Paul Krugman (The New York Times)
Suppose you consider Tsipras an incompetent twerp. Suppose you dearly want to see Syriza out of power. Suppose, even, that you welcome the prospect of pushing those annoying Greeks out of the euro.
Even if all of that is true, this Eurogroup list of demands is madness. The trending hashtag ThisIsACoup is exactly right. This goes beyond harsh into pure vindictiveness, complete destruction of national sovereignty, and no hope of relief. It is, presumably, meant to be an offer Greece can’t accept; but even so, it’s a grotesque betrayal of everything the European project was supposed to stand for.
Can anything pull Europe back from the brink? Word is that Mario Draghi is trying to reintroduce some sanity, that Hollande is finally showing a bit of the pushback against German morality-play economics that he so signally failed to supply in the past. But much of the damage has already been done. Who will ever trust Germany’s good intentions after this?
In a way, the economics have almost become secondary. But still, let’s be clear: what we’ve learned these past couple of weeks is that being a member of the eurozone means that the creditors can destroy your economy if you step out of line. This has no bearing at all on the underlying economics of austerity. It’s as true as ever that imposing harsh austerity without debt relief is a doomed policy no matter how willing the country is to accept suffering. And this in turn means that even a complete Greek capitulation would be a dead end.
Can Greece pull off a successful exit? Will Germany try to block a recovery? (Sorry, but that’s the kind of thing we must now ask.)
The European project — a project I have always praised and supported — has just been dealt a terrible, perhaps fatal blow. And whatever you think of Syriza, or Greece, it wasn’t the Greeks who did it.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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13.7.15
22.10.13
In Italia prove tecniche di reddito minimo, in Germania è guerra per lo stipendio orario
Le disparità nelle retribuzioni orarie aumentano i working poor (essere poveri pur avendo un lavoro). Inoltre in tutti i paesi aumentano le misure per la lotta alla povertà
Stipendio orario minimo e reddito minimo garantito si aggirano per l'Europa. Lo stipendio minimo orario è il valore di un'ora di lavoro per qualsiasi tipo di attività. Il reddito minimo garantisce a chi ha perso il lavoro o non ha mezzi adeguati per vivere un aiuto minimo dignitoso. Le due formule sono quindi molto diverse tra loro. In Germania è scoppiata la guerra dello stipendio orario. Socialdemocratici e verdi hanno appena lanciato la proposta di un salario minimo di 8,5 euro l’ora, con grandi proteste degli imprenditori. E’ probabile che il compromesso con Angela Merkel e le imprese si assesti sui 7-7,5 euro l’ora.Anche in Germania crescono i working poor (che sono i poveri che pure hanno un lavoro), che però sono coperti dal reddito minimo garantito previsto per legge. In Spagna il salario minimo è di 19 euro al giorno. In Francia lo Smic è di 8,86 euro l'ora. Negli Stati Uniti Barack Obama ha proposto di alzare il salario minimo, oggi a 7,25 dollari l’ora, almeno a 9 dollari l'ora.
Italia. In Italia non abbiamo né salario minimo né reddito minimo garantito. Per la verità il salario orario minimo è sostanzialmente garantito dai contratti, che però cominciano ad assomigliare a una coperta corta, viste le trasformazioni del lavoro, oggi meno garantito del passato; mentre si è avviato un percorso per il reddito minimo. Per stare ai paralleli, in Belgio si chiama Minimax, un salario mensile di 650 euro per chi è in povertà. In Lussemburgo c’è il Revenu minimum guaranti, di1.100 euro al mese. Nei Paesi Bassi ci sono il Beinstand ma anche il Wik di 500 euro, riservato a permettere agli artisti un minimo di libertà creativa. In Austria c'è il Sozialhilfe, in Norvegia il reddito di esistenza, in Germania l’Arbeitslosengeld II. L’Italia è l’unico grande paese europeo a non avere una misura di questo tipo, insieme alla Grecia.
Sia. Ora nel nostro paese sbuca il Sia, una misura che significa Sostegno d’inclusione attiva, una misura che ci chiede l’Europa. Non è un reddito di cittadinanza (rivolto a tutti indistintamente), ma un sostegno rivolto ai poveri, identificati come tali da una prova dei mezzi. “L’ammontare dell’erogazione monetaria alle famiglie beneficiarie del Sia – si legge in un documento steso da una commissione di circa 15 esperti voluta dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini - è idealmente pari alla differenza tra la misura delle loro risorse economiche e il livello di riferimento, stabilito per legge per identificare la condizione di povertà”. Non esiste ancora una valutazione dei costi, ma a titolo esemplificativo si stima che il progetto possa ragionevolmente comportare un costo a regime dell’ordine di circa 7 miliardi, che consentirebbe di interessare circa il 6% delle famiglie italiane. Nel documento vengono prospettate anche ipotesi meno onerose: un’integrazione dei redditi familiari fino a metà della soglia di povertà assoluta potrebbe costare circa 1,5 miliardi. Uno studio di Tito Boeri e Roberto Perotti pubblicato sul sito lavoce.info fornisce altre stime prudenziali (probabilmente in eccesso) secondo il suo ammontare e le tipologie di redditi da considerare nel selezionare la platea dei beneficiari. Il Rmg andrebbe inizialmente introdotto a un livello abbastanza basso e poi incrementato. Un Rmg da 500 euro potrebbe costare tra 8 e 10 miliardi di euro. Non poco, ma intanto il progetto Sia ha avviato il suo cammino. Mentre in Svizzera è stato promosso un referendum per introdurre un reddito di cittadinanza di 2.500 franchi, 2mila euro al mese. La misura costerebbe sui 400 miliardi di franchi l'anno, 326 miliardi di euro. Cifre da far tremare i polsi!
