L'era digitale crea un nuovo conflitto di classe. Molto simile a quello del '900. Ma ora la rivoluzione si fa con un clic. Colloquio con Mckenzie Wark
di Francesca Gantes
C'erano una volta capitalisti e operai, protagonisti del conflitto di classe. Oggi, nell'era digitale, l'asse della lotta si è spostato tra i "lavoratori cognitivi" e i "vettorialisti", ovvero coloro che producono informazioni nel mondo dei nuovi media contro coloro che detengono il monopolio dei mezzi di produzione delle informazioni.
L'australiano McKenzie Wark, 43 anni, studioso dei media e docente alla New School University di New York, analizza i termini del nuovo conflitto sociale in "Un manifesto hacker" (Feltrinelli, pp. 184, 11 euro, in libreria dal 28 aprile), unendo alla rilettura di Marx il pensiero libertario che ha accompagnato lo sviluppo di Internet. Wark per definire i lavori cognitivi parla di "classe hacker", intendendo però qualcosa di profondamente diverso dai "pirati informatici" con cui vengono spesso identificati gli hacker.
Professor Wark, chi è per lei un hacker?
«Chiunque produca nuove informazioni è un hacker. Non importa che si occupi di musica o chimica, di romanzi o di programmi per computer: tutti questi sono modi di "performare un hack"».
Cioè?
«Cioè trarre nuove informazioni da dati non elaborati, astrarre conoscenza, liberare il virtuale nell'attuale: questo significa "hackerare". Gli hacker sono quelli che astraggono nuovi mondi».
Che cosa intende con astrazione?
«L'astrazione è tutto ciò intorno a cui ruota il mondo moderno. Significa mettere insieme e portare sullo stesso piano elementi diversi per realizzare il loro potenziale. La comunicazione è il principale agente dell'astrazione perché mette in contatto differenti parti del mondo, dando origine a nuovi tipi di lavoro, di mercato, di cultura, di politica. La modernità è un biglietto di sola andata. Il mondo che stiamo costruendo diventa sempre più astratto».
Tutti coloro che lavorano con l'astrazione, i lavoratori cognitivi, per lei dunque sono hacker. Questo significa anche che formano una nuova classe sociale?
«Gli hacker sono già una classe in sé, anche se non per sé, volendo utilizzare i termini di Sartre. Ci sono molti progetti che esprimono, in vari modi, l'esistenza di un interesse comune per gli hacker: per esempio il movimento per il software libero; la licenza Creative Commons; l'ascesa dei blog e di tutte le forme di file sharing cioè di condivisione di informazioni di varia natura; enciclopedie aperte come Wikipedia; il Progetto Genoma Umano, nella misura in cui gli scienziati sono attivamente coinvolti e interessati a rendere di pubblico dominio i risultati delle loro ricerche, o ancora il movimento per la diffusione dei farmaci generici nei paesi in via di sviluppo. Molti non riescono ancora a vedere i legami tra queste differenti cose. Sono tutte una medesima lotta: quella per superare la forma proprietaria dell'informazione. E tutte le lotte contro la proprietà sono lotte di classe».
Quindi gli hacker sono una classe, anche se con uno scarso livello di consapevolezza, perché lottano contro la proprietà?
«Ciò che definisce e instaura la classe hacker è effettivamente l'imporsi di una nuova forma di proprietà, la proprietà intellettuale, al di fuori dalle rovine dei vecchi diritti sociali dei brevetti e del copyright, e della volontà di combatterla. Se in passato brevetti e copyright riuscivano a trovare un equilibrio tra la proprietà privata e i beni d'uso sociale, la proprietà intellettuale è proprietà privata tout court perché mette la conoscenza, la cultura e la scienza, che sono prodotti collettivi della civiltà, nelle mani di pochi».
Chi sono questi pochi?
«La proprietà intellettuale tutela i produttori, gli autori delle nuove informazioni solo in apparenza: in realtà protegge gli interessi di una nuova classe di proprietari che chiamo "classe vettoriale"».
Che cos'è?
