Il Rapporto del Censis sulla comunicazione in Italia
Negli ultimi 4 anni 5 milioni in più di utenti Internet e arrivano a 40 milioni quelli dei telefonini. La stampa e la televisione tengono senza colpo ferire, ma c'è un 12% di italiani che ha un computer, una connessione e ... non ha la minima idea di come utilizzarli.
Sono 11 milioni gli italiani che navigano su Internet, 5 milioni in più di quattro anni fa. E anche nelle case, a quanto pare, la crescita tecnologica si è fatta sentire. Infatti, il 55,4 % delle abitazioni italiane ha in dotazione un computer, quindi in una casa su due la rivoluzione informatica ha fatto il suo dovere. Non è però tutto oro quel che luccica. Se l'11% delle famiglie computerizzate non ha alcuna connessione ad Internet, c'è un 12% che la connessione ce l'ha, ma non sa proprio come usarla. Non stiamo parlando del 12% sul 55% degli aventi computer. Stiamo parlando del 12% degli italiani (sono praticamente il doppio).
Quindi, riassumendo i dati del Censis, tra le famiglie una su due ha un computer in casa, una su dieci non ha nessuna connessione a Internet e più di una su dieci ha computer e connessione, ma sono soldi buttati, perché il computer rimane lì spento e la connessione non viene utilizzata.
Solo il 32,4% utilizza il computer per navigare (e tra questi, scommettiamo, che non tutti utilizzano la banda larga).
Il Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione in Italia non riguarda solo la Rete e i computer.
I dati sui cellulari e sui metodi "classici" (come la televisione o la carta stampata) sono i seguenti: gli italiani che guardano la tv "normale" sono 49 milioni, quelli che hanno la tv satellitare sono 8 milioni, tre milioni di utenti per il digitale terrestre e un milione di nostri concittadini sta invece sperimentando la televisione via web.
Numeri paragonabili solo alla diffusione dei telefonini, che negli ultimi quattro anni sono raddoppiati, raggiungendo praticamente i 40 milioni.
La stampa a quanto pare non soffre molto della crescita esorbitante di comunicazione con le nuove tecnologie. In barba alle previsioni catastrofiche, la perdita dal 2001 a oggi è stata solo di 1,8 milioni.
I lettori abituali di quotidiani hanno avuto una flessione minima, rimanendo intorno ai 20 milioni, mentre i lettori casuali sono diminuiti molto.
Secondo il rapporto Censis questi dati indicano "l'insostituibilità" di stampa e media.
Se da una parte questo è vero, perché i livelli di intrattenimento raggiunti dalla televisione sono ancora lontani e perché l'abitudine alla stampa è molto consolidata, dall'altra questi dati indicano che il processo di tecnologicizzazione dell'Italia è ancora indietro.
Sono pochi gli italiani che utilizzano il computer con una connessione veloce per leggere le notizie, ricevere Feed RSS e utilizzare tutte le nuove funzionalità che questo strumento offre.
Per quanto il settore web sia migliorato, siamo ancora indietro rispetto a quello che è l'utilizzo del resto dell'Unione europea e del mondo occidentalizzato.
Siamo un Paese che rasenta livelli di analfabetismo digitale piuttosto pesanti, quindi, prima di tracciare le sorti dei media, aspettiamo di raggiungere almeno un livello di diffusione sufficiente.
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30.10.05
25.10.05
Con Bret Easton Ellis tra colpa e paura
HORROR PASTICHE
Materia di incubi LO SCRITTORE AMERICANO diventato celebre con American Psycho presenta il suo ultimo romanzo, Lunar Park. Del protagonista della sua storia di spettri dice: «Ho visto coi miei occhi la figura di Patrick sovrapporsi inesorabilmente a quella di Bret Easton Ellis. Quando morirò, i nostri nomi rimarranno accoppiati per sempre»
EMANUELE TREVI
Gli incubi, sembra volerci avvertire Bret Easton Ellis fin dalle prime pagine di Lunar Park (appena uscito da Einaudi per l'ottima traduzione di Giuseppe Culicchia, pp.336, euro 18,00) non finiscono mai. Più di ogni altra forma di attività onirica, manifestano quella che Roger Caillois, in un saggio memorabile, definiva l'incertezza dei sogni. Con sollievo, pensiamo di esserci risvegliati, di avere imboccato l'uscita giusta per ritornare al nostro consueto piano di realtà - e invece, questo finto «risveglio» è solo uno dei tanti trucchi dell'incubo, forse il più inquietante e doloroso. E se i libri, se certi libri sono intessuti della stessa materia degli incubi, allora la parola fine, che leggiamo nell'ultima pagina non è altro che un'illusione, un esorcismo troppo debole per risultare, alla lunga, efficace. Così, la prima notizia che ci viene da Lunar Park è che, a circa quindici anni da American Psycho Patrick Bateman, il serial killer che si aggirava tra le ombre di New York con i suoi completi di Armani chiazzati del sangue delle vittime, è ancora tra noi. Altro che simbolo di un'epoca - i ruggenti anni `80 con tutti i loro feticci griffati e la loro oscura, inconfessabile sete di violenza impastata all'avidità economica e al culto dei simboli del benessere. Con quel libro, lo scrittore non ancora trentenne (e già celebre per Meno di zero e Le regole dell'attrazione) aveva visto aumentare vertiginosamente il suo prestigio e i suoi guadagni, vantaggi abituali di ogni scandalo letterario che si rispetti, capace di trasformare anche la più violenta stroncatura in un potente alleato del marketing. Ma quando American Psycho arrivò in Italia, ancora puzzolente di zolfo e in una traduzione inadeguata, fu abbastanza facile, per molti di noi, accorgersi che, ben più potente del rumore giornalistico di fondo, in quelle pagine vibrava la qualità inconfondibile del capolavoro.
Il successo mondano e i reali meriti artistici sono due cose inconciliabili solo agli occhi prevenuti degli sciocchi e dei moralisti. In realtà, ci spiega Ellis in Lunar Park, si tratta di due maniere diverse di indicare quei vantaggi illusori che in ogni fiaba si ottengono infrangendo un interdetto, e che poi, da vantaggi che erano, si trasformano in autentiche maledizioni. Come un incauto apprendista stregone, Ellis, dando forma a Patrick Bateman, aveva evocato uno spettro troppo pericoloso, illudendosi di poterlo ammansire, esorcizzare tramite una semplice convenzione letteraria: un romanzo di successo. È questa colpa che il nuovo romanzo si incarica di descrivere in tutte le sue conseguenze: ed è abbastanza naturale, in fin dei conti, che il ritorno indesiderato di uno spettro emerso dalle pagine di un libro sia raccontato ricorrendo a un geniale pastiche di tutte le convenzioni dell'horror, dalla casa infestata all'innocuo giocattolo abitato da un demonio, nel contesto di un tranquillo suburbio per ricchi progressivamente minacciato dalle tracce del male. E lo strumento narrativo preferito da Ellis, la prima persona, è sì l'unico possibile per un racconto che si dichiara veritiero come un memoir, il cui protagonista è lo scrittore in persona, ma nello stesso tempo risulta straordinariamente adeguato alla miscela di colpa e paura che pervade inesorabilmente le pagine di Lunar Park.
È proprio dall'horror che iniziamo la nostra conversazione. E dal suo saldarsi, in Lunar Park, con i più scoperti e spudorati argomenti di una confessione autobiografica a tutto campo: sollecitando all'estremo la linea di confine tra il verosimile e l'assurdo, la finzione più arbitraria e il nudo referto esistenziale, che sembrano alleati allo scopo di disorientare i lettori fino all'ultima pagina, e ancora oltre. Nessuna cornice è più adeguata al nostro incontro del sontuoso bar liberty dell'hotel Principe di Savoia di Milano. Lo stesso albergo di lusso dove si aggirava, sempre più sperduto nel suo delirio e nel complotto terroristico che lo coinvolge, Victor Ward, il protagonista del penultimo romanzo di Ellis, Glamorama. Come se anche questa intervista fosse risucchiata e inclusa nell'ambiguo gioco di specchi che dà forma e sostanza alla letteratura di Ellis, fin dai suoi inizi. Pallido, elegante, gentilissimo, Ellis, che da poco ha passato i quarant'anni, non ha perso certi irresistibili tratti espressivi (un certo modo di sorridere, l'ironia dello sguardo) del ragazzino astuto e benestante dei suoi sfolgoranti esordi. Prima di dedicarsi all'intervista, si fa prendere le misure da due ragazzi inviati da una grande griffe milanese, che intende regalargli un vestito.
In Lunar Park non si contano le allusioni alla grande tradizione dell'horror americano. Ho notato molti omaggi a Stephen King, e in particolare a un romanzo come Pet semetary, la storia di una famiglia che va ad abitare in una casa costruita su un antico cimitero indiano, con le conseguenze che si possono immaginare...
King è una mia lettura dell'infanzia e dell'adolescenza, sento ancora oggi lo straordinario potere narrativo di molti suoi libri. Di una sua valutazione in termini estetici e letterari invece non me ne è mai fregato nulla, sarei totalmente incapace di darne un giudizio critico.
Naturalmente, accanto alla scrittura di King c'è in Lunar Park anche molto cinema: penso per esempio all'accento drammatico che un Wes Craven mette sul passaggio dal giorno alla notte, indugiando a lungo sui tramonti per farci capire che stanno per ricominciare i guai.
In generale, la scansione temporale di questo libro è molto importante, e mi ha posto dei problemi del tutto inediti, anche se non è certo la prima volta che racconto una storia in prima persona. Non è tanto il fatto che qui il protagonista si chiama, in effetti, Bret Easton Ellis, c'è qualcosa di più. Negli altri miei libri, il protagonista parla sì in prima persona, ma scopre via via, non diversamente dal lettore, quello che succede, come in un diario. Qui invece l'eroe racconta la storia dopo i dodici giorni di incubo che ha vissuto, e addirittura si permette delle anticipazioni. È una tecnica narrativa del tutto differente. Ma è così che funzionano le storie di fantasmi.
Come in Glamorama, anche in quest'ultimo romanzo, dopo una sorta di prologo autobiografico, l'azione prende le mosse da una festa. Forse nessuno scrittore contemporaneo ha sviluppato con tanta densità questa specie di «estetica del party», che ha un sapore antico, alla Fitzgerald, sfruttando al massimo le potenzialità narrative insite in questa particolare situazione.
Beh, non avrei mai voluto specializzarmi in questo argomento, ma alla fine è andata così. La circostanza dipende anche dall'età e dal temperamento dei miei personaggi: gente che tira tardi, e appunto, frequenta feste. Personalmente, posso dire di essere entrato in una fase della mia vita in cui queste cose mi interessano un po' meno. Devo aggiungere che la descrizione di una festa è veramente difficilissima: più di quella del sesso, mettiamo, o di una situazione paurosa. Però, la fatica è ripagata dal fatto che sarebbe difficile trovare un'altra situazione narrativa così aperta e disponibile alla convivenza e all'interazione di tanti personaggi quanti sono quelli che possono partecipare a una festa.
In quest'ultimo party appare anche il tuo amico e collega Jay MacInerney: fatto di coca, alla fine si fa trovare nudo in piscina... come l'ha presa ?
Malissimo! Era così incazzato che alla fine ha deciso di fare finta di non aver letto il libro. Ma abbiamo la stessa editor, e so per certo che non è vero.
Parliamo un po' di Patrick Bateman, l'indimenticabile protagonista di American Psycho che appare di sfuggita anche in Glamorama, con il solito completo firmato, macchiato di sangue umano fresco. Qui in Lunar Park Bateman irrompe con la carica devastante di uno spettro del passato giunto per vendicarsi...
In Glamorama, l'apparizione di Bateman era un semplice scherzo, una strizzata d'occhio ai fan, niente di più. In Lunar Park intendevo riflettere proprio sulla mancanza di controllo effettivo sul personaggio da parte dello scrittore. Per fare questo, uso una storia di spettri, ma questa perdita di controllo l'ho effettivamente verificata nella mia esistenza. In altre parole, ho visto coi miei occhi la figura di Patrick sovrapporsi progressivamente e inesorabilmente a quella di Bret Easton Ellis. Sono sicuro che quando morirò, sui titoli dei giornali i nostri nomi rimarranno accoppiati per sempre, così come sono sicuro che mai mi capiterà di dare vita a un personaggio che sia così integralmente l'icona di un'intera epoca. In Lunar Park, Bateman ha anche una valenza di metafora più generale, qualcosa che riguarda l'identità nel suo rapporto fondamentale con il passato. Come è possibile liberarsene ?
In Lunar Park la scintilla del terrore si accende durante la festa iniziale, quando arriva, non invitato da nessuno, uno studente travestito da Bateman (è la sera di Halloween), e dunque somigliante a Bateman. Anche in American Psycho e poi in Glamorama il concetto di somiglianza è fondamentale, tanto che un'intera antropologia pare fondarsi sul fatto che, nella New York di Patrick e poi in quella di Victor, tutti assomigliano a tutti. Sembra solo una brillante trovata sociologica, un tratto di storia del costume. E, invece, in Lunar Park pare proprio che a essere interrogato sia il lato oscuro, macabro, ripugnante della somiglianza...
In questi termini non ci avevo mai pensato, ma è possibile. Nei primi due romanzi, però, la prospettiva mi sembra diversa: quello che mi interessava far vedere è che in un mondo dove tutti indossano gli stessi vestiti, consumano gli stessi cibi e le stesse droghe, insomma sanno le stesse cose, è più facile per il malvagio nascondersi, come un animale ben mimetizzato nell'ambiente circostante. In Lunar Park sono stato attratto da altri temi, e fondamentalmente dai processi che costituiscono l'identità.
A proposito di identità: nel libro c'è il Bret personaggio, per chiamarlo così, colui che affronta l'avventura, e, dentro di lui, lo «scrittore» che gli suggerisce ulteriori prospettive, spesso lo deride, lo disorienta. Ma, a conti fatti, cioè a libro finito, chi ne sa di più, tra i due?
Con lo «scrittore» che è in me parlo tutti i giorni, in pratica nella stessa maniera che si può vedere nel libro. Lui è foriero di tutte le buone idee, certamente, e questo è importante. Ma è anche cattivo, tutte le sue prospettive derivano da questa congenita malvagità.
Jayne, la moglie del protagonista del romanzo (che avrà amato il suo ritratto ancor meno di MacInerney) percepisce con particolare acutezza e dispiacere questo sdoppiamento.
Può essere vero: questa donna ama l'uomo e odia lo scrittore. Vorrebbe indurre il primo a vivere normalmente, prendendosi cura di loro figlio, mentre lo scrittore è infedele, tossico, fondamentalmente inaffidabile. Eppure io mi dico sempre: se non ci fossero stati l'alcol, la droga, gli psicofarmaci... chissà. Il fatto è che non si può amare selettivamente, una persona va accettata al cento per cento. A differenza di quanto accade nelle normali fiabe horror, nella mia, alla fine, la famiglia va in in frantumi. Il fatto è che loro due non avevano nemmeno deciso di avere un figlio, e si sono usati a vicenda...
Un'ultima curiosità: a un certo punto del libro racconti di un invito alla Casa Bianca, da parte di Jeb e George W.Bush, allora figli del presidente. Con tutte le condanne a morte che hanno firmato, non mi stupirebbe scoprirli fan di Bateman, che in confronto a loro è un vero pivello...
No, no, l'invito risale a prima, era il 1986, a loro era piaciuto Meno di zero, come mi aveva detto l'incaricato del protocollo che mi ha recapitato l'invito. Era una cena del sabato sera. Ma alla fine non ci sono andato, e non per nobili motivi politici. Semplicemente perché avevo ventidue anni e quella sera volevo andare in un altro posto, un posto che mi interessava di più. Adesso, un po' me ne pento: poteva essere una serata interessante.
ilmanifesto.it
Materia di incubi LO SCRITTORE AMERICANO diventato celebre con American Psycho presenta il suo ultimo romanzo, Lunar Park. Del protagonista della sua storia di spettri dice: «Ho visto coi miei occhi la figura di Patrick sovrapporsi inesorabilmente a quella di Bret Easton Ellis. Quando morirò, i nostri nomi rimarranno accoppiati per sempre»
EMANUELE TREVI
Gli incubi, sembra volerci avvertire Bret Easton Ellis fin dalle prime pagine di Lunar Park (appena uscito da Einaudi per l'ottima traduzione di Giuseppe Culicchia, pp.336, euro 18,00) non finiscono mai. Più di ogni altra forma di attività onirica, manifestano quella che Roger Caillois, in un saggio memorabile, definiva l'incertezza dei sogni. Con sollievo, pensiamo di esserci risvegliati, di avere imboccato l'uscita giusta per ritornare al nostro consueto piano di realtà - e invece, questo finto «risveglio» è solo uno dei tanti trucchi dell'incubo, forse il più inquietante e doloroso. E se i libri, se certi libri sono intessuti della stessa materia degli incubi, allora la parola fine, che leggiamo nell'ultima pagina non è altro che un'illusione, un esorcismo troppo debole per risultare, alla lunga, efficace. Così, la prima notizia che ci viene da Lunar Park è che, a circa quindici anni da American Psycho Patrick Bateman, il serial killer che si aggirava tra le ombre di New York con i suoi completi di Armani chiazzati del sangue delle vittime, è ancora tra noi. Altro che simbolo di un'epoca - i ruggenti anni `80 con tutti i loro feticci griffati e la loro oscura, inconfessabile sete di violenza impastata all'avidità economica e al culto dei simboli del benessere. Con quel libro, lo scrittore non ancora trentenne (e già celebre per Meno di zero e Le regole dell'attrazione) aveva visto aumentare vertiginosamente il suo prestigio e i suoi guadagni, vantaggi abituali di ogni scandalo letterario che si rispetti, capace di trasformare anche la più violenta stroncatura in un potente alleato del marketing. Ma quando American Psycho arrivò in Italia, ancora puzzolente di zolfo e in una traduzione inadeguata, fu abbastanza facile, per molti di noi, accorgersi che, ben più potente del rumore giornalistico di fondo, in quelle pagine vibrava la qualità inconfondibile del capolavoro.
Il successo mondano e i reali meriti artistici sono due cose inconciliabili solo agli occhi prevenuti degli sciocchi e dei moralisti. In realtà, ci spiega Ellis in Lunar Park, si tratta di due maniere diverse di indicare quei vantaggi illusori che in ogni fiaba si ottengono infrangendo un interdetto, e che poi, da vantaggi che erano, si trasformano in autentiche maledizioni. Come un incauto apprendista stregone, Ellis, dando forma a Patrick Bateman, aveva evocato uno spettro troppo pericoloso, illudendosi di poterlo ammansire, esorcizzare tramite una semplice convenzione letteraria: un romanzo di successo. È questa colpa che il nuovo romanzo si incarica di descrivere in tutte le sue conseguenze: ed è abbastanza naturale, in fin dei conti, che il ritorno indesiderato di uno spettro emerso dalle pagine di un libro sia raccontato ricorrendo a un geniale pastiche di tutte le convenzioni dell'horror, dalla casa infestata all'innocuo giocattolo abitato da un demonio, nel contesto di un tranquillo suburbio per ricchi progressivamente minacciato dalle tracce del male. E lo strumento narrativo preferito da Ellis, la prima persona, è sì l'unico possibile per un racconto che si dichiara veritiero come un memoir, il cui protagonista è lo scrittore in persona, ma nello stesso tempo risulta straordinariamente adeguato alla miscela di colpa e paura che pervade inesorabilmente le pagine di Lunar Park.
