Giuseppe Genna
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall'hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell'ordine, e le strategie dei nuovi serial tv
Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l'onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità. Tuttavia, per l'appunto, non è consigliabile fermarsi alle apparenze. Dal momento in cui si è imposto il genere nero, che soltanto in Italia veniva considerato di serie B, molte variabili sono mutate - essenzialmente quella sociale. Se la crime novel è passata (anche presso di noi) ai ranghi della letteratura lo deve all'opera di James Ellroy, che con il suo American Tabloid (Mondadori) ha mostrato, grazie a una lingua suprema, di quali e quante chiavi fosse dotato questo genere popolare. Istantaneo e spiazzante, il passaggio da hard boiled a romanzo epico, praticato da Ellroy, ha rappresentato un momento formativo per l'immaginario degli scrittori italiani, in ritardo su quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Grazie a quel libro si comprese finalmente quanto una crime novel fosse in grado di raccontare efficacemente la storia collettiva, quanto fosse in grado di storicizzare misteri, raccontare snodi della vicenda sociale di una nazione, utilizzare materiali controinformativi, iconizzare, rendere conto di un'intera cultura.
Per merito di Ellroy, autore anche di un'altra crime story titolata White Jazz, tutta la retorica letteraria, relegata nei Meridiani dedicati a Quintiliano, riprendeva vita e dinamismo psichico, anche avvantaggiandosi di una lingua evidentemente mutuata dalla poesia di Ginsberg. Era una fase in cui già si avvertiva l'incrinarsi di quanto l'industria culturale italiana aveva proiettato negli anni Ottanta come pacco regalo, qualcosa di cui, dal punto di vista della critica, pareva non fregare niente a nessuno: il legal thriller di Grisham e Scott Turow; il genere nero al femminile di Patricia Cornwell e Kathy Reichs; le spy story di John Le Carré e Robert Ludlum. E il meglio della narrativa di genere veniva relegato in poche nicchie. Jean-Claude Izzo con la sua quadrilogia marsigliese suscitava un culto che rimane letterariamente giustificabile, mentre non altrettanto si può dire dell'eterna furbizia narrativa di Manuel Vásquez Montalbán. In Italia gli autori che hanno dato corso a una qualche forma di sperimentazione lo hanno fatto, per lo più, allargando le gabbie di un genere che mal sopporta le gabbie. Il fenomeno Camilleri è eminentemente letterario ed è nato in quegli anni. E così il caso di Carlotto o di De Cataldo o dell'Evangelisti di Noi saremo tutto o di Biondillo o di Alan D. Altieri. La crime novel, in Italia, soprattutto grazie allo strepitoso Romanzo criminale di De Cataldo, ha compiuto una impresa che non è riuscita nel contesto politico né in quello sociale: storicizzare significa conoscere, sospettare in maniera adeguata e ambigua, però abbandonando il dramma stesso dell'ambiguità. Sono stati gli anni in cui la saggistica ha conosciuto un successo editoriale che non si registrava dai '60 - l'ansia di conoscere prevaleva sull'eventuale grado artistico dell'opera, che moltiplicava i suoi livelli di ricezione: da una parte se ne prendeva il divertimento derivato dalla soluzione di un racconto della morte, e in più la si faceva funzionare come una strategia accattivante per addivenire alla conoscenza dell'altro da noi. A distanza soltanto di qualche anno, quei testi appaiono depositati nella tradizione come testi letterari. E l'intero spettro del genere nero conosce una esplosione, quasi una forma di vaporizzazione del racconto criminale.
Quel che nasce dalla morbosità
La ragione è che lo spettacolo che ci circonda, con tutta la sua commistione di realtà e finzione, colpisce l'immaginario anzitutto grazie alla sua percentuale di morbosità. E nulla è più morboso dell'osservazione estranea della morte, come dimostrano le code che si formano in autostrada quando nell'altra carreggiata è avvenuto un incidente e gli automobilisti rallentano per spiare la morte. Tutta questa morbosità, che ci viene compulsivamente propinata attraverso qualunque medium, è oscenamente più splatter e abissalmente più nera di qualunque narrativa. La morte, il sospetto e l'indagine sono soggetti ideali per essere spettacolarizzati con quella particolare retorica offerta dalla crime novel. E così nasce l'esaltazione televisiva dei comparti repressivi e legalisti, insomma la fiction che produce l'elogio delle forze dell'ordine: squadre di poliziotti, carabinieri, preti insieme ai carabinieri, marescialli dei carabinieri, reparti di indagine scientifica, perfino la guardia di finanza. Una narrazione rassicurante per il citoyen.
