sorta di epica a puntate. E non a caso: una tra le atout di questo genere narrativo, in Italia da sempre considerato paraletteratura, è che dorme in esso una chance epica, del tutto diversa da quella classica. In campo non c'è il rapporto con un dio, bensì con il mistero e con il destino. Inoltre, non c'è alcuna preoccupazione o autolimitazione stilistica, in questo genere. L'epica verso cui tende la crime novel contempla pressoché tutti i generi romanzeschi: dal comico allo psicologico all'esistenzialista al tragico. La crime novel, per sua natura, si fa forte di una spinta che non si preoccupa di attingere alla tradizione del romanzo, perché il suo compito è quello di mettere in crisi la realtà usando il mito della realtà. Ciò che è in questione non sta tanto nel raccontare un efferato omicidio, o l'arrivo di un ispettore, o la soluzione del caso: si tratta, piuttosto, di raccontare la morte, l'avvento di un messia, il superamento della morte stessa. Relegata tra i paria della letteratura insieme alla fantascienza, proprio insieme a questa (che vive una stagione calante) la crime novel incarna il massimalismo letterario allo stato potenziale. I suoi temi sono archetipici, le sue valenze sono profondamente allegoriche - a patto che gli autori che ne utilizzano la retorica siano adeguatamente avvertiti e le sappiano piegare in forme adeguate.
Per esplorare la condizione umana
Questa vocazione epica, con tutte le sue strumentazioni, viene evidenziata nel saggio letterario pop New Italian Epic, firmato da Wu Ming (Einaudi Stile Libero). Gran parte dei testi che vengono qui citati, per delineare un'instabile nebulosa epica, sono stati scritti da autori che hanno fatto esperienza del genere nero. Le tesi di Wu Ming possono essere osservate anche (ma non solo) da questa prospettiva: la crime novel ha permesso agli scrittori italiani di far fiorire una retorica tradotta in finzione e indirizzata alla collettività, con sguardi alternativi a quelli utilizzati in Italia prima di Tangentopoli: è una faglia storica che viene individuata come elemento di discontinuità rispetto a una deriva del romanzo psicologico e intimista, ma anche neoavanguardista. In questo spazio preciso, che riguarda tutti, Wu Ming pone la produzione di determinati romanzi, sfuggenti ai canoni della ristretta tradizione italiana. «La verità non sembra mai vera» scrisse Simenon nelle Memorie di Maigret - un'affermazione che poteva trovarsi in Omero o Eschilo. In quella differenza tra l'essere e il sembrare della verità, si pone quanto suona come incredibile e perturbante di una narrazione collettiva che ha nel thriller, nel noir, nell'hard-boiled e nella crime novel un passaggio aperto, per esplorare con rinnovata forza il regno umano sul pianeta.
ilmanifesto.it
11.1.09
Spettri Italiani
Tommaso Pincio
«L'Italia è il paese che amo»: così, con solenne e televisiva semplicità, il nostro attuale premier si dichiarò alla nazione. Era il 26 gennaio 1994, nessuno osava allora immaginare quanti e quali frutti sarebbero nati dall'idillio tra un magnate della comunicazione e un paese di miracoli e miracolati. I malevoli ritengono che sia disceso in campo per salvare se stesso e le sue aziende; il diretto interessato sostiene che in cima ai pensieri avesse lo spettro di una nazione in mano a forze illiberali, i famigerati comunisti. Comunque sia, in quel famoso discorso registrato su videocassetta e trasmesso a reti quasi unificate, disse che l'Italia «giustamente diffida di profeti e salvatori». Eppure è proprio così che si è proposto, ed è proprio così che una cospicua fetta d'italiani lo ha accolto. In questo, che gli piaccia o no, ha qualcosa in comune con Mussolini. La grande campagna antimalarica con la quale si promise la bonifica integrale delle Paludi Pontine fu uno dei capisaldi della propaganda fascista e servì a presentare il duce come il «grande medico» della nazione. Similmente, Berlusconi si è annunciato come il rimedio definitivo all'annosa piaga della politica senza mestiere, tutta malaffare e chiacchiere incomprensibili.