È proprio dall'horror che iniziamo la nostra conversazione. E dal suo saldarsi, in Lunar Park, con i più scoperti e spudorati argomenti di una confessione autobiografica a tutto campo: sollecitando all'estremo la linea di confine tra il verosimile e l'assurdo, la finzione più arbitraria e il nudo referto esistenziale, che sembrano alleati allo scopo di disorientare i lettori fino all'ultima pagina, e ancora oltre. Nessuna cornice è più adeguata al nostro incontro del sontuoso bar liberty dell'hotel Principe di Savoia di Milano. Lo stesso albergo di lusso dove si aggirava, sempre più sperduto nel suo delirio e nel complotto terroristico che lo coinvolge, Victor Ward, il protagonista del penultimo romanzo di Ellis, Glamorama. Come se anche questa intervista fosse risucchiata e inclusa nell'ambiguo gioco di specchi che dà forma e sostanza alla letteratura di Ellis, fin dai suoi inizi. Pallido, elegante, gentilissimo, Ellis, che da poco ha passato i quarant'anni, non ha perso certi irresistibili tratti espressivi (un certo modo di sorridere, l'ironia dello sguardo) del ragazzino astuto e benestante dei suoi sfolgoranti esordi. Prima di dedicarsi all'intervista, si fa prendere le misure da due ragazzi inviati da una grande griffe milanese, che intende regalargli un vestito.
In Lunar Park non si contano le allusioni alla grande tradizione dell'horror americano. Ho notato molti omaggi a Stephen King, e in particolare a un romanzo come Pet semetary, la storia di una famiglia che va ad abitare in una casa costruita su un antico cimitero indiano, con le conseguenze che si possono immaginare...
King è una mia lettura dell'infanzia e dell'adolescenza, sento ancora oggi lo straordinario potere narrativo di molti suoi libri. Di una sua valutazione in termini estetici e letterari invece non me ne è mai fregato nulla, sarei totalmente incapace di darne un giudizio critico.
Naturalmente, accanto alla scrittura di King c'è in Lunar Park anche molto cinema: penso per esempio all'accento drammatico che un Wes Craven mette sul passaggio dal giorno alla notte, indugiando a lungo sui tramonti per farci capire che stanno per ricominciare i guai.
In generale, la scansione temporale di questo libro è molto importante, e mi ha posto dei problemi del tutto inediti, anche se non è certo la prima volta che racconto una storia in prima persona. Non è tanto il fatto che qui il protagonista si chiama, in effetti, Bret Easton Ellis, c'è qualcosa di più. Negli altri miei libri, il protagonista parla sì in prima persona, ma scopre via via, non diversamente dal lettore, quello che succede, come in un diario. Qui invece l'eroe racconta la storia dopo i dodici giorni di incubo che ha vissuto, e addirittura si permette delle anticipazioni. È una tecnica narrativa del tutto differente. Ma è così che funzionano le storie di fantasmi.
Come in Glamorama, anche in quest'ultimo romanzo, dopo una sorta di prologo autobiografico, l'azione prende le mosse da una festa. Forse nessuno scrittore contemporaneo ha sviluppato con tanta densità questa specie di «estetica del party», che ha un sapore antico, alla Fitzgerald, sfruttando al massimo le potenzialità narrative insite in questa particolare situazione.
Beh, non avrei mai voluto specializzarmi in questo argomento, ma alla fine è andata così. La circostanza dipende anche dall'età e dal temperamento dei miei personaggi: gente che tira tardi, e appunto, frequenta feste. Personalmente, posso dire di essere entrato in una fase della mia vita in cui queste cose mi interessano un po' meno. Devo aggiungere che la descrizione di una festa è veramente difficilissima: più di quella del sesso, mettiamo, o di una situazione paurosa. Però, la fatica è ripagata dal fatto che sarebbe difficile trovare un'altra situazione narrativa così aperta e disponibile alla convivenza e all'interazione di tanti personaggi quanti sono quelli che possono partecipare a una festa.
In quest'ultimo party appare anche il tuo amico e collega Jay MacInerney: fatto di coca, alla fine si fa trovare nudo in piscina... come l'ha presa ?
Malissimo! Era così incazzato che alla fine ha deciso di fare finta di non aver letto il libro. Ma abbiamo la stessa editor, e so per certo che non è vero.
Parliamo un po' di Patrick Bateman, l'indimenticabile protagonista di American Psycho che appare di sfuggita anche in Glamorama, con il solito completo firmato, macchiato di sangue umano fresco. Qui in Lunar Park Bateman irrompe con la carica devastante di uno spettro del passato giunto per vendicarsi...
In Glamorama, l'apparizione di Bateman era un semplice scherzo, una strizzata d'occhio ai fan, niente di più. In Lunar Park intendevo riflettere proprio sulla mancanza di controllo effettivo sul personaggio da parte dello scrittore. Per fare questo, uso una storia di spettri, ma questa perdita di controllo l'ho effettivamente verificata nella mia esistenza. In altre parole, ho visto coi miei occhi la figura di Patrick sovrapporsi progressivamente e inesorabilmente a quella di Bret Easton Ellis. Sono sicuro che quando morirò, sui titoli dei giornali i nostri nomi rimarranno accoppiati per sempre, così come sono sicuro che mai mi capiterà di dare vita a un personaggio che sia così integralmente l'icona di un'intera epoca. In Lunar Park, Bateman ha anche una valenza di metafora più generale, qualcosa che riguarda l'identità nel suo rapporto fondamentale con il passato. Come è possibile liberarsene ?
In Lunar Park la scintilla del terrore si accende durante la festa iniziale, quando arriva, non invitato da nessuno, uno studente travestito da Bateman (è la sera di Halloween), e dunque somigliante a Bateman. Anche in American Psycho e poi in Glamorama il concetto di somiglianza è fondamentale, tanto che un'intera antropologia pare fondarsi sul fatto che, nella New York di Patrick e poi in quella di Victor, tutti assomigliano a tutti. Sembra solo una brillante trovata sociologica, un tratto di storia del costume. E, invece, in Lunar Park pare proprio che a essere interrogato sia il lato oscuro, macabro, ripugnante della somiglianza...
In questi termini non ci avevo mai pensato, ma è possibile. Nei primi due romanzi, però, la prospettiva mi sembra diversa: quello che mi interessava far vedere è che in un mondo dove tutti indossano gli stessi vestiti, consumano gli stessi cibi e le stesse droghe, insomma sanno le stesse cose, è più facile per il malvagio nascondersi, come un animale ben mimetizzato nell'ambiente circostante. In Lunar Park sono stato attratto da altri temi, e fondamentalmente dai processi che costituiscono l'identità.
A proposito di identità: nel libro c'è il Bret personaggio, per chiamarlo così, colui che affronta l'avventura, e, dentro di lui, lo «scrittore» che gli suggerisce ulteriori prospettive, spesso lo deride, lo disorienta. Ma, a conti fatti, cioè a libro finito, chi ne sa di più, tra i due?
Con lo «scrittore» che è in me parlo tutti i giorni, in pratica nella stessa maniera che si può vedere nel libro. Lui è foriero di tutte le buone idee, certamente, e questo è importante. Ma è anche cattivo, tutte le sue prospettive derivano da questa congenita malvagità.
Jayne, la moglie del protagonista del romanzo (che avrà amato il suo ritratto ancor meno di MacInerney) percepisce con particolare acutezza e dispiacere questo sdoppiamento.
Può essere vero: questa donna ama l'uomo e odia lo scrittore. Vorrebbe indurre il primo a vivere normalmente, prendendosi cura di loro figlio, mentre lo scrittore è infedele, tossico, fondamentalmente inaffidabile. Eppure io mi dico sempre: se non ci fossero stati l'alcol, la droga, gli psicofarmaci... chissà. Il fatto è che non si può amare selettivamente, una persona va accettata al cento per cento. A differenza di quanto accade nelle normali fiabe horror, nella mia, alla fine, la famiglia va in in frantumi. Il fatto è che loro due non avevano nemmeno deciso di avere un figlio, e si sono usati a vicenda...
Un'ultima curiosità: a un certo punto del libro racconti di un invito alla Casa Bianca, da parte di Jeb e George W.Bush, allora figli del presidente. Con tutte le condanne a morte che hanno firmato, non mi stupirebbe scoprirli fan di Bateman, che in confronto a loro è un vero pivello...
No, no, l'invito risale a prima, era il 1986, a loro era piaciuto Meno di zero, come mi aveva detto l'incaricato del protocollo che mi ha recapitato l'invito. Era una cena del sabato sera. Ma alla fine non ci sono andato, e non per nobili motivi politici. Semplicemente perché avevo ventidue anni e quella sera volevo andare in un altro posto, un posto che mi interessava di più. Adesso, un po' me ne pento: poteva essere una serata interessante.
ilmanifesto.it
24.10.05
I consigli di Caino. E quelli di Abele
di Aldo Grasso
Ci risiamo. Silvio Berlusconi vede nemici ovunque, specie fra i comici. E perché non ci siano equivoci ha anche fatto nomi e cognomi: Serena Dandini, Sabina Guzzanti, Gene Gnocchi, Enrico Bertolino, Dario Vergassola, Corrado Guzzanti, «e altri che cerco di non tenere a mente». Meno male, altrimenti non gli basterebbero le pagine gialle. Erano solo comici, alcuni bravi, altri meno: adesso sono eroi, martiri, vittime del tiranno.
Quanto resiste il premier a non occuparsi di tv? Un giorno, due, tre? Non di più. Eravamo ammirati per la noncuranza con cui aveva assistito al turbinio mediatico sollevato da Adriano Celentano che già arrivano, con rovinoso tempismo, le anticipazioni dell'ennesimo libro di Bruno Vespa: «Quello di giovedì 20 ottobre—dice a Vespa il presidente del Consiglio — è soltanto l'ultimo episodio di un sistema della comunicazione, televisione ma anche della stampa, che dal 2001 ha sistematicamente attaccato l'operato del governo e il presidente del Consiglio».
E così Prodi può tornare a parlare di liste di proscrizione, di ingerenze, di conflitto di interesse. Silvio Berlusconi è fatto così. E dire che avrebbe un mucchio di cose da fare invece di occuparsi di comici. Non è umanamente possibile che perda tempo a vedere un programma di Dario Vergassola. E allora perché si abbandona a queste cadute di stile? C'è una sola spiegazione: Berlusconi ha due consiglieri per la tv, uno buono (che chiameremo Abele) e uno cattivo, anzi pessimo (che chiameremo Caino). Abele ha appena finito di spiegargli che la battaglia dei voti in tv è una battaglia trasversale, che si gioca sulla quotidianità e sulla routine (l'ampia area dell'infotainment), che spesso gli attacchi diretti si ritorcono contro.
Gli ha anche spiegato che il pubblico più «debole » (scolarizzazione medio-bassa e livelli economici medi o medio-bassi) è quello più influenzabile, non certo quello che segue i comici o i programmi d'approfondimento (sa già per chi votare). Gli ha persino detto che nonostante Jay Leno e David Letterman (mica Vergassola o Bertolino) lo attaccassero ogni giorno, George W. Bush ha vinto per due volte le elezioni. Giorni fa, Berlusconi sembrava aver capito la lezione: bisogna stare attenti, aveva ammonito, a «Uno mattina». Aveva ragione: se un'Antonella Clerici, preparando la pastasciutta, impreca al governo ladro fa più danni di Michele Santoro (perché Fassino sarebbe andato da Maria De Filippi?).
Caino invece non è così raffinato, senza la clava non si diverte. E invece di spiegargli come e perché abbiano fallito conduttori come Giovanni Masotti o Anna La Rosa trova più facile dare sempre la colpa all'altro, all'immediato, alla battuta più corriva. Caino dev'essere un comico fallito che vuole solo vendicarsi di alcuni colleghi più fortunati. Dev'essere una mezzacalzetta, un giornalista mancato che non ha capito che, mettendo Gene Gnocchi al termine del suo tg, Mauro Mazza ha fatto una grande operazione di immagine (ci sarà mai un Tg3 che dà spazio a un comico di destra?). Dev'essere una bestia edotta in teoria e tecnica della comunicazione per fare la spia su un manipolo di comici. Si sarà capito a chi ha dato retta il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Eppure il presidente emerito Francesco Cossiga gli aveva regalato un consiglio splendido: vada da Celentano (allarghiamoci: vada dai comici) e dica la sua, ci scherzi su, si faccia una risata!
L'ebbrezza di una risata avrebbe ridotto a niente tutto il tourbillon di questo mondo mediatico (cui basta una predica di Celentano per perdere il senso della misura); e nessun problema di censura né tormento interiore sarebbe più venuto a turbare una gioia ritrovata. Siamo tutti vittime della «sindrome da finestra sul cortile», confondiamo la tv con la vita, l'aumento dell'audience con l'aumento dei prezzi. Un errore, però, che un capo di governo non dovrebbe commettere.
corriere.it
Ci risiamo. Silvio Berlusconi vede nemici ovunque, specie fra i comici. E perché non ci siano equivoci ha anche fatto nomi e cognomi: Serena Dandini, Sabina Guzzanti, Gene Gnocchi, Enrico Bertolino, Dario Vergassola, Corrado Guzzanti, «e altri che cerco di non tenere a mente». Meno male, altrimenti non gli basterebbero le pagine gialle. Erano solo comici, alcuni bravi, altri meno: adesso sono eroi, martiri, vittime del tiranno.
Quanto resiste il premier a non occuparsi di tv? Un giorno, due, tre? Non di più. Eravamo ammirati per la noncuranza con cui aveva assistito al turbinio mediatico sollevato da Adriano Celentano che già arrivano, con rovinoso tempismo, le anticipazioni dell'ennesimo libro di Bruno Vespa: «Quello di giovedì 20 ottobre—dice a Vespa il presidente del Consiglio — è soltanto l'ultimo episodio di un sistema della comunicazione, televisione ma anche della stampa, che dal 2001 ha sistematicamente attaccato l'operato del governo e il presidente del Consiglio».
E così Prodi può tornare a parlare di liste di proscrizione, di ingerenze, di conflitto di interesse. Silvio Berlusconi è fatto così. E dire che avrebbe un mucchio di cose da fare invece di occuparsi di comici. Non è umanamente possibile che perda tempo a vedere un programma di Dario Vergassola. E allora perché si abbandona a queste cadute di stile? C'è una sola spiegazione: Berlusconi ha due consiglieri per la tv, uno buono (che chiameremo Abele) e uno cattivo, anzi pessimo (che chiameremo Caino). Abele ha appena finito di spiegargli che la battaglia dei voti in tv è una battaglia trasversale, che si gioca sulla quotidianità e sulla routine (l'ampia area dell'infotainment), che spesso gli attacchi diretti si ritorcono contro.
Gli ha anche spiegato che il pubblico più «debole » (scolarizzazione medio-bassa e livelli economici medi o medio-bassi) è quello più influenzabile, non certo quello che segue i comici o i programmi d'approfondimento (sa già per chi votare). Gli ha persino detto che nonostante Jay Leno e David Letterman (mica Vergassola o Bertolino) lo attaccassero ogni giorno, George W. Bush ha vinto per due volte le elezioni. Giorni fa, Berlusconi sembrava aver capito la lezione: bisogna stare attenti, aveva ammonito, a «Uno mattina». Aveva ragione: se un'Antonella Clerici, preparando la pastasciutta, impreca al governo ladro fa più danni di Michele Santoro (perché Fassino sarebbe andato da Maria De Filippi?).
Caino invece non è così raffinato, senza la clava non si diverte. E invece di spiegargli come e perché abbiano fallito conduttori come Giovanni Masotti o Anna La Rosa trova più facile dare sempre la colpa all'altro, all'immediato, alla battuta più corriva. Caino dev'essere un comico fallito che vuole solo vendicarsi di alcuni colleghi più fortunati. Dev'essere una mezzacalzetta, un giornalista mancato che non ha capito che, mettendo Gene Gnocchi al termine del suo tg, Mauro Mazza ha fatto una grande operazione di immagine (ci sarà mai un Tg3 che dà spazio a un comico di destra?). Dev'essere una bestia edotta in teoria e tecnica della comunicazione per fare la spia su un manipolo di comici. Si sarà capito a chi ha dato retta il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Eppure il presidente emerito Francesco Cossiga gli aveva regalato un consiglio splendido: vada da Celentano (allarghiamoci: vada dai comici) e dica la sua, ci scherzi su, si faccia una risata!
L'ebbrezza di una risata avrebbe ridotto a niente tutto il tourbillon di questo mondo mediatico (cui basta una predica di Celentano per perdere il senso della misura); e nessun problema di censura né tormento interiore sarebbe più venuto a turbare una gioia ritrovata. Siamo tutti vittime della «sindrome da finestra sul cortile», confondiamo la tv con la vita, l'aumento dell'audience con l'aumento dei prezzi. Un errore, però, che un capo di governo non dovrebbe commettere.
corriere.it
19.10.05
Ma come mai gli intellettuali non capiscono niente di politica?
di Rina Gagliardi
Eugenio Scalfari aveva definito le primarie dell'Unione, nientemeno, che "un topolino". Curzio Maltese ne aveva scritto peste e corna, prevedendo che, più o meno, nessuno sarebbe andato a votare. Giampaolo Pansa aveva profetizzato, qualche giorno fa, la sconfitta di Romano Prodi e la vittoria di Fausto Bertinotti. Il manifesto aveva giudicato l'appuntamento con un misto di sufficienza e di ostilità. Molti altri, a sinistra, ciascuno con le sue ragioni e pulsioni diverse, avevano decretato che comunque sarebbe stato un fallimento. E ora? Dopo il voto di domenica - dopo i quattro milioni e passa di persone che sono uscite di casa con in tasca la tessera elettorale e gli euri, sono andati ad un seggio che stava spesso per strada, hanno fatto la fila anche per tre quarti d'ora, hanno compilato una scheda con un atto consapevole e libero - ora tutti costoro dovrebbero avere l'onestà intellettuale di dire: ci siamo sbagliati.
Dovrebbero riconoscere di non aver capito quasi nulla non delle primarie, ma di quello che si muove nelle viscere della società italiana. Dovrebbero insomma prender atto che, tra le lezioni di quel voto, c'è anche la débacle dell'intellettualità italiana - da troppi anni tanto presuntuosa e saccente quanto "fuori sintonia", rispetto ai processi reali, e quindi incapace di onorare il proprio mestiere. Lo faranno? Ne dubitiamo assai. Soltanto Rossana Rossanda, ieri, ha scritto di aver avuto torto, sulle primarie - anche se poi non si sofferma più di tanto sul senso di quell'errore. Altri, ci scommettiamo, non faranno una piega. Anzi, già hanno ricominciato a sproloquiare, a spiegare, a pontificare: ora, per lo più, le primarie piacciono.