Stipendio orario minimo e reddito minimo garantito si aggirano per l'Europa. Lo stipendio minimo orario è il valore di un'ora di lavoro per qualsiasi tipo di attività. Il reddito minimo garantisce a chi ha perso il lavoro o non ha mezzi adeguati per vivere un aiuto minimo dignitoso. Le due formule sono quindi molto diverse tra loro. In Germania è scoppiata la guerra dello stipendio orario. Socialdemocratici e verdi hanno appena lanciato la proposta di un salario minimo di 8,5 euro l’ora, con grandi proteste degli imprenditori. E’ probabile che il compromesso con Angela Merkel e le imprese si assesti sui 7-7,5 euro l’ora.Anche in Germania crescono i working poor (che sono i poveri che pure hanno un lavoro), che però sono coperti dal reddito minimo garantito previsto per legge. In Spagna il salario minimo è di 19 euro al giorno. In Francia lo Smic è di 8,86 euro l'ora. Negli Stati Uniti Barack Obama ha proposto di alzare il salario minimo, oggi a 7,25 dollari l’ora, almeno a 9 dollari l'ora.
Italia. In Italia non abbiamo né salario minimo né reddito minimo garantito. Per la verità il salario orario minimo è sostanzialmente garantito dai contratti, che però cominciano ad assomigliare a una coperta corta, viste le trasformazioni del lavoro, oggi meno garantito del passato; mentre si è avviato un percorso per il reddito minimo. Per stare ai paralleli, in Belgio si chiama Minimax, un salario mensile di 650 euro per chi è in povertà. In Lussemburgo c’è il Revenu minimum guaranti, di1.100 euro al mese. Nei Paesi Bassi ci sono il Beinstand ma anche il Wik di 500 euro, riservato a permettere agli artisti un minimo di libertà creativa. In Austria c'è il Sozialhilfe, in Norvegia il reddito di esistenza, in Germania l’Arbeitslosengeld II. L’Italia è l’unico grande paese europeo a non avere una misura di questo tipo, insieme alla Grecia.
Sia. Ora nel nostro paese sbuca il Sia, una misura che significa Sostegno d’inclusione attiva, una misura che ci chiede l’Europa. Non è un reddito di cittadinanza (rivolto a tutti indistintamente), ma un sostegno rivolto ai poveri, identificati come tali da una prova dei mezzi. “L’ammontare dell’erogazione monetaria alle famiglie beneficiarie del Sia – si legge in un documento steso da una commissione di circa 15 esperti voluta dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini - è idealmente pari alla differenza tra la misura delle loro risorse economiche e il livello di riferimento, stabilito per legge per identificare la condizione di povertà”. Non esiste ancora una valutazione dei costi, ma a titolo esemplificativo si stima che il progetto possa ragionevolmente comportare un costo a regime dell’ordine di circa 7 miliardi, che consentirebbe di interessare circa il 6% delle famiglie italiane. Nel documento vengono prospettate anche ipotesi meno onerose: un’integrazione dei redditi familiari fino a metà della soglia di povertà assoluta potrebbe costare circa 1,5 miliardi. Uno studio di Tito Boeri e Roberto Perotti pubblicato sul sito lavoce.info fornisce altre stime prudenziali (probabilmente in eccesso) secondo il suo ammontare e le tipologie di redditi da considerare nel selezionare la platea dei beneficiari. Il Rmg andrebbe inizialmente introdotto a un livello abbastanza basso e poi incrementato. Un Rmg da 500 euro potrebbe costare tra 8 e 10 miliardi di euro. Non poco, ma intanto il progetto Sia ha avviato il suo cammino. Mentre in Svizzera è stato promosso un referendum per introdurre un reddito di cittadinanza di 2.500 franchi, 2mila euro al mese. La misura costerebbe sui 400 miliardi di franchi l'anno, 326 miliardi di euro. Cifre da far tremare i polsi!
27.8.13
I debiti della Germania e l’austerità della Merkel
di Luciano Gallino, da Repubblica
L'intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese.
Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco, sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell'intervista è una calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti. Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c'è quindi nulla da dire. Ma la difesa strenua dell'austerità e il messaggio implicito nell'intervista "i Paesi Ue sono pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne" meritano qualche osservazione.
La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica, Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un'intervista a "Spiegel Online", il debitore più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni dellaI Guerra mondiale. La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell'entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all'Urss.
Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel 2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso l'estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all'incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l'anno per parecchi decenni.
A parte l'oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù dell'austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la settimana. La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all'occupazione nel settore pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue.
Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I "minijobbers", coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa. La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica,ei governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a colpi di trilioni di denaro pubblico. Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa. Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivatia scrivere che l'austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi. È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.
La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del "suo" euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni - 80 dei quali sono generati entro la Ue - si ridurrebbero a poca cosa. A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l'euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento.
Altre fonti recenti indicano che esso vale2 dollarie non 1,40 come dice il cambio ufficiale - uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del "Financial Times", senza fare cifre, parlava di "enormi squilibri" tra il valore dei diversi euro dell'eurozona. Tali squilibri, tra cui primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l'euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi "portoghesi d'Europa", come ha fatto qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l'euro reca alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.
Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l'Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro. Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po' di economia per capire che l'austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida. Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l'Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi trattatoo dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.
L'intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese.
Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco, sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell'intervista è una calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti. Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c'è quindi nulla da dire. Ma la difesa strenua dell'austerità e il messaggio implicito nell'intervista "i Paesi Ue sono pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne" meritano qualche osservazione.
La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica, Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un'intervista a "Spiegel Online", il debitore più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni dellaI Guerra mondiale. La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell'entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all'Urss.
Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel 2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso l'estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all'incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l'anno per parecchi decenni.
A parte l'oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù dell'austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la settimana. La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all'occupazione nel settore pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue.
Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I "minijobbers", coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa. La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica,ei governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a colpi di trilioni di denaro pubblico. Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa. Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivatia scrivere che l'austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi. È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.
La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del "suo" euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni - 80 dei quali sono generati entro la Ue - si ridurrebbero a poca cosa. A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l'euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento.
Altre fonti recenti indicano che esso vale2 dollarie non 1,40 come dice il cambio ufficiale - uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del "Financial Times", senza fare cifre, parlava di "enormi squilibri" tra il valore dei diversi euro dell'eurozona. Tali squilibri, tra cui primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l'euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi "portoghesi d'Europa", come ha fatto qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l'euro reca alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.
Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l'Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro. Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po' di economia per capire che l'austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida. Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l'Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi trattatoo dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.