Tesi storiche divergenti
Che un popolo tra i più individualisti e scettici del pianeta prediliga leader taumaturghi è un paradosso di non poco conto, e infatti, molto tempo addietro, qualcuno si pose il problema: «Abbiamo fatto l'Italia. Ora si tratta di fare gli Italiani». Il guaio è che gli italiani furono fatti ben prima di quella mera «espressione geografica» che, secondo Metternich, sarebbe l'Italia. È opinione diffusa tra gli storici che la nostra nascita in quanto popolo risalga al 476 dopo Cristo, quando Odoacre depose Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d'Occidente. Un po' come dire che gli italiani sono figli dei «secoli bui», un minestra a base di barbari e romani cotto a fuoco letto nel calderone della chiesa. Da secoli ci si interroga sulle cause che portarono all' apocalittico evento della caduta di Roma. La vecchia tesi che orde di barbari feroci e bellicosi abbiano invaso un impero ormai infiacchito mettendolo a ferro fuoco è stata col tempo screditata, lasciando strada a un'ipotesi per così dire più morbida. Non ci sarebbe stata nessuna caduta, bensì una transizione più o meno pacifica che ha portato i popoli germanici a insediarsi nei terrori romani dando inizio a una nuova fase.
Lo storico Bryan Ward-Perkins contesta simili revisioni, dicendosi persuaso che «l'avvento delle genti germaniche arrecò grandi sofferenze alla popolazione romana». In un suo recente saggio, La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, trad. Mario Carpitella, pp. 293, euro 19,50) dimostra che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici». A suo dire l'enorme quantità di testimonianze archeologiche non si accorda affatto con la nuova ortodossia dell'indolore e lenta trasformazione. Il crollo dell'impero non fu soltanto accompagnato da violenze, determinò anche un decadimento complessivo delle condizioni economiche, sociali e culturali.
La nuova e, a quanto pare, infondata immagine degli invasori quali pacifici immigranti, confezionata perlopiù da studiosi americani e nord-europei, si spiega con un mutamento di prospettiva. Ai tempi della minaccia nazista era naturale che gli invasori del V secolo fossero considerati in una luce negativa. Terminato il secondo conflitto mondiale, l'atteggiamento nei riguardi dei tedeschi si è a poco a poco ammorbidito, e con esso il giudizio sui barbari. Va inoltre considerato che il cammino verso l'unificazione europea necessitava di forti radici comuni, difficili da scovare nel tumultuoso passato del nostro continente. L'impero romano da solo, nonostante il suo splendore, non può essere l'antenato giusto, in quanto emarginerebbe i paesi germanici e scandinavi. Si comprende allora perché un progetto di ricerca della European Science Foundation sul periodo delle invasioni barbariche abbia per titolo «La trasformazione del mondo romano».
Diversamente dall'Europa settentrionale, l'Italia è rimasta orfana dell'antichità. Lo spettro dello straniero invasore l'ha infestata fino a epoche recentissime, facendone la terra dei rinascimenti e dei risorgimenti, il paese dove, malgrado tutto, sempre si reitera il miracolo della resurrezione. Miracoli che talvolta non riuscivano granché bene - come nel caso del fascismo, che proprio sul recupero della grandezza di Roma imbastì la sua retorica - e ai quali bisogna porre rimedio con nuove rinascite fatte di resistenze e ricostruzioni. Salvo poi rimpiangerli, però, i miracoli.
«Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa» constatava Pasolini nei suoi Scritti corsari, «è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra» quando il nostro era un «paese meraviglioso» nel quale «ci si poteva sentire eroi del mutamento e delle novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati». Nondimeno rilevava una continuità tra il ventennio fascista e l'era democristiana fondata «sul caos morale ed economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull'emarginazione dell'Italia dai luoghi per dove passa la storia»; parole che evocavano una decadenza barbarica.
Di geniale semplicità appare dunque il fantastorico contesto descritto da Enrico Brizzi nel suo ultimo romanzo, L'inattesa piega degli eventi (Baldini Castoldi Dalai, pp. 518, euro 19,50). L'Italia ha perso il suo Duce, ma non lo ha appeso a testa in giù a Piazzale Loreto per martoriarne il cadavere: lo piange commossa nel giorno del suo funerale, il 5 maggio 1960. In questa Italia uscita vittoriosa dal secondo conflitto mondiale e ormai completamente «laica e littorica», Lorenzo Pellegrini, giovane cronista sportivo, paga a caro prezzo un'inopportuna relazione. L'amante tradita cospira affinché venga spedito nel continente nero per seguire le ultime giornate della Serie Africa costringendolo a rinunciare alle Olimpiadi di Roma. L'esilio punitivo si rivela però un'esperienza fondamentale per il giornalista. Le squadre del regime, composte soltanto da giocatori bianchi e sfacciatamente favorite dagli arbitri, si scontrano con le formazioni sgangherate e multietniche che antifascisti al confino e popolazioni indigene hanno eletto a simbolo del loro riscatto. In gioco, sui campi alla periferia dell'impero, c'è qualcosa di più che la vittoria di semplici partite. Persino Lorenzo Pellegrini si vede costretto ridestarsi dallo scanzonato disimpegno nel quale si crogiola da anni e a prendere posizione.