Non sono più una "buffonata" americana, ma una grande prova di democrazia responsabile. Non sono più un rischio, ma una dimostrazione di maturità: il popolo italiano - ecco la sentenza - avrebbe scelto in massa il "riformismo" moderato, il sistema maggioritario, la governabilità, la marginalizzazione della sinistra radicale, la punizione dei partiti. Tutto ciò che sta a cuore alle oligarchie dell'informazione, dell'editoria, dei baronati universitari - al sistema dell'intellettualità - sarebbe dunque leggibile nell'evento inatteso di domenica. Ahimé: inattendibili erano prima, inattendibili, a maggior ragione, sono adesso.
Vogliamo provare a capire quel che sfugge alla media intellettualità italiana? Intanto, a (quasi) tutti fanno paura (intellettuale) i processi complessi, nel senso epistemiologico del termine, o "ambigui", nel senso politico del termine. "Complesso" non vuol dire "complicato": vuol dire fatto di livelli diversi e interdipendenti, ma non riducibili alla somma delle sue parti - come il vivente. "Ambiguo" non vuol dire "poco limpido": ma dotato di molte e diverse verità, di potenzialità molteplici non tutte destinate a svilupparsi, e a loro volta non riducibili ad "una" verità. A nostro modesto parere, le primarie, appunto, erano e sono effettivamente state un evento "complesso" o "ambiguo", non riducibili né ieri né oggi ad una interpretazione monolitica. In esse, come avrebbe detto il vecchio Engels, la "quantità si è trasformata in qualità": ovvero, il numero dei partecipanti è stato così alto che l'evento stesso ne è stato modificato, nella sua natura e, forse perfino, nel suo senso.
Da misurazione dei rapporti di forza interni (all'interno della sinistra e del centrosinistra, cioè della componente più attiva, militante o politicizzata dello schieramento), come in fondo erano state concepite inizialmente, esse son divenute una sorta di prova politica generale dell'elettorato democratico: dove si è espressa la volontà di cambiare, di avviare un'altra fase della politica, di inviare "in prima persona" all'attuale governo un messaggio inequivocabile. In questo passaggio, la scelta del candidato-premier - in teoria oggetto unico del voto - è stata esercitata di conseguenza: quasi come una scelta simbolica, obbligata, "logica".
L'ampiezza di consensi tributata a Romano Prodi (del resto imprevedibile per i tanti analisti che puntavano al 60 per cento, nonché per lo stesso Romano Prodi), ha questa radice "secondaria" e non primaria: non esprime un'adesione specifica ad un programma politico, o ad una persona, o ad un'ideologia, ma la fiducia di massa in uno schieramento unitario. Interpretare il voto come una "iscrizione massiccia" al futuro Partito riformista o democratico o post-progressista è dunque una forzatura indebita - o di comodo, s'intende. Come è improprio vedervi una "delega", più o meno in bianco, ad un singolo: qui, l'illogicità dei commenti prevalenti raggiunge davvero il culmine. Mentre l'oggetto sostanziale delle primarie andava slittando in direzione politica generale, il suo oggetto formale - materiale - rimaneva invece la designazione di un candidato: di un rappresentante fiduciario dell'Unione. Come Prodi. Esattamente come la volontà di partecipazione che resta il dato qualificante dell'evento: essa ha incontrato sulla sua strada questa, e non altre opportunità, e l'ha usata, dicevamo, in "quantità" dilagante - come stop alla passività, all'inerzia, alla crisi attuale della politica.
In quali altre forme avrebbe potuto incanalarsi questo "crogiolo" di pulsioni e di volontà? Perché tacciarlo tout court di deriva plebiscitaria o personalistica? Le primarie italiane, appunto, sono un processo ambiguo e complesso: investono un leader, ma dentro un'esplosione di volontà partecipativa; legittimano una classe dirigente, ma dentro una cornice unitaria; manifestano un bisogno urgente di nuova politica, ma dentro, necessariamente, la politica reale. Non si può non vedere, insomma, che tra queste diverse curvature del voto la dialettica è forte, e la contraddizione nient'affatto chiusa.
Né si può ridurre la volontà di partecipazione - come fa in fondo Rossana Rossanda - ad elettoralismo, o separarla in termini così tranchant da altre forme di azione e partecipazione politica. Se fosse possibile misurare il tasso generale di partecipazione alla politica - in un partito, in un sindacato, in un issue, in un'associazione - proprio degli elettori delle primarie, emergerebbe quasi certamente un quadro sorprendente e coerente. Ancora, qui, a questione dell'ambiguità, e la necessità di ridefinire il senso del "fare politica".
Due parole, infine, sui risultati del candidato Fausto Bertinotti. Se è fondata l'analisi fin qui esposta, il 15 per cento al segretario di Rifondazione comunista si conferma come un consenso forte, anzi fortissimo: come leader simbolico dell'Unione, Bertinotti non aveva davvero molte chances. Eppure, molti dei commenti di ieri sono ispirati (per lo più malevolmente) dalla convinzione di una quasi-sconfitta, comunque di un voto deludente.
E' curioso che un giudizio politico così drastico si basi non sui numeri, non sui fatti, non sul tentativo di ricostruire la complessità di un evento, ma su una cifra - il 20 per cento - mutuata o da antiscientifici sondaggi o da un "meccanismo psicologico" che stabiliva qui, e non al di sotto, la soglia del successo. Quando poi questo stesso giudizio viene da chi non ha sostenuto questa candidatura, o l'ha avversata, o l'ha sostanzialmente boicottata, nel contesto di un più complessivo boicottaggio delle primarie, c'è di che restare attoniti. E se è comprensibile la cecità politica e intellettuale degli avversari - ieri il panico esagerato, oggi il "sospiro di sollievo" artatamente tirato - ben meno scusabile è la disonestà di sinistra, dovunque essa alligni.
liberzione.it
Eugenio Scalfari aveva definito le primarie dell'Unione, nientemeno, che "un topolino". Curzio Maltese ne aveva scritto peste e corna, prevedendo che, più o meno, nessuno sarebbe andato a votare. Giampaolo Pansa aveva profetizzato, qualche giorno fa, la sconfitta di Romano Prodi e la vittoria di Fausto Bertinotti. Il manifesto aveva giudicato l'appuntamento con un misto di sufficienza e di ostilità. Molti altri, a sinistra, ciascuno con le sue ragioni e pulsioni diverse, avevano decretato che comunque sarebbe stato un fallimento. E ora? Dopo il voto di domenica - dopo i quattro milioni e passa di persone che sono uscite di casa con in tasca la tessera elettorale e gli euri, sono andati ad un seggio che stava spesso per strada, hanno fatto la fila anche per tre quarti d'ora, hanno compilato una scheda con un atto consapevole e libero - ora tutti costoro dovrebbero avere l'onestà intellettuale di dire: ci siamo sbagliati.
Dovrebbero riconoscere di non aver capito quasi nulla non delle primarie, ma di quello che si muove nelle viscere della società italiana. Dovrebbero insomma prender atto che, tra le lezioni di quel voto, c'è anche la débacle dell'intellettualità italiana - da troppi anni tanto presuntuosa e saccente quanto "fuori sintonia", rispetto ai processi reali, e quindi incapace di onorare il proprio mestiere. Lo faranno? Ne dubitiamo assai. Soltanto Rossana Rossanda, ieri, ha scritto di aver avuto torto, sulle primarie - anche se poi non si sofferma più di tanto sul senso di quell'errore. Altri, ci scommettiamo, non faranno una piega. Anzi, già hanno ricominciato a sproloquiare, a spiegare, a pontificare: ora, per lo più, le primarie piacciono.
Non sono più una "buffonata" americana, ma una grande prova di democrazia responsabile. Non sono più un rischio, ma una dimostrazione di maturità: il popolo italiano - ecco la sentenza - avrebbe scelto in massa il "riformismo" moderato, il sistema maggioritario, la governabilità, la marginalizzazione della sinistra radicale, la punizione dei partiti. Tutto ciò che sta a cuore alle oligarchie dell'informazione, dell'editoria, dei baronati universitari - al sistema dell'intellettualità - sarebbe dunque leggibile nell'evento inatteso di domenica. Ahimé: inattendibili erano prima, inattendibili, a maggior ragione, sono adesso.
Vogliamo provare a capire quel che sfugge alla media intellettualità italiana? Intanto, a (quasi) tutti fanno paura (intellettuale) i processi complessi, nel senso epistemiologico del termine, o "ambigui", nel senso politico del termine. "Complesso" non vuol dire "complicato": vuol dire fatto di livelli diversi e interdipendenti, ma non riducibili alla somma delle sue parti - come il vivente. "Ambiguo" non vuol dire "poco limpido": ma dotato di molte e diverse verità, di potenzialità molteplici non tutte destinate a svilupparsi, e a loro volta non riducibili ad "una" verità. A nostro modesto parere, le primarie, appunto, erano e sono effettivamente state un evento "complesso" o "ambiguo", non riducibili né ieri né oggi ad una interpretazione monolitica. In esse, come avrebbe detto il vecchio Engels, la "quantità si è trasformata in qualità": ovvero, il numero dei partecipanti è stato così alto che l'evento stesso ne è stato modificato, nella sua natura e, forse perfino, nel suo senso.
Da misurazione dei rapporti di forza interni (all'interno della sinistra e del centrosinistra, cioè della componente più attiva, militante o politicizzata dello schieramento), come in fondo erano state concepite inizialmente, esse son divenute una sorta di prova politica generale dell'elettorato democratico: dove si è espressa la volontà di cambiare, di avviare un'altra fase della politica, di inviare "in prima persona" all'attuale governo un messaggio inequivocabile. In questo passaggio, la scelta del candidato-premier - in teoria oggetto unico del voto - è stata esercitata di conseguenza: quasi come una scelta simbolica, obbligata, "logica".
L'ampiezza di consensi tributata a Romano Prodi (del resto imprevedibile per i tanti analisti che puntavano al 60 per cento, nonché per lo stesso Romano Prodi), ha questa radice "secondaria" e non primaria: non esprime un'adesione specifica ad un programma politico, o ad una persona, o ad un'ideologia, ma la fiducia di massa in uno schieramento unitario. Interpretare il voto come una "iscrizione massiccia" al futuro Partito riformista o democratico o post-progressista è dunque una forzatura indebita - o di comodo, s'intende. Come è improprio vedervi una "delega", più o meno in bianco, ad un singolo: qui, l'illogicità dei commenti prevalenti raggiunge davvero il culmine. Mentre l'oggetto sostanziale delle primarie andava slittando in direzione politica generale, il suo oggetto formale - materiale - rimaneva invece la designazione di un candidato: di un rappresentante fiduciario dell'Unione. Come Prodi. Esattamente come la volontà di partecipazione che resta il dato qualificante dell'evento: essa ha incontrato sulla sua strada questa, e non altre opportunità, e l'ha usata, dicevamo, in "quantità" dilagante - come stop alla passività, all'inerzia, alla crisi attuale della politica.
In quali altre forme avrebbe potuto incanalarsi questo "crogiolo" di pulsioni e di volontà? Perché tacciarlo tout court di deriva plebiscitaria o personalistica? Le primarie italiane, appunto, sono un processo ambiguo e complesso: investono un leader, ma dentro un'esplosione di volontà partecipativa; legittimano una classe dirigente, ma dentro una cornice unitaria; manifestano un bisogno urgente di nuova politica, ma dentro, necessariamente, la politica reale. Non si può non vedere, insomma, che tra queste diverse curvature del voto la dialettica è forte, e la contraddizione nient'affatto chiusa.
Né si può ridurre la volontà di partecipazione - come fa in fondo Rossana Rossanda - ad elettoralismo, o separarla in termini così tranchant da altre forme di azione e partecipazione politica. Se fosse possibile misurare il tasso generale di partecipazione alla politica - in un partito, in un sindacato, in un issue, in un'associazione - proprio degli elettori delle primarie, emergerebbe quasi certamente un quadro sorprendente e coerente. Ancora, qui, a questione dell'ambiguità, e la necessità di ridefinire il senso del "fare politica".
Due parole, infine, sui risultati del candidato Fausto Bertinotti. Se è fondata l'analisi fin qui esposta, il 15 per cento al segretario di Rifondazione comunista si conferma come un consenso forte, anzi fortissimo: come leader simbolico dell'Unione, Bertinotti non aveva davvero molte chances. Eppure, molti dei commenti di ieri sono ispirati (per lo più malevolmente) dalla convinzione di una quasi-sconfitta, comunque di un voto deludente.
E' curioso che un giudizio politico così drastico si basi non sui numeri, non sui fatti, non sul tentativo di ricostruire la complessità di un evento, ma su una cifra - il 20 per cento - mutuata o da antiscientifici sondaggi o da un "meccanismo psicologico" che stabiliva qui, e non al di sotto, la soglia del successo. Quando poi questo stesso giudizio viene da chi non ha sostenuto questa candidatura, o l'ha avversata, o l'ha sostanzialmente boicottata, nel contesto di un più complessivo boicottaggio delle primarie, c'è di che restare attoniti. E se è comprensibile la cecità politica e intellettuale degli avversari - ieri il panico esagerato, oggi il "sospiro di sollievo" artatamente tirato - ben meno scusabile è la disonestà di sinistra, dovunque essa alligni.
liberzione.it
PRIMARIE - Errore con riserva
ROSSANA ROSSANDA
Il successo delle primarie mi ha dato clamorosamente torto ed è d'obbligo riconoscerlo. Ero persuasa che la disaffezione alla politica potesse venir corretta soltanto attraverso una grande e appassionata partecipazione programmatica. Non è così. La partecipazione è ormai intesa principalmente come elettorale, ma ha il suo peso ed è stato un errore non incoraggiarla. Queste primarie volevano dimostrare la insopportabilità di Berlusconi e questo hanno dimostrato, e la primazia di Prodi malgrado il calcio dell'asino che gli aveva dato Rutelli, l'occhio rivolto a un post 2006 cui non credo abbia rinunciato. Prodi ha avuto la sua legittimazione da quella parte della popolazione che domenica è uscita di casa, pur sapendo di non decidere in ultima istanza. E' anche una dimostrazione che la leadership del personaggio, vera radice del maggioritario, ha ormai in Italia il suo fascino. Anche nella sinistra come provato dall'affermazione di Bertinotti e dalla sparizione delle liste minori - eccezion fatta per le clientele di Mastella, che si sono rivelate soltanto di disturbo. Dovranno riflettervi, credo, coloro che presumono di rappresentare i movimenti, che hanno ragione di non manifestarsi ancora direttamente sul piano istituzionale. Detto questo mantengo - forse perché appartengo a un'altra generazione politica - una riserva. La scelta di una persona cui si dà una grande delega - nel nostro caso un esponente dell'opinione democratica di centro cui si vuole assicurare una piena «governabilità» - dimostra come si sia spento il bisogno di quella partecipazione diretta che aveva caratterizzato il 1968 e gli inizi della prima repubblica sulla cui ispirazione originaria non condivido la condanna dei più. Di conseguenza la persona prevale di gran lunga sul mandato, se pur indiretto, di quel che dovrà fare.
E' un prodotto dei vincoli di coalizione. E a essa ci si affida. Non ha infatti ragione Scalfari quando afferma nell'editoriale di domenica scorsa che un programma del centrosinistra ormai esiste: sull'orientamento della politica estera, che non è soltanto il ritiro delle truppe dall'Iraq; sulla priorità del lavoro rispetto all'impresa e alla sua competitività; del welfare rispetto all'assistenza ai poveri; del pubblico sul privato, a favore della sussidiarietà intesa come intervento dello stato soltanto laddove il privato non arriva, e per converso la illiceità dell'intervento legislativo sulla autodeterminazione della donna e in genere sul terreno della sessualità, non c'è ancora nessuna chiarezza. E forse non ci poteva essere. Ma resto convinta che sarebbe stato più serio presentare assieme alle candidature, una discussione esplicita sulle linee di quella che non potrà che essere una mediazione. Il voto popolare ha detto soltanto no a Berlusconi e basta con leggi ad personam. Prodi stesso ha ripetuto che il programma si dà dopo e che ha avuto un'intesa a quattr'occhi con Bertinotti - a quattr'occhi su quel che riguarda il destino dei singoli e del paese? Lo stesso Bertinotti ha affermato domenica che il programma lo fa chi ha vinto riservandosi, questo suppongo certo, di contestare le scelte che considererà insostenibili. Ne viene anche il sostegno a un premierato forte, che può essere incompatibile con la divisione dei poteri. Sono gli eletti che decidono e non sono eletti sulla base degli impegni che prendono. E' un mutamento del senso di partecipazione che era stato del Novecento e fortemente accentuato dagli ormai abominati anni Sessanta e Settanta. Si partecipa al voto e su quel che avverrà dopo si agirà per lobbies, pulite e collettive invece che sporche e private, delle quali anche i movimenti non saranno che una parte.
Detto questo, come non essere contenti che sia andata così? Lo sarei stata se avesse vinto il modesto Kerry contro un fascista come Bush, le conseguenze per il mondo sarebbero state diverse, limitando se non bloccando la minaccia americana di sopraffazione e di guerra, l'idea ridicola di esportazione della democrazia con le armi, e la vergogna del neoconservatorismo che affascina molte menti della nostra penisola. E' quel che bisogna sperare per le elezioni del 2006, cui queste primarie hanno dato forza. Non molto di più ma neanche di meno, constatazione cui sembra ormai doversi rassegnare.
ilmanifesto.it
Il successo delle primarie mi ha dato clamorosamente torto ed è d'obbligo riconoscerlo. Ero persuasa che la disaffezione alla politica potesse venir corretta soltanto attraverso una grande e appassionata partecipazione programmatica. Non è così. La partecipazione è ormai intesa principalmente come elettorale, ma ha il suo peso ed è stato un errore non incoraggiarla. Queste primarie volevano dimostrare la insopportabilità di Berlusconi e questo hanno dimostrato, e la primazia di Prodi malgrado il calcio dell'asino che gli aveva dato Rutelli, l'occhio rivolto a un post 2006 cui non credo abbia rinunciato. Prodi ha avuto la sua legittimazione da quella parte della popolazione che domenica è uscita di casa, pur sapendo di non decidere in ultima istanza. E' anche una dimostrazione che la leadership del personaggio, vera radice del maggioritario, ha ormai in Italia il suo fascino. Anche nella sinistra come provato dall'affermazione di Bertinotti e dalla sparizione delle liste minori - eccezion fatta per le clientele di Mastella, che si sono rivelate soltanto di disturbo. Dovranno riflettervi, credo, coloro che presumono di rappresentare i movimenti, che hanno ragione di non manifestarsi ancora direttamente sul piano istituzionale. Detto questo mantengo - forse perché appartengo a un'altra generazione politica - una riserva. La scelta di una persona cui si dà una grande delega - nel nostro caso un esponente dell'opinione democratica di centro cui si vuole assicurare una piena «governabilità» - dimostra come si sia spento il bisogno di quella partecipazione diretta che aveva caratterizzato il 1968 e gli inizi della prima repubblica sulla cui ispirazione originaria non condivido la condanna dei più. Di conseguenza la persona prevale di gran lunga sul mandato, se pur indiretto, di quel che dovrà fare.