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22.5.12
L'impero Britannico: libero scambio e moneta unica
di Cesare Del Frate (FaceBook)
L'economista Giorgio Ruffolo, in Testa e croce. Una breve storia della moneta, spiega come l'Impero Britannico per primo creò il nesso fra dominio imperiale, libero scambio di merci, cambi monetari fissi, un sistema che avvantaggia il "centro dell'impero", cioè l'economia più competitiva, ingabbiando le altre nella gabbia dorata del libero scambio e della stabilità dei cambi fissi. Riporto un estratto illuminante del saggio (p. 103-108) (se sostituite alla parola "Inghilterra" quella "Germania", si comprende la situazione attuale dell'Unione Europea):
"A questo punto [nel XIX secolo] si verifica una decisiva mutazione della strategia britannica, con l'abbandono dell'imperialismo mercantilista e il passaggio a quello che è stato felicemente definito un imperialismo del libero scambio: una innovazione che cambierà l'Europa. La Gran Bretagna, alla svolta del nuovo secolo liquidò, non senza aver superato forti resistenze esterne, con un'audacia sostenuta da una vera rivoluzione culturale, il sistema mercantilista. La vittoria su Napoleone aveva scompaginato il sistema dirigistico che egli aveva preteso di imporre all'Europa. Ma soprattutto la rivoluzione industriale aveva rafforzato i vantaggi già acquisiti dall'Inghilterra con l'espansione commerciale, dotandola di un'industria dei beni capitali che le assicurava una indiscutibile supremazia mondiale.
Il miglior modo di preservare questa supremazia era quella di ribadirla attraverso un sistema di cambi liberi. Lo scambio libero impediva la formazione di nuovi poteri monopolistici che avrebbero intralciato la supremazia industriale conquistata dall'Inghilterra. Una volta stabiliti ccerti rapporti di forza, la "libera competizione" tra le forze non faceva che ribadirli. L'ideologia del libero scambio inoltre aveva dalla sua un formidabile potere di convinzione culturale grazie alla sua modernità paradossale (l'egoismo individuale al servizio dell'interesse pubblico) alla contestazione della grettezza dei sistemi protezionistici, al fascino che le virtù di un sistema "automatico" esercitava sulla pubblica opinione. Era comprensibile che questa ideologia si combinasse con la convinzione, sapientemente coltivata dall'intelligenza britannica, che la superiorità dell'Inghilterra convenisse a tutti.
[...] La sua moneta è stabile. Alla Banca d'Inghilterra, in origine privata, fondata da un mercante con un credito allo Stato di un milione e duecentomila sterline, fu concesso il privilegio di emettere banconote. Il sistema che il governo britannico introduce ufficialmente nel 1716 dando alla sterlina una base aurea con l'obbligo della piena convertibilità consiste in un meccanismo molto semplice. La moneta è legata all'oro da parità di cambio fisse. I disavanzi che si manifestano nel commercio con gli altri Paesi sono regolati, a quelle parità, in oro. Il Paese da cui l'oro defluisce deve ridurre proporzionalmente la quantità di moneta. Ne deriva automaticamente un abbassamento dei prezzi e dei salari che deprime l'attività produttiva, e quindi le importazioni mentre, grazie alla contrazione dei costi, stimola l'esportazione. Si torna così al riequilibrio della bilancia.
Ma emergono col tempo anche i guai di questo sistema. Quello che diveniva via via più grave era il freno deflazionistico che il sistema inseriva nell'economia. Questi effetti furono compensati dalla capacità dell'Inghilterra, grazie al suo avanzo nella bilancia commerciale, di finanziare il resto del mondo con esportazioni di capitale, fungendo quindi da banchiere mondiale. Quando, tra le due guerre mondiali, l'Inghilterra non fu più in grado di esercitare quella funzione gli effetti deflazionistici emersero.
La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico.
Il meccanismo di funzionamento del sistema monetario internazionale [fra le due guerre mondiali] fu distrutto, il gold standard fu abbandonato. Si chiudeva così, nel 1931, il lungo secolo britannico".
L'economista Giorgio Ruffolo, in Testa e croce. Una breve storia della moneta, spiega come l'Impero Britannico per primo creò il nesso fra dominio imperiale, libero scambio di merci, cambi monetari fissi, un sistema che avvantaggia il "centro dell'impero", cioè l'economia più competitiva, ingabbiando le altre nella gabbia dorata del libero scambio e della stabilità dei cambi fissi. Riporto un estratto illuminante del saggio (p. 103-108) (se sostituite alla parola "Inghilterra" quella "Germania", si comprende la situazione attuale dell'Unione Europea):
"A questo punto [nel XIX secolo] si verifica una decisiva mutazione della strategia britannica, con l'abbandono dell'imperialismo mercantilista e il passaggio a quello che è stato felicemente definito un imperialismo del libero scambio: una innovazione che cambierà l'Europa. La Gran Bretagna, alla svolta del nuovo secolo liquidò, non senza aver superato forti resistenze esterne, con un'audacia sostenuta da una vera rivoluzione culturale, il sistema mercantilista. La vittoria su Napoleone aveva scompaginato il sistema dirigistico che egli aveva preteso di imporre all'Europa. Ma soprattutto la rivoluzione industriale aveva rafforzato i vantaggi già acquisiti dall'Inghilterra con l'espansione commerciale, dotandola di un'industria dei beni capitali che le assicurava una indiscutibile supremazia mondiale.
Il miglior modo di preservare questa supremazia era quella di ribadirla attraverso un sistema di cambi liberi. Lo scambio libero impediva la formazione di nuovi poteri monopolistici che avrebbero intralciato la supremazia industriale conquistata dall'Inghilterra. Una volta stabiliti ccerti rapporti di forza, la "libera competizione" tra le forze non faceva che ribadirli. L'ideologia del libero scambio inoltre aveva dalla sua un formidabile potere di convinzione culturale grazie alla sua modernità paradossale (l'egoismo individuale al servizio dell'interesse pubblico) alla contestazione della grettezza dei sistemi protezionistici, al fascino che le virtù di un sistema "automatico" esercitava sulla pubblica opinione. Era comprensibile che questa ideologia si combinasse con la convinzione, sapientemente coltivata dall'intelligenza britannica, che la superiorità dell'Inghilterra convenisse a tutti.
