28.3.09

La tela del ragno. Reti organizzate per sfuggire al controllo

di Benedetto Vecchi
Un percorso di lettura dedicato a Internet, a partire dal volume di Ned Rossiter. Nel frattempo, l'Europa invita gli stati nazionali a considerare l'accesso al web come un diritto di cittadinanza, mentre oggi a Roma è «Festa dei Pirati»
Sono bastati pochi anni affinché l'utopia del World Wide Web vissuto come regno della libertà lasciasse il posto alla visione di Internet come ultima frontiera da colonizzare per «fare affari». E altrettanto breve è stato il periodo in cui le imprese operanti nelle Rete sono fallite, lasciando sul campo pochi sopravvissuti. Tra questi i soliti noti - Microsoft, Oracle, Sun, Ibm, Dell -, mentre i nuovi arrivati erano nomi conosciuti solo dagli «addetti ai lavori». Google era infatti solo una piccola impresa conosciuta nei collages o nel caotico mondo dei virtuosi della programmazione. La crisi che aveva sconvolto il World Wide Web tra il 1999 e il 2001 era generalmente letta come un necessario processo di selezione «naturale» in un ambiente fortemente competitivo, dove le risorse cominciavano a scarseggiare. Ciò che gli analisti del settore non potevano immaginare è che dagli angoli meno conosciuti della rete cominciavano appunto a farsi avanti realtà che rivendicavano una sorta di ritorno alle origini di Internet, una tecnologia propedeutica alla condivisione di materiali digitali - testi, immagini, suoni - e alla comunicazione sociale.Il social networking, il peer to peer sono solo due degli esempi di questo radicale mutamento di scenario che ha caratterizzato la Rete dopo la deflagrazione delle dot-com. Il successo planetario di Google e, in misura minore di Yahoo!, era letto come il segnale che il web poteva essere comunque un habitat che favoriva gli affari, a patto però che le imprese fossero saldamente ancorate al social networking. È a queste new entry che è dedicato il volume di Nicholas Carr Il lato oscuro della rete (Rizzoli-Etas, pp. 270, euro 20), saggio utile proprio per comprendere cosa accade nella produzione high-tech, quali sono i modelli produttivi emergenti, quale il rapporto che intercorre tra imprese e cooperazione sociale. E maggiormente significativa è la pubblicazione del libro Reti organizzate di Ned Rossiter (manifestolibri, pp. 255, euro 28), densa analisi dei rapporti sociali dentro e fuori la Rete, con il pregio di prestarsi a ulteriori percorsi di ricerca.Problemi di savoir faireL'autore de Il lato oscuro della Rete, Nicholas Carr, è stato direttore di Harvard Business Review, una specie di vangelo apocrifo del libero mercato in salsa libertaria, in particolare modo per quella centralità data all'homo oeconomicus, figura tanto eterea quanto flessibile nel definire una visione della realtà in cui tanto la società che lo stato dovevano essere considerati sue variabili dipendenti. Il nome di Carr è però legato al provocatorio saggio - Doesi It matter? - dove le tecnologie digitali sono considerati fattori produttivi secondari nella nuova organizzazione dell'impresa. Per l'autore, infatti, l'elemento qualificante di un'economia di libero mercato è la valorizzazione del savoir faire della forza-lavoro, mentre alle tecnologie è delegato il compito di rendere fluido il processo lavorativo. Il potere del management sta nella sua capacità di avere una vision complessiva dei rapporti tra i diversi settori dell'impresa. Una tesi che non piacque molto ai produttori di computer e di software, data la critica che Carr muoveva al determinismo tecnologico che animava gran parte della retorica sulla nuova organizzazione produttiva basata sulle tecnologie digitali, definita di volta in volta: a «rete», «snella», «orizzontale». In questo saggio, Carr non fa certo autocritica. Le tecnologie, qualunque esse siano, sono sempre delle macchine che svolgono determinati compiti. Non hanno nulla delle virtù prometeiche che vengono loro attribuite. Semmai sono equiparate all'elettricità, che può essere venduta a chi ne ha bisogno. È su questa analogia tra tecnologie digitali e elettricità che si snoda il saggio di Carr, individuando nella potenza di calcolo e nello spazio di memoria eccedenti una utility che può essere venduta. In altri termini, una impresa si connette alla rete e può collegarsi a un sito che offre programmi applicativi specifici - dall'elaborazione dei testi, alla gestione degli archivi, dalle paghe alla gestione di cartelle cliniche - oppure può usare lo spazio di memoria che gli serve. Così le tecnologie digitali diventano una utility, proprio come l'elettricità agli inizi del Novecento. Certo, le imprese che vendono servizi destinano all'acquisto di macchine e software ingenti investimenti, ma i profitti si fanno attraverso un sofisticato sistema di tariffe che privilegiano il «mondo degli affari», ma che possono essere allargate anche ai singoli. Il saggio di Carr può essere dunque letto come l'ennesimo pamphlet sulle magnifiche sorti progressive di Internet. E