E' un prodotto dei vincoli di coalizione. E a essa ci si affida. Non ha infatti ragione Scalfari quando afferma nell'editoriale di domenica scorsa che un programma del centrosinistra ormai esiste: sull'orientamento della politica estera, che non è soltanto il ritiro delle truppe dall'Iraq; sulla priorità del lavoro rispetto all'impresa e alla sua competitività; del welfare rispetto all'assistenza ai poveri; del pubblico sul privato, a favore della sussidiarietà intesa come intervento dello stato soltanto laddove il privato non arriva, e per converso la illiceità dell'intervento legislativo sulla autodeterminazione della donna e in genere sul terreno della sessualità, non c'è ancora nessuna chiarezza. E forse non ci poteva essere. Ma resto convinta che sarebbe stato più serio presentare assieme alle candidature, una discussione esplicita sulle linee di quella che non potrà che essere una mediazione. Il voto popolare ha detto soltanto no a Berlusconi e basta con leggi ad personam. Prodi stesso ha ripetuto che il programma si dà dopo e che ha avuto un'intesa a quattr'occhi con Bertinotti - a quattr'occhi su quel che riguarda il destino dei singoli e del paese? Lo stesso Bertinotti ha affermato domenica che il programma lo fa chi ha vinto riservandosi, questo suppongo certo, di contestare le scelte che considererà insostenibili. Ne viene anche il sostegno a un premierato forte, che può essere incompatibile con la divisione dei poteri. Sono gli eletti che decidono e non sono eletti sulla base degli impegni che prendono. E' un mutamento del senso di partecipazione che era stato del Novecento e fortemente accentuato dagli ormai abominati anni Sessanta e Settanta. Si partecipa al voto e su quel che avverrà dopo si agirà per lobbies, pulite e collettive invece che sporche e private, delle quali anche i movimenti non saranno che una parte.
Detto questo, come non essere contenti che sia andata così? Lo sarei stata se avesse vinto il modesto Kerry contro un fascista come Bush, le conseguenze per il mondo sarebbero state diverse, limitando se non bloccando la minaccia americana di sopraffazione e di guerra, l'idea ridicola di esportazione della democrazia con le armi, e la vergogna del neoconservatorismo che affascina molte menti della nostra penisola. E' quel che bisogna sperare per le elezioni del 2006, cui queste primarie hanno dato forza. Non molto di più ma neanche di meno, constatazione cui sembra ormai doversi rassegnare.
ilmanifesto.it
17.10.05
Sindrome Bolkestein
RICCARDO PETRELLA
Ci furono degli anni in cui l'Europa - il processo d'integrazione politica, sociale ed economica - rappresentò per la grande maggioranza dei cittadini dell'Europa occidentale la volontà e la speranza di costruire una società più democratica, capace di superare le derive dei nazionalismi distruttori, e più giusta socialmente, grazie a un welfare europeo dove i lavoratori, e non solo, gli imprenditori, i mercanti, i finanzieri, avrebbero trovato maggiori opportunità di benessere anche grazie alla libertà di movimento e di un «mercato» del lavoro unico e a una politica di sviluppo territoriale e sociale mirante all'eliminazione delle disuguaglianze regionali e sociali. Da una trentina di anni, le classi dirigenti europee, compresa una parte importante, in molti paesi, di quelle dette di sinistra e progressiste, hanno spappolato il sogno, ne hanno distrutto le ragioni di essere promuovendo una concezione dell'Europa fondata sulla dis-integrazione politica e sociale a favore di un'integrazione mercantile e finanziaria ispirata dalle logiche dell'economia capitalista mondializzata, liberalizzata, deregolamentata, privatizzata e competitiva. Prova ne é il fatto che dopo quasi cinquanta anni di «integrazione» le due sole realtà espressione dell'integrazione europea sono il mercato unico (senza politiche economiche e sociali comuni) e la moneta unica (senza una politica monetaria e finanziaria comune esercitata dal potere politico ma dalla indipendente Banca centrale europea, istituzione separata dalle istituzioni dell'Unione europea.
L'Europa non fa più sognare, anzi le classi dirigenti europee son riuscite a far sì che si diffonda fra le popolazioni dell'Europa, anche nei paesi di fresca integrazione, una crescente ostilità e paura nei confronti dell'Unione europea.
La Direttiva Bolkestein é l'esempio più eclatante dell'ostilità e delle paure. Se approvata, tradurrà in termini forti il principio che la società é soprattutto un mercato, un insieme di transazioni di scambio tra individui per l'accesso ai beni e ai servizi considerati essenziali alla vita, dove ciascuno ha la legittimità di perseguire l'ottimizzazione della sua utilità individuale. Sparisce cosi il concetto stesso di interesse generale, di benessere comune e quindi del vivere insieme. Sparisce la nozione stessa di servizio pubblico. Per la prima volta nella storia europea, i servizi pubblici che sono nati e si sono sviluppati attorno ai diritti umani e sociali, universali, , sono sottomessi ai meccanismi di rivalità e quindi di esclusione. Che regressione sociale maggiore! C'è da domandarsi se i dirigenti europei che oggi dominano l'Unione europea si rendono conto di quel che stanno facendo.
La Direttiva Bolkestein, altresì, demolisce la democrazia nazionale ed europea perché toglie agli stati membri il potere di decidere cos'é un servizio pubblico trasferendo alla Commissione europea il potere esclusivo di decisione in materia di servizi, di tutti i servizi in tutti i campi, nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio. Essa demolisce altresì la democrazia locale e regionale.
È grazie ai servizi pubblici che sono state costruite da noi la partecipazione dei cittadini, la coesione sociale e la solidarietà territoriale. La mercificazione e la privatizzazione dei servizi pubblici distruggeranno un patrimonio sociale e umano irripetibile, risultato di una grande storia di lotte politiche per la giustizia, l'uguaglianza, la libertà e la fraternita. Non dobbiamo avere alcun desiderio dell'Europa alla Bolkestein.
ilmanifesto.it
Ci furono degli anni in cui l'Europa - il processo d'integrazione politica, sociale ed economica - rappresentò per la grande maggioranza dei cittadini dell'Europa occidentale la volontà e la speranza di costruire una società più democratica, capace di superare le derive dei nazionalismi distruttori, e più giusta socialmente, grazie a un welfare europeo dove i lavoratori, e non solo, gli imprenditori, i mercanti, i finanzieri, avrebbero trovato maggiori opportunità di benessere anche grazie alla libertà di movimento e di un «mercato» del lavoro unico e a una politica di sviluppo territoriale e sociale mirante all'eliminazione delle disuguaglianze regionali e sociali. Da una trentina di anni, le classi dirigenti europee, compresa una parte importante, in molti paesi, di quelle dette di sinistra e progressiste, hanno spappolato il sogno, ne hanno distrutto le ragioni di essere promuovendo una concezione dell'Europa fondata sulla dis-integrazione politica e sociale a favore di un'integrazione mercantile e finanziaria ispirata dalle logiche dell'economia capitalista mondializzata, liberalizzata, deregolamentata, privatizzata e competitiva. Prova ne é il fatto che dopo quasi cinquanta anni di «integrazione» le due sole realtà espressione dell'integrazione europea sono il mercato unico (senza politiche economiche e sociali comuni) e la moneta unica (senza una politica monetaria e finanziaria comune esercitata dal potere politico ma dalla indipendente Banca centrale europea, istituzione separata dalle istituzioni dell'Unione europea.
L'Europa non fa più sognare, anzi le classi dirigenti europee son riuscite a far sì che si diffonda fra le popolazioni dell'Europa, anche nei paesi di fresca integrazione, una crescente ostilità e paura nei confronti dell'Unione europea.
La Direttiva Bolkestein é l'esempio più eclatante dell'ostilità e delle paure. Se approvata, tradurrà in termini forti il principio che la società é soprattutto un mercato, un insieme di transazioni di scambio tra individui per l'accesso ai beni e ai servizi considerati essenziali alla vita, dove ciascuno ha la legittimità di perseguire l'ottimizzazione della sua utilità individuale. Sparisce cosi il concetto stesso di interesse generale, di benessere comune e quindi del vivere insieme. Sparisce la nozione stessa di servizio pubblico. Per la prima volta nella storia europea, i servizi pubblici che sono nati e si sono sviluppati attorno ai diritti umani e sociali, universali, , sono sottomessi ai meccanismi di rivalità e quindi di esclusione. Che regressione sociale maggiore! C'è da domandarsi se i dirigenti europei che oggi dominano l'Unione europea si rendono conto di quel che stanno facendo.
La Direttiva Bolkestein, altresì, demolisce la democrazia nazionale ed europea perché toglie agli stati membri il potere di decidere cos'é un servizio pubblico trasferendo alla Commissione europea il potere esclusivo di decisione in materia di servizi, di tutti i servizi in tutti i campi, nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio. Essa demolisce altresì la democrazia locale e regionale.
È grazie ai servizi pubblici che sono state costruite da noi la partecipazione dei cittadini, la coesione sociale e la solidarietà territoriale. La mercificazione e la privatizzazione dei servizi pubblici distruggeranno un patrimonio sociale e umano irripetibile, risultato di una grande storia di lotte politiche per la giustizia, l'uguaglianza, la libertà e la fraternita. Non dobbiamo avere alcun desiderio dell'Europa alla Bolkestein.
ilmanifesto.it
12.10.05
Io, clandestino a Lampedusa
Ripescato in mare e rinchiuso nel centro di permanenza temporanea, l'inviato dell'Espresso Fabrizio Gatti ha vissuto una settimana con gli immigrati in condizioni disumane. E' stato poi liberato con il foglio di via
di Fabrizio Gatti
Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.
Venerdì 23 settembre
Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.
La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.
Sabato 24 settembre
L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.
L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.
Centinaia di immigrati sono seduti sull'asfalto in file da dieci tra due baracche prefabbricate e quattro container. "Oggi siamo a quota 447", avevano detto nell'ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. "Vai in fondo, muoversi, muoversi", urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp, e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza di urina e fogna. "Seduti", urla uno dei carabinieri, "Sit down". "Ma qui in fondo è una schifezza", dice il collega, un ragazzone con accento napoletano. "Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down", grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti l'interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per la Libia. Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene chiamato dall'interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un'altra sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L'interprete e i poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi e uomini mormorano di rabbia. "Italiano, puttana, cornuto", sussurra lo smilzo con la maglietta di Bergkamp.
Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c'è nemmeno l'atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell'ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un'ora perché dopo l'appello si resta in coda per il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una bottiglia di due litri d'acqua da dividere in due senza bicchieri. Un'occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con malattie infettive. Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull'asfalto o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa deve fare. Dietro alla mensa-dormitorio c'è qualche materassino lasciato da chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa con l'asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano: "Ehi, ashara-ashara". Ashara? In arabo significa dieci. "Ashara-ashara", urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami. In file da dieci, "ashara-ashara". È un altro trasferimento: questa volta l'aereo dell'Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera. Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro. "Questo qua è la terza volta quest'anno che passa da Lampedusa", lo indica un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.
Prima di sera l'ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per quell'inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere. Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. "Tu sei romeno e parli italiano", insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e chiede "Ce face?", come stai. E poi all'orecchio di Bilal sussura: "Pizda, pizda, pizda, pizda, pizda...", un modo poco elegante usato in Romania e altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel vuoto. Ci riprovano con un'interprete marocchina che alla fine conclude: "Non credo sia romeno. Parla l'arabo, però continua a chiedere che l'interrogatorio sia in inglese".
Domenica 25 settembre
Bilal ha deciso di andare al gabinetto quando è notte. I gabinetti sono un'esperienza indimenticabile. Il prefabbricato che li ospita è diviso in due settori. In uno, otto docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini. E otto turche di cui tre stracolme fino all'orlo di un impasto cremoso: la sorgente dei due rigagnoli. L'altro settore ha cinque water, di cui due senza sciacquone, cinque docce e otto lavandini. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c'è elettricità, non c'è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. Qualcuno si ripara come può con l'asciugamano. E non c'è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi. Ma anche il pediluvio nel lavandino prima di uscire diventa un problema: perché non appena si sfila il piede, la ciabatta comincia a galleggiare e a navigare con la corrente. Eppure il 15 settembre il leghista Mario Borghezio, guidando una delegazione di europarlamentari, ha detto che il centro di Lampedusa è un hotel a cinque stelle e che lui ci abiterebbe: quel giorno il ministero dell'Interno gli aveva fatto trovare soltanto 11 reclusi e quella settimana i trafficanti avevano deviato la rotta dei barconi fino in Sicilia. Chissà, forse nell'appartamento di Borghezio è normale avere i pavimenti coperti di liquami. Ma la maggior parte degli immigrati rinchiusi qui dentro viene da case pulite in cui si entra addirittura a piedi nudi.
La colazione è un bicchiere di latte freddo, due cornetti e la bottiglia d'acqua da dividere in due. All'ashara-ashara del mattino i carabinieri si accorgono che mancano cinque persone. Ma parlando tra loro decidono di non segnalarlo. Impossibile sapere chi sia scappato perché non si fa nessun appello: i reclusi vengono solo contati. A metà della recinzione che separa dall'aeroporto, proprio dietro uno dei pali con le telecamere a circuito chiuso, il filo spinato è tagliato. E sul palo sono rimasti due lacci di stoffa bianca, forse legati lì per facilitare la presa di chi si è arrampicato fin sopra la rete. I carabinieri rifanno il conto un'altra volta e rimettono tutti a sedere sotto il sole. Si resta così ore perché c'è un'altra chiamata. Fanno partire tutti gli eritrei e gli etiopi sbarcati lunedì 19. Tra loro, un'intera famiglia di fratelli e cugini, gli Abraham. Sono scappati dall'Eritrea per non essere mandati al fronte, vogliono continuare a studiare in Europa. Uno di loro, Youssef, è una promessa dell'atletica: ha continuato ad allenarsi anche nel centro, ogni mattina alle sei. Ci sono molti minorenni, rinchiusi da una settimana insieme agli adulti. Un carabiniere là davanti mostra loro un grosso telefonino e qualcuno si copre gli occhi con le mani. Ma non si capisce perché. Ahmed Ibrahim ha da giorni un'infezione intestinale. Chiede di andare alla toilette e dopo qualche minuto i carabinieri gli danno il permesso di alzarsi. Al gabinetto ci resta un bel po'. "Ma è tornato quello che è andato in bagno?", domanda uno dei militari. "E no che non è tornato, adesso vado a fare un giro". Altri chiedono di andare in bagno, ma i carabinieri non danno più il permesso. Dopo quasi mezz'ora Ahmed Ibrahim riappare, sudato e sfinito. "Tu", gli urla il carabiniere che mostrava il telefonino, "tu sei un cornuto". Ahmed lo guarda spaventato. "Sei un cornuto. Vai a sederti e non ti alzare più". I colleghi ridono. Alla fine partono in 150, forse per il centro di Caltanissetta. Ci si rialza e ci si risiede subito dopo per l'ashara-ashara del pranzo. Bilal ora è in terza fila. Un'altra lunga attesa, seduti e rannicchiati. Si avvicina il carabiniere con il grosso telefonino. È il meno robusto tra i suoi colleghi. Ha capelli neri curati, un neo ben visibile sulla guancia destra, un bracciale argentato e uno di cuoio con medagliette dorate al polso destro, e un orologio con cinturino in pelle al polso sinistro. Dopo aver fatto sentire un po' di musica tecno, schiaccia un altro tasto e il telefonino comincia ad ansimare. Lui si china, mostra lo schermo ai minorenni seduti accanto a Bilal. Sono immagini di un film porno scaricate forse da Internet. Il carabiniere si rialza e sorride: "E dopo, shampoo", annuncia ai minorenni mimando il gesto della masturbazione. I ragazzini ridono. Poi si china di nuovo sulla prima fila, la percorre e pretende che tutti guardino. Un trentenne si copre gli occhi con le mani. È uno dei ragazzi che ieri sera ha guidato la preghiera sul marciapiede-moschea. È un musulmano praticante e non vuole guardare. Il carabiniere con il neo gli strappa le mani dagli occhi: "E guarda che così impari", dice piazzandogli lo schermo davanti al naso. Il trentenne si volta, guarda Bilal con gli occhi lucidi. Un carabiniere alle loro spalle scherza con il collega: "Ma lascia perdere che quello è frocio".
Arriva il comandante, un appuntato che nel tempo libero gira con bandana, camicione e pantaloni fino al polpaccio. E il tormento non è finito. L'appuntato vuole farsi fare una foto davanti ai reclusi. Lui grida "Italia" e tutti devono alzare il pollice destro e rispondere "Uno". "Forza", dice un altro carabiniere, "chi non risponde 'uno' non mangia". Bilal non risponde e non alza nemmeno il braccio. Il carabiniere lo vede. Bilal lo fissa negli occhi e quello lascia perdere.
Poco dopo la polizia rivuole Bilal in ufficio. Ma non è per un interrogatorio. Due ispettori, sempre gentili e rispettosi, gli fanno indossare il giubbotto di salvataggio che hanno sequestrato la notte dello sbarco. Vogliono semplicemente fare una foto ricordo con lui. Uno si mette a destra, l'altro a sinistra: "Bilal smile, sorridi". Da quello scatto nessuno si occuperà più dell'identità dello strano immigrato curdo. Passa un'altra giornata. Su uno spiazzo di sassi appuntiti si gioca a calcio. Non ci sono scarpe per tutti. Così metà giocatori calza la destra, l'altra metà la sinistra e i due portieri restano a piedi nudi. Poco prima di cena cala il silenzio, all'improvviso. Un pullmino e un'ambulanza scaricano 21 immigrati neri. Sono sfiniti, affamati, seccati dal sale e bruciati dal sole. Passano davanti al cancello e agli sguardi fissi sulla loro sofferenza. Vengono fotografati, registrati, spogliati e perquisiti. Ricevono un tè caldo, un cornetto, un asciugamano e chi ha i vestiti logori, anche una tuta. Non si reggono in piedi. Ma dopo mezz'ora il cancello si apre e a gruppi di sei vengono spinti nella gabbia. Non sanno dove andare, barcollano. Due sono senza scarpe e quando vedono le condizioni del gabinetto tornano indietro a chiederne un paio. Cherriere, un arabo- francese sospettato di essere uno dei più famosi scafisti del Mediterraneo, impone ai carabinieri che gli ultimi arrivati siano serviti prima di tutti. Cherriere è il vero mediatore culturale: carabinieri e polizia lo chiamano spesso per farsi aiutare con l'arabo o per smussare le tensioni. Il medico ha mandato nella gabbia anche un uomo malato di scabbia. Non riesce nemmeno a sedersi per le piaghe, ma i militari insistono perché si metta come gli altri. L'ultimo entrato deve avere un colpo di sole perché continua a ciondolare. I carabinieri lo fanno andare avanti e indietro tre volte. "Quanto ha bevuto questo?", ride un militare. Bilal e Cherriere ottengono che anche lui sia messo in prima fila con i compagni di viaggio. Poi un carabiniere parla di Bilal convinto di non essere capito: "A questo qua dobbiamo insegnargli a farsi i cazzi suoi". Ma per le scarpe non c'è niente da fare. "Le scarpe le abbiamo date a tutti, dite a quei due che non scassino la minchia", gracchia il caposervizio della Misericordia, un uomo con i capelli bianchi, molto diverso da Angelo, Andrea o il cuoco, i ragazzi sempre disponibili anche se lavorano sodo tutto il giorno. E i due restano a piedi nudi. Dopo cena gli ultimi arrivati guardano la rotta tra la Libia e Lampedusa dipinta sul prefabbricato all'ingresso: "Abbiamo perso l'orientamento e siamo rimasti in mare sette giorni. Mia moglie diceva: we gonna die, moriremo. Ma io le dicevo: no, Dio ci porterà in Europa". Sono quasi tutti cristiani. Prima di andare a dormire intonano un gospel di ringraziamento al buio di una camerata. Impossibile trattenere le lacrime.
