Superati ormai gli schemi su cui era basata la dialettica politica tradizionale
Cesare Martinetti
Il Front National è il primo partito di Francia, Marine Le Pen cambia il paradigma politico di un paese fondatore dell’Unione europea e apre una dinamica imprevedibile nel vecchio continente. Un vittoria annunciata ma non per questo meno clamorosa: è un voto che segna qualcosa di molto più profondo, è il superamento dello schema politico novecentesco, saltano le categorie nelle quali si sono formati i partiti delle democrazie occidentali. Il 40 per cento di voti presi da Marine Le Pen e dalla nipotina Marion nella due regioni in cui erano candidate (Nord-Pas-de-Calais e Piccardia, Provenza-Costa Azzurra) costituiscono la somma dei voti di destra e sinistra, ex gollisti e socialisti. Nel resto del Paese il Front è al 30 per cento; secondo partito i “repubblicani” di Sarkozy con il 26. I socialisti sono al 23.
Tutto questo non si può più interpretare con la vecchia formula del voto di protesta. Non basta più. Bisogna prendere atto che la politica sta cambiando, inutili le vecchie formule che ancora si sentono oggi in Francia tipo «far fronte all’estrema destra» che è un modo appena più reticente di dire: no ai fascisti. Più lo si dirà e più voti andranno al Front. Il paese è già altrove. Sono anni che sociologi e sondaggisti avvertono un rimescolamento nel profondo della società.
I voti al Front National arrivano in gran parte dalle classi popolari, molti dei nuovi elettori frontisti hanno votato comunista per anni. È il voto dei delusi, dei dimenticati, è il voto di un paese profondo al quale la politica non sa più parlare. È un voto populista, postideologico e in questo senso introduce stabilmente nel paesaggio politico un soggetto “nuovo” ma non per questo anti-politico.
È un voto contro le élites politiche che giocano una piccola battaglia di apparati. È un voto contro la tecnocrazia gelida di Bruxelles da dove arrivano soltanto diktat cifrati che la gente traduce in perdita secca nella propria quotidianità. Non è un caso che l’unica regione in cui il Front arriva terzo con il 18 per cento dietro la destra al 30 e i socialisti al 25 è l’Ile-de-France e cioè la regione di Parigi: impensabile un voto contro le élites nella capitale delle élites.
È naturalmente un voto di paura dopo gli attentati. Ma sarebbe un errore pensare che i francesi hanno votato Front dopo Charlie Hebdo e le stragi di venerdì 13 novembre.
Una crescita continua
La dinamica elettorale per il Front è positiva da 2002, l’anno in cui il vecchio Jean-Marie Le Pen, padre di Marine riuscì a battere il premier socialista Lionel Jospin nel primo turno delle presidenziali e arrivò al ballottaggio con Chirac. Perse, è vero, per 82 a 18 (per cento). Ma il grande tabù era rotto. Da allora gli altri partiti, in particolare la destra ex gollista con Nicolas Sarkozy si sono lanciati all’inseguimento del paese che sembrava scivolare sempre di più nell’ombra del Front dando così corso a quella «lepenizzazione» degli spiriti che ieri ha sancito la vittoria di Marine Le Pen.
Sarzkoy il grande battuto
In questo senso il grande sconfitto di queste elezioni è proprio Sarkozy che stava faticosamente costruendo la candidatura per le presidenziali 2017 sognando la grande rivincita con Hollande che l’aveva umiliato tre anni e mezzo fa. Dopo questo risultato è molto difficile che Sarko, che ieri sera ha lanciato proclami di battaglia contro l’estrema destra rifiutando qualunque alleanza con il Ps per il secondo turno, possa essere candidato. Il grande rivale moderato Alain Juppé (l’unico che sembra in grado di battere la Le Pen in un ballottaggio perché capace di raccogliere anche molti voti socialisti) ha già annunciato battaglia nel partito.