Con questo libro Brizzi ci ha finalmente regalato un romanzo degno di tal nome sul nostro sport nazionale. Ma non solo. La sua Italia, quantunque ucronica, è affatto credibile e non molto diversa, in fondo, da quella reale e democristiana che gli anni Sessanta hanno consegnato alla storia. È inoltre assai somigliante alla seconda repubblica di oggi, l'avvilente Italia dei calciatori e delle veline nella quale, ahinoi, ci troviamo a vivere. «Un luogo che ho disimparato ad amare» la definisce Giuseppe Genna in Italia De Profundis (minimumfax, pp. 348, euro 15). La frase suona quasi come un ideale antipode alla dichiarazione del nostro premier e campeggia solitaria con lapidaria amarezza nella quarta di copertina di un libro che, per contro, è una furiosa esondazione di parole. Parole che trasmutano in immagini e racconti, racconti che diventano invettive, invettive che generano dolore e degenerano in deliri da cui scaturisce una fatale mescolanza di fatti e finzioni. Il tutto tra centinaia di altre parole che restano solo parole e che si avvinghiando tra loro in un gorgo di tenebre, sottraendo il libro a qualunque definizione di comodo.
Una malattia orizzontale
L'editore lo presenta come un romanzo, ma è evidente che l'oggetto in questione è di natura più complessa e rischiosa. Volendo parafrasare ancora chi ci governa lo si potrebbe definire una discesa in forma di autofiction. Non in campo, beninteso, ma agli inferi. Tuttavia non basta. Raccontando di sé e delle sue disgrazie, Genna dà vita a una materia oscura, una sorta di grumo osceno in grado di divorare qualunque cosa e diventare quel che divora. È una metastasi della caduta quella che lo scrittore allestisce: non per nulla apre il libro con la lancinante cronaca del ritrovamento del corpo di suo padre, malato di cancro e morto d'infarto nella notte di capodanno. La caduta di cui si parla non è dunque un movimento dall'alto verso il basso. Non è uno scendere e nemmeno un precipitare, ma una condizione orizzontale, una malattia che si espande nutrendosi della propria carne putrescente. Insieme a Genna cade l'Italia intera, insieme all'Italia cade Genna: stabilire se sia stato l'uno o altra a innescare la rovina è impossibile. I due corpi coincidono e si compenetrano, diventano una sola entità. «L'Italia, in questo momento, è la punta di diamante del mondo sviluppato» si legge nel libro; lo è perché qui, nel nostro paese, quel processo che lo scrittore chiama «autoespropriazione dell'umano», ovvero la malattia occidentale, si compie più velocemente che altrove rendendoci il popolo «più alienato del pianeta».
Ecco allora che Genna si autorappresenta in situazioni estreme quali un'eutanasia o un esperimento con l'eroina. Il gioco non consiste nel capire se e quanto queste sue storie rispondano al vero, giacché in esse è chiaramente percepibile una sorta di istinto alla deformazione allegorica. Forse sono vere o forse no, ma non importa. Certo è che sembrano fare il verso a scene note della letteratura, a luoghi già letti, quasi che il Genna scrittore si serva del Genna uomo come una sorta di stuntman per interpretare una serie di violente cadute, schianti apocalittici e tragicomici. Ma il paradosso più sublime di Italia De Profundis è che nel suo corsaro furore, in bilico tra acume e delirio, spietatezza e compassione, il Belpaese diventa un avamposto del tracollo occidentale e dunque un viatico per il futuro, un faro per l'evo oscuro che seguirà all'ennesima caduta dell'impero. Fermo restando, ovviamente, che stavolta i barbari siamo noi.
ilmanifesto.it
«L'Italia è il paese che amo»: così, con solenne e televisiva semplicità, il nostro attuale premier si dichiarò alla nazione. Era il 26 gennaio 1994, nessuno osava allora immaginare quanti e quali frutti sarebbero nati dall'idillio tra un magnate della comunicazione e un paese di miracoli e miracolati. I malevoli ritengono che sia disceso in campo per salvare se stesso e le sue aziende; il diretto interessato sostiene che in cima ai pensieri avesse lo spettro di una nazione in mano a forze illiberali, i famigerati comunisti. Comunque sia, in quel famoso discorso registrato su videocassetta e trasmesso a reti quasi unificate, disse che l'Italia «giustamente diffida di profeti e salvatori». Eppure è proprio così che si è proposto, ed è proprio così che una cospicua fetta d'italiani lo ha accolto. In questo, che gli piaccia o no, ha qualcosa in comune con Mussolini. La grande campagna antimalarica con la quale si promise la bonifica integrale delle Paludi Pontine fu uno dei capisaldi della propaganda fascista e servì a presentare il duce come il «grande medico» della nazione. Similmente, Berlusconi si è annunciato come il rimedio definitivo all'annosa piaga della politica senza mestiere, tutta malaffare e chiacchiere incomprensibili.