Lunedì 26 settembre
Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi sta male. Forse viene dalla prima camerata. Ma avvicinandosi il lamento prende la forma di una canzone stonata: "Ma quanto tempo e ancora, ti fai sentire dentro, quanto tempo e ancora.". Viene da oltre il cancello: i carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha mostrato le scene porno sul telefonino. C'è anche il loro appuntato. Sono di spalle e non si accorgono. Si torna a letto. Ma non si riesce più a dormire perché un'Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che qualcuno si svegli per farli atterrare.
Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l'avviso che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha risposto: "Non io, direttore". Oppure: "Bukara, domani". Oppure: "Non scassare la minchia". Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da settimane nella gabbia, fanno affari d'oro vendendo a 20 euro schede da 3. Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. "Ho bisogno di aiuto, sono chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare", dice Bilal in francese, "Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un euro". Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la stessa grave necessità. Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal riprova facendo a caso un po' di numeri verdi. All'800-400-400 risponde lo sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato. Invece dopo mezz'ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si inventa perfino una legge: "Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di fare questa telefonata". A nessuno interessano le angosce di questi immigrati chiusi in gabbia.
La sera, dopo cena, si prepara un'altra notte d'inferno. A Lampedusa sta arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti dell'ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le perquisizioni. Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo con i capelli grigi e un po' di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a gesti, senza urlare.
Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È l'unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami dai bagni. Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di essere aspirate sono state sparate tutt'intorno alle turche. Anche nel mangiare c'è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica. Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne. Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle proteine.
Mercoledì 28 settembre
L'ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a Mussolini un po' ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. "No", lo corregge un carabiniere, "quello è il saluto nazista. Quello fascista è così. Italiani!... La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?". Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri pomeriggio Bilal l'ha visto portare un malato in braccio, dall'infermeria alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e osserva. Un'altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180 nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto, due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. "Spogliati nudo", dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura. Lui non capisce. Resta immobile un minuto intero. "What is the problem?", urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L'immigrato, pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da mezz'ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo: una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e ciascuno si prende la sua razione di schiaffi. Quattro carabinieri fanno quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. "Questo ti dà problemi?", chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all'immigrato magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi immobile, in canottiera. Passa un'altra fila di immigrati, altro corridoio. Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no, guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo dell'oca e finge di portare una lancia: "Avanti marsh". Soltanto un carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano nell'aria per mezz'ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne accorge. È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i capelli dentro un bandana. "Maresciallo", dice nervosa, "vada di là a vedere cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono". Il maresciallo volta l'angolo e raggiunge gli altri carabinieri: "Uhe ragazzi, mi raccomando", dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a dormire sull'asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri festeggiano con una grigliata nel cortile.
Giovedì 29 settembre
Bilal passa tutta la giornata a convincere un gruppo di ferventi musulmani che non può assolutamente seguirli a pregare. Alle sei di sera, prima dell'ashara-ashara della cena, una voce femminile gli cambia l'umore. "El Habib Ibrahim Bilal. Domani mattina alle otto presentati al cancello perché verrai trasferito", dice l'interprete marocchina in arabo. "Quale destinazione?". "Agrigento". "Bilal va via", dice Cherriere. E davanti a Bilal si forma una coda di prigionieri della gabbia che vogliono salutarlo. Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato ieri sera, gli spiega come funziona: "Ti danno un foglio di via. Tu per cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi diversi di entrare in Italia non ce ne sono". La sera sbarcano altri 350 immigrati. Ma è il turno del brigadiere per bene e nessuno viene picchiato. Appena entra nella gabbia John, 27 anni, partito dal Togo e altri suoi compagni di viaggio chiedono dove si può mangiare. Ma la Misericordia fa sapere che il primo pasto sarà distribuito solo l'indomani mattina. "We are starving, non mangiamo da sette giorni", trema John, "Quando siamo sbarcati ho visto un negozio e volevo comprare qualcosa ma la polizia ci ha detto che non potevamo e che qui dentro avremmo mangiato. Abbiamo i nostri soldi. Se siamo liberi, perché non possiamo comprare da mangiare?". Bilal vede passare il medico, lo chiama e gli spiega la situazione. "Porto qualche brioche", dice il medico. Invece va via e non porta nulla. John e gli altri vanno a dormire su un marciapiede perché sono finiti anche i materassini. Un funzionario in borghese rovescia una lattina di Coca Cola addosso agli immigrati attraverso le sbarre. "Perché questo?", grida Teemer, 26 anni, palestinese, "Siamo clandestini, ma non siamo animali". Il funzionario si scusa. Le camerate sono strapiene di gente fin sotto i letti. La radio a tutto volume in cucina canta ciò che centinaia di bimbi forse pensano ogni giorno dei loro papà rinchiusi qui dentro: 'How I wish, how I wish you were here', come vorrei tu fossi qui. Si va a dormire in una scena da fine del mondo.
Venerdì 30 settembre
Quando torna dalla sua doccia notturna, Bilal trova il letto occupato da altre due persone. Sono le ultime ore nella gabbia, può anche rimanere alzato. Il cielo è illuminato da lampi e fulmini. Il temporale dura poco ma gli scrosci d'acqua risvegliano le centinaia di persone che si erano addormentate all'aperto. Davanti al cancello stanno registrando un nuovo sbarco. E i carabinieri stanno di nuovo picchiando i ragazzi che perquisiscono. I primi sono due uomini che non si erano seduti al loro ordine. Uno lo chiamano Maradona. Volano sberle e per Maradona anche un calcio. Si fermano solo quando passa il tenente in borghese, un ragazzo con il pizzetto. Poi prendono a schiaffi un ventenne che non capisce che cosa deve fare. E altri due ragazzi che al 'sit-down' non si sono seduti perché parlano arabo e francese. Bisogna fermare questo schifo. Bilal grida in inglese: "State picchiando la gente, perché?". Un carabiniere tira un calcio alla rete da dove sta osservando, cercando di colpirlo. Bilal viene chiamato fuori dal cancello. È un faccia a faccia tesissimo, gli occhi di Bilal dentro gli occhi di un carabiniere con i capelli un po' brizzolati e la mascherina per nascondersi. Ma almeno smettono di picchiare. Quando il sole è alto dentro la gabbia sono state ammassate 1250 persone. "Questo è 'o Professore", dice di Bilal un carabiniere a due colleghi, "Avete visto cosa ha fatto prima? Questo qua un giorno lo chiamiamo fuori e gli diamo una ripassata". Ma cinque minuti dopo è la polizia a chiamarlo fuori. Bilal viene portato vicino all'uscita, dove lo aspetta il gruppo che sta per essere trasferito. Nove adulti e 35 minori. La Misericordia distribuisce una maglietta bianca a tutti e le scarpe ai tre rimasti senza. Ma non restituisce i soldi che i ragazzini avevano depositato in segreteria. I carabinieri li hanno accompagnati all'uscita senza dire loro che sarebbero stati trasferiti da Lampedusa. "Oggi non è giornata, non c'è nessuno in ufficio che possa dare quei soldi", spiega un giovane della Misericordia. Bilal insiste in inglese: "Sono centinaia di euro, è importante che partano con i soldi". Un carabiniere dice di no con il dito e allarga le mani.
Si parte senza soldi. All'imbarco del traghetto gli ultimi turisti della stagione guardano la fila di immigrati sotto scorta dai carabinieri. Ciascuno ha un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Si viaggia fino a sera nella sala soggiorno della nave, piantonata da un brigadiere e due carabinieri molto cortesi. Youssef, 16 anni, è sicuro sia una deportazione in Libia e si mette a pregare verso prua, convinto che la rotta sia verso Sud-Est. Ma quando sull'orizzonte appaiono le montagne della Sicilia, tutti gli altri si incollano al finestrino e ridono: "Jebel Scisciglia". A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un'autobus della ditta Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte a tutta velocità. "Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia", dice Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece si finisce alla stazione. Ma il treno per Palermo è già partito: "Minchia, non parte mai in orario", s'arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto, furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il treno non è ancora arrivato. "Ragazzi ascoltatemi", spiega un funzionario in inglese, "Avete cinque giorni di tempo per lasciare l'Italia. Siete liberi". Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo dell'ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a Napoli e Catania. L'ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di aiutarli: "Lei che c'entra, crede che non li capisca?". Bilal esplode: "Ma se nun capisti mancu l'italiano, lo fate o no 'sta minchia di biglietto?". Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. "Che lingua era Bilal?", chiede Abdrazak in francese, "era curdo?".
L'Espresso
di Fabrizio Gatti
Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.
Venerdì 23 settembre
Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.
La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.
Sabato 24 settembre
L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.
L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.
Centinaia di immigrati sono seduti sull'asfalto in file da dieci tra due baracche prefabbricate e quattro container. "Oggi siamo a quota 447", avevano detto nell'ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. "Vai in fondo, muoversi, muoversi", urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp, e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza di urina e fogna. "Seduti", urla uno dei carabinieri, "Sit down". "Ma qui in fondo è una schifezza", dice il collega, un ragazzone con accento napoletano. "Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down", grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti l'interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per la Libia. Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene chiamato dall'interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un'altra sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L'interprete e i poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi e uomini mormorano di rabbia. "Italiano, puttana, cornuto", sussurra lo smilzo con la maglietta di Bergkamp.
Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c'è nemmeno l'atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell'ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un'ora perché dopo l'appello si resta in coda per il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una bottiglia di due litri d'acqua da dividere in due senza bicchieri. Un'occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con malattie infettive. Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull'asfalto o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa deve fare. Dietro alla mensa-dormitorio c'è qualche materassino lasciato da chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa con l'asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano: "Ehi, ashara-ashara". Ashara? In arabo significa dieci. "Ashara-ashara", urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami. In file da dieci, "ashara-ashara". È un altro trasferimento: questa volta l'aereo dell'Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera. Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro. "Questo qua è la terza volta quest'anno che passa da Lampedusa", lo indica un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.
Prima di sera l'ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per quell'inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere. Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. "Tu sei romeno e parli italiano", insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e chiede "Ce face?", come stai. E poi all'orecchio di Bilal sussura: "Pizda, pizda, pizda, pizda, pizda...", un modo poco elegante usato in Romania e altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel vuoto. Ci riprovano con un'interprete marocchina che alla fine conclude: "Non credo sia romeno. Parla l'arabo, però continua a chiedere che l'interrogatorio sia in inglese".
Domenica 25 settembre
Bilal ha deciso di andare al gabinetto quando è notte. I gabinetti sono un'esperienza indimenticabile. Il prefabbricato che li ospita è diviso in due settori. In uno, otto docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini. E otto turche di cui tre stracolme fino all'orlo di un impasto cremoso: la sorgente dei due rigagnoli. L'altro settore ha cinque water, di cui due senza sciacquone, cinque docce e otto lavandini. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c'è elettricità, non c'è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. Qualcuno si ripara come può con l'asciugamano. E non c'è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi. Ma anche il pediluvio nel lavandino prima di uscire diventa un problema: perché non appena si sfila il piede, la ciabatta comincia a galleggiare e a navigare con la corrente. Eppure il 15 settembre il leghista Mario Borghezio, guidando una delegazione di europarlamentari, ha detto che il centro di Lampedusa è un hotel a cinque stelle e che lui ci abiterebbe: quel giorno il ministero dell'Interno gli aveva fatto trovare soltanto 11 reclusi e quella settimana i trafficanti avevano deviato la rotta dei barconi fino in Sicilia. Chissà, forse nell'appartamento di Borghezio è normale avere i pavimenti coperti di liquami. Ma la maggior parte degli immigrati rinchiusi qui dentro viene da case pulite in cui si entra addirittura a piedi nudi.
La colazione è un bicchiere di latte freddo, due cornetti e la bottiglia d'acqua da dividere in due. All'ashara-ashara del mattino i carabinieri si accorgono che mancano cinque persone. Ma parlando tra loro decidono di non segnalarlo. Impossibile sapere chi sia scappato perché non si fa nessun appello: i reclusi vengono solo contati. A metà della recinzione che separa dall'aeroporto, proprio dietro uno dei pali con le telecamere a circuito chiuso, il filo spinato è tagliato. E sul palo sono rimasti due lacci di stoffa bianca, forse legati lì per facilitare la presa di chi si è arrampicato fin sopra la rete. I carabinieri rifanno il conto un'altra volta e rimettono tutti a sedere sotto il sole. Si resta così ore perché c'è un'altra chiamata. Fanno partire tutti gli eritrei e gli etiopi sbarcati lunedì 19. Tra loro, un'intera famiglia di fratelli e cugini, gli Abraham. Sono scappati dall'Eritrea per non essere mandati al fronte, vogliono continuare a studiare in Europa. Uno di loro, Youssef, è una promessa dell'atletica: ha continuato ad allenarsi anche nel centro, ogni mattina alle sei. Ci sono molti minorenni, rinchiusi da una settimana insieme agli adulti. Un carabiniere là davanti mostra loro un grosso telefonino e qualcuno si copre gli occhi con le mani. Ma non si capisce perché. Ahmed Ibrahim ha da giorni un'infezione intestinale. Chiede di andare alla toilette e dopo qualche minuto i carabinieri gli danno il permesso di alzarsi. Al gabinetto ci resta un bel po'. "Ma è tornato quello che è andato in bagno?", domanda uno dei militari. "E no che non è tornato, adesso vado a fare un giro". Altri chiedono di andare in bagno, ma i carabinieri non danno più il permesso. Dopo quasi mezz'ora Ahmed Ibrahim riappare, sudato e sfinito. "Tu", gli urla il carabiniere che mostrava il telefonino, "tu sei un cornuto". Ahmed lo guarda spaventato. "Sei un cornuto. Vai a sederti e non ti alzare più". I colleghi ridono. Alla fine partono in 150, forse per il centro di Caltanissetta. Ci si rialza e ci si risiede subito dopo per l'ashara-ashara del pranzo. Bilal ora è in terza fila. Un'altra lunga attesa, seduti e rannicchiati. Si avvicina il carabiniere con il grosso telefonino. È il meno robusto tra i suoi colleghi. Ha capelli neri curati, un neo ben visibile sulla guancia destra, un bracciale argentato e uno di cuoio con medagliette dorate al polso destro, e un orologio con cinturino in pelle al polso sinistro. Dopo aver fatto sentire un po' di musica tecno, schiaccia un altro tasto e il telefonino comincia ad ansimare. Lui si china, mostra lo schermo ai minorenni seduti accanto a Bilal. Sono immagini di un film porno scaricate forse da Internet. Il carabiniere si rialza e sorride: "E dopo, shampoo", annuncia ai minorenni mimando il gesto della masturbazione. I ragazzini ridono. Poi si china di nuovo sulla prima fila, la percorre e pretende che tutti guardino. Un trentenne si copre gli occhi con le mani. È uno dei ragazzi che ieri sera ha guidato la preghiera sul marciapiede-moschea. È un musulmano praticante e non vuole guardare. Il carabiniere con il neo gli strappa le mani dagli occhi: "E guarda che così impari", dice piazzandogli lo schermo davanti al naso. Il trentenne si volta, guarda Bilal con gli occhi lucidi. Un carabiniere alle loro spalle scherza con il collega: "Ma lascia perdere che quello è frocio".
Arriva il comandante, un appuntato che nel tempo libero gira con bandana, camicione e pantaloni fino al polpaccio. E il tormento non è finito. L'appuntato vuole farsi fare una foto davanti ai reclusi. Lui grida "Italia" e tutti devono alzare il pollice destro e rispondere "Uno". "Forza", dice un altro carabiniere, "chi non risponde 'uno' non mangia". Bilal non risponde e non alza nemmeno il braccio. Il carabiniere lo vede. Bilal lo fissa negli occhi e quello lascia perdere.
Poco dopo la polizia rivuole Bilal in ufficio. Ma non è per un interrogatorio. Due ispettori, sempre gentili e rispettosi, gli fanno indossare il giubbotto di salvataggio che hanno sequestrato la notte dello sbarco. Vogliono semplicemente fare una foto ricordo con lui. Uno si mette a destra, l'altro a sinistra: "Bilal smile, sorridi". Da quello scatto nessuno si occuperà più dell'identità dello strano immigrato curdo. Passa un'altra giornata. Su uno spiazzo di sassi appuntiti si gioca a calcio. Non ci sono scarpe per tutti. Così metà giocatori calza la destra, l'altra metà la sinistra e i due portieri restano a piedi nudi. Poco prima di cena cala il silenzio, all'improvviso. Un pullmino e un'ambulanza scaricano 21 immigrati neri. Sono sfiniti, affamati, seccati dal sale e bruciati dal sole. Passano davanti al cancello e agli sguardi fissi sulla loro sofferenza. Vengono fotografati, registrati, spogliati e perquisiti. Ricevono un tè caldo, un cornetto, un asciugamano e chi ha i vestiti logori, anche una tuta. Non si reggono in piedi. Ma dopo mezz'ora il cancello si apre e a gruppi di sei vengono spinti nella gabbia. Non sanno dove andare, barcollano. Due sono senza scarpe e quando vedono le condizioni del gabinetto tornano indietro a chiederne un paio. Cherriere, un arabo- francese sospettato di essere uno dei più famosi scafisti del Mediterraneo, impone ai carabinieri che gli ultimi arrivati siano serviti prima di tutti. Cherriere è il vero mediatore culturale: carabinieri e polizia lo chiamano spesso per farsi aiutare con l'arabo o per smussare le tensioni. Il medico ha mandato nella gabbia anche un uomo malato di scabbia. Non riesce nemmeno a sedersi per le piaghe, ma i militari insistono perché si metta come gli altri. L'ultimo entrato deve avere un colpo di sole perché continua a ciondolare. I carabinieri lo fanno andare avanti e indietro tre volte. "Quanto ha bevuto questo?", ride un militare. Bilal e Cherriere ottengono che anche lui sia messo in prima fila con i compagni di viaggio. Poi un carabiniere parla di Bilal convinto di non essere capito: "A questo qua dobbiamo insegnargli a farsi i cazzi suoi". Ma per le scarpe non c'è niente da fare. "Le scarpe le abbiamo date a tutti, dite a quei due che non scassino la minchia", gracchia il caposervizio della Misericordia, un uomo con i capelli bianchi, molto diverso da Angelo, Andrea o il cuoco, i ragazzi sempre disponibili anche se lavorano sodo tutto il giorno. E i due restano a piedi nudi. Dopo cena gli ultimi arrivati guardano la rotta tra la Libia e Lampedusa dipinta sul prefabbricato all'ingresso: "Abbiamo perso l'orientamento e siamo rimasti in mare sette giorni. Mia moglie diceva: we gonna die, moriremo. Ma io le dicevo: no, Dio ci porterà in Europa". Sono quasi tutti cristiani. Prima di andare a dormire intonano un gospel di ringraziamento al buio di una camerata. Impossibile trattenere le lacrime.
