1.4.09

Comunicazione e controllo, parla Armand Mattelart. Tracce di sorveglianza

di Giuliano Battiston
Secondo il teorico belga, autore di una «Storia dell'utopia planetaria», una diversa società dell'informazione sarà possibile solo negando alle tecnologie il privilegio di rappresentare il fattore esclusivo del cambiamento
«Nessuna appropriazione del medium tecnologico da parte del cittadino si può sottrarre alla critica delle parole che, teoricamente apolidi, si insinuano di continuo nel linguaggio comune», sostiene Armand Mattelart. E coerente con questa convinzione l'autore di Storia dell'utopia planetaria rifiuta di adottare formule come «villaggio globale» o «società globale dell'informazione», preferendo affidarsi a una «archeologia dei concetti» che faccia emergere i significati e gli usi politico-sociali sedimentati in ogni termine. Se «villaggio globale» rimanda alla «rappresentazione "ugualitarista" del pianeta», alla «visione fideistica di una società planetaria» orizzontale e flessibile, «comunicazione-mondo» è invece un termine che secondo le intenzioni di Mattelart permette di guardare alla mondializzazione in atto senza mitizzarla, perché nasce dalla consapevolezza che «la disuguaglianza degli scambi continua a segnare l'universalizzazione del sistema produttivo e tecnico-scientifico». Per Mattelart infatti «tra i discorsi utopici sulle promesse di un mondo migliore per mezzo della tecnica e la realtà delle lotte per il controllo dei mezzi di comunicazione esiste un contrasto impressionante». Un contrasto di cui occorre tener conto se vogliamo costruire una diversa società dell'informazione, che sarà realizzabile a condizione di negare alla tecnologia «il privilegio di rappresentare il fattore esclusivo del cambiamento», e di fare in modo che siano i cittadini, e non le logiche statali securitarie, a definire gli impieghi macrosociali delle nuove tecnologie. Abbiamo incontrato Armand Mattelart a Roma, dove è stato invitato per presentare il volume Democrazia e concentrazione dei media (a cura di Maurizio Torrealta, Edup, euro 15).Giorni fa è stato pubblicato il rapporto annuale sullo stato del giornalismo americano (State of the News Media, a cura del Pew Project for Excellence in Journalism), in cui vengono analizzate tra le altre cose le ripercussioni della crisi economica sul sistema mediatico. Ritiene che la crisi possa ulteriormente compromettere il pluralismo dell'informazione?La crisi economica non ha fatto altro che accelerare alcune logiche già presenti nelle società di natura capitalistica, e si è andata a combinare con un altro importante elemento di accelerazione, la guerra al terrorismo. I media sono stati infatti strumenti indispensabili per legittimare l'idea della guerra e per giustificare la tesi che esistessero armi di distruzione di massa in Iraq. Il problema del pluralismo dell'informazione dunque è diventato allarmante già con la guerra al terrorismo, a partire dal 2001, e oggi viene aggravato dalla crisi economica. Vari governi hanno cercato di approfittare della situazione per assicurarsi una «presa» più solida sui sistemi mediatici, e con ciò intendo il sistema audiovisivo e quello dei nuovi media, internet incluso. Oggi nelle democrazie liberali mi sembra che si tenda a legittimare l'idea che gli Stati devono disporre di maggiore potere sui media. Le porto un esempio concreto: in Francia Sarkozy ha deciso di eliminare la pubblicità dalla televisione pubblica, ma dietro questa scelta si nasconde il tentativo di introdurre un meccanismo con il quale la presidenza si vuole assicurare la nomina dei responsabili del servizio pubblico, rafforzando il potere che esercita sulla tv pubblica. Questo esempio, insieme a tanti altri, rivela l'emergere sempre più evidente di logiche autoritarie, ed è alla luce di tali logiche che dovremmo analizzare la questione del pluralismo dei media. Per questo è così importante che i movimenti e le forze sociali di opposizione intervengano non tanto sui