[...] La sua moneta è stabile. Alla Banca d'Inghilterra, in origine privata, fondata da un mercante con un credito allo Stato di un milione e duecentomila sterline, fu concesso il privilegio di emettere banconote. Il sistema che il governo britannico introduce ufficialmente nel 1716 dando alla sterlina una base aurea con l'obbligo della piena convertibilità consiste in un meccanismo molto semplice. La moneta è legata all'oro da parità di cambio fisse. I disavanzi che si manifestano nel commercio con gli altri Paesi sono regolati, a quelle parità, in oro. Il Paese da cui l'oro defluisce deve ridurre proporzionalmente la quantità di moneta. Ne deriva automaticamente un abbassamento dei prezzi e dei salari che deprime l'attività produttiva, e quindi le importazioni mentre, grazie alla contrazione dei costi, stimola l'esportazione. Si torna così al riequilibrio della bilancia.
Ma emergono col tempo anche i guai di questo sistema. Quello che diveniva via via più grave era il freno deflazionistico che il sistema inseriva nell'economia. Questi effetti furono compensati dalla capacità dell'Inghilterra, grazie al suo avanzo nella bilancia commerciale, di finanziare il resto del mondo con esportazioni di capitale, fungendo quindi da banchiere mondiale. Quando, tra le due guerre mondiali, l'Inghilterra non fu più in grado di esercitare quella funzione gli effetti deflazionistici emersero.
La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico.
Il meccanismo di funzionamento del sistema monetario internazionale [fra le due guerre mondiali] fu distrutto, il gold standard fu abbandonato. Si chiudeva così, nel 1931, il lungo secolo britannico".
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31.8.11
È l’ora dell’Europolitik
Ulrich Beck (31 agosto 2011 Der Spiegel)
Di fronte alla crisi e alle rivolte giovanili c’è una sola soluzione: più Europa. Angela Merkel dovrebbe avere il coraggio di intraprendere una svolta simile a quella adottata da Bonn nei confronti del blocco sovietico negli anni settanta.
La politica europea della Germania si accinge a compiere una svolta altrettanto importante dell’Ostpolitik nei primi anni settanta. La parola d’ordine allora era stata: “Cambiamento tramite riavvicinamento”. Oggi potrebbe essere: “Più giustizia tramite più Europa”.
In entrambi i casi si tratta di superare una spaccatura. Quella di un tempo era tra Est e Ovest. Quella odierna è tra Nord e Sud. La minaccia esistenziale che incombe sull’Europa – provocata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro – ha fatto prendere coscienza agli europei di una cosa: non vivono in Germania né in Francia, bensì in Europa.
La gioventù europea per la prima volta sperimenta il proprio “destino europeo”: più istruita che mai, con grandi aspettative, si trova alle prese con il declino dei mercati provocato dalla crisi economica e con il rischio di bancarotta che incombe su alcuni stati. Sotto i 25 anni è senza lavoro un giovane europeo su cinque.
Ovunque abbiano montato i loro accampamenti di tende e fatto sentire la loro voce, questi rappresentanti diplomati del precariato hanno chiesto maggiore giustizia sociale. Le loro rivendicazioni sono state pacifiche ma ferme, in Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto e in Israele (a differenza della Gran Bretagna). L’Europa e i suoi giovani si trovano a condividere una medesima collera, scatenata da una classe politica che salva le banche a colpi di miliardi ma dilapida l’avvenire dei suoi giovani. Se la crisi dell’euro logora le speranze della gioventù europea, quale avvenire resterà mai a un’Europa sempre più vecchia?
Se non altro, la crisi finanziaria sarà riuscita a realizzare una cosa: catapultare tutti quanti (esperti e politici compresi) in un universo che nessuno capisce più. Sul versante delle reazioni politiche entrano in concorrenza tra loro due scenari estremi. Il primo, hegeliano, che offre un’opportunità storica all’“astuzia della ragione”, ha visto profilarsi minacce causate dal “rischio-capitalismo” mondiale. L’imperativo universale è uno solo: collaborare o affondare. Vincere tutti insieme oppure perdere da soli.
Al tempo stesso, la nostra incapacità a tenere sotto controllo i rischi finanziari (oltre al riscaldamento del clima e ai flussi migratori) rende altresì possibile uno scenario che ricalca il pensiero di Carl Schmitt, un gioco di potere strategico che – con la normalizzazione dell’emergenza continua in tutto il mondo – apre le porte a politiche etniche e nazionalistiche.
Paradossalmente, l’Unione europea è vittima del suo stesso successo. Per gli europei un gran numero di conquiste è diventato così scontato che probabilmente si accorgerebbero di esse soltanto quando queste venissero meno. Per averne la riprova, è sufficiente pensare al ritorno dei controlli alle frontiere, alla cancellazione della legislazione comune sui prodotti alimentari, alla soppressione della libertà di espressione fondata su criteri comuni in tutti i paesi (che soltanto l’Ungheria oggi trasgredisce).
Oppure sarebbe sufficiente immaginare di essere nuovamente costretti a cambiare valuta e imparare a memoria il tasso di cambio quando si parte non solo per Budapest, Copenhagen e Praga, ma anche Parigi, Madrid e Roma. L’Europa è diventata una seconda pelle, ed è forse per questo che siamo pronti a mettere a repentaglio la sua esistenza senza nemmeno alzare un sopracciglio. È indispensabile invece guardare in faccia la realtà, e riconoscere che ormai la Germania condivide a tutti gli effetti le sorti dell’Europa.
A differenza del destino comune imposto a due antagonisti come Stati Uniti e Cina, il destino comune dell’Europa fa affidamento su una legislazione comune, una valuta comune, frontiere comuni, ma anche sul principio del “mai più!”. Invece di tornare a un passato prestigioso, l’Ue fa in modo che quel passato non si ripeta mai più.