Lunedì 26 settembre
Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi sta male. Forse viene dalla prima camerata. Ma avvicinandosi il lamento prende la forma di una canzone stonata: "Ma quanto tempo e ancora, ti fai sentire dentro, quanto tempo e ancora.". Viene da oltre il cancello: i carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha mostrato le scene porno sul telefonino. C'è anche il loro appuntato. Sono di spalle e non si accorgono. Si torna a letto. Ma non si riesce più a dormire perché un'Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che qualcuno si svegli per farli atterrare.
Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l'avviso che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha risposto: "Non io, direttore". Oppure: "Bukara, domani". Oppure: "Non scassare la minchia". Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da settimane nella gabbia, fanno affari d'oro vendendo a 20 euro schede da 3. Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. "Ho bisogno di aiuto, sono chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare", dice Bilal in francese, "Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un euro". Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la stessa grave necessità. Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal riprova facendo a caso un po' di numeri verdi. All'800-400-400 risponde lo sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato. Invece dopo mezz'ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si inventa perfino una legge: "Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di fare questa telefonata". A nessuno interessano le angosce di questi immigrati chiusi in gabbia.
La sera, dopo cena, si prepara un'altra notte d'inferno. A Lampedusa sta arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti dell'ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le perquisizioni. Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo con i capelli grigi e un po' di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a gesti, senza urlare.
Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È l'unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami dai bagni. Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di essere aspirate sono state sparate tutt'intorno alle turche. Anche nel mangiare c'è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica. Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne. Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle proteine.
Mercoledì 28 settembre
L'ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a Mussolini un po' ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. "No", lo corregge un carabiniere, "quello è il saluto nazista. Quello fascista è così. Italiani!... La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?". Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri pomeriggio Bilal l'ha visto portare un malato in braccio, dall'infermeria alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e osserva. Un'altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180 nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto, due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. "Spogliati nudo", dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura. Lui non capisce. Resta immobile un minuto intero. "What is the problem?", urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L'immigrato, pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da mezz'ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo: una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e ciascuno si prende la sua razione di schiaffi. Quattro carabinieri fanno quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. "Questo ti dà problemi?", chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all'immigrato magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi immobile, in canottiera. Passa un'altra fila di immigrati, altro corridoio. Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no, guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo dell'oca e finge di portare una lancia: "Avanti marsh". Soltanto un carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano nell'aria per mezz'ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne accorge. È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i capelli dentro un bandana. "Maresciallo", dice nervosa, "vada di là a vedere cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono". Il maresciallo volta l'angolo e raggiunge gli altri carabinieri: "Uhe ragazzi, mi raccomando", dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a dormire sull'asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri festeggiano con una grigliata nel cortile.
Giovedì 29 settembre
Bilal passa tutta la giornata a convincere un gruppo di ferventi musulmani che non può assolutamente seguirli a pregare. Alle sei di sera, prima dell'ashara-ashara della cena, una voce femminile gli cambia l'umore. "El Habib Ibrahim Bilal. Domani mattina alle otto presentati al cancello perché verrai trasferito", dice l'interprete marocchina in arabo. "Quale destinazione?". "Agrigento". "Bilal va via", dice Cherriere. E davanti a Bilal si forma una coda di prigionieri della gabbia che vogliono salutarlo. Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato ieri sera, gli spiega come funziona: "Ti danno un foglio di via. Tu per cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi diversi di entrare in Italia non ce ne sono". La sera sbarcano altri 350 immigrati. Ma è il turno del brigadiere per bene e nessuno viene picchiato. Appena entra nella gabbia John, 27 anni, partito dal Togo e altri suoi compagni di viaggio chiedono dove si può mangiare. Ma la Misericordia fa sapere che il primo pasto sarà distribuito solo l'indomani mattina. "We are starving, non mangiamo da sette giorni", trema John, "Quando siamo sbarcati ho visto un negozio e volevo comprare qualcosa ma la polizia ci ha detto che non potevamo e che qui dentro avremmo mangiato. Abbiamo i nostri soldi. Se siamo liberi, perché non possiamo comprare da mangiare?". Bilal vede passare il medico, lo chiama e gli spiega la situazione. "Porto qualche brioche", dice il medico. Invece va via e non porta nulla. John e gli altri vanno a dormire su un marciapiede perché sono finiti anche i materassini. Un funzionario in borghese rovescia una lattina di Coca Cola addosso agli immigrati attraverso le sbarre. "Perché questo?", grida Teemer, 26 anni, palestinese, "Siamo clandestini, ma non siamo animali". Il funzionario si scusa. Le camerate sono strapiene di gente fin sotto i letti. La radio a tutto volume in cucina canta ciò che centinaia di bimbi forse pensano ogni giorno dei loro papà rinchiusi qui dentro: 'How I wish, how I wish you were here', come vorrei tu fossi qui. Si va a dormire in una scena da fine del mondo.
Venerdì 30 settembre
Quando torna dalla sua doccia notturna, Bilal trova il letto occupato da altre due persone. Sono le ultime ore nella gabbia, può anche rimanere alzato. Il cielo è illuminato da lampi e fulmini. Il temporale dura poco ma gli scrosci d'acqua risvegliano le centinaia di persone che si erano addormentate all'aperto. Davanti al cancello stanno registrando un nuovo sbarco. E i carabinieri stanno di nuovo picchiando i ragazzi che perquisiscono. I primi sono due uomini che non si erano seduti al loro ordine. Uno lo chiamano Maradona. Volano sberle e per Maradona anche un calcio. Si fermano solo quando passa il tenente in borghese, un ragazzo con il pizzetto. Poi prendono a schiaffi un ventenne che non capisce che cosa deve fare. E altri due ragazzi che al 'sit-down' non si sono seduti perché parlano arabo e francese. Bisogna fermare questo schifo. Bilal grida in inglese: "State picchiando la gente, perché?". Un carabiniere tira un calcio alla rete da dove sta osservando, cercando di colpirlo. Bilal viene chiamato fuori dal cancello. È un faccia a faccia tesissimo, gli occhi di Bilal dentro gli occhi di un carabiniere con i capelli un po' brizzolati e la mascherina per nascondersi. Ma almeno smettono di picchiare. Quando il sole è alto dentro la gabbia sono state ammassate 1250 persone. "Questo è 'o Professore", dice di Bilal un carabiniere a due colleghi, "Avete visto cosa ha fatto prima? Questo qua un giorno lo chiamiamo fuori e gli diamo una ripassata". Ma cinque minuti dopo è la polizia a chiamarlo fuori. Bilal viene portato vicino all'uscita, dove lo aspetta il gruppo che sta per essere trasferito. Nove adulti e 35 minori. La Misericordia distribuisce una maglietta bianca a tutti e le scarpe ai tre rimasti senza. Ma non restituisce i soldi che i ragazzini avevano depositato in segreteria. I carabinieri li hanno accompagnati all'uscita senza dire loro che sarebbero stati trasferiti da Lampedusa. "Oggi non è giornata, non c'è nessuno in ufficio che possa dare quei soldi", spiega un giovane della Misericordia. Bilal insiste in inglese: "Sono centinaia di euro, è importante che partano con i soldi". Un carabiniere dice di no con il dito e allarga le mani.
Si parte senza soldi. All'imbarco del traghetto gli ultimi turisti della stagione guardano la fila di immigrati sotto scorta dai carabinieri. Ciascuno ha un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Si viaggia fino a sera nella sala soggiorno della nave, piantonata da un brigadiere e due carabinieri molto cortesi. Youssef, 16 anni, è sicuro sia una deportazione in Libia e si mette a pregare verso prua, convinto che la rotta sia verso Sud-Est. Ma quando sull'orizzonte appaiono le montagne della Sicilia, tutti gli altri si incollano al finestrino e ridono: "Jebel Scisciglia". A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un'autobus della ditta Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte a tutta velocità. "Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia", dice Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece si finisce alla stazione. Ma il treno per Palermo è già partito: "Minchia, non parte mai in orario", s'arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto, furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il treno non è ancora arrivato. "Ragazzi ascoltatemi", spiega un funzionario in inglese, "Avete cinque giorni di tempo per lasciare l'Italia. Siete liberi". Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo dell'ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a Napoli e Catania. L'ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di aiutarli: "Lei che c'entra, crede che non li capisca?". Bilal esplode: "Ma se nun capisti mancu l'italiano, lo fate o no 'sta minchia di biglietto?". Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. "Che lingua era Bilal?", chiede Abdrazak in francese, "era curdo?".
L'Espresso
10.10.05
«No a ingegneria genetica come a fascismo e comunismo»
Il filosofo Fukuyama mette in guardia sui rischi di una ricerca senza limiti
«Non per motivi religiosi, ma per la necessità di tutelare la specie umana. 2050: l'Italia sarà un Paese in preda alla gerontocrazia»
WASHINGTON - «Si immagina l'Italia senza famiglie, senza parenti, fratelli e sorelle? No, non è l'idea giusta del vostro Paese, dai film ai romanzi. Eppure nel 2050, solo il 5% degli italiani avrà una famiglia allargata al di là del padre e della madre, una famiglia con fratelli, cugini, zii. E sa perché? Perché con il calo della natalità il Paese diverrà un ospizio per anziani, soggetti a demenza e Alzheimer, l'età media 65 anni, la classe dirigente gerontocratica, i pochi ragazzi smarriti e perplessi. Genetica, diritti delle nuove generazioni, difesa della nostra specie dalle ingegnerie di laboratorio che rischiano di cambiare la carta dei diritti: questo è il manifesto della nuova politica!».
Francis Fukuyama
Sono passati sedici anni dal suo pamphlet «La Fine della Storia» che, al crepuscolo della Guerra Fredda, fece discutere il mondo e il filosofo Francis Fukuyama è di nuovo al lavoro ai confini della conoscenza. Non si occupa più solo di politica internazionale, malgrado il suo dissenso con il presidente George W. Bush a proposito di attacco all'Iraq abbia stupito, venendo da uno studioso conservatore. Ha scritto di etica familiare asiatica, di valori occidentali e adesso si concentra a combattere il pericolo del «transumanismo», un nuovo codice genetico elaborato dagli scienziati che potrebbe ledere i diritti umani. Se siamo tutti uguali per la legge, ma alcuni di noi sono in grado di comprare per i figli al momento della nascita qualità formidabili, intelligenza, memoria, salute, in provetta, non cambierà la costituzione materiale? Sono i temi che Fukuyama solleverà in una lezione a Roma, al Centro di Orientamento Politico presieduto da Gaetano Rebecchini.
E l'Italia torna al centro della riflessione, anche con l'occhio alla Chiesa di Papa Benedetto XVI e allo scontro di primavera sui referenda per la fecondazione assistita: «Quello scontro - dice Fukuyama - è stato l'anticipo della politica che verrà. Le democrazie si troveranno sempre più spesso a disputare di diritto alla ricerca e limiti alla ricerca e le opinioni pubbliche si divideranno. Quando parliamo di libertà di studio e di cultura diffusa della comunità, ci viene in mente Galileo Galilei accusato dalla chiesa cattolica del cardinal Bellarmino per le sue tesi astronomiche. Le simpatie vanno automaticamente alla scienza, ma se guardiamo con freddezza al tema vediamo che ogni società pone limiti rigidi agli studi. Non permettiamo esperimenti su cavie umane come il dottor Mengele ad Auschwitz, perfino la ricerca sugli animali è regolata, a prescindere dai risultati. Quindi le regole devono esserci e io credo che una delle fondamentali debba tutelare la specie umana, non alterandone le caratteristiche».
Fukuyama conosce le posizioni della Chiesa sul tema, nei giorni del referendum il cardinal Ruini articolò la posizione tattica con l'astensione, monsignor Sgreccia diede l'impronta teorica, ma la sua scelta è diversa. «Io non parto da una posizione religiosa, sono consapevole della tradizione tomistica, non credo che i diritti dell'embrione siano gli stessi diritti di un cittadino. Credo però che l'embrione abbia una sua sfera di diritti, diciamo così intermedia, e che vada tutelato. So, al tempo stesso, che gran parte della mia comunità crede invece che l'embrione sia un cittadino e rispetto dunque questa idea. La ricerca sulle cellule staminali non va proibita, va regolata. E sa qual è il confine? La differenza tra terapia e cosmetica».
Il lettore avvezzo alle distinzioni grezze, conservatori contro progressisti come nel XIX secolo, aguzzi lo sguardo. Fukuyama, conservatore critico della guerra per esportare la democrazia, chiede - da liberale - cardini per la ricerca. Vuole che dai laboratori escano cure per le malattie, e sa che il futuro della medicina, anche oncologica, è la genetica. Ma rifiuta l'idea di uomini e donne che migliorino in provetta il loro destino: «Mi oppongo all'ingegneria genetica per la stessa ragione per cui mi oppongo al fascismo e al comunismo. Trovo ripugnante l'idea di considerare malleabile la natura umana, plasmandola al volere delle élites. Abbiamo imparato che l'ingegneria sociale provoca milioni di vittime, e temo che lo stesso possa accadere per l'utopia di modificare il comportamento umano in laboratorio, manipolando per esempio l'aggressività di certi individui. Quindi ok curare i malati, no a migliorare la personalità dei sani».
Che cosa ci sarebbe di male a nascere più alti, o più veloci, le cellule esplosive dello sprint sono innate, perché non darle a tutti? E perché mai una memoria migliore dovrebbe alterare il nostro codice etico, o un più diffuso quoziente d’intelligenza mettere a rischio l'Homo sapiens? Non credo che alla fine tutti sceglierebbero capelli biondi e occhi glauchi da ariano, i modelli di bellezza sono tanti e diversi. E non credo neppure che Leopardi fosse grande perché gobbo: anche dritto come un fuso il suo animo sarebbe rimasto grande e malinconico. Fukuyama dissente: «Per me un atleta migliorato in laboratorio è come un atleta dopato, andrebbe squalificato. E si immagina che succederebbe di un'umanità che fa la corsa all'altezza, tutti alti tre metri? Alle Olimpiadi vincerebbero non i migliori atleti, ma i migliori laboratori genetici. Guardi alla nostra società, e guardi soprattutto all'Italia. La vita media toccherà presto gli 80 anni, ma per tanti anziani che vita è? Li teniamo in case di riposo senza famiglia, soggetti a demenza senile, Alzheimer, perché abbiamo allungato la vita e non sappiamo battere questi morbi. E quando in Italia solo pochi tra di voi avranno famiglia che Paese sarà? Allora temo il distacco tra una scienza che va avanti e una società che rincorre, relegando all'infelicità e all'isolamento tanti di noi».
Negli Stati Uniti questa frattura si colma di psicofarmaci, tanto diffusi da essere perfino prescritti nelle scuole medie, per controllare la vivacità degli scolari. Ora gli effetti collaterali di depressione e i casi di suicidio preoccupano, ma fino a poco tempo fa il Prozac sembrava un chewing gum: «È vero. La tentazione di controllare la natura umana è forte per via genetica e fortissima per via chimica. E investe i più giovani. Si dimentica che non tutto è innato, è inutile modificare il nostro codice genetico se poi non modifichiamo l'ambiente, la cultura, intorno a noi. Il destino di ogni individuo è segnato dalle sue caratteristiche personali, ma anche dalla società e dalla famiglia in cui cresce».
Non c'è tempo per un bilancio a 16 anni dalla nostra prima conversazione sul Corriere, dopo il lancio de La Fine della Storia, Fukuyama ride: «Ci risentiamo a gennaio quando esce il tascabile con la nuova prefazione!», ma ai saluti chiedo come hanno reagito i vecchi amici neoconservatori al suo no alla guerra in Iraq: «Alcuni bene, altri male, alcuni non mi saluteranno più. Ma ho ragione io: un conservatore liberale ha un acuto senso dei limiti del potere statale nel modificare la realtà. E consiglia sempre prudenza, cautela, rispetto. Io lo faccio adesso sulla ricerca genetica, ma quando si sono illusi di disseminare democrazia a piene mani all'estero sono i miei amici che hanno rotto con il paradigma conservatore, non certo io».
Gianni Riotta
corriere.it
«Non per motivi religiosi, ma per la necessità di tutelare la specie umana. 2050: l'Italia sarà un Paese in preda alla gerontocrazia»
WASHINGTON - «Si immagina l'Italia senza famiglie, senza parenti, fratelli e sorelle? No, non è l'idea giusta del vostro Paese, dai film ai romanzi. Eppure nel 2050, solo il 5% degli italiani avrà una famiglia allargata al di là del padre e della madre, una famiglia con fratelli, cugini, zii. E sa perché? Perché con il calo della natalità il Paese diverrà un ospizio per anziani, soggetti a demenza e Alzheimer, l'età media 65 anni, la classe dirigente gerontocratica, i pochi ragazzi smarriti e perplessi. Genetica, diritti delle nuove generazioni, difesa della nostra specie dalle ingegnerie di laboratorio che rischiano di cambiare la carta dei diritti: questo è il manifesto della nuova politica!».
Francis Fukuyama
Sono passati sedici anni dal suo pamphlet «La Fine della Storia» che, al crepuscolo della Guerra Fredda, fece discutere il mondo e il filosofo Francis Fukuyama è di nuovo al lavoro ai confini della conoscenza. Non si occupa più solo di politica internazionale, malgrado il suo dissenso con il presidente George W. Bush a proposito di attacco all'Iraq abbia stupito, venendo da uno studioso conservatore. Ha scritto di etica familiare asiatica, di valori occidentali e adesso si concentra a combattere il pericolo del «transumanismo», un nuovo codice genetico elaborato dagli scienziati che potrebbe ledere i diritti umani. Se siamo tutti uguali per la legge, ma alcuni di noi sono in grado di comprare per i figli al momento della nascita qualità formidabili, intelligenza, memoria, salute, in provetta, non cambierà la costituzione materiale? Sono i temi che Fukuyama solleverà in una lezione a Roma, al Centro di Orientamento Politico presieduto da Gaetano Rebecchini.
E l'Italia torna al centro della riflessione, anche con l'occhio alla Chiesa di Papa Benedetto XVI e allo scontro di primavera sui referenda per la fecondazione assistita: «Quello scontro - dice Fukuyama - è stato l'anticipo della politica che verrà. Le democrazie si troveranno sempre più spesso a disputare di diritto alla ricerca e limiti alla ricerca e le opinioni pubbliche si divideranno. Quando parliamo di libertà di studio e di cultura diffusa della comunità, ci viene in mente Galileo Galilei accusato dalla chiesa cattolica del cardinal Bellarmino per le sue tesi astronomiche. Le simpatie vanno automaticamente alla scienza, ma se guardiamo con freddezza al tema vediamo che ogni società pone limiti rigidi agli studi. Non permettiamo esperimenti su cavie umane come il dottor Mengele ad Auschwitz, perfino la ricerca sugli animali è regolata, a prescindere dai risultati. Quindi le regole devono esserci e io credo che una delle fondamentali debba tutelare la specie umana, non alterandone le caratteristiche».