Hollande e la sinistra divisa
Hollande è stato sconfitto ma meno di quel che si pensava. I voti della sinistra (come sempre dispersi) sommati fra loro fanno quasi ovunque più del Front. Ma si sa che un conto è la matematica e un altro conto la politica. Il presidente ha comunque molto recuperato grazie all’atteggiamento fermo e reattivo di fronte agli attentati. La «guerra» immediatamente dichiarata all’Isis, lo stato di emergenza messo in atto nel paese, l’attivismo diplomatico gli hanno riportato molti consensi persi nel deludente andamento economico del paese. Lui, certamente, sarà il candidato alla propria successione tra poco più di un anno.
Promesse mirabolanti
Detto questo bisognerà anche vedere che uso farà Marine Le Pen di questo risultato elettorale, che naturalmente dovrà essere confermato domenica prossima ai ballottaggi. Ma nel sistema francese le regioni hanno poteri molto meno significativi delle regioni italiane, non si potrà certo misurare il programma di governo del Front. La Pen vince su promesse mirabolanti: l’uscita dall’euro (che in verità negli ultimi tempi ha un po’ attenuato, forse nel timore di doversi poi trovare davvero a metterla in atto), la chiusura dei confini agli stranieri, nazionalizzazioni delle imprese che delocalizzano, etc. Ma questa sarà la partita del 2017 della quale sappiamo da fin d’ora che uno dei due candidati sarà Marine Le Pen. Resta da capire chi potrà (e saprà) sfidarla.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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7.12.15
11.1.15
6.12.13
Doppio turno alla francese, che qualcuno ce ne scampi
Via il Senato e doppio turno alle elezioni come in Francia. Sarebbe questo,stando a la Repubblica, l’accordo tra Enrico Letta e Matteo Renzi(proclamato segretario del Pd prima delle primarie).
Nel Paese in cui si considera la governabilità un totem a discapito della sovranità («che appartiene al popolo) e della democrazia e nel giubilo collettivo anti-Porcellum, ci si dimentica qualche caratteristica particolare del suddetto sistema elettorale che – è bene ricordarlo – premia la stabilità a discapito dell’effettiva rappresentatività, generando maggioranze bulgare con una fetta minoritaria di voti su scala nazionale (il sistema elettorale francese è basato sui collegi e i seggi sono suddivisi in basse alla vittoria del candidato X nel collegio Y).
Prendiamo proprio l’esempio della Francia (grafico realizzato da YouTrend):

Come si può notare, vi è un forte indice di disproporzionalità che, se da un lato penalizza i partiti esterni alla coalizione vincente (due su tutti: Front National e Front De Gauche), dall’altro favorisce (e di molto) il Partito Socialista e gli alleati.
Numeri alla mano, il Front National, con il 13%, ha ottenuto appena due seggi (lo 0,4%, con un tasso di disproporzionalità del 12,81%). Il Front De Gauche(non alleato con il PS), con il 6,9%, ne ha guadagnati dieci (l’1,7%; indice di disproporzionalità: 3,92%). Il Parti Radicale de Gauche – in virtù dell’alleanza con i socialisti – ne ha ottenuti 12 con l’1,7%. Stesso discorso per la Divers Gauche che, con il 3,4%, si è ritrovata con 22 seggi.
Quello francese, quindi, è un sistema elettorale ricattatorio, che di fatto obbliga i partiti (in modo particolare quelli più piccoli) a coalizzarsi per non sparire e/o per avere un peso all’interno dell’Assemblea Nazionale. In Italia, ci sarebbe il rischio di ritrovarsi con un’Armata Brancaleone (in pratica con l’Unione) e con l’impossibilità di creare un’alternativa di sinistra al Pd o di destra a Berlusconi.
Ma non è finita qui: il sistema francese, il cui obiettivo è garantire un governo stabile e duraturo, può avere fortuna in tal senso in un Paese bipolare o bipartitico. Essendo emerso il fenomeno del M5S (che ha già dato prova, a Parma, di poter vincere i doppi turni), paradossalmente ci sarebbe persino la possibilità di non avere alcuna maggioranza, visto che il calcolo dei seggi avviene sulle vittorie dei candidati nei collegi e non sul numero dei voti ottenuto su scala nazionale.
