il doppio respiro di Elias Canetti
Ricorre lunedì il centenario della nascita del grande scrittore di origine svizzera. Della sua opera resta la visione d'insieme sulla società del suo tempo, ma anche la capacità del frammento
Michele Cometa
Vi sono autori che non hanno bisogno di anniversari per essere ricordati. Autori la cui opera ci ha investito ad un certo momento e continua ad investirci, quotidianamente, autori che sanno rinnovare la meraviglia, la sorpresa di questo incontro senza che si debba ricorrere a ricostituenti simbolici come gli anniversari. Questo vale per i singoli lettori ma anche per intere culture.
Così è per Elias Canetti di cui festeggiamo il centenario della nascita il 25 luglio. In Italia Canetti non ha mai avuto bisogno di occasioni esteriori. In fondo è presente tra noi, a livelli diversissimi, da alcuni decenni. Almeno da quanto, nel lontano 1967, Luciano e Bianca Zagari traducevano Die Blendung (1935) con il titolo Auto da fè per Garzanti. Da quel momento la presenza di Canetti è stata costante e ha raggiunto lettori diversissimi tra loro. Da quelli interessati alle ricostruzioni ideologiche della modernità cui Furio Jesi regalò la lettura del poderoso Massa e potere (1960) apparso nel 1972 da Rizzoli, ai cultori, spesso un po' troppo entusiasti, della gioiosa apocalissi viennese introdotta da Claudio Magris e alimentata da legioni di germanisti, filosofi e storici dell'arte; agli studiosi di Kafka le cui lettere a Felice Canetti aveva così simpateticamente commemorato. E ancora: ai semplici lettori di autobiografie che, a partire da La lingua salvata (1981) con cui Adelphi inizia la sua ancora inesausta attività di traduzione, hanno trovato in quest'autore dalle mille lingue una delle forme più alte della coscienza mitteleuropea.
Alla casa editrice Adelphi, spalleggiata sapientemente da Bompiani, si deve del resto la costante presenza di Canetti nella cultura italiana. Ai grandi affreschi autobiografici - che hanno fortemente impregnato l'immagine che l'Italia si è fatta di quella straordinaria stagione che è stata il fin de siécle austriaco - Adelphi ha saputo infatti legare la costante presenza delle Aufzeichnungen (anch'esse più o meno intrise di autobiografia), gli appunti sparsi, ma tutti rigorosamente "pensati" dall'autore, che costituiscono il basso continuo della sua produzione intellettuale. Produzione che ha saputo declinare, come poche nel Novecento appena trascorso, il doppio respiro del grande affresco filosofico e sociale - si pensi a Massa e potere o ai saggi su Hitler e sulla cultura austriaca - e dell'aforisma tagliente ed apodittico, contratto in una smorfia che a fatica si lascia decifrare: potrebbe essere un sorriso, un ghigno, una smorfia di dolore.
Questo "doppio talento" di Canetti ha fatto sì che venisse letto dagli specialisti di cultura tedesca ed austriaca - laddove non va dimenticata la dimensione "svizzera" di questo autore e il melting pot delle sue origini linguistiche - ma anche dai non specialisti che in lui hanno trovato il grande respiro epico della narrazione autobiografica e biografica (indimenticabili sono le caratteristiche di Broch, Kafka, Büchner o Kraus), ma anche la provvisoria consolazione che la scrittura aforistica sa concedere nel momento del pericolo. Già, perché Canetti è scrittore che non perde mai di vista i pericoli esterni della storia e la precarietà intima dell'esistenza. Come Karl Kraus, il suo modello per tutta una vita, l'aforisma, il frammento, la sentenza arguta ed amara sono infatti la torsione tutta soggettiva di un quadro che è invece oggettivo ed epocale. Negli interstizi tra i frammenti che continuamo a leggere avidamente riluce infatti la brutalità della grande storia, l'affresco di cui noi sappiamo cogliere solo un confuso riflesso.
