di Rina Gagliardi
Eugenio Scalfari aveva definito le primarie dell'Unione, nientemeno, che "un topolino". Curzio Maltese ne aveva scritto peste e corna, prevedendo che, più o meno, nessuno sarebbe andato a votare. Giampaolo Pansa aveva profetizzato, qualche giorno fa, la sconfitta di Romano Prodi e la vittoria di Fausto Bertinotti. Il manifesto aveva giudicato l'appuntamento con un misto di sufficienza e di ostilità. Molti altri, a sinistra, ciascuno con le sue ragioni e pulsioni diverse, avevano decretato che comunque sarebbe stato un fallimento. E ora? Dopo il voto di domenica - dopo i quattro milioni e passa di persone che sono uscite di casa con in tasca la tessera elettorale e gli euri, sono andati ad un seggio che stava spesso per strada, hanno fatto la fila anche per tre quarti d'ora, hanno compilato una scheda con un atto consapevole e libero - ora tutti costoro dovrebbero avere l'onestà intellettuale di dire: ci siamo sbagliati.
Dovrebbero riconoscere di non aver capito quasi nulla non delle primarie, ma di quello che si muove nelle viscere della società italiana. Dovrebbero insomma prender atto che, tra le lezioni di quel voto, c'è anche la débacle dell'intellettualità italiana - da troppi anni tanto presuntuosa e saccente quanto "fuori sintonia", rispetto ai processi reali, e quindi incapace di onorare il proprio mestiere. Lo faranno? Ne dubitiamo assai. Soltanto Rossana Rossanda, ieri, ha scritto di aver avuto torto, sulle primarie - anche se poi non si sofferma più di tanto sul senso di quell'errore. Altri, ci scommettiamo, non faranno una piega. Anzi, già hanno ricominciato a sproloquiare, a spiegare, a pontificare: ora, per lo più, le primarie piacciono.
Non sono più una "buffonata" americana, ma una grande prova di democrazia responsabile. Non sono più un rischio, ma una dimostrazione di maturità: il popolo italiano - ecco la sentenza - avrebbe scelto in massa il "riformismo" moderato, il sistema maggioritario, la governabilità, la marginalizzazione della sinistra radicale, la punizione dei partiti. Tutto ciò che sta a cuore alle oligarchie dell'informazione, dell'editoria, dei baronati universitari - al sistema dell'intellettualità - sarebbe dunque leggibile nell'evento inatteso di domenica. Ahimé: inattendibili erano prima, inattendibili, a maggior ragione, sono adesso.
Vogliamo provare a capire quel che sfugge alla media intellettualità italiana? Intanto, a (quasi) tutti fanno paura (intellettuale) i processi complessi, nel senso epistemiologico del termine, o "ambigui", nel senso politico del termine. "Complesso" non vuol dire "complicato": vuol dire fatto di livelli diversi e interdipendenti, ma non riducibili alla somma delle sue parti - come il vivente. "Ambiguo" non vuol dire "poco limpido": ma dotato di molte e diverse verità, di potenzialità molteplici non tutte destinate a svilupparsi, e a loro volta non riducibili ad "una" verità. A nostro modesto parere, le primarie, appunto, erano e sono effettivamente state un evento "complesso" o "ambiguo", non riducibili né ieri né oggi ad una interpretazione monolitica. In esse, come avrebbe detto il vecchio Engels, la "quantità si è trasformata in qualità": ovvero, il numero dei partecipanti è stato così alto che l'evento stesso ne è stato modificato, nella sua natura e, forse perfino, nel suo senso.
Da misurazione dei rapporti di forza interni (all'interno della sinistra e del centrosinistra, cioè della componente più attiva, militante o politicizzata dello schieramento), come in fondo erano state concepite inizialmente, esse son divenute una sorta di prova politica generale dell'elettorato democratico: dove si è espressa la volontà di cambiare, di avviare un'altra fase della politica, di inviare "in prima persona" all'attuale governo un messaggio inequivocabile. In questo passaggio, la scelta del candidato-premier - in teoria oggetto unico del voto - è stata esercitata di conseguenza: quasi come una scelta simbolica, obbligata, "logica".