Tesi storiche divergenti
Che un popolo tra i più individualisti e scettici del pianeta prediliga leader taumaturghi è un paradosso di non poco conto, e infatti, molto tempo addietro, qualcuno si pose il problema: «Abbiamo fatto l'Italia. Ora si tratta di fare gli Italiani». Il guaio è che gli italiani furono fatti ben prima di quella mera «espressione geografica» che, secondo Metternich, sarebbe l'Italia. È opinione diffusa tra gli storici che la nostra nascita in quanto popolo risalga al 476 dopo Cristo, quando Odoacre depose Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d'Occidente. Un po' come dire che gli italiani sono figli dei «secoli bui», un minestra a base di barbari e romani cotto a fuoco letto nel calderone della chiesa. Da secoli ci si interroga sulle cause che portarono all' apocalittico evento della caduta di Roma. La vecchia tesi che orde di barbari feroci e bellicosi abbiano invaso un impero ormai infiacchito mettendolo a ferro fuoco è stata col tempo screditata, lasciando strada a un'ipotesi per così dire più morbida. Non ci sarebbe stata nessuna caduta, bensì una transizione più o meno pacifica che ha portato i popoli germanici a insediarsi nei terrori romani dando inizio a una nuova fase.
Lo storico Bryan Ward-Perkins contesta simili revisioni, dicendosi persuaso che «l'avvento delle genti germaniche arrecò grandi sofferenze alla popolazione romana». In un suo recente saggio, La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, trad. Mario Carpitella, pp. 293, euro 19,50) dimostra che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici». A suo dire l'enorme quantità di testimonianze archeologiche non si accorda affatto con la nuova ortodossia dell'indolore e lenta trasformazione. Il crollo dell'impero non fu soltanto accompagnato da violenze, determinò anche un decadimento complessivo delle condizioni economiche, sociali e culturali.
La nuova e, a quanto pare, infondata immagine degli invasori quali pacifici immigranti, confezionata perlopiù da studiosi americani e nord-europei, si spiega con un mutamento di prospettiva. Ai tempi della minaccia nazista era naturale che gli invasori del V secolo fossero considerati in una luce negativa. Terminato il secondo conflitto mondiale, l'atteggiamento nei riguardi dei tedeschi si è a poco a poco ammorbidito, e con esso il giudizio sui barbari. Va inoltre considerato che il cammino verso l'unificazione europea necessitava di forti radici comuni, difficili da scovare nel tumultuoso passato del nostro continente. L'impero romano da solo, nonostante il suo splendore, non può essere l'antenato giusto, in quanto emarginerebbe i paesi germanici e scandinavi. Si comprende allora perché un progetto di ricerca della European Science Foundation sul periodo delle invasioni barbariche abbia per titolo «La trasformazione del mondo romano».
Diversamente dall'Europa settentrionale, l'Italia è rimasta orfana dell'antichità. Lo spettro dello straniero invasore l'ha infestata fino a epoche recentissime, facendone la terra dei rinascimenti e dei risorgimenti, il paese dove, malgrado tutto, sempre si reitera il miracolo della resurrezione. Miracoli che talvolta non riuscivano granché bene - come nel caso del fascismo, che proprio sul recupero della grandezza di Roma imbastì la sua retorica - e ai quali bisogna porre rimedio con nuove rinascite fatte di resistenze e ricostruzioni. Salvo poi rimpiangerli, però, i miracoli.
«Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa» constatava Pasolini nei suoi Scritti corsari, «è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra» quando il nostro era un «paese meraviglioso» nel quale «ci si poteva sentire eroi del mutamento e delle novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati». Nondimeno rilevava una continuità tra il ventennio fascista e l'era democristiana fondata «sul caos morale ed economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull'emarginazione dell'Italia dai luoghi per dove passa la storia»; parole che evocavano una decadenza barbarica.