Invece di trasformarsi in un super-stato oppure in un meccanismo che nel migliore dei casi rappresenterebbe interessi nazionali illuminati, l’Ue ha saputo trovare una terza via. Suo ruolo principale è quello del direttore d’orchestra. Agevola i rapporti tra gli impegni presi e le diverse istituzioni costituite da vari stati, ma anche tra organizzazione transnazionali e collettività municipali e regionali e strutture della società civile.
Il fondo di salvataggio destinato ai paesi del Sud ha dato vita a una logica conflittuale tra debitori e creditori. I paesi donatori sono obbligati a imporre a livello interno programmi di austerità che li inducono a esercitare pressioni politiche insostenibili sui paesi debitori, mentre questi ultimi hanno per di più l’impressione di essere sottomessi a un diktat da parte dell’Ue, che offende la loro autonomia nazionale e la loro dignità. Questi due fenomeni attizzano l’odio dell’Europa verso l’Europa, perché essa appare a tutti come una costrizione.
Europa tedesca o Germania europea?
In questa Europa in crisi perpetua, il conflitto esistente sui modelli futuri ci pone i seguenti interrogativi: in che misura il movimento dei giovani indignados supera le frontiere nazionali e promuove la solidarietà? In che misura la sensazione di emarginazione che ne deriva conduce a un’esperienza generazionale e a nuove iniziative politiche? Che atteggiamento adottano i dipendenti, i sindacati, il cuore della società europea? Quali grandi partiti, per esempio in Germania, troveranno il coraggio di spiegare alla cittadinanza fino a che punto l’Europa è loro necessaria?
Angela Merkel preferisce seguire Hegel e le digressioni della ragione. Se volessimo adottare la metafora della danza, potremmo dire che effettua due passi indietro e uno di lato prima di eseguire il numero ridicolo del voltafaccia, stemperato da un passettino in avanti. Il tutto seguendo una musica che né i tedeschi né gli altri europei riescono a sentire e tanto meno a capire. Laddove Helmut Kohl metteva in guardia da un’Europa tedesca, alla quale preferiva una Germania europea, Angela Merkel difende infatti l’ “euro-nazionalismo” tedesco e considera che spetti all’Europa adattarsi alla politica economica di Berlino.
In questo contesto di crisi finanziaria, la politica europea dovrebbe rivestire il medesimo ruolo che l’Ostpolitik ebbe nella Germania divisa degli anni Settanta: una politica di riavvicinamento al di là delle frontiere. Perché l’integrazione economica di paesi debitori quali la Grecia e il Portogallo crea così tante ondate di polemiche, quando i miliardi investiti per la riunificazione delle due Germanie filarono lisci come l’olio? Qui non si tratta soltanto di pagare per le stoviglie rotte, ma di ripensare al futuro dell’Europa e al suo posto nel mondo.
La creazione degli eurobond non tradirebbe gli interessi della Germania. Perché l’Europa non dovrebbe introdurre una tassa sulla transazioni finanziarie che non farebbe male a nessuno, tanto meno alle banche, e che al contrario farebbe del bene a tutti i paesi membri offrendo per di più un margine di manovra finanziaria all’Europa sociale ed ecologica, garantendo al contempo ai lavoratori la sicurezza in tutta Europa e rispondendo alle grandi aspettative dei giovani europei?
Nel frattempo, il minuetto di Merkel potrebbe gettare le premesse di un futuro progetto politico che abbini i socialdemocratici e i Verdi. Quando l’Spd e i Verdi riusciranno a trasmettere l’idea che un’Europa sociale non si riduce a un introverso spirito mercantile, ma si basa – secondo la tesi hegeliana – su una necessità storica, l’Spd tornerà ai successi elettorali. A patto, tuttavia, che abbia il coraggio di fare dell’Europa la propria priorità, come accadde con l’Ostpolitik una quarantina di anni fa.
(traduzione di Anna Bissanti).
Di fronte alla crisi e alle rivolte giovanili c’è una sola soluzione: più Europa. Angela Merkel dovrebbe avere il coraggio di intraprendere una svolta simile a quella adottata da Bonn nei confronti del blocco sovietico negli anni settanta.
La politica europea della Germania si accinge a compiere una svolta altrettanto importante dell’Ostpolitik nei primi anni settanta. La parola d’ordine allora era stata: “Cambiamento tramite riavvicinamento”. Oggi potrebbe essere: “Più giustizia tramite più Europa”.
In entrambi i casi si tratta di superare una spaccatura. Quella di un tempo era tra Est e Ovest. Quella odierna è tra Nord e Sud. La minaccia esistenziale che incombe sull’Europa – provocata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro – ha fatto prendere coscienza agli europei di una cosa: non vivono in Germania né in Francia, bensì in Europa.
La gioventù europea per la prima volta sperimenta il proprio “destino europeo”: più istruita che mai, con grandi aspettative, si trova alle prese con il declino dei mercati provocato dalla crisi economica e con il rischio di bancarotta che incombe su alcuni stati. Sotto i 25 anni è senza lavoro un giovane europeo su cinque.
Ovunque abbiano montato i loro accampamenti di tende e fatto sentire la loro voce, questi rappresentanti diplomati del precariato hanno chiesto maggiore giustizia sociale. Le loro rivendicazioni sono state pacifiche ma ferme, in Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto e in Israele (a differenza della Gran Bretagna). L’Europa e i suoi giovani si trovano a condividere una medesima collera, scatenata da una classe politica che salva le banche a colpi di miliardi ma dilapida l’avvenire dei suoi giovani. Se la crisi dell’euro logora le speranze della gioventù europea, quale avvenire resterà mai a un’Europa sempre più vecchia?
Se non altro, la crisi finanziaria sarà riuscita a realizzare una cosa: catapultare tutti quanti (esperti e politici compresi) in un universo che nessuno capisce più. Sul versante delle reazioni politiche entrano in concorrenza tra loro due scenari estremi. Il primo, hegeliano, che offre un’opportunità storica all’“astuzia della ragione”, ha visto profilarsi minacce causate dal “rischio-capitalismo” mondiale. L’imperativo universale è uno solo: collaborare o affondare. Vincere tutti insieme oppure perdere da soli.