media di per sé, o a partire dai media, ma a partire dalle strade, dalle manifestazioni. Solo in questo modo potremmo contestare il tentativo di instaurare un rigido controllo statale sui media. In Storia dell'utopia planetaria lei scrive che «la chiave di volta del modello tecnoglobale di riorganizzazione delle società» secondo il modello neoliberista è la sicurezza, e proprio alle società della sorveglianza e alla diffusione delle logiche securitarie ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, La globalisation de la surveillance. Aux origines de l'ordre sécuritaire (La Découverte 2007). Ci vuole spiegare qual è la tesi principale del suo libro? La diffusione delle politiche securitarie è una questione essenziale, perché rimanda al modo stesso in cui definiamo le società nelle quali viviamo. Una volta si parlava di società industriali, poi di società disciplinari - basti pensare a Foucault, o a Deleuze, che evocava la «società del controllo», o ancora le società manageriali, quelle società in cui i principi di organizzazione manageriale si estendono a ogni istituzione della società. A partire dal 2001 mi sembra invece che la «necessità» di intervenire contro il terrorismo abbia costituito il pretesto per affermare un altro tipo di società: la società del sospetto. In questo modo, nelle democrazie liberali il problema della sicurezza trova sempre più spesso una «soluzione» attraverso il ricorso alla tecnologia, dalla videosorveglianza ai test del Dna, ai passaporti elettronici. Siamo entrati in un'era in cui il modo di governare e l'esercizio del potere si basano sulla tracciabilità degli individui e dei gruppi sociali. Contestualmente, è in atto una profonda trasformazione nell'idea stessa dello Stato e nei modi in cui si esercita la sua autorità, attraverso una radicale revisione del diritto penale e grazie alla configurazione di un nuovo «profilo giuridico statale». Lo Stato sempre più spesso viene ristrutturato a partire da una nozione, quella di sicurezza nazionale, che contraddice l'idea della separazione dei poteri e privilegia il potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario. Soltanto considerando questa riconfigurazione possiamo comprendere le nuove forme di sorveglianza. Cercherò di spiegare questo fenomeno, che è di natura generale, con un esempio: un anno fa in Francia è stato pubblicato il rapporto sulla sicurezza nazionale; la cosa interessante di quel rapporto è che si fa riferimento alla nozione di sicurezza nazionale a partire dall'idea del rischio internazionale, in altri termini Al Qaeda. In Francia, dunque, come nelle altre democrazie liberali, si viene affermando l'idea che la questione della sicurezza interna e di quella esterna siano intimamente legate. Questo tra l'altro equivale a dire che la funzione dell'esercito si definisce sempre più come una funzione di controllo del territorio, dando vita a fenomeni come quello raccontato dal film Tropa de elite, nel quale col pretesto della lotta al narcotraffico i corpi speciali dell'esercito brasiliano intervengono nelle favelas. Lei è sempre stato critico verso quanti attribuiscono virtù taumaturgiche alle tecnologie e credono che le reti di informazione possano di per sé rivoluzionare i rapporti sociali e sconfiggere le logiche di emarginazione sociale e politica. Il pericolo, secondo la sua analisi, è che la diffusione delle reti di informazione possa trasformare la marginalizzazione in apartheid. Ci spiega meglio cosa intende? A partire dal telegrafo, tutte le tecnologie hanno contribuito a «dischiudere» il mondo. Se analizziamo la storia della comunicazione ci accorgiamo che i sistemi di comunicazione hanno reso possibili i flussi di merci, persone e idee, e in questo senso la comunicazione ha senz'altro un valore positivo. Le società liberali, però, si fondano sull'idea di ordine, che implica un controllo dei flussi: parliamo tanto di libertà di comunicazione e d'informazione, ma nelle democrazie liberali non si può effettuare