Ripescato in mare e rinchiuso nel centro di permanenza temporanea, l'inviato dell'Espresso Fabrizio Gatti ha vissuto una settimana con gli immigrati in condizioni disumane. E' stato poi liberato con il foglio di via
di Fabrizio Gatti
Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.
Venerdì 23 settembre
Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.
La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.
Sabato 24 settembre
L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.
L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.
Centinaia di immigrati sono seduti sull'asfalto in file da dieci tra due baracche prefabbricate e quattro container. "Oggi siamo a quota 447", avevano detto nell'ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. "Vai in fondo, muoversi, muoversi", urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp, e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza di urina e fogna. "Seduti", urla uno dei carabinieri, "Sit down". "Ma qui in fondo è una schifezza", dice il collega, un ragazzone con accento napoletano. "Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down", grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti l'interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per la Libia. Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene chiamato dall'interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un'altra sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L'interprete e i poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi e uomini mormorano di rabbia. "Italiano, puttana, cornuto", sussurra lo smilzo con la maglietta di Bergkamp.
Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c'è nemmeno l'atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell'ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un'ora perché dopo l'appello si resta in coda per il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una bottiglia di due litri d'acqua da dividere in due senza bicchieri. Un'occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con malattie infettive. Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull'asfalto o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa deve fare. Dietro alla mensa-dormitorio c'è qualche materassino lasciato da chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa con l'asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano: "Ehi, ashara-ashara". Ashara? In arabo significa dieci. "Ashara-ashara", urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami. In file da dieci, "ashara-ashara". È un altro trasferimento: questa volta l'aereo dell'Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera. Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro. "Questo qua è la terza volta quest'anno che passa da Lampedusa", lo indica un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.
Prima di sera l'ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per quell'inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere. Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. "Tu sei romeno e parli italiano", insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e chiede "Ce face?", come stai. E poi all'orecchio di Bilal sussura: "Pizda, pizda, pizda, pizda, pizda...", un modo poco elegante usato in Romania e altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel vuoto. Ci riprovano con un'interprete marocchina che alla fine conclude: "Non credo sia romeno. Parla l'arabo, però continua a chiedere che l'interrogatorio sia in inglese".
Domenica 25 settembre
Bilal ha deciso di andare al gabinetto quando è notte. I gabinetti sono un'esperienza indimenticabile. Il prefabbricato che li ospita è diviso in due settori. In uno, otto docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini. E otto turche di cui tre stracolme fino all'orlo di un impasto cremoso: la sorgente dei due rigagnoli. L'altro settore ha cinque water, di cui due senza sciacquone, cinque docce e otto lavandini. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c'è elettricità, non c'è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. Qualcuno si ripara come può con l'asciugamano. E non c'è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi. Ma anche il pediluvio nel lavandino prima di uscire diventa un problema: perché non appena si sfila il piede, la ciabatta comincia a galleggiare e a navigare con la corrente. Eppure il 15 settembre il leghista Mario Borghezio, guidando una delegazione di europarlamentari, ha detto che il centro di Lampedusa è un hotel a cinque stelle e che lui ci abiterebbe: quel giorno il ministero dell'Interno gli aveva fatto trovare soltanto 11 reclusi e quella settimana i trafficanti avevano deviato la rotta dei barconi fino in Sicilia. Chissà, forse nell'appartamento di Borghezio è normale avere i pavimenti coperti di liquami. Ma la maggior parte degli immigrati rinchiusi qui dentro viene da case pulite in cui si entra addirittura a piedi nudi.