Al tempo stesso, la nostra incapacità a tenere sotto controllo i rischi finanziari (oltre al riscaldamento del clima e ai flussi migratori) rende altresì possibile uno scenario che ricalca il pensiero di Carl Schmitt, un gioco di potere strategico che – con la normalizzazione dell’emergenza continua in tutto il mondo – apre le porte a politiche etniche e nazionalistiche.
Paradossalmente, l’Unione europea è vittima del suo stesso successo. Per gli europei un gran numero di conquiste è diventato così scontato che probabilmente si accorgerebbero di esse soltanto quando queste venissero meno. Per averne la riprova, è sufficiente pensare al ritorno dei controlli alle frontiere, alla cancellazione della legislazione comune sui prodotti alimentari, alla soppressione della libertà di espressione fondata su criteri comuni in tutti i paesi (che soltanto l’Ungheria oggi trasgredisce).
Oppure sarebbe sufficiente immaginare di essere nuovamente costretti a cambiare valuta e imparare a memoria il tasso di cambio quando si parte non solo per Budapest, Copenhagen e Praga, ma anche Parigi, Madrid e Roma. L’Europa è diventata una seconda pelle, ed è forse per questo che siamo pronti a mettere a repentaglio la sua esistenza senza nemmeno alzare un sopracciglio. È indispensabile invece guardare in faccia la realtà, e riconoscere che ormai la Germania condivide a tutti gli effetti le sorti dell’Europa.
A differenza del destino comune imposto a due antagonisti come Stati Uniti e Cina, il destino comune dell’Europa fa affidamento su una legislazione comune, una valuta comune, frontiere comuni, ma anche sul principio del “mai più!”. Invece di tornare a un passato prestigioso, l’Ue fa in modo che quel passato non si ripeta mai più.
Invece di trasformarsi in un super-stato oppure in un meccanismo che nel migliore dei casi rappresenterebbe interessi nazionali illuminati, l’Ue ha saputo trovare una terza via. Suo ruolo principale è quello del direttore d’orchestra. Agevola i rapporti tra gli impegni presi e le diverse istituzioni costituite da vari stati, ma anche tra organizzazione transnazionali e collettività municipali e regionali e strutture della società civile.
Il fondo di salvataggio destinato ai paesi del Sud ha dato vita a una logica conflittuale tra debitori e creditori. I paesi donatori sono obbligati a imporre a livello interno programmi di austerità che li inducono a esercitare pressioni politiche insostenibili sui paesi debitori, mentre questi ultimi hanno per di più l’impressione di essere sottomessi a un diktat da parte dell’Ue, che offende la loro autonomia nazionale e la loro dignità. Questi due fenomeni attizzano l’odio dell’Europa verso l’Europa, perché essa appare a tutti come una costrizione.
Europa tedesca o Germania europea?
In questa Europa in crisi perpetua, il conflitto esistente sui modelli futuri ci pone i seguenti interrogativi: in che misura il movimento dei giovani indignados supera le frontiere nazionali e promuove la solidarietà? In che misura la sensazione di emarginazione che ne deriva conduce a un’esperienza generazionale e a nuove iniziative politiche? Che atteggiamento adottano i dipendenti, i sindacati, il cuore della società europea? Quali grandi partiti, per esempio in Germania, troveranno il coraggio di spiegare alla cittadinanza fino a che punto l’Europa è loro necessaria?
Angela Merkel preferisce seguire Hegel e le digressioni della ragione. Se volessimo adottare la metafora della danza, potremmo dire che effettua due passi indietro e uno di lato prima di eseguire il numero ridicolo del voltafaccia, stemperato da un passettino in avanti. Il tutto seguendo una musica che né i tedeschi né gli altri europei riescono a sentire e tanto meno a capire. Laddove Helmut Kohl metteva in guardia da un’Europa tedesca, alla quale preferiva una Germania europea, Angela Merkel difende infatti l’ “euro-nazionalismo” tedesco e considera che spetti all’Europa adattarsi alla politica economica di Berlino.
In questo contesto di crisi finanziaria, la politica europea dovrebbe rivestire il medesimo ruolo che l’Ostpolitik ebbe nella Germania divisa degli anni Settanta: una politica di riavvicinamento al di là delle frontiere. Perché l’integrazione economica di paesi debitori quali la Grecia e il Portogallo crea così tante ondate di polemiche, quando i miliardi investiti per la riunificazione delle due Germanie filarono lisci come l’olio? Qui non si tratta soltanto di pagare per le stoviglie rotte, ma di ripensare al futuro dell’Europa e al suo posto nel mondo.
La creazione degli eurobond non tradirebbe gli interessi della Germania. Perché l’Europa non dovrebbe introdurre una tassa sulla transazioni finanziarie che non farebbe male a nessuno, tanto meno alle banche, e che al contrario farebbe del bene a tutti i paesi membri offrendo per di più un margine di manovra finanziaria all’Europa sociale ed ecologica, garantendo al contempo ai lavoratori la sicurezza in tutta Europa e rispondendo alle grandi aspettative dei giovani europei?
Nel frattempo, il minuetto di Merkel potrebbe gettare le premesse di un futuro progetto politico che abbini i socialdemocratici e i Verdi. Quando l’Spd e i Verdi riusciranno a trasmettere l’idea che un’Europa sociale non si riduce a un introverso spirito mercantile, ma si basa – secondo la tesi hegeliana – su una necessità storica, l’Spd tornerà ai successi elettorali. A patto, tuttavia, che abbia il coraggio di fare dell’Europa la propria priorità, come accadde con l’Ostpolitik una quarantina di anni fa.
(traduzione di Anna Bissanti).
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14.5.11
Le ragioni e i segreti del miracolo tedesco
Danilo Taino (Corriere della Sera)
Dalla gestione unitaria della crisi alla centralità delle imprese nel sistema Paese.