Fukuyama conosce le posizioni della Chiesa sul tema, nei giorni del referendum il cardinal Ruini articolò la posizione tattica con l'astensione, monsignor Sgreccia diede l'impronta teorica, ma la sua scelta è diversa. «Io non parto da una posizione religiosa, sono consapevole della tradizione tomistica, non credo che i diritti dell'embrione siano gli stessi diritti di un cittadino. Credo però che l'embrione abbia una sua sfera di diritti, diciamo così intermedia, e che vada tutelato. So, al tempo stesso, che gran parte della mia comunità crede invece che l'embrione sia un cittadino e rispetto dunque questa idea. La ricerca sulle cellule staminali non va proibita, va regolata. E sa qual è il confine? La differenza tra terapia e cosmetica».
Il lettore avvezzo alle distinzioni grezze, conservatori contro progressisti come nel XIX secolo, aguzzi lo sguardo. Fukuyama, conservatore critico della guerra per esportare la democrazia, chiede - da liberale - cardini per la ricerca. Vuole che dai laboratori escano cure per le malattie, e sa che il futuro della medicina, anche oncologica, è la genetica. Ma rifiuta l'idea di uomini e donne che migliorino in provetta il loro destino: «Mi oppongo all'ingegneria genetica per la stessa ragione per cui mi oppongo al fascismo e al comunismo. Trovo ripugnante l'idea di considerare malleabile la natura umana, plasmandola al volere delle élites. Abbiamo imparato che l'ingegneria sociale provoca milioni di vittime, e temo che lo stesso possa accadere per l'utopia di modificare il comportamento umano in laboratorio, manipolando per esempio l'aggressività di certi individui. Quindi ok curare i malati, no a migliorare la personalità dei sani».
Che cosa ci sarebbe di male a nascere più alti, o più veloci, le cellule esplosive dello sprint sono innate, perché non darle a tutti? E perché mai una memoria migliore dovrebbe alterare il nostro codice etico, o un più diffuso quoziente d’intelligenza mettere a rischio l'Homo sapiens? Non credo che alla fine tutti sceglierebbero capelli biondi e occhi glauchi da ariano, i modelli di bellezza sono tanti e diversi. E non credo neppure che Leopardi fosse grande perché gobbo: anche dritto come un fuso il suo animo sarebbe rimasto grande e malinconico. Fukuyama dissente: «Per me un atleta migliorato in laboratorio è come un atleta dopato, andrebbe squalificato. E si immagina che succederebbe di un'umanità che fa la corsa all'altezza, tutti alti tre metri? Alle Olimpiadi vincerebbero non i migliori atleti, ma i migliori laboratori genetici. Guardi alla nostra società, e guardi soprattutto all'Italia. La vita media toccherà presto gli 80 anni, ma per tanti anziani che vita è? Li teniamo in case di riposo senza famiglia, soggetti a demenza senile, Alzheimer, perché abbiamo allungato la vita e non sappiamo battere questi morbi. E quando in Italia solo pochi tra di voi avranno famiglia che Paese sarà? Allora temo il distacco tra una scienza che va avanti e una società che rincorre, relegando all'infelicità e all'isolamento tanti di noi».
Negli Stati Uniti questa frattura si colma di psicofarmaci, tanto diffusi da essere perfino prescritti nelle scuole medie, per controllare la vivacità degli scolari. Ora gli effetti collaterali di depressione e i casi di suicidio preoccupano, ma fino a poco tempo fa il Prozac sembrava un chewing gum: «È vero. La tentazione di controllare la natura umana è forte per via genetica e fortissima per via chimica. E investe i più giovani. Si dimentica che non tutto è innato, è inutile modificare il nostro codice genetico se poi non modifichiamo l'ambiente, la cultura, intorno a noi. Il destino di ogni individuo è segnato dalle sue caratteristiche personali, ma anche dalla società e dalla famiglia in cui cresce».
Non c'è tempo per un bilancio a 16 anni dalla nostra prima conversazione sul Corriere, dopo il lancio de La Fine della Storia, Fukuyama ride: «Ci risentiamo a gennaio quando esce il tascabile con la nuova prefazione!», ma ai saluti chiedo come hanno reagito i vecchi amici neoconservatori al suo no alla guerra in Iraq: «Alcuni bene, altri male, alcuni non mi saluteranno più. Ma ho ragione io: un conservatore liberale ha un acuto senso dei limiti del potere statale nel modificare la realtà. E consiglia sempre prudenza, cautela, rispetto. Io lo faccio adesso sulla ricerca genetica, ma quando si sono illusi di disseminare democrazia a piene mani all'estero sono i miei amici che hanno rotto con il paradigma conservatore, non certo io».
Gianni Riotta
corriere.it
4.10.05
L’INGRESSO NELL’UE
La Turchia specchio d’Europa
di Barbara spinelli
Prima ancora di aver deciso come ripartire dopo i referendum demolitori nel mese di maggio, prima ancora di aver immaginato una via d’uscita dallo stato di sfaccendata malavoglia in cui si trovano, gli Stati europei sono costretti a porsi una domanda fondamentale: c'è spazio per la Turchia, nell’Unione fin qui costruita? E quest'Unione così come oggi è fatta possiede la capacità di accogliere un paese demograficamente forte, dotato di un possente senso dello Stato-nazione, aggrappato con lacci saldi a un'idea etnica dell'identità, come oggi è la Turchia? Molto più della diversità religiosa, sono queste differenze che pesano nei futuri incontri europei con il candidato all'adesione, e che possono impedire l'apertura di un negoziato sui tempi, i modi, le condizioni dell'ingresso turco in Europa. Come ha detto Franco Venturini sul Corriere della Sera, quel che chiamiamo problema turco è in realtà un problema nostro: problema che sarebbe meglio chiamare male, e che la crisi dei referendum ha tangibilmente acuito. A cominciare dal mese di maggio le opinioni pubbliche hanno fatto irruzione in Europa, paralizzando il suo cammino verso una costituzione unitaria e rivelando al contempo l'esistenza di una vasta ostilità agli allargamenti dell'Unione: quelli recenti, e specialmente quello alla Turchia di cui si dibatte adesso. Se nulla cambia in questo male dell'Unione, c'è il pericolo che Ankara «fra 10 o 15 anni entri nel fantasma di un'Europa perduta» (Corriere, 30-9-05).
Tutto sta dunque a non perdere l'Europa e la sua ragion d'essere, nel momento in cui si discute delle due possibilità che essa ha davanti: mantenere la promessa d'adesione fatta alla Turchia da molti decenni, oppure rinviare il negoziato congelandolo.
In ambedue i casi l'Unione dei 25 è a un bivio: se non dice quel che vuole essere e divenire, se non esce dalla malavoglia in cui ha cacciato se stessa, se non capisce che per contare ha bisogno di trasformarsi in un’Unione autentica, capace di decidere e darsi i mezzi mettendo assieme i deboli poteri dei singoli Stati-nazione e affiancando alla sovranità di questi ultimi l'autorevolezza di una sovranità superiore, l’Europa non sarà in grado di dire alcunché, né alle proprie opinioni pubbliche e neppure, di conseguenza e in simultanea, all'interlocutore turco.
Anche se malati infatti, e impigliati nell'accidia, i governanti europei hanno di fronte un’occasione veramente preziosa: rispondere alla Turchia non è possibile senza preliminarmente rispondere a se stessi; aprire al nuovo candidato implica una ridefinizione di quel che si vuole e di come s'intende agire per non affossare l'Unione, e questo significa che il problema dell'adesione più che un problema è la soluzione stessa. Se la questione non è religiosa ma piuttosto - come crediamo - politico-istituzionale e politico-storica, se la differenza tra noi e loro è un'idea diversa della sovranità nazionale e dell'identità etnica più o meno plurale, allora individuare e mettere a fuoco tale differenza può servire da bussola, nella strada che l'Europa sta cercando per rifondarsi, costruirsi meglio, allargarsi senza traumi. Individuate e non più mascherate, queste differenze diventano i veri confini dell’Unione.
Basterebbe che gli europei ricordassero dunque i motivi per cui si sono uniti e vogliono unirsi ancor più, e la risposta alla Turchia verrebbe naturale. «Volete entrare in un'Europa che ha imparato dalla propria storia a non fidarsi della sovranità nazionale assoluta, e che per questo ha delegato a una superiore Unione non tutta la sovranità ma una gran parte di essa? Volete condividere l'allergia degli europei verso le identità etnicamente omogenee, anch'essa appresa dalla storia?». Chiedere che la Turchia risponda non vagamente ma in concreto a questi interrogativi presuppone che l'Europa ripensi - facendo tesoro del dialogo con Ankara - le ragioni del suo stare assieme e gli impedimenti che cronicamente si frappongono alla nascita di un'unità sovrannazionale meno aleatoria, non sostitutiva degli Stati quando questi sanno agire da soli ma efficace quando da soli essi periclitano. Le opinioni pubbliche e perfino i detrattori della costituzione reclamano in fondo proprio questo ripensamento, ritenendolo scarseggiante: e in effetti esso ha occupato di rado le menti dei convenzionali che son stati incaricati di proporre il trattato costituzionale e che, influenzati da Giscard, hanno innanzitutto cercato di non urtare le suscettibilità dei sovrani nazionali.
Negoziare e porre condizioni alla Turchia vuol dire ricordarle le vere differenze fra la nostra e le sua storia, non quelle false, pretestuose. È quello che rende così sterile e ipocrita l'ostilità di Vienna e di tanti politici dell'Unione all'apertura del negoziato: come se tener fuori Ankara aiutasse a superare la malavoglia in cui l'Unione è impantanata; come se i detrattori dell'adesione sapessero davvero quel che dicono e vogliono, quando constatano l'incompatibilità turco-europea tacendo i collassi dell'Unione e fingendo anzi che essa esista già, robusta e ben regolata.
Le differenze tra noi e loro naturalmente esistono, ed è importante che il Parlamento europeo le abbia adombrate proprio in questi giorni. Riconoscere il genocidio perpetrato dallo Stato turco a danno degli armeni nel 1915 (un genocidio che Hitler prese a modello: più di un milione di morti); riconoscere Cipro e la necessaria convivenza nell'isola fra turchi e greci: questo domandano soprattutto i parlamentari europei, e ogni volta è in questione l'atteggiamento verso il proprio passato, la lezione che se ne trae. La Turchia - a differenza degli Stati europei che nel dopoguerra costruirono il Mercato Comune - non ha almeno ufficialmente un medesimo sguardo sulla storia di ieri: non ne riconosce gli orrori, quindi non vuole neppure superare lo Stato-nazione assolutamente sovrano che ha reso possibili genocidi, guerre, insanabili conflitti con minoranze. L'Europa dopo il '45 si è unita attorno a un grande no: no all'identità nazionale etnica, no al nazionalismo che sradica il diverso, le minoranze. È interessante che questo no sia oggi singolarmente debole in nazioni post imperiali come Austria e Turchia.
A queste differenze turche si potrebbe aggiungere il processo a Orhan Pamuk, fissato per il 16 dicembre - l'ultimo suo romanzo s'intitola Neve (Einaudi); i suoi libri sono stati bruciati in piazza da estremisti nella cittadina di Bilecik. Il processo prende l'avvio da quel che lo scrittore ha dichiarato in febbraio, quando sul giornale svizzero Tages-Anzeiger ha detto che in Turchia c'è ancora silenzio sui massacri delle minoranze armene e curde, e non solo silenzio ma tabù e diniego. L'articolo del codice penale lo rende imputabile di «vilipendio e offesa dell'identità turca» - della turchicità - e prevede pene da 6 mesi a quattro anni. Un paese che processa romanzieri per quel che scrivono sul passato nazionale ha poco spazio nell'Unione, per il semplice fatto che l'Europa ha il proprio fondamento su scritti di questo genere.
Anche gli elettroshock nelle cliniche turche - rivelati dal New York Times il 29 settembre - rischiano infine d'essere un ostacolo. Usati in molti ospedali come strumenti di punizione (per questo non si usa l'anestesia, hanno dichiarato medici turchi: «Se l'usassimo, l'elettroshock non sarebbe così efficace perché i pazienti non si sentirebbero puniti»), applicati per addomesticare bambini e donne in depressione post partum, equivalgono a torture secondo l'Organizzazione internazionale per i diritti dei disabili che ha denunciato Ankara (Mental Disability Rights International, presieduta da Eric Rosenthal).
Torture psichiatriche, rifiuto di riesaminare la propria storia e superare la nozione dell'identità etnica omogenea, facendo posto alle minoranze che esistevano nell’impero ottomano prima della nascita dello Stato turco. Questo fa della Turchia un difficile ospite in Europa: un ospite laico religiosamente, ma non ancora laico nel rapporto con minoranze etniche o intellettuali. Per capirlo conviene leggere Pamuk stesso, quel che ha detto dopo l'11 settembre. In un articolo sul New York Review of Books (La collera dei dannati, 15-11-2001), il romanziere descrisse quel che era il suo maggiore incubo: che le democrazie liberali reagissero all'attentato terrorista con una guerra tra identità religiose, senza ascoltare i «dannati della terra» accanto a noi, e corrodendo - in nome di un'identità etnica e culturale che si sente assediata - gli Stati di diritto nelle democrazie. Pamuk ha dato un nome a questa regressione possibile: il pericolo, ha detto, «è che Europa e America diventino una specie di grande Turchia: uno spazio dove la democrazia è fortemente limitata, la modernizzazione è un lavoro non finito, l'intolleranza verso le minoranze è la regola», e «il mondo è governato quasi permanentemente dallo stato marziale».
Stupisce meno a questo punto che i fautori dell'allargamento siano spesso gli stessi che poi auspicano lo scontro globale fra religioni e un'identità europea se possibile epurata, non meticcia. Far entrare la Turchia sulla base di ragionamenti identitari è un mezzo non troppo recondito che si usa per perdere l'Europa: le ragioni per cui è nata, s'è unita, e ancor oggi è necessaria.
lastampa.it
di Barbara spinelli
Prima ancora di aver deciso come ripartire dopo i referendum demolitori nel mese di maggio, prima ancora di aver immaginato una via d’uscita dallo stato di sfaccendata malavoglia in cui si trovano, gli Stati europei sono costretti a porsi una domanda fondamentale: c'è spazio per la Turchia, nell’Unione fin qui costruita? E quest'Unione così come oggi è fatta possiede la capacità di accogliere un paese demograficamente forte, dotato di un possente senso dello Stato-nazione, aggrappato con lacci saldi a un'idea etnica dell'identità, come oggi è la Turchia? Molto più della diversità religiosa, sono queste differenze che pesano nei futuri incontri europei con il candidato all'adesione, e che possono impedire l'apertura di un negoziato sui tempi, i modi, le condizioni dell'ingresso turco in Europa. Come ha detto Franco Venturini sul Corriere della Sera, quel che chiamiamo problema turco è in realtà un problema nostro: problema che sarebbe meglio chiamare male, e che la crisi dei referendum ha tangibilmente acuito. A cominciare dal mese di maggio le opinioni pubbliche hanno fatto irruzione in Europa, paralizzando il suo cammino verso una costituzione unitaria e rivelando al contempo l'esistenza di una vasta ostilità agli allargamenti dell'Unione: quelli recenti, e specialmente quello alla Turchia di cui si dibatte adesso. Se nulla cambia in questo male dell'Unione, c'è il pericolo che Ankara «fra 10 o 15 anni entri nel fantasma di un'Europa perduta» (Corriere, 30-9-05).
Tutto sta dunque a non perdere l'Europa e la sua ragion d'essere, nel momento in cui si discute delle due possibilità che essa ha davanti: mantenere la promessa d'adesione fatta alla Turchia da molti decenni, oppure rinviare il negoziato congelandolo.
In ambedue i casi l'Unione dei 25 è a un bivio: se non dice quel che vuole essere e divenire, se non esce dalla malavoglia in cui ha cacciato se stessa, se non capisce che per contare ha bisogno di trasformarsi in un’Unione autentica, capace di decidere e darsi i mezzi mettendo assieme i deboli poteri dei singoli Stati-nazione e affiancando alla sovranità di questi ultimi l'autorevolezza di una sovranità superiore, l’Europa non sarà in grado di dire alcunché, né alle proprie opinioni pubbliche e neppure, di conseguenza e in simultanea, all'interlocutore turco.
Anche se malati infatti, e impigliati nell'accidia, i governanti europei hanno di fronte un’occasione veramente preziosa: rispondere alla Turchia non è possibile senza preliminarmente rispondere a se stessi; aprire al nuovo candidato implica una ridefinizione di quel che si vuole e di come s'intende agire per non affossare l'Unione, e questo significa che il problema dell'adesione più che un problema è la soluzione stessa. Se la questione non è religiosa ma piuttosto - come crediamo - politico-istituzionale e politico-storica, se la differenza tra noi e loro è un'idea diversa della sovranità nazionale e dell'identità etnica più o meno plurale, allora individuare e mettere a fuoco tale differenza può servire da bussola, nella strada che l'Europa sta cercando per rifondarsi, costruirsi meglio, allargarsi senza traumi. Individuate e non più mascherate, queste differenze diventano i veri confini dell’Unione.
Basterebbe che gli europei ricordassero dunque i motivi per cui si sono uniti e vogliono unirsi ancor più, e la risposta alla Turchia verrebbe naturale. «Volete entrare in un'Europa che ha imparato dalla propria storia a non fidarsi della sovranità nazionale assoluta, e che per questo ha delegato a una superiore Unione non tutta la sovranità ma una gran parte di essa? Volete condividere l'allergia degli europei verso le identità etnicamente omogenee, anch'essa appresa dalla storia?». Chiedere che la Turchia risponda non vagamente ma in concreto a questi interrogativi presuppone che l'Europa ripensi - facendo tesoro del dialogo con Ankara - le ragioni del suo stare assieme e gli impedimenti che cronicamente si frappongono alla nascita di un'unità sovrannazionale meno aleatoria, non sostitutiva degli Stati quando questi sanno agire da soli ma efficace quando da soli essi periclitano. Le opinioni pubbliche e perfino i detrattori della costituzione reclamano in fondo proprio questo ripensamento, ritenendolo scarseggiante: e in effetti esso ha occupato di rado le menti dei convenzionali che son stati incaricati di proporre il trattato costituzionale e che, influenzati da Giscard, hanno innanzitutto cercato di non urtare le suscettibilità dei sovrani nazionali.
Negoziare e porre condizioni alla Turchia vuol dire ricordarle le vere differenze fra la nostra e le sua storia, non quelle false, pretestuose. È quello che rende così sterile e ipocrita l'ostilità di Vienna e di tanti politici dell'Unione all'apertura del negoziato: come se tener fuori Ankara aiutasse a superare la malavoglia in cui l'Unione è impantanata; come se i detrattori dell'adesione sapessero davvero quel che dicono e vogliono, quando constatano l'incompatibilità turco-europea tacendo i collassi dell'Unione e fingendo anzi che essa esista già, robusta e ben regolata.