L'ampiezza di consensi tributata a Romano Prodi (del resto imprevedibile per i tanti analisti che puntavano al 60 per cento, nonché per lo stesso Romano Prodi), ha questa radice "secondaria" e non primaria: non esprime un'adesione specifica ad un programma politico, o ad una persona, o ad un'ideologia, ma la fiducia di massa in uno schieramento unitario. Interpretare il voto come una "iscrizione massiccia" al futuro Partito riformista o democratico o post-progressista è dunque una forzatura indebita - o di comodo, s'intende. Come è improprio vedervi una "delega", più o meno in bianco, ad un singolo: qui, l'illogicità dei commenti prevalenti raggiunge davvero il culmine. Mentre l'oggetto sostanziale delle primarie andava slittando in direzione politica generale, il suo oggetto formale - materiale - rimaneva invece la designazione di un candidato: di un rappresentante fiduciario dell'Unione. Come Prodi. Esattamente come la volontà di partecipazione che resta il dato qualificante dell'evento: essa ha incontrato sulla sua strada questa, e non altre opportunità, e l'ha usata, dicevamo, in "quantità" dilagante - come stop alla passività, all'inerzia, alla crisi attuale della politica.
In quali altre forme avrebbe potuto incanalarsi questo "crogiolo" di pulsioni e di volontà? Perché tacciarlo tout court di deriva plebiscitaria o personalistica? Le primarie italiane, appunto, sono un processo ambiguo e complesso: investono un leader, ma dentro un'esplosione di volontà partecipativa; legittimano una classe dirigente, ma dentro una cornice unitaria; manifestano un bisogno urgente di nuova politica, ma dentro, necessariamente, la politica reale. Non si può non vedere, insomma, che tra queste diverse curvature del voto la dialettica è forte, e la contraddizione nient'affatto chiusa.
Né si può ridurre la volontà di partecipazione - come fa in fondo Rossana Rossanda - ad elettoralismo, o separarla in termini così tranchant da altre forme di azione e partecipazione politica. Se fosse possibile misurare il tasso generale di partecipazione alla politica - in un partito, in un sindacato, in un issue, in un'associazione - proprio degli elettori delle primarie, emergerebbe quasi certamente un quadro sorprendente e coerente. Ancora, qui, a questione dell'ambiguità, e la necessità di ridefinire il senso del "fare politica".
Due parole, infine, sui risultati del candidato Fausto Bertinotti. Se è fondata l'analisi fin qui esposta, il 15 per cento al segretario di Rifondazione comunista si conferma come un consenso forte, anzi fortissimo: come leader simbolico dell'Unione, Bertinotti non aveva davvero molte chances. Eppure, molti dei commenti di ieri sono ispirati (per lo più malevolmente) dalla convinzione di una quasi-sconfitta, comunque di un voto deludente.
E' curioso che un giudizio politico così drastico si basi non sui numeri, non sui fatti, non sul tentativo di ricostruire la complessità di un evento, ma su una cifra - il 20 per cento - mutuata o da antiscientifici sondaggi o da un "meccanismo psicologico" che stabiliva qui, e non al di sotto, la soglia del successo. Quando poi questo stesso giudizio viene da chi non ha sostenuto questa candidatura, o l'ha avversata, o l'ha sostanzialmente boicottata, nel contesto di un più complessivo boicottaggio delle primarie, c'è di che restare attoniti. E se è comprensibile la cecità politica e intellettuale degli avversari - ieri il panico esagerato, oggi il "sospiro di sollievo" artatamente tirato - ben meno scusabile è la disonestà di sinistra, dovunque essa alligni.
liberzione.it
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