La spinta dell`espansione nelle economie emergenti, dalla Cina al Brasile
Patrick Adenauer lo aveva anticipato giovedì pomeriggio, durante la prima giornata del congresso dell`Associazione degli imprenditori di famiglia tedeschi, della quale è presidente uscente. «Il piccolo miracolo economico in corso è in gran parte il risultato del nostro lavoro», aveva detto. Ieri mattina, dunque, una scarica di orgoglio è passata tra i delegati quando l`Ufficio federale di Statistica ha comunicato che, nel primo trimestre del 2011, l`economia della Germania è cresciuta a un ritmo che non si registrava dal giorno della riunificazione, nel 1990. Il secondo Wirschaftswunder è vivo e scalcia, commentavano ieri parecchi industriali: un boom economico non meno importante di quello degli Anni Cinquanta e Sessanta per i figli e i nipoti dei grandi protagonisti del primo.
L`ufficio statistico ha calcolato che tra gennaio e marzo l`economia tedesca è cresciuta dell`1,5% rispetto al trimestre precedente, del 4,9% rispetto a un anno prima. E` il doppio della crescita americana, tanto per fare una proporzione. Per raccontarlo con un`altra statistica, ieri gli imprenditori di famiglia facevano notare che un anno fa gli esperti pensavano che il Prodotto interno lordo tedesco (Pil) non sarebbe tornato ai livelli precedenti la recessione prima dei 2o13: invece lo ha già superato.
Le previsioni dicono che quest`anno la Germania crescerà del 3%, forse del 3,4:
non male per un Paese che entrò nell`euro, 12 anni fa, con la reputazione di malato d`Europa.
Lo sforzo per arrivare a questo risultato è stato fatto dal Paese nel suo insieme: i governi - di destra e di sinistra - che hanno fatto le riforme e hanno sostenuto l`industria durante la violenta recessione, i sindacati che hanno tenuto quasi fermi i salari per un decennio e gli imprenditori che hanno ristrutturato radicalmente le loro imprese e si sono lanciati alla conquista di nuovi mercati, nuovi nel senso che sono soprattutto quelli emergenti.
Non solo le grandi imprese, quelle quotate in Borsa. Anche quelle gestite dalla famiglia che le controlla: di queste, per dire, nove su dieci hanno una presenza internazionale.
«Ci sono già aziende medie e piccole - ha spiegato Jùrgen Fitschen del consiglio di amministrazione della Deutsche Bank - che producono e distribuiscono più in Cina che nel mercato domestico della Germania». Que st`anno - altro dato che racconta molto - le imprese tedesche esporteranno più in Cina che negli Stati Uniti, per la prima volta, e se la tendenza continuerà nel giro di due o tre anni il mercato cinese sarà per loro più importante anche di quello francese, storicamente il primo.
Ieri, l`Ufficio di Statistica ha fatto notare che il risultato record è stato molto influenzato dall`attività domestica. Dal momento che tre giorni fa si era già saputo che in marzo le esportazioni avevano raggiunto livelli record, è facile tracciare il carattere del boom.
Durante la recessione mondiale, che per la Germania fu particolarmente dura data la sua dipendenza dalle esportazioni, il governo accentuò i benefici per l`uso di orari ridotti in fabbrica in cambio dell`impegno delle imprese a non licenziare: sindacati e aziende strinsero la cinghia e, alla fine, superata la fase critica, molte imprese distribuirono una specie di dividendo, un premio legato alla ripresa dei profitti. La Volkswagen, per esempio, a inizio anno ha firmato un accordo nel quale i lavoratori hanno ottenuto un aumento del 3,2% e un bonus di almeno 500 euro a testa.
La Bmw ha distribuito l`anno scorso ai suoi 70 mila lavoratori in Germania un premio medio di 1.060 euro per avere tenuto i nervi saldi durante i momenti più bui.
Lo sforzo comune e l`avere evitato licenziamenti ha fatto sì che le imprese fossero pronte, una volta finita la recessione internazionale, ad aggredire di nuovo i mercati esteri. E così hanno fatto: dopo una caduta del Pil di oltre il 5% nel 2009, l`economia tedesca ha puntato tutto, spudoratamente, sulle esportazioni - tanto che Angela Merkel fu accusata dagli Stati Uniti e dalla Francia di non fare abbastanza per aumentare la domanda mondiale.
Solo dopo ha usato il volano dell`export per aumentare i salari, ridurre la disoccupazione e quindi favorire consumi e investimenti, che è quello che sta succedendo oggi. Ma una cosa è certa, dicevano ieri gli imprenditori di famiglia a congresso: a fare funzionare il circolo virtuoso è la capacità di esportare, di stare sui mercati internazionali, prima di tutto quelli emergenti.
Non mancano i rischi, ovviamente, prima di tutto legati all`andamento dell`economia internazionale dalla quale il Paese è dipendente: una preoccupazione seria, di fronte ai segni di inflazione e di rallentamento economico in alcuni mercati emergenti, i più importanti, ormai, per le aziende tedesche. Ciò nonostante, gli imprenditori ritengono di avere trovato per ora il modello vincente.
Proprio perché in Germania le imprese sono tenute in alta considerazione e quelle di famiglia forse ancora di più - il 95% delle aziende ha una famiglia alla guida - a portare alla loro associazione il massimo messaggio politico è stato il presidente federale Christian Wulff. Il quale ha potuto raccontare del suo viaggio in Brasile e in Sudamerica, a sostegno del business tedesco. Così come Frau Merkel avrebbe potuto illustrare i suoi viaggi in Cina con lo stesso obiettivo, accompagnata da imprese e banche. E` una Germania aggressiva in economia, che si muove abbastanza compatta, in ordine come al solito. E che sta affondando la propria presenza nei mercati dove ormai si decide molto. Ha probabilmente capito quello che uno dei maggiori storici dei mercati finanziari, Russell Napier, spiega così: «Da 15 anni il mondo globalizzato è guidato dai mercati emergenti: lo hanno fatto sostenendo gli Stati Uniti, ma sono loro ad averlo fatto». «Siamo nei Paesi giusti al momento giusto», diceva ieri Adenauer, imprenditore e nipote del padre della Germania moderna.
Dalla gestione unitaria della crisi alla centralità delle imprese nel sistema Paese.