Per questo autori come Canetti ci accompagnano e ci consolano costantemente. In lui scorgiamo quella profondità di prospettiva che è stata data a pochi nel secolo scorso. Non si dimentichi che la sua opera affonda le radici in un tempo lontanissimo da noi e in autori che ormai consideriamo classici.
In occasione del conferimento del premio Nobel nel 1981 Canetti ce ne ha fatto un elenco: Kafka, Kraus, Musil e Broch. Il primo è anche per lui un maestro lontano nel tempo ma vicinissimo nella lingua, anzi nelle lingue. Per gli altri si tratta di uomini che ebbe la fortuna di frequentare e di conoscere intimamente. A Canetti è toccato appunto in sorte di farli giungere sino a noi, alle soglie del ventunesimo secolo. Canetti è stato l'estremo messaggero di quel mondo, un messaggero che è giunto sino a noi portando con sé - come il messo kafkiano - un testo che dobbiamo ancora interpretare. Attraverso Canetti si propaga fino a noi una forma di letteratura di cui percepiamo, insieme alla crucialità storica e sociale, tutto il contenuto immemoriale. Come Borges, infatti, Canetti sapeva che nella letteratura si trasmette certamente una cultura, ma anche qualcosa di più.
Non è un caso del resto che tutti gli appunti - forse l'opera che più di ogni altra ci può restituire la fisionomia precipua di questo scrittore-antropologo, di questo filosofo-storico - siano solo la teatrale messinscena di un conflitto: quello tra oblio e memoria, tra storia e finzione, in fin dei conti tra catastrofe e redenzione: «Bellissima - ha scritto Canetti nel 1974 - è la rianimazione del passato: essendo dimenticato da tanto tempo, adesso il passato diventa più vero. Si può continuamente dimenticarlo di nuovo, si può intensificare la verità?».
Appare chiaro che proprio colui a cui è stato dato il dono della testimonianza ha lavorato tutta la vita per ricordarci che non solo la memoria è legittimo strumento della storia e della cultura, ma anche l'oblio, che riattiva la fantasia. La letteratura è stata per Canetti la forma di una relazione, quella tra ricordo e dimenticanza. Per questo è stata la sua forma, nonostante egli stesso abbia amato pensarsi come un antropologo o un etnologo.
Significativo è il suo confrontarsi, in alcuni frammenti dei primi anni Cinquanta, con un "doppio", un "gemello" come Cesare Pavese. Con lui ha condiviso la passione per l'antropologia, come Pavese ha interpretato la sua missione di scrittore come etnografia, come intreccio, appunto, di riti contemporanei e miti immemoriali. Citiamo questa affinità elettiva non per compiaciuto sciovinismo: di questi "fratelli", di queste "controfigure" Canetti si è nutrito per la sua scrittura. La ricerca del "doppio" è stata certamente una delle forze segrete che gli ha consentito di creare un'ampia cartografia mitteleuropea che mette insieme Kafka e Pavese, Kraus a Blake. Un pensiero mimetico che ci rende indispensabile la sua testimonianza. Non è raro trovare tra i frammenti delle vere e proprie caratteristiche esaustive, delle fisionomie sintetiche che ci dicono tutto di alcuni personaggi del Novecento. Indimenticabile è, ad esempio, quella del mitologo Lévi-Strauss di cui Canetti riconosce i tratti profondamente wagneriani. Né mancano autoritratti non meno impietosi. Come quell'uomo che «decide di ergersi un Pantheon fatto di cose dimenticate». Si tratta di uno strano intellettuale che ricostruisce la storia dell'uomo sostituendo ai grandi poeti i nomi di quelli minori, alle grandi religioni i culti ormai tramontati, ai simulacri degli dèi il kitsch raccolto in "bugigattoli e letamai", alle lingue di cultura gerghi marginali. La sua controfigura più riuscita.
liberazione.it
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