La colazione è un bicchiere di latte freddo, due cornetti e la bottiglia d'acqua da dividere in due. All'ashara-ashara del mattino i carabinieri si accorgono che mancano cinque persone. Ma parlando tra loro decidono di non segnalarlo. Impossibile sapere chi sia scappato perché non si fa nessun appello: i reclusi vengono solo contati. A metà della recinzione che separa dall'aeroporto, proprio dietro uno dei pali con le telecamere a circuito chiuso, il filo spinato è tagliato. E sul palo sono rimasti due lacci di stoffa bianca, forse legati lì per facilitare la presa di chi si è arrampicato fin sopra la rete. I carabinieri rifanno il conto un'altra volta e rimettono tutti a sedere sotto il sole. Si resta così ore perché c'è un'altra chiamata. Fanno partire tutti gli eritrei e gli etiopi sbarcati lunedì 19. Tra loro, un'intera famiglia di fratelli e cugini, gli Abraham. Sono scappati dall'Eritrea per non essere mandati al fronte, vogliono continuare a studiare in Europa. Uno di loro, Youssef, è una promessa dell'atletica: ha continuato ad allenarsi anche nel centro, ogni mattina alle sei. Ci sono molti minorenni, rinchiusi da una settimana insieme agli adulti. Un carabiniere là davanti mostra loro un grosso telefonino e qualcuno si copre gli occhi con le mani. Ma non si capisce perché. Ahmed Ibrahim ha da giorni un'infezione intestinale. Chiede di andare alla toilette e dopo qualche minuto i carabinieri gli danno il permesso di alzarsi. Al gabinetto ci resta un bel po'. "Ma è tornato quello che è andato in bagno?", domanda uno dei militari. "E no che non è tornato, adesso vado a fare un giro". Altri chiedono di andare in bagno, ma i carabinieri non danno più il permesso. Dopo quasi mezz'ora Ahmed Ibrahim riappare, sudato e sfinito. "Tu", gli urla il carabiniere che mostrava il telefonino, "tu sei un cornuto". Ahmed lo guarda spaventato. "Sei un cornuto. Vai a sederti e non ti alzare più". I colleghi ridono. Alla fine partono in 150, forse per il centro di Caltanissetta. Ci si rialza e ci si risiede subito dopo per l'ashara-ashara del pranzo. Bilal ora è in terza fila. Un'altra lunga attesa, seduti e rannicchiati. Si avvicina il carabiniere con il grosso telefonino. È il meno robusto tra i suoi colleghi. Ha capelli neri curati, un neo ben visibile sulla guancia destra, un bracciale argentato e uno di cuoio con medagliette dorate al polso destro, e un orologio con cinturino in pelle al polso sinistro. Dopo aver fatto sentire un po' di musica tecno, schiaccia un altro tasto e il telefonino comincia ad ansimare. Lui si china, mostra lo schermo ai minorenni seduti accanto a Bilal. Sono immagini di un film porno scaricate forse da Internet. Il carabiniere si rialza e sorride: "E dopo, shampoo", annuncia ai minorenni mimando il gesto della masturbazione. I ragazzini ridono. Poi si china di nuovo sulla prima fila, la percorre e pretende che tutti guardino. Un trentenne si copre gli occhi con le mani. È uno dei ragazzi che ieri sera ha guidato la preghiera sul marciapiede-moschea. È un musulmano praticante e non vuole guardare. Il carabiniere con il neo gli strappa le mani dagli occhi: "E guarda che così impari", dice piazzandogli lo schermo davanti al naso. Il trentenne si volta, guarda Bilal con gli occhi lucidi. Un carabiniere alle loro spalle scherza con il collega: "Ma lascia perdere che quello è frocio".
Arriva il comandante, un appuntato che nel tempo libero gira con bandana, camicione e pantaloni fino al polpaccio. E il tormento non è finito. L'appuntato vuole farsi fare una foto davanti ai reclusi. Lui grida "Italia" e tutti devono alzare il pollice destro e rispondere "Uno". "Forza", dice un altro carabiniere, "chi non risponde 'uno' non mangia". Bilal non risponde e non alza nemmeno il braccio. Il carabiniere lo vede. Bilal lo fissa negli occhi e quello lascia perdere.