Fuori dall'Italia accade lo stesso, ma per tutt'altri motivi. Se la retorica è cambiata lo si deve soprattutto ai nuovi serial tv americani. Questi, che prima si erano limitati a utilizzare elementi della letteratura nera, hanno elaborato una strategia autonoma, psichicamente assai potente, quasi convulsiva. Serie come 24 o Lost, per non parlare di opere di sapore shakespeariano come Damages, sviluppano un arco di eventi che porta ai suoi estremi la suspence. È un genere di retorica che sbilancia ogni equilibrio preesistente, implicando perfino il cinema: quell'arco voltaico sviluppato dai serial americani è molto più coinvolgente di un action movie o di un thriller da grande schermo, perché riesce a mettere più personaggi e più tempo a disposizione del suo pubblico, che ha così maggior agio nell'affezionarsi alla vicenda e più tempo per elaborare la perdita di un protagonista, mentre ne subentra uno nuovo. Il cinema reagisce con le trilogie (valga per tutte quella di Jason Bourne) o con i dissestamenti cronotopici (per esempio, Collateral di Michael Mann). Gli scrittori reagiscono invece allargando la plastilina della crime novel, per creare nuove forme ibride. Infatti, è ormai stato avviato un nuovo spettro europeo del genere nero. Manuel Manzano, in uscita per Kowalski con il suo esilarante Le incredibili disavventure di un autentico cacasotto, trasforma il noir in surrealtà, comica all'inverosimile. Serge Quadruppani, con Y, pubblicato da Marsilio, crea un cortocircuito tra locale e globale, tra vicenda esistenziale e complotto dei poteri occulti, con una lingua di clamorosa raffinatezza, modulando sarcasmo e detournément situazionista. L'erede designato di James Ellroy, l'inglese David Peace, già autore dello sconcertante Red Riding Quartet, va a utilizzare i suoi disturbi ossessivi compulsivi nel cuore del dopoguerra giapponese, in una trilogia iniziata con Tokyo Anno Zero (il Saggiatore). Ma la più impressionante delle mutazioni interne alla crime novel è di marca italiana: si tratta, ovviamente, di Gomorra di Roberto Saviano, nato come un testo letterario piuttosto che come una nonfiction, anche se è così che, per il momento, in molti continuano a percepirlo. Altro caso rilevante è Cinacittà di Tommaso Pincio (Einaudi Stile Libero), dove una struttura noir funziona per una mappatura relazionale e psichica del sé.
Negli Stati Uniti, che sono il punto focale e d'irradiazione del genere hard-boiled, il giallo sporcato di putridume morale e fisico sta mutando il suo genoma. Lì la strumentazione della crime novel è stata utilizzata senza tanti problemi da quella che da noi è catalogata come «letteratura alta»: basti pensare a Falconer di Cheever, a Libra di DeLillo, ad alcuni elementi portanti di Un uomo vero di Wolfe, al Lotto 49 di Pynchon. È che negli Stati Uniti la letteratura ha vissuto un'autentica stagione postmodernista, la cui radicalità risulta ignota alle nostre latitudini. Ne è una ulteriore dimostrazione il Guardiano del buio di George Pelecanos (appena pubblicato da Piemme), il cantore nero dell'ombra criminale di Washington D.C., il quale arriva a inserire tessere teologiche in un romanzo che è, probabilmente, è il suo più complesso e sofferto. Ma l'elemento più sorprendente, quello che testimonia meglio la vitalità del genere viene paradossalmente dal caso Ludlum. Robert Ludlum, infatti, è morto nel 2001, ma quest'anno è stato pubblicato a sua firma un nuovo romanzo titolato The Bourne Deception. Si dirà: certo, è l'uscita postuma di uno tra i tanti testi che giacevano nei cassetti dell'autore. Per nulla. Il fatto è che esiste una factory di eccellenti autori, organizzati e istruiti da Ludlum stesso quand'era in vita, che continuano a scrivere, con stile fedele all'originale, storie in grado di fare approdare la teoria cospirazionista di Ludlum a una sorta di epica a puntate. E non a caso: una tra le atout di questo genere narrativo, in Italia da sempre considerato paraletteratura, è che dorme in esso una chance epica, del tutto diversa da quella classica. In campo non c'è il rapporto con un dio, bensì con il mistero e con il destino. Inoltre, non c'è alcuna preoccupazione o autolimitazione stilistica, in questo genere. L'epica verso cui tende la crime novel contempla pressoché tutti i generi romanzeschi: dal comico allo psicologico all'esistenzialista al tragico. La crime novel, per sua natura, si fa forte di una spinta che non si preoccupa di attingere alla tradizione del romanzo, perché il suo compito è quello di mettere in crisi la realtà usando il mito della realtà. Ciò che è in questione non sta tanto nel raccontare un efferato omicidio, o l'arrivo di un ispettore, o la soluzione del caso: si tratta, piuttosto, di raccontare la morte, l'avvento di un messia, il superamento della morte stessa. Relegata tra i paria della letteratura insieme alla fantascienza, proprio insieme a questa (che vive una stagione calante) la crime novel incarna il massimalismo letterario allo stato potenziale. I suoi temi sono archetipici, le sue valenze sono profondamente allegoriche - a patto che gli autori che ne utilizzano la retorica siano adeguatamente avvertiti e le sappiano piegare in forme adeguate.
Per esplorare la condizione umana
Questa vocazione epica, con tutte le sue strumentazioni, viene evidenziata nel saggio letterario pop New Italian Epic, firmato da Wu Ming (Einaudi Stile Libero). Gran parte dei testi che vengono qui citati, per delineare un'instabile nebulosa epica, sono stati scritti da autori che hanno fatto esperienza del genere nero. Le tesi di Wu Ming possono essere osservate anche (ma non solo) da questa prospettiva: la crime novel ha permesso agli scrittori italiani di far fiorire una retorica tradotta in finzione e indirizzata alla collettività, con sguardi alternativi a quelli utilizzati in Italia prima di Tangentopoli: è una faglia storica che viene individuata come elemento di discontinuità rispetto a una deriva del romanzo psicologico e intimista, ma anche neoavanguardista. In questo spazio preciso, che riguarda tutti, Wu Ming pone la produzione di determinati romanzi, sfuggenti ai canoni della ristretta tradizione italiana. «La verità non sembra mai vera» scrisse Simenon nelle Memorie di Maigret - un'affermazione che poteva trovarsi in Omero o Eschilo. In quella differenza tra l'essere e il sembrare della verità, si pone quanto suona come incredibile e perturbante di una narrazione collettiva che ha nel thriller, nel noir, nell'hard-boiled e nella crime novel un passaggio aperto, per esplorare con rinnovata forza il regno umano sul pianeta.
ilmanifesto.it
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