Ma ci sarebbe una variabile ben peggiore dell’instabilità, che in pochi prendono in considerazione: nel 1993, in Francia, il centrodestra prese il 58% dei voti al secondo turno. Sapete quanti seggi ottenne grazie ai collegi? L’84%. Nemmeno la Legge Acerbo voluta da Mussolini arrivava a tanto.
P.S. Aggiungo al post un commento integrativo di Matteo Marchetti:
Dovresti anche ricordare che è completamente diverso il sistema istituzionale: il presidente francese (eletto direttamente o quasi) detiene l’esecutivo, il primo ministro è un suo delegato. In un sistema parlamentare come quello italiano, dove il presidente del consiglio dovrebbe contare meno (e ricevere la fiducia dal parlamento, meccanismo già saltato da tempo), avere maggioranze simili equivale a potere assoluto. Pensiamo allo scempio della Costituzione che avrebbe potuto fare lo Chirac del 1993 in Italia. Già due volte – con il Mattarellum e l’attuale norma – abbiamo varato leggi elettorali in palese contrasto con l’intenzione del nostro impianto istituzionale, di fatto varando delle riforme costituzionali attraverso leggi ordinarie. Il Mattarellum del 93 puntava a distruggere il “consociativismo” e dare stabilità all’esecutivo; il porcellum di fatto legava le sorti delle Camere a quelle dei governi (bisogna indicare il nome del “capo”). Ora che si è assodata l’impossibilità di varare la controriforma della Costituzione, vi si procede al solito per via obliqua.
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18.4.11
Francia e Italia i due populismi
di BERNARDO VALLI
Da alcune settimane due populismi si scontrano in Europa offrendo uno spettacolo tutt'altro che edificante. Direi miserabile. L'aggettivo non è troppo forte, perché al centro della contesa ci sono quei profughi, economici o politici, la classificazione è spesso cancellata dal dramma umano, che ogni giorno approdano sulle nostre sponde dopo avere visto affogare non di rado nelle acque del Mediterraneo figli, genitori, amici. Nelle stesse acque nelle quali noi europei cominceremo presto a fare i nostri bagni estivi.
Il presidente del Consiglio ha definito quell'esodo uno "tsunami", cioè una catastrofe naturale, un fenomeno maturato nelle viscere del Mediterraneo e quindi senza volto. Insomma, una sciagura da scongiurare. Francia e Italia si comportano appunto come se quei profughi fossero un'onda di maremoto.
La tenzone tra i due populismi ha assunto toni grotteschi nelle ultime ore a Ventimiglia, al confine tra Francia e Italia, dove di solito transitano fortunati turisti o pendolari del posto tra la nostra Riviera e la Costa Azzurra, e dove hanno fatto irruzione gruppi di quei profughi reduci dalla spesso tragica traversata del Mediterraneo. Il governo italiano li ha dotati di permessi provvisori a suo avviso conformi agli accordi di Schengen. Ma il governo parigino, tramite il prefetto delle Alpi Marittime, ha impedito senza preavviso ai treni provenienti dall'Italia di varcare la frontiera, al fine di impedire il loro ingresso in Francia.
Due comportamenti che offrono, in egual misura, un'immagine non certo
nobile dell'Europa. Non è per motivi umanitari che il governo italiano ha dotato i migranti, per lo più tunisini, di permessi non riconosciuti validi, a torto o a ragione, dai francesi. Si tratta di una evidente, furba mossa per sbarazzarsene. Ed è per un'altrettanto furba mossa che il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo al suo ministro dell'Interno, ha adottato l'interpretazione parigina degli accordi di Schengen, o ha preso come pretesto la modesta manifestazione franco-italiana in favore dei migranti in corso a Ventimiglia, per respingere i tunisini, molti dei quali hanno parenti in Francia.