Poco dopo la polizia rivuole Bilal in ufficio. Ma non è per un interrogatorio. Due ispettori, sempre gentili e rispettosi, gli fanno indossare il giubbotto di salvataggio che hanno sequestrato la notte dello sbarco. Vogliono semplicemente fare una foto ricordo con lui. Uno si mette a destra, l'altro a sinistra: "Bilal smile, sorridi". Da quello scatto nessuno si occuperà più dell'identità dello strano immigrato curdo. Passa un'altra giornata. Su uno spiazzo di sassi appuntiti si gioca a calcio. Non ci sono scarpe per tutti. Così metà giocatori calza la destra, l'altra metà la sinistra e i due portieri restano a piedi nudi. Poco prima di cena cala il silenzio, all'improvviso. Un pullmino e un'ambulanza scaricano 21 immigrati neri. Sono sfiniti, affamati, seccati dal sale e bruciati dal sole. Passano davanti al cancello e agli sguardi fissi sulla loro sofferenza. Vengono fotografati, registrati, spogliati e perquisiti. Ricevono un tè caldo, un cornetto, un asciugamano e chi ha i vestiti logori, anche una tuta. Non si reggono in piedi. Ma dopo mezz'ora il cancello si apre e a gruppi di sei vengono spinti nella gabbia. Non sanno dove andare, barcollano. Due sono senza scarpe e quando vedono le condizioni del gabinetto tornano indietro a chiederne un paio. Cherriere, un arabo- francese sospettato di essere uno dei più famosi scafisti del Mediterraneo, impone ai carabinieri che gli ultimi arrivati siano serviti prima di tutti. Cherriere è il vero mediatore culturale: carabinieri e polizia lo chiamano spesso per farsi aiutare con l'arabo o per smussare le tensioni. Il medico ha mandato nella gabbia anche un uomo malato di scabbia. Non riesce nemmeno a sedersi per le piaghe, ma i militari insistono perché si metta come gli altri. L'ultimo entrato deve avere un colpo di sole perché continua a ciondolare. I carabinieri lo fanno andare avanti e indietro tre volte. "Quanto ha bevuto questo?", ride un militare. Bilal e Cherriere ottengono che anche lui sia messo in prima fila con i compagni di viaggio. Poi un carabiniere parla di Bilal convinto di non essere capito: "A questo qua dobbiamo insegnargli a farsi i cazzi suoi". Ma per le scarpe non c'è niente da fare. "Le scarpe le abbiamo date a tutti, dite a quei due che non scassino la minchia", gracchia il caposervizio della Misericordia, un uomo con i capelli bianchi, molto diverso da Angelo, Andrea o il cuoco, i ragazzi sempre disponibili anche se lavorano sodo tutto il giorno. E i due restano a piedi nudi. Dopo cena gli ultimi arrivati guardano la rotta tra la Libia e Lampedusa dipinta sul prefabbricato all'ingresso: "Abbiamo perso l'orientamento e siamo rimasti in mare sette giorni. Mia moglie diceva: we gonna die, moriremo. Ma io le dicevo: no, Dio ci porterà in Europa". Sono quasi tutti cristiani. Prima di andare a dormire intonano un gospel di ringraziamento al buio di una camerata. Impossibile trattenere le lacrime.
Lunedì 26 settembre
Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi sta male. Forse viene dalla prima camerata. Ma avvicinandosi il lamento prende la forma di una canzone stonata: "Ma quanto tempo e ancora, ti fai sentire dentro, quanto tempo e ancora.". Viene da oltre il cancello: i carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha mostrato le scene porno sul telefonino. C'è anche il loro appuntato. Sono di spalle e non si accorgono. Si torna a letto. Ma non si riesce più a dormire perché un'Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che qualcuno si svegli per farli atterrare.
Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l'avviso che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha risposto: "Non io, direttore". Oppure: "Bukara, domani". Oppure: "Non scassare la minchia". Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da settimane nella gabbia, fanno affari d'oro vendendo a 20 euro schede da 3. Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. "Ho bisogno di aiuto, sono chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare", dice Bilal in francese, "Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un euro". Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la stessa grave necessità. Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal riprova facendo a caso un po' di numeri verdi. All'800-400-400 risponde lo sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato. Invece dopo mezz'ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si inventa perfino una legge: "Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di fare questa telefonata". A nessuno interessano le angosce di questi immigrati chiusi in gabbia.
La sera, dopo cena, si prepara un'altra notte d'inferno. A Lampedusa sta arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti dell'ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le perquisizioni. Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo con i capelli grigi e un po' di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a gesti, senza urlare.
Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È l'unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami dai bagni. Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di essere aspirate sono state sparate tutt'intorno alle turche. Anche nel mangiare c'è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica. Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne. Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle proteine.
Mercoledì 28 settembre
L'ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a Mussolini un po' ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. "No", lo corregge un carabiniere, "quello è il saluto nazista. Quello fascista è così. Italiani!... La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?". Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri pomeriggio Bilal l'ha visto portare un malato in braccio, dall'infermeria alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e osserva. Un'altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180 nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto, due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. "Spogliati nudo", dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura. Lui non capisce. Resta immobile un minuto intero. "What is the problem?", urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L'immigrato, pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da mezz'ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo: una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e ciascuno si prende la sua razione di schiaffi. Quattro carabinieri fanno quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. "Questo ti dà problemi?", chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all'immigrato magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi immobile, in canottiera. Passa un'altra fila di immigrati, altro corridoio. Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no, guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo dell'oca e finge di portare una lancia: "Avanti marsh". Soltanto un carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano nell'aria per mezz'ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne accorge. È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i capelli dentro un bandana. "Maresciallo", dice nervosa, "vada di là a vedere cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono". Il maresciallo volta l'angolo e raggiunge gli altri carabinieri: "Uhe ragazzi, mi raccomando", dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a dormire sull'asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri festeggiano con una grigliata nel cortile.
Giovedì 29 settembre
Bilal passa tutta la giornata a convincere un gruppo di ferventi musulmani che non può assolutamente seguirli a pregare. Alle sei di sera, prima dell'ashara-ashara della cena, una voce femminile gli cambia l'umore. "El Habib Ibrahim Bilal. Domani mattina alle otto presentati al cancello perché verrai trasferito", dice l'interprete marocchina in arabo. "Quale destinazione?". "Agrigento". "Bilal va via", dice Cherriere. E davanti a Bilal si forma una coda di prigionieri della gabbia che vogliono salutarlo. Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato ieri sera, gli spiega come funziona: "Ti danno un foglio di via. Tu per cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi diversi di entrare in Italia non ce ne sono". La sera sbarcano altri 350 immigrati. Ma è il turno del brigadiere per bene e nessuno viene picchiato. Appena entra nella gabbia John, 27 anni, partito dal Togo e altri suoi compagni di viaggio chiedono dove si può mangiare. Ma la Misericordia fa sapere che il primo pasto sarà distribuito solo l'indomani mattina. "We are starving, non mangiamo da sette giorni", trema John, "Quando siamo sbarcati ho visto un negozio e volevo comprare qualcosa ma la polizia ci ha detto che non potevamo e che qui dentro avremmo mangiato. Abbiamo i nostri soldi. Se siamo liberi, perché non possiamo comprare da mangiare?". Bilal vede passare il medico, lo chiama e gli spiega la situazione. "Porto qualche brioche", dice il medico. Invece va via e non porta nulla. John e gli altri vanno a dormire su un marciapiede perché sono finiti anche i materassini. Un funzionario in borghese rovescia una lattina di Coca Cola addosso agli immigrati attraverso le sbarre. "Perché questo?", grida Teemer, 26 anni, palestinese, "Siamo clandestini, ma non siamo animali". Il funzionario si scusa. Le camerate sono strapiene di gente fin sotto i letti. La radio a tutto volume in cucina canta ciò che centinaia di bimbi forse pensano ogni giorno dei loro papà rinchiusi qui dentro: 'How I wish, how I wish you were here', come vorrei tu fossi qui. Si va a dormire in una scena da fine del mondo.