«Definisco vettoriale la nuova classe che ha rimpiazzato il capitale come classe dominante perché possiede i vettori lungo i quali l'informazione viene veicolata e i mezzi con i quali viene prodotta e archiviata. In Italia, Berlusconi è l'esempio più evidente dell'ascesa di questa nuova classe. Che, tuttavia, non include solo le grandi corporation dei media, della tecnologia e dei farmaci: man mano tutte le imprese stanno diventando vettoriali, tutte cioè cercano sempre più di estendere il loro controllo non solo e non tanto alla produzione, ma anche ai marchi registrati, ai brevetti, al copyright, per non parlare dei "segreti aziendali". Questo significa che la classe vettoriale sta sì creando nuove strutture aziendali, ma anche prendendo dall'interno il controllo delle vecchie imprese». Dunque è in corso un nuovo conflitto di classe tra hacker e padroni dell'informazione?
«Sì, io parlo di hacker e classe vettoriale, inventando una nuova terminologia, per identificare il nuovo asse del conflitto di classe, che in passato ha avuto due diverse declinazioni. Il primo asse era quello dei contadini contro gli allevatori; il secondo quello degli operai contro i capitalisti. Le classi produttrici lottano contro le classi espropriatrici. Come contadini e operai lottavano rispettivamente contro allevatori e capitalisti, ora gli hacker lottano contro i vettorialisti».
Che cosa devono fare gli hacker per avere la meglio sulla classe vettoriale?
«Si tratta di realizzare che la privatizzazione dell'informazione non fa parte dei nostri interessi a lungo termine. La proprietà intellettuale come proprietà privata è un vantaggio solo per chi possiede i mezzi per guadagnarci sopra, cioè per la classe vettoriale. Come produttori di nuove informazioni tendiamo a focalizzarci su ciò che produciamo e sul desiderio di avere qualcosa in cambio. Tendiamo a dimenticare che non realizziamo mai niente di assolutamente nuovo. Dipendiamo sempre dalle creazioni di altri. Il lavoro degli hacker è sempre sociale, sempre collettivo. Privatizzare l'informazione quindi, quando la si considera dal punto di vista collettivo, non ci conviene: significa continuare a pagare, sempre di più, le poche corporation che detengono il materiale grezzo su cui lavoriamo».
Che cosa si deve fare allora per liberare l'informazione?
«Dal punto di vista della proprietà, l'informazione è molto diversa dalla terra o dal capitale, perché non conosce scarsità. Se io possiedo delle informazioni, il fatto di possederle non ne priva gli altri. Cosa che non succede per esempio con una sigaretta: se io la fumo, gli altri non possono fumarla. In questo senso, la questione non è come possiamo liberare l'informazione, perché tale libertà è ontologica, fa parte della sua stessa natura. Il problema riguarda la straordinaria capacità che la classe vettoriale ha di mercificare l'informazione: stanno provando con ogni mezzo, legale e tecnologico. Bisogna contrastare questa tendenza. L'informazione vuole essere libera, ma è in catene ovunque. L'antidoto è il file sharing, cioè la condivisione di tutte le informazioni, che è il vero, nuovo movimento sociale, perché mette in pratica la vera natura della cultura che è da sempre basata sul dono, sulla condivisione e non è una merce come vorrebbero i vettorialisti».
Gli hacker devono allearsi con gli altri lavoratori?
«Questa è la grande questione, ed è proprio qui che entrano in gioco fenomeni come il file sharing. Come ho detto, si tratta in tutto e per tutto di un movimento sociale, tranne che nel nome. La gente continua a scaricare musica, film, ricerche scientifiche, testi letterari, manuali di istruzioni. Ora si tratta di capire come formare alleanze attraverso la creazione tecnologica e culturale di una comunità. Gli hacker devono raggiungere la consapevolezza che il loro interesse risiede nella libera circolazione dell'informazione e non nella sua mercificazione. È è la questione centrale per l'avanguardia, sia nell'arte sia nella politica».
Che tipo di politica favorisce la liberazione dell'informazione?
«Non credo a una politica a di resistenza e negazione, ma di creazione e invenzione di nuove pratiche collettive di cultura, conoscenza e scienza. Si tratta di incoraggiare la fuga dall'economia basata sulla mercificazione dell'informazione, di rivedere il vecchio rapporto tra dono e merce sulla base del nuovo concetto di informazione come dono. Inoltre, si tratta di acquisire una volta per tutte la consapevolezza che la creazione del nuovo è sempre sociale, collettiva».
Lei crede che questo sia possibile?
«Sì, credo che sia possibile. Io sono stanco della resistenza. Ciò che mi interessa sono quei movimenti che creano nuove possibilità, che reinventano la speranza».
espressonline.it
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