Le differenze tra noi e loro naturalmente esistono, ed è importante che il Parlamento europeo le abbia adombrate proprio in questi giorni. Riconoscere il genocidio perpetrato dallo Stato turco a danno degli armeni nel 1915 (un genocidio che Hitler prese a modello: più di un milione di morti); riconoscere Cipro e la necessaria convivenza nell'isola fra turchi e greci: questo domandano soprattutto i parlamentari europei, e ogni volta è in questione l'atteggiamento verso il proprio passato, la lezione che se ne trae. La Turchia - a differenza degli Stati europei che nel dopoguerra costruirono il Mercato Comune - non ha almeno ufficialmente un medesimo sguardo sulla storia di ieri: non ne riconosce gli orrori, quindi non vuole neppure superare lo Stato-nazione assolutamente sovrano che ha reso possibili genocidi, guerre, insanabili conflitti con minoranze. L'Europa dopo il '45 si è unita attorno a un grande no: no all'identità nazionale etnica, no al nazionalismo che sradica il diverso, le minoranze. È interessante che questo no sia oggi singolarmente debole in nazioni post imperiali come Austria e Turchia.
A queste differenze turche si potrebbe aggiungere il processo a Orhan Pamuk, fissato per il 16 dicembre - l'ultimo suo romanzo s'intitola Neve (Einaudi); i suoi libri sono stati bruciati in piazza da estremisti nella cittadina di Bilecik. Il processo prende l'avvio da quel che lo scrittore ha dichiarato in febbraio, quando sul giornale svizzero Tages-Anzeiger ha detto che in Turchia c'è ancora silenzio sui massacri delle minoranze armene e curde, e non solo silenzio ma tabù e diniego. L'articolo del codice penale lo rende imputabile di «vilipendio e offesa dell'identità turca» - della turchicità - e prevede pene da 6 mesi a quattro anni. Un paese che processa romanzieri per quel che scrivono sul passato nazionale ha poco spazio nell'Unione, per il semplice fatto che l'Europa ha il proprio fondamento su scritti di questo genere.
Anche gli elettroshock nelle cliniche turche - rivelati dal New York Times il 29 settembre - rischiano infine d'essere un ostacolo. Usati in molti ospedali come strumenti di punizione (per questo non si usa l'anestesia, hanno dichiarato medici turchi: «Se l'usassimo, l'elettroshock non sarebbe così efficace perché i pazienti non si sentirebbero puniti»), applicati per addomesticare bambini e donne in depressione post partum, equivalgono a torture secondo l'Organizzazione internazionale per i diritti dei disabili che ha denunciato Ankara (Mental Disability Rights International, presieduta da Eric Rosenthal).
Torture psichiatriche, rifiuto di riesaminare la propria storia e superare la nozione dell'identità etnica omogenea, facendo posto alle minoranze che esistevano nell’impero ottomano prima della nascita dello Stato turco. Questo fa della Turchia un difficile ospite in Europa: un ospite laico religiosamente, ma non ancora laico nel rapporto con minoranze etniche o intellettuali. Per capirlo conviene leggere Pamuk stesso, quel che ha detto dopo l'11 settembre. In un articolo sul New York Review of Books (La collera dei dannati, 15-11-2001), il romanziere descrisse quel che era il suo maggiore incubo: che le democrazie liberali reagissero all'attentato terrorista con una guerra tra identità religiose, senza ascoltare i «dannati della terra» accanto a noi, e corrodendo - in nome di un'identità etnica e culturale che si sente assediata - gli Stati di diritto nelle democrazie. Pamuk ha dato un nome a questa regressione possibile: il pericolo, ha detto, «è che Europa e America diventino una specie di grande Turchia: uno spazio dove la democrazia è fortemente limitata, la modernizzazione è un lavoro non finito, l'intolleranza verso le minoranze è la regola», e «il mondo è governato quasi permanentemente dallo stato marziale».
Stupisce meno a questo punto che i fautori dell'allargamento siano spesso gli stessi che poi auspicano lo scontro globale fra religioni e un'identità europea se possibile epurata, non meticcia. Far entrare la Turchia sulla base di ragionamenti identitari è un mezzo non troppo recondito che si usa per perdere l'Europa: le ragioni per cui è nata, s'è unita, e ancor oggi è necessaria.
lastampa.it
2.10.05
Le risorse logiche dell'azione creativa
Fare cose nuove con le parole: l'ultimo saggio di Paolo Virno, uscito da poco per Bollati Boringhieri con il titolo Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento, ruota intorno a questo nucleo teorico. Tracciando un sentiero che connette la filosofia del linguaggio e quella della politica
FILIPPO DEL LUCCHESE
Giungendo ai confini del Mar Glaciale, Pantagruele e i suoi compagni odono voci misteriose portate dal vento. È uno dei luoghi più affascinanti di quell'arsenale della sovversione ludica e linguistica che Rabelais compose alla metà del XVI secolo. L'anno precedente - spiega il pilota della nave - non lontano ebbe luogo una battaglia. Le grida degli uomini e ogni altro fracasso del combattimento gelarono nell'aria. Solo passato il rigore dell'inverno, quelle frasi cominciano a scongelarsi e possono nuovamente essere udite. Pantagruele, incarnazione provocatoria di un umanesimo eretico, ne acchiappa alcune gettandole sul ponte della nave. Sembravano confetti che, scaldati un po' fra le mani, fondevano come neve. Parole barbare, «di sabbia e d'oro», il cui significato sfugge ai personaggi, ma che il lettore comprende a meraviglia, stringendo fra le mani uno dei testi più rivoluzionari dell'intera tradizione letteraria occidentale. La materialità della parola, disgelata dal genio di Rabelais, inaugura un orizzonte nuovo, magico e meraviglioso della modernità. Fare cose nuove con le parole. Proprio questo è il nucleo teorico dell'ultimo saggio di Paolo Virno, Motto di spirito e azione innovativa (Bollati Boringhieri, pp. 98, 12). Attraverso Freud e Aristotele, Schmitt e Wittgenstein, Virno traccia un sentiero che attraversa e connette filosofia del linguaggio e della politica. Un percorso in cerca di strumenti adeguati non solo a comprendere le forme di vita contemporanee, ma anche a costruire - come recita il sottotitolo - una vera e propria «logica del cambiamento». Fra i fenomeni linguistici, proprio il motto di spirito condensa in sé i meccanismi più raffinati della creatività e dell'innovazione. Raffinati eppure largamente inconsci, al limite dell'istintuale. Il motto di spirito ben riuscito, quello folgorante, meraviglia tanto chi lo ascolta quanto chi lo pronuncia. Non si tratta di un abito linguistico pazientemente confezionato, con cui rivestire un pensiero pre-costituito. Vero e proprio `indumento' di fortuna - e perciò quanto mai necessario - il motto ha luogo nello scarto ineliminabile tra una regola e la sua applicazione.
Una regola infatti, sia essa giuridica, linguistica o ludica, si può applicare in molti modi diversi. La regola non può suggerire le modalità concrete della propria applicazione. Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein mette in luce queste conclusioni in ambito linguistico e le loro ricadute sul piano filosofico. Ogni individuo possiede delle convinzioni generali sul mondo, sull'ambiente in cui vive, sulla propria esistenza. Convinzioni né vere né false, perché non sono oggetto di conoscenza, bensì ereditate dal contesto in cui si sono formate. Esse rappresentano, per così dire, le norme generali o le «regole grammaticali» di quella particolare forma di vita. A queste regole si affiancano le vicende ordinarie della vita individuale, i «fatti empirici», le decisioni prese in situazioni determinate, i giudizi formulati sullo sfondo e sulla scorta della grammatica a nostra disposizione. Fra quelle regole e questi fatti esiste sempre un divario entro cui si attualizza l'azione individuale, l'applicazione concreta delle regole generali.
Ora, sostiene Virno, il motto di spirito si può definire come una specifica applicazione della regola che, forse meglio di ogni altra, mette in risalto quel divario. Le regole stesse, infatti, sono state a loro volta proposizioni e fatti empirici, che l'uso ha progressivamente irrigidito e `congelato' in forme grammaticali. Ma nuovi fatti e nuove proposizioni possono mettere in crisi quelle strutture, scongelando le vecchie regole per formarne di nuove. Oltre Wittgenstein, quindi, Virno invita a illuminare questa `zona grigia' che sussiste fra regola e applicazione, attraversata da proposizioni semifluide o semirigide, proprio come sul mare di Rabelais. Questo è infatti il terreno privilegiato dell'azione innovativa, vero e proprio «stato di eccezione» su cui tracciare inediti diagrammi di trasformazione.
La situazione critica rappresentata dal motto di spirito, quindi, fa affiorare delle caratteristiche comportamentali dell'animale umano che non dipendono dalla condizione storica e normativa in cui si è evoluto. Regredire a questo insieme di comportamenti prepara il terreno dell'azione innovativa. Virno ricostruisce, con linguaggio aristotelico, le caratteristiche di tale azione. L'animale linguistico è un essere in agguato, teso a cogliere il kairòs, l'occasione propizia per fare la sua mossa. Un essere che coltiva la phronesis, intesa non come saggezza o prudenza, termini con cui viene generalmente resa in italiano, ma come capacità o virtù dell'individuo di attivare strategie adeguate di conservazione e innovazione. Un essere che nell'applicazione empirica di giochi linguistici, pur partendo da éndoxa condivisi, cioè da opinioni e credenze diffuse, le mette continuamente in discussione, contribuendo così a trasformare la grammatica della propria forma di vita.
Il funzionamento concreto del motto di spirito, sottolinea ancora Virno, può essere illustrato dallo studio aristotelico delle fallacie argomentative. Considerate come motti di spirito, queste fallacie non sono più soltanto infrazioni ai principi logici, ma ragionamenti controfattuali, cioè nuove ipotesi relative a contesti originali. Argomentare per omonimie e anfibolie o dimostrare attraverso petizioni di principio sono senz'altro procedure illegittime quando si vuole sostenere una data ipotesi. Non lo sono affatto, invece, in quanto motti di spirito. Quando si tratta, cioè, di creare ipotesi inedite, di mappare un territorio ancora inesplorato, di affermare qualcosa che fino a oggi nessuno ha affermato o negato, perché nessuno ha ancora pronunciato.
Volendo riassumere le risorse logiche dell'azione innovativa, secondo Virno, potremmo parlare di impiego molteplice di un medesimo materiale linguistico e di una deviazione, uno scarto improvviso il cui esito è incoerente con la disposizione iniziale degli elementi. Qualcosa di simile, ancora una volta, alla multivocalità dell'ironia corrosiva di Rabelais. Questa sintesi aiuta a cogliere le forme più specificamente politiche dell'azione innovativa, che Virno definisce come «innovazione imprenditoriale» ed «esodo». La prima non ha niente a che vedere con l'imprenditorialità tipica del modo di produzione capitalistico, ma indica la capacità tipica dell'animale linguistico che si attiva solo in certe condizioni, per rompere equilibri esistenti, giocando sulla polisemia degli elementi a disposizione. L'esodo corrisponde invece a un cambiamento di discorso improvviso e inaspettato, un'attività che consiste nel porre problemi nuovi e immaginare soluzioni inedite che sfuggano alla grammatica sociale e politica esistente.
Le parole del motto di spirito, conclude Virno, sono sempre troppo poche. La dinamica del motto è come una carta geografica appoggiata sul terreno che intende descrivere. Immagine imperfetta della totalità ma anche sua parte circoscritta, con l'ambivalenza dei propri simboli e diagrammi, talvolta utili talvolta ingannevoli, perché riduttivi. Ma per cambiare rotta, potremmo dire, non occorre una carta 1:1 del nostro futuro. Le mappe dell'azione innovativa sono già a nostra disposizione e le primavere arrivano infine anche sul Mar Glaciale.
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FILIPPO DEL LUCCHESE
Giungendo ai confini del Mar Glaciale, Pantagruele e i suoi compagni odono voci misteriose portate dal vento. È uno dei luoghi più affascinanti di quell'arsenale della sovversione ludica e linguistica che Rabelais compose alla metà del XVI secolo. L'anno precedente - spiega il pilota della nave - non lontano ebbe luogo una battaglia. Le grida degli uomini e ogni altro fracasso del combattimento gelarono nell'aria. Solo passato il rigore dell'inverno, quelle frasi cominciano a scongelarsi e possono nuovamente essere udite. Pantagruele, incarnazione provocatoria di un umanesimo eretico, ne acchiappa alcune gettandole sul ponte della nave. Sembravano confetti che, scaldati un po' fra le mani, fondevano come neve. Parole barbare, «di sabbia e d'oro», il cui significato sfugge ai personaggi, ma che il lettore comprende a meraviglia, stringendo fra le mani uno dei testi più rivoluzionari dell'intera tradizione letteraria occidentale. La materialità della parola, disgelata dal genio di Rabelais, inaugura un orizzonte nuovo, magico e meraviglioso della modernità. Fare cose nuove con le parole. Proprio questo è il nucleo teorico dell'ultimo saggio di Paolo Virno, Motto di spirito e azione innovativa (Bollati Boringhieri, pp. 98, 12). Attraverso Freud e Aristotele, Schmitt e Wittgenstein, Virno traccia un sentiero che attraversa e connette filosofia del linguaggio e della politica. Un percorso in cerca di strumenti adeguati non solo a comprendere le forme di vita contemporanee, ma anche a costruire - come recita il sottotitolo - una vera e propria «logica del cambiamento». Fra i fenomeni linguistici, proprio il motto di spirito condensa in sé i meccanismi più raffinati della creatività e dell'innovazione. Raffinati eppure largamente inconsci, al limite dell'istintuale. Il motto di spirito ben riuscito, quello folgorante, meraviglia tanto chi lo ascolta quanto chi lo pronuncia. Non si tratta di un abito linguistico pazientemente confezionato, con cui rivestire un pensiero pre-costituito. Vero e proprio `indumento' di fortuna - e perciò quanto mai necessario - il motto ha luogo nello scarto ineliminabile tra una regola e la sua applicazione.
Una regola infatti, sia essa giuridica, linguistica o ludica, si può applicare in molti modi diversi. La regola non può suggerire le modalità concrete della propria applicazione. Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein mette in luce queste conclusioni in ambito linguistico e le loro ricadute sul piano filosofico. Ogni individuo possiede delle convinzioni generali sul mondo, sull'ambiente in cui vive, sulla propria esistenza. Convinzioni né vere né false, perché non sono oggetto di conoscenza, bensì ereditate dal contesto in cui si sono formate. Esse rappresentano, per così dire, le norme generali o le «regole grammaticali» di quella particolare forma di vita. A queste regole si affiancano le vicende ordinarie della vita individuale, i «fatti empirici», le decisioni prese in situazioni determinate, i giudizi formulati sullo sfondo e sulla scorta della grammatica a nostra disposizione. Fra quelle regole e questi fatti esiste sempre un divario entro cui si attualizza l'azione individuale, l'applicazione concreta delle regole generali.
Ora, sostiene Virno, il motto di spirito si può definire come una specifica applicazione della regola che, forse meglio di ogni altra, mette in risalto quel divario. Le regole stesse, infatti, sono state a loro volta proposizioni e fatti empirici, che l'uso ha progressivamente irrigidito e `congelato' in forme grammaticali. Ma nuovi fatti e nuove proposizioni possono mettere in crisi quelle strutture, scongelando le vecchie regole per formarne di nuove. Oltre Wittgenstein, quindi, Virno invita a illuminare questa `zona grigia' che sussiste fra regola e applicazione, attraversata da proposizioni semifluide o semirigide, proprio come sul mare di Rabelais. Questo è infatti il terreno privilegiato dell'azione innovativa, vero e proprio «stato di eccezione» su cui tracciare inediti diagrammi di trasformazione.
La situazione critica rappresentata dal motto di spirito, quindi, fa affiorare delle caratteristiche comportamentali dell'animale umano che non dipendono dalla condizione storica e normativa in cui si è evoluto. Regredire a questo insieme di comportamenti prepara il terreno dell'azione innovativa. Virno ricostruisce, con linguaggio aristotelico, le caratteristiche di tale azione. L'animale linguistico è un essere in agguato, teso a cogliere il kairòs, l'occasione propizia per fare la sua mossa. Un essere che coltiva la phronesis, intesa non come saggezza o prudenza, termini con cui viene generalmente resa in italiano, ma come capacità o virtù dell'individuo di attivare strategie adeguate di conservazione e innovazione. Un essere che nell'applicazione empirica di giochi linguistici, pur partendo da éndoxa condivisi, cioè da opinioni e credenze diffuse, le mette continuamente in discussione, contribuendo così a trasformare la grammatica della propria forma di vita.
Il funzionamento concreto del motto di spirito, sottolinea ancora Virno, può essere illustrato dallo studio aristotelico delle fallacie argomentative. Considerate come motti di spirito, queste fallacie non sono più soltanto infrazioni ai principi logici, ma ragionamenti controfattuali, cioè nuove ipotesi relative a contesti originali. Argomentare per omonimie e anfibolie o dimostrare attraverso petizioni di principio sono senz'altro procedure illegittime quando si vuole sostenere una data ipotesi. Non lo sono affatto, invece, in quanto motti di spirito. Quando si tratta, cioè, di creare ipotesi inedite, di mappare un territorio ancora inesplorato, di affermare qualcosa che fino a oggi nessuno ha affermato o negato, perché nessuno ha ancora pronunciato.
Volendo riassumere le risorse logiche dell'azione innovativa, secondo Virno, potremmo parlare di impiego molteplice di un medesimo materiale linguistico e di una deviazione, uno scarto improvviso il cui esito è incoerente con la disposizione iniziale degli elementi. Qualcosa di simile, ancora una volta, alla multivocalità dell'ironia corrosiva di Rabelais. Questa sintesi aiuta a cogliere le forme più specificamente politiche dell'azione innovativa, che Virno definisce come «innovazione imprenditoriale» ed «esodo». La prima non ha niente a che vedere con l'imprenditorialità tipica del modo di produzione capitalistico, ma indica la capacità tipica dell'animale linguistico che si attiva solo in certe condizioni, per rompere equilibri esistenti, giocando sulla polisemia degli elementi a disposizione. L'esodo corrisponde invece a un cambiamento di discorso improvviso e inaspettato, un'attività che consiste nel porre problemi nuovi e immaginare soluzioni inedite che sfuggano alla grammatica sociale e politica esistente.
Le parole del motto di spirito, conclude Virno, sono sempre troppo poche. La dinamica del motto è come una carta geografica appoggiata sul terreno che intende descrivere. Immagine imperfetta della totalità ma anche sua parte circoscritta, con l'ambivalenza dei propri simboli e diagrammi, talvolta utili talvolta ingannevoli, perché riduttivi. Ma per cambiare rotta, potremmo dire, non occorre una carta 1:1 del nostro futuro. Le mappe dell'azione innovativa sono già a nostra disposizione e le primavere arrivano infine anche sul Mar Glaciale.
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