davvero una libera scelta se questa contraddice i capisaldi del liberalismo, la ragione di Stato e quella di mercato. Per tornare alla sua domanda, sin dall'inizio della storia della comunicazione è esistita una «ideologia della comunicazione», secondo cui gli sviluppi della tecnologia automaticamente favoriscono la democrazia. Personalmente credo si tratti di un'ideologia salvifica, redentrice, che definisco «tecno-determinismo». Non mi convince l'idea che le reti dell'informazione di per sé possano garantire maggiore democrazia: del resto, il contributo di Internet alla rivitalizzazione dello spazio pubblico è di portata molto ridotta se paragonato agli altri usi dello stesso strumento, mentre negli ultimi dieci anni poco o nulla è stato fatto per risolvere la questione del digital divide. Per quanto riguarda il potenziale democratico della rete, credo che la rete decentralizzi, ma sono anche convinto che a partire dalla decentralizzazione si possano produrre nuove forme di potere ed emarginazione. Per questo ritengo che oggi sia importante contrastare l'ideologia della comunicazione sostenuta da quanti ripongono tutte le proprie speranze nella tecnologia di per sé, e che allo stesso tempo sia essenziale un lavoro di riappropriazione sociale delle tecnologie. La possibilità di appropriarsi e di gestire socialmente la tecnologia è una questione di natura strategica, fondamentale. Lei è uno dei maggiori studiosi della mondializzazione dei sistemi di comunicazione, ma a differenza di altri esperti in materia ha sempre rifiutato polemicamente quello che definisce come «il mito tecnoliberista dello Stato-nazione». In Storia della società dell'informazione rimprovera per esempio a Nicholas Negroponte di «non smettere di battere il tasto della fine di quel mediatore collettivo che è lo Stato-nazione». Qual è la sua posizione? Quello del post-nazionale è un mito che ha impedito di comprendere le forze geopolitiche che hanno operato, e operano, nelle società contemporanee. È una nozione molto vaga, che si ritrova nei documenti ufficiali dell'Unesco, negli scritti dei teorici della sinistra e in quelli dei «dottrinari tecnocratici» come Negroponte. Soprattutto, è un'idea che porta con sé il rischio che vengano negati i recenti processi di riconfigurazione delle funzioni dello Stato, per lungo tempo scomparsi dall'orizzonte critico. Secondo questo mito, oggi da un lato ci sarebbe la società civile e dall'altro gli attori economici transnazionali, mentre il futuro ci riserverebbe soltanto lo scontro tra queste due forze. Ciò che manca è il ruolo che svolge e continuerà a svolgere lo Stato, che prova a ridefinirsi proprio a partire dal divario tra questi due attori. Come abbiamo visto, nella misura in cui lo Stato rafforza le funzioni dell'esercito, recupera il diritto all'uso della forza e della violenza e si pone di nuovo come regolatore del sistema internazionale, il mito della fine dello Stato-nazione si scontra con l'evidenza dei fatti. Ma rimane un pericolo: che nel nuovo interventismo dello Stato o nelle nazionalizzazioni delle banche si riconosca un elemento necessariamente positivo. Lo Stato regolatore invece è un falso progresso: è vero, abbiamo bisogno di regole e occorre regolare il funzionamento dei circuiti bancari, ma affinché la regolamentazione serva davvero a rivitalizzare la democrazia, occorre che venga associata a nuovi attori sociopolitici, quelli finora rimasti esclusi. Bisogna ritrovare le radici della sovranità popolare, perché altrimenti le nuove forme di regolamentazione tenderanno inevitabilmente a rinforzare il potere dello Stato sui cittadini. Dobbiamo individuare nuove forme di partecipazione alla società: se non le troveremo, la soluzione delle grandi questioni poste dalla crisi climatica, dalla crisi finanziaria (che è una vera e propria crise de civilisation), dalla crisi alimentare, ci porterà verso società ancor più autoritarie.
ilmanifesto.it

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