Venerdì 30 settembre
Quando torna dalla sua doccia notturna, Bilal trova il letto occupato da altre due persone. Sono le ultime ore nella gabbia, può anche rimanere alzato. Il cielo è illuminato da lampi e fulmini. Il temporale dura poco ma gli scrosci d'acqua risvegliano le centinaia di persone che si erano addormentate all'aperto. Davanti al cancello stanno registrando un nuovo sbarco. E i carabinieri stanno di nuovo picchiando i ragazzi che perquisiscono. I primi sono due uomini che non si erano seduti al loro ordine. Uno lo chiamano Maradona. Volano sberle e per Maradona anche un calcio. Si fermano solo quando passa il tenente in borghese, un ragazzo con il pizzetto. Poi prendono a schiaffi un ventenne che non capisce che cosa deve fare. E altri due ragazzi che al 'sit-down' non si sono seduti perché parlano arabo e francese. Bisogna fermare questo schifo. Bilal grida in inglese: "State picchiando la gente, perché?". Un carabiniere tira un calcio alla rete da dove sta osservando, cercando di colpirlo. Bilal viene chiamato fuori dal cancello. È un faccia a faccia tesissimo, gli occhi di Bilal dentro gli occhi di un carabiniere con i capelli un po' brizzolati e la mascherina per nascondersi. Ma almeno smettono di picchiare. Quando il sole è alto dentro la gabbia sono state ammassate 1250 persone. "Questo è 'o Professore", dice di Bilal un carabiniere a due colleghi, "Avete visto cosa ha fatto prima? Questo qua un giorno lo chiamiamo fuori e gli diamo una ripassata". Ma cinque minuti dopo è la polizia a chiamarlo fuori. Bilal viene portato vicino all'uscita, dove lo aspetta il gruppo che sta per essere trasferito. Nove adulti e 35 minori. La Misericordia distribuisce una maglietta bianca a tutti e le scarpe ai tre rimasti senza. Ma non restituisce i soldi che i ragazzini avevano depositato in segreteria. I carabinieri li hanno accompagnati all'uscita senza dire loro che sarebbero stati trasferiti da Lampedusa. "Oggi non è giornata, non c'è nessuno in ufficio che possa dare quei soldi", spiega un giovane della Misericordia. Bilal insiste in inglese: "Sono centinaia di euro, è importante che partano con i soldi". Un carabiniere dice di no con il dito e allarga le mani.
Si parte senza soldi. All'imbarco del traghetto gli ultimi turisti della stagione guardano la fila di immigrati sotto scorta dai carabinieri. Ciascuno ha un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Si viaggia fino a sera nella sala soggiorno della nave, piantonata da un brigadiere e due carabinieri molto cortesi. Youssef, 16 anni, è sicuro sia una deportazione in Libia e si mette a pregare verso prua, convinto che la rotta sia verso Sud-Est. Ma quando sull'orizzonte appaiono le montagne della Sicilia, tutti gli altri si incollano al finestrino e ridono: "Jebel Scisciglia". A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un'autobus della ditta Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte a tutta velocità. "Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia", dice Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece si finisce alla stazione. Ma il treno per Palermo è già partito: "Minchia, non parte mai in orario", s'arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto, furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il treno non è ancora arrivato. "Ragazzi ascoltatemi", spiega un funzionario in inglese, "Avete cinque giorni di tempo per lasciare l'Italia. Siete liberi". Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo dell'ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a Napoli e Catania. L'ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di aiutarli: "Lei che c'entra, crede che non li capisca?". Bilal esplode: "Ma se nun capisti mancu l'italiano, lo fate o no 'sta minchia di biglietto?". Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. "Che lingua era Bilal?", chiede Abdrazak in francese, "era curdo?".
L'Espresso
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