La spinta dell`espansione nelle economie emergenti, dalla Cina al Brasile
Patrick Adenauer lo aveva anticipato giovedì pomeriggio, durante la prima giornata del congresso dell`Associazione degli imprenditori di famiglia tedeschi, della quale è presidente uscente. «Il piccolo miracolo economico in corso è in gran parte il risultato del nostro lavoro», aveva detto. Ieri mattina, dunque, una scarica di orgoglio è passata tra i delegati quando l`Ufficio federale di Statistica ha comunicato che, nel primo trimestre del 2011, l`economia della Germania è cresciuta a un ritmo che non si registrava dal giorno della riunificazione, nel 1990. Il secondo Wirschaftswunder è vivo e scalcia, commentavano ieri parecchi industriali: un boom economico non meno importante di quello degli Anni Cinquanta e Sessanta per i figli e i nipoti dei grandi protagonisti del primo.
L`ufficio statistico ha calcolato che tra gennaio e marzo l`economia tedesca è cresciuta dell`1,5% rispetto al trimestre precedente, del 4,9% rispetto a un anno prima. E` il doppio della crescita americana, tanto per fare una proporzione. Per raccontarlo con un`altra statistica, ieri gli imprenditori di famiglia facevano notare che un anno fa gli esperti pensavano che il Prodotto interno lordo tedesco (Pil) non sarebbe tornato ai livelli precedenti la recessione prima dei 2o13: invece lo ha già superato.
Le previsioni dicono che quest`anno la Germania crescerà del 3%, forse del 3,4:
non male per un Paese che entrò nell`euro, 12 anni fa, con la reputazione di malato d`Europa.
Lo sforzo per arrivare a questo risultato è stato fatto dal Paese nel suo insieme: i governi - di destra e di sinistra - che hanno fatto le riforme e hanno sostenuto l`industria durante la violenta recessione, i sindacati che hanno tenuto quasi fermi i salari per un decennio e gli imprenditori che hanno ristrutturato radicalmente le loro imprese e si sono lanciati alla conquista di nuovi mercati, nuovi nel senso che sono soprattutto quelli emergenti.
Non solo le grandi imprese, quelle quotate in Borsa. Anche quelle gestite dalla famiglia che le controlla: di queste, per dire, nove su dieci hanno una presenza internazionale.
«Ci sono già aziende medie e piccole - ha spiegato Jùrgen Fitschen del consiglio di amministrazione della Deutsche Bank - che producono e distribuiscono più in Cina che nel mercato domestico della Germania». Que st`anno - altro dato che racconta molto - le imprese tedesche esporteranno più in Cina che negli Stati Uniti, per la prima volta, e se la tendenza continuerà nel giro di due o tre anni il mercato cinese sarà per loro più importante anche di quello francese, storicamente il primo.
Ieri, l`Ufficio di Statistica ha fatto notare che il risultato record è stato molto influenzato dall`attività domestica. Dal momento che tre giorni fa si era già saputo che in marzo le esportazioni avevano raggiunto livelli record, è facile tracciare il carattere del boom.
Durante la recessione mondiale, che per la Germania fu particolarmente dura data la sua dipendenza dalle esportazioni, il governo accentuò i benefici per l`uso di orari ridotti in fabbrica in cambio dell`impegno delle imprese a non licenziare: sindacati e aziende strinsero la cinghia e, alla fine, superata la fase critica, molte imprese distribuirono una specie di dividendo, un premio legato alla ripresa dei profitti. La Volkswagen, per esempio, a inizio anno ha firmato un accordo nel quale i lavoratori hanno ottenuto un aumento del 3,2% e un bonus di almeno 500 euro a testa.
La Bmw ha distribuito l`anno scorso ai suoi 70 mila lavoratori in Germania un premio medio di 1.060 euro per avere tenuto i nervi saldi durante i momenti più bui.
Lo sforzo comune e l`avere evitato licenziamenti ha fatto sì che le imprese fossero pronte, una volta finita la recessione internazionale, ad aggredire di nuovo i mercati esteri. E così hanno fatto: dopo una caduta del Pil di oltre il 5% nel 2009, l`economia tedesca ha puntato tutto, spudoratamente, sulle esportazioni - tanto che Angela Merkel fu accusata dagli Stati Uniti e dalla Francia di non fare abbastanza per aumentare la domanda mondiale.
Solo dopo ha usato il volano dell`export per aumentare i salari, ridurre la disoccupazione e quindi favorire consumi e investimenti, che è quello che sta succedendo oggi. Ma una cosa è certa, dicevano ieri gli imprenditori di famiglia a congresso: a fare funzionare il circolo virtuoso è la capacità di esportare, di stare sui mercati internazionali, prima di tutto quelli emergenti.
Non mancano i rischi, ovviamente, prima di tutto legati all`andamento dell`economia internazionale dalla quale il Paese è dipendente: una preoccupazione seria, di fronte ai segni di inflazione e di rallentamento economico in alcuni mercati emergenti, i più importanti, ormai, per le aziende tedesche. Ciò nonostante, gli imprenditori ritengono di avere trovato per ora il modello vincente.
Proprio perché in Germania le imprese sono tenute in alta considerazione e quelle di famiglia forse ancora di più - il 95% delle aziende ha una famiglia alla guida - a portare alla loro associazione il massimo messaggio politico è stato il presidente federale Christian Wulff. Il quale ha potuto raccontare del suo viaggio in Brasile e in Sudamerica, a sostegno del business tedesco. Così come Frau Merkel avrebbe potuto illustrare i suoi viaggi in Cina con lo stesso obiettivo, accompagnata da imprese e banche. E` una Germania aggressiva in economia, che si muove abbastanza compatta, in ordine come al solito. E che sta affondando la propria presenza nei mercati dove ormai si decide molto. Ha probabilmente capito quello che uno dei maggiori storici dei mercati finanziari, Russell Napier, spiega così: «Da 15 anni il mondo globalizzato è guidato dai mercati emergenti: lo hanno fatto sostenendo gli Stati Uniti, ma sono loro ad averlo fatto». «Siamo nei Paesi giusti al momento giusto», diceva ieri Adenauer, imprenditore e nipote del padre della Germania moderna.
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28.9.09
Germania, la nazione si vendica
Barbara Spinelli
Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.
Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.
Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.
Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.
Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra (Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.
La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.
La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.
Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metter- nich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).
Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.
Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.
Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.
Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.
Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.
Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra (Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.
La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.
La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.
Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metter- nich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).
Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.
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