13.9.07

Quelle dispute attorno al divenire della critica al capitalismo

Percorsi di ricerca che si intersecano per poi divaricarsi all'interno di quella «crisi del marxismo» tratteggiata da Louis Althusser. Da una parte una teoria sulla «contigenza», dall'altra la continuità tra vita e politica
Roberto Ciccarelli

Ci sono dispute intellettuali che non sono mai cominciate. Quella che Alain Badiou, filosofo, drammaturgo e matematico, professore emerito alla Normale di Parigi avrebbe desiderato avere con Gilles Deleuze è una di queste. Questa strana categoria dell'incontro mancato, lo scrivere con qualcuno senza che questo qualcuno abbia mai manifestato un desiderio in tal senso, è diventata teoria, e rivendicazione di un rapporto esclusivo da parte di Badiou, ne Il clamore dell'Essere (tradotto da Einaudi nel 2004), un libro tanto smilzo, quanto provocatorio, pubblicato nel 1997. In quelle pagine Badiou ha rivelato che Deleuze, con il quale aveva intrattenuto un epistolario, arrivò nel 1994 a distruggere tutte le lettere che gli aveva scritto, proibendogli ogni pubblicazione (promessa solo in parte mantenuta). Quel forte gesto simbolico riassumeva molte cose: un taglio netto con chi nei primi anni Settanta lo aveva definito «fascista» per la sua filosofia «anarco-desiderante» (che oggi Badiou ammette, per sua e nostra fortuna, che non rappresenta affatto Deleuze). Un'accusa infantile che Deleuze a sua volta tacciò di «suicidio intellettuale».
Un corsivo di commiato
Alla fine degli anni Ottanta Badiou si rese conto che la sua ricerca convergeva con quella di Deleuze. Entrambe rifiutavano le retoriche sulla «fine della filosofia»; si battevano contro i golpisti viennesi che avevano preso il potere nelle università americane introducendovi il credo della filosofia analitica; entrambe erano «fedeli» al marxismo.
Timide, al limite della freddezza, furono le risposte di Deleuze: prima un biglietto per un volume di Badiou nel 1982 (Théorie du Sujet) al quale Badiou rispose con una lunga recensione al libro di Deleuze su Leibniz nel 1989. Poi un segnale più deciso nell'ultimo libro scritto nel 1991 con Félix Guattari Che cos'è la filosofia?. In un corsivo si legge che nel pensiero di Badiou c'è un tentativo di restaurare l'anacronistico primato della filosofia sulla scienza, di restaurare la partizione dell'«Essere» secondo l'«Uno» e il «Molteplice», quando invece l'«Essere» si dice in un solo e medesimo senso, quello delle molteplicità e delle singolarità.
La ricerca delle fonti
Instancabile, anche se con moderata sensibilità auto-critica, Badiou ha continuato a coltivare negli anni successivi un confronto che il suo interlocutore gli ha negato in vita, in particolare sulla teoria delle molteplicità e sull'interpretazione del pensiero matematico. Lo testimonia questa antologia di scritti edita da Ombre Corte.
Tutto parte dalla critica che Badiou muove agli «allievi» di Deleuze, accusandoli di non avere mai preso sul serio, e indagato a fondo, le sue fonti: Spinoza, Nietzsche, Bergson, e Whitehead. Curioso, poi, constatare che l'unico che dice di averlo fatto sia lo stesso Badiou il quale, dopo un'analisi sommaria e liquidatoria, ha concluso che in realtà tutti questi autori non hanno fatto altro che rafforzare il platonismo di Deleuze. È questa la tesi che non tardò a suo tempo a sollevare l'indignazione generale. Colui che ha attribuito alla filosofia il compito di «rovesciare il platonismo», un platonico? Per Badiou, Deleuze era proprio un platonico inconsapevole.
Il tono polemico con cui Badiou ha risposto alla critiche della sue tesi sul platonismo di Deleuze non è dettato solo dal fastidio di non avere rispettato la filologia dei tesiti deleuziani. Nel suo caso, infatti, non si tratta solo di una vanità ferita. Il merito della contesa è il giudizio sulla politica di Deleuze.
Oggi si può dire che Deleuze sia stato l'unico teorico novecentesco a pensare la politica al di là del binomio rappresentanza-rappresentazione, quel vincolo teologico-politico che ha incatenato la modernità davanti all'alternativa Schmitt o Kelsen: da una parte il decisionismo, dall'altra parte il normativismo. Badiou ha abbracciato il paradigma decisionista, declinando Schmitt con Lenin per arrivare ad una teoria della «contingenza» politica. Quando Badiou sostiene che in Deleuze manca una «teoria» della politica che vada oltre la mera analisi del capitalismo ha ragione e torto insieme. Ragione perché l'analisi del capitalismo non genera automaticamente una teoria della politica, casomai una critica dell'economia politica, che è altra cosa, anche se certo non estranea ad essa. Torto perché, se teoria della politica deve esistere, non è detto che sia improntata sempre al decisionismo.
A Badiou sfugge infatti il fatto che Deleuze abbia tentato la decostruzione di tutti i presupposti teologici, occasionalistici e generalmente metafisici sui quali si è retta una parte cospicua della teoria politica novecentesca. E va detto che la critica del potere e l'analisi del «divenire minoritario» delle lotte rappresentano quanto di meglio tra gli anni Settanta e gli anni Novanta è stato prodotto in sede di teoria della politica dopo la crisi del marxismo (quella per intendersi descritta da Louis Althusser) e, più in generale, dell'idea di «soggetto» politico antagonista.
Il presente inafferrabile
Sebbene la tesi del Plato Redivivus resista caparbia nel corso dei sette articoli raccolti in questa antologia, non è detto che Badiou non abbia tuttavia avvertito l'esigenza di una nuova interrogazione del pensiero deleuziano alla luce della necessità di coniugare la singolarità politica con una nuova definizione dell'universale rispettoso delle differenze.
Su questo punto Badiou centra il bersaglio e raccoglie in tre massime ciò che Deleuze dice al nostro presente: eludere il controllo (massima negativa), credere nel mondo (massima soggettiva), partecipare agli eventi (massima creativa). Che significa: il nuovo non ha il sapore dell'antico, ma si produce nella vita, nei concetti, negli affetti. Quale migliore viatico etico-politico per una politica immobile. Basterebbe poco a fare un gioco diverso da quello dominante, piuttosto che continuare ad ingrossare i Pantheon di partito ed evocare «culture politiche» che non ci sono. Ogni epoca ha il suo gusto. La nostra, quello necrofilo.
ilmanifesto.it

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