molte potrebbero essere le obiezioni sul «modello di business» avanzato, ma il punto che merita di essere discusso del volume si trova in due capitoli dal titolo «Dai molti ai pochi» e «La tela del ragno» quando l'autore descrive la trasformazione del crowdsourcing in attività economica. Il potere dei moltiIl termine, praticamente intraducibile, crowdsourcing indica proprio quella cooperazione sociale che sviluppa sia programmi informatici innovativi che procedure altrettanto innovative nelle attività di rete. Carr dice espressamente che questa attività dei «molti» favorisce i guadagni per «pochi». Ciò che l'autore descrive non è altro che la classica appropriazione privata di un bene comune - la conoscenza en general -. È in questa politica dell'espropriazione che si gioca la partita della rete, molto più rilevante del grande risiko tra le grandi imprese hig-tech, gioco composto da fusioni, acquisizioni, strategie di marketing e convergenza tecnologica tra telefonia mobile e informatica che appassiona i media. Ma per comprendere il conflitto tra cooperazione sociale nella rete e imprese occorre partire dalle Reti organizzate del giovane ricercatore australiano Ned Rossiter, uno dei saggi più sofisticati nel mettere in relazione la saggistica dedicata a Internet con il pensiero critico sul capitalismo contemporaneo.Il punto di partenza di Rossiter è all'opposto di quello di Carr, perché mette al centro i rapporti di lavoro, i programmi politici finalizzati alla crescita delle cosiddette «industrie creative», le norme tanto nazionali che globali sulla proprietà intellettuale e la crisi della democrazia rappresentativa. Temi letti, tutti, attraverso una griglia analitica che si avvale delle opere di autori tra loro eterogenei, da Theodore W. Adorno a Chantal Mouffe, da Harold A. Innis a Scott Lasch, da Geert Lovink a Paolo Virno. Rossiter respinge in maniera convincente le tesi secondo le quali Internet è l'atteso regno della comunicazione libera, così come rigetta il luogo comune che vede nelle relazioni di lavoro nelle imprese high-tech l'auspicato superamento delle gerarchie e del lavoro salariato. Anzi è proprio a partire da una analisi dei documenti sulle «industrie creative» che l'autore giunge alla conclusione che la trasformazione dei modelli produttivi e le norme della proprietà intellettuale dimostrano chiaramente come i meccanismi di sfruttamento più che superati siano semmai accentuati nel cyberspazio, sebbene presentino caratteristiche diverse dal passato. Da una parte, le materia prime del «lavoro creativo» - espressione che Rossiter utilizza criticamente - è la conoscenza e il sapere sociale. Dunque, ciò che è «comune» diviene proprietà di «pochi» (le imprese) attraverso le leggi della proprietà intellettuale. Allo stesso tempo le gerarchie non scompaiono, ma sono articolate nei rapporti vis-à-vis segnati dalla condivisione di uno stesso progetto lavorativo da svolgere in un'unità di tempo definita. Nell'impresa contemporanea sono quindi vigenti quelle foucaultiane «tecnologie del controllo» dove tutti controllano tutti e che hanno il loro corollario nella precarietà dei rapporti di lavoro.Il saggio di Ned Rossiter acquista maggior rilevanza per il fatto che è stato scritto dopo la crisi dell'economia delle dot-com. Cioè negli anni successivi, quando era svanito il sogno di chi aveva individuato in Internet l'«ambiente» che poteva garantire un ininterrotto sviluppo economico, sostituendo così l'industria automobilistica e quella dell'elettronica di consumo come settori trainanti dell'economia mondiale. La messa a tema della crisi da parte dell'autore può essere usata in questi tempi dove la crisi non ha coinvolto solo il cyberspazio, ma si è diffusa al di fuori dello schermo. La retorica attorno al «lavoro creativo» ha infatti lasciato il posto alla consapevolezza sulla necessità di fare i conti con il regime di accumulazione capitalistico nel suo complesso. Questo non significa che gli elementi di conoscenza e di comprensione del capitalismo contemporaneo derivanti dall'analisi della rete siano da gettare alla critica roditrice dei topi. Più realisticamente è di articolarli maggiormente. A partire dal ruolo svolto dai «molti», il contesto cioè dove maturano le innovazioni. E questo indipendentemente se il lavoro viene svolto in uno sweatshop o in una impresa tradizionale, se esso è manuale o «cognitivo», con buona pace di chi insegue ancora la chimera di un tranquillizante quarto stato. Infatti, tanto dentro che fuori lo schermo, il conflitto investe l'appropriazione privata delle innovazioni in quanto prodotto sociale.Ned Rossiter invita a pensare la rete come una realtà da organizzare in base al rifiuto di questa espropriazione della creatività da parte delle imprese. Dunque organizzare «i molti». Un invito da fare proprio in una situazione dove la crisi va agita, anche come occasione di trasformazione della realtà.
ilmanifesto.it

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