Di geniale semplicità appare dunque il fantastorico contesto descritto da Enrico Brizzi nel suo ultimo romanzo, L'inattesa piega degli eventi (Baldini Castoldi Dalai, pp. 518, euro 19,50). L'Italia ha perso il suo Duce, ma non lo ha appeso a testa in giù a Piazzale Loreto per martoriarne il cadavere: lo piange commossa nel giorno del suo funerale, il 5 maggio 1960. In questa Italia uscita vittoriosa dal secondo conflitto mondiale e ormai completamente «laica e littorica», Lorenzo Pellegrini, giovane cronista sportivo, paga a caro prezzo un'inopportuna relazione. L'amante tradita cospira affinché venga spedito nel continente nero per seguire le ultime giornate della Serie Africa costringendolo a rinunciare alle Olimpiadi di Roma. L'esilio punitivo si rivela però un'esperienza fondamentale per il giornalista. Le squadre del regime, composte soltanto da giocatori bianchi e sfacciatamente favorite dagli arbitri, si scontrano con le formazioni sgangherate e multietniche che antifascisti al confino e popolazioni indigene hanno eletto a simbolo del loro riscatto. In gioco, sui campi alla periferia dell'impero, c'è qualcosa di più che la vittoria di semplici partite. Persino Lorenzo Pellegrini si vede costretto ridestarsi dallo scanzonato disimpegno nel quale si crogiola da anni e a prendere posizione.
Con questo libro Brizzi ci ha finalmente regalato un romanzo degno di tal nome sul nostro sport nazionale. Ma non solo. La sua Italia, quantunque ucronica, è affatto credibile e non molto diversa, in fondo, da quella reale e democristiana che gli anni Sessanta hanno consegnato alla storia. È inoltre assai somigliante alla seconda repubblica di oggi, l'avvilente Italia dei calciatori e delle veline nella quale, ahinoi, ci troviamo a vivere. «Un luogo che ho disimparato ad amare» la definisce Giuseppe Genna in Italia De Profundis (minimumfax, pp. 348, euro 15). La frase suona quasi come un ideale antipode alla dichiarazione del nostro premier e campeggia solitaria con lapidaria amarezza nella quarta di copertina di un libro che, per contro, è una furiosa esondazione di parole. Parole che trasmutano in immagini e racconti, racconti che diventano invettive, invettive che generano dolore e degenerano in deliri da cui scaturisce una fatale mescolanza di fatti e finzioni. Il tutto tra centinaia di altre parole che restano solo parole e che si avvinghiando tra loro in un gorgo di tenebre, sottraendo il libro a qualunque definizione di comodo.
Una malattia orizzontale
L'editore lo presenta come un romanzo, ma è evidente che l'oggetto in questione è di natura più complessa e rischiosa. Volendo parafrasare ancora chi ci governa lo si potrebbe definire una discesa in forma di autofiction. Non in campo, beninteso, ma agli inferi. Tuttavia non basta. Raccontando di sé e delle sue disgrazie, Genna dà vita a una materia oscura, una sorta di grumo osceno in grado di divorare qualunque cosa e diventare quel che divora. È una metastasi della caduta quella che lo scrittore allestisce: non per nulla apre il libro con la lancinante cronaca del ritrovamento del corpo di suo padre, malato di cancro e morto d'infarto nella notte di capodanno. La caduta di cui si parla non è dunque un movimento dall'alto verso il basso. Non è uno scendere e nemmeno un precipitare, ma una condizione orizzontale, una malattia che si espande nutrendosi della propria carne putrescente. Insieme a Genna cade l'Italia intera, insieme all'Italia cade Genna: stabilire se sia stato l'uno o altra a innescare la rovina è impossibile. I due corpi coincidono e si compenetrano, diventano una sola entità. «L'Italia, in questo momento, è la punta di diamante del mondo sviluppato» si legge nel libro; lo è perché qui, nel nostro paese, quel processo che lo scrittore chiama «autoespropriazione dell'umano», ovvero la malattia occidentale, si compie più velocemente che altrove rendendoci il popolo «più alienato del pianeta».
Ecco allora che Genna si autorappresenta in situazioni estreme quali un'eutanasia o un esperimento con l'eroina. Il gioco non consiste nel capire se e quanto queste sue storie rispondano al vero, giacché in esse è chiaramente percepibile una sorta di istinto alla deformazione allegorica. Forse sono vere o forse no, ma non importa. Certo è che sembrano fare il verso a scene note della letteratura, a luoghi già letti, quasi che il Genna scrittore si serva del Genna uomo come una sorta di stuntman per interpretare una serie di violente cadute, schianti apocalittici e tragicomici. Ma il paradosso più sublime di Italia De Profundis è che nel suo corsaro furore, in bilico tra acume e delirio, spietatezza e compassione, il Belpaese diventa un avamposto del tracollo occidentale e dunque un viatico per il futuro, un faro per l'evo oscuro che seguirà all'ennesima caduta dell'impero. Fermo restando, ovviamente, che stavolta i barbari siamo noi.
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