Da parte italiana ci si è risentiti anche perché autentici cittadini della Repubblica italiana non hanno potuto varcare il confine, per via dei treni sospesi. Al colmo dell'indignazione, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto al nostro ambasciatore di esprimere una ferma protesta al governo francese. Un incidente diplomatico prodotto da due meschine furbizie a confronto, che interviene in un momento di difficili rapporti tra Roma e Parigi, ed anche di isolamento di Roma nell'Unione europea, dove si evita spesso di familiarizzare con l'odierna Italia politica.
Una crescente ondata di populismo accomuna Italia e Francia e al tempo stesso inasprisce il loro dissenso. A Roma il governo dipende da un partito xenofobo, indispensabile alla maggioranza parlamentare, e solerte nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati. Un dirigente della Lega occupa addirittura il ministero dell'Interno.
A Parigi, a un anno dalle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy conosce i peggiori sondaggi. L'ultimo gli aggiudica il 28 per cento dei consensi, un quoziente che potrebbe annunciare un'impossibile riconferma alla testa della Quinta Repubblica, nel caso Sarkozy intendesse riproporsi. E che, in tal caso, non esclude neppure un'umiliante eliminazione al primo turno. Quest'ultima ipotesi potrebbe avverarsi se la candidata del Front National, Marine Le Pen, andasse al voto decisivo del secondo turno con il campione della sinistra, ancora da designare.
Nicolas Sarkozy cerca dunque di recuperare i voti dell'estrema destra. I quali decisero la sua elezione quattro anni or sono, ma che, stando ai sondaggi, sarebbero stati riassorbiti nel frattempo dal Front National, da quando la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore, ha rinnovato, modernizzato, il discorso dell'ormai vecchio padre. A differenza della Lega, xenofoba ma anche anti-nazionale, il Front National è xenofobo e nazionalista. Entrambi i partiti hanno in comune l'avversione per gli immigrati. Ed è insistendo su questo tema, sia pur nei limiti impostigli dalla carica, che Nicolas Sarkozy spera di recuperare i consensi perduti. Il suo discorso ha compiuto una sterzata in direzione dell'estrema destra. Il rifiuto dei profughi dirottati verso la Francia dal governo italiano è l'evidente conseguenza dell'attuale politica di Sarkozy. Non a caso il suo ministro dell'Interno ha appena proposto di ridurre anche il numero degli immigrati legali.
Cosi i due populismi giocano con i migranti come se fossero una calamità, come se fossero oggetti destinati a far perdere voti. La Lega governa a Roma e il Front National minaccia politicamente il presidente a Parigi. Umberto Bossi appoggia la ridicola idea di boicottare champagne e camembert; e il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo a ordini superiori, ferma i treni italiani alla frontiera.
Da alcune settimane due populismi si scontrano in Europa offrendo uno spettacolo tutt'altro che edificante. Direi miserabile. L'aggettivo non è troppo forte, perché al centro della contesa ci sono quei profughi, economici o politici, la classificazione è spesso cancellata dal dramma umano, che ogni giorno approdano sulle nostre sponde dopo avere visto affogare non di rado nelle acque del Mediterraneo figli, genitori, amici. Nelle stesse acque nelle quali noi europei cominceremo presto a fare i nostri bagni estivi.
Il presidente del Consiglio ha definito quell'esodo uno "tsunami", cioè una catastrofe naturale, un fenomeno maturato nelle viscere del Mediterraneo e quindi senza volto. Insomma, una sciagura da scongiurare. Francia e Italia si comportano appunto come se quei profughi fossero un'onda di maremoto.
La tenzone tra i due populismi ha assunto toni grotteschi nelle ultime ore a Ventimiglia, al confine tra Francia e Italia, dove di solito transitano fortunati turisti o pendolari del posto tra la nostra Riviera e la Costa Azzurra, e dove hanno fatto irruzione gruppi di quei profughi reduci dalla spesso tragica traversata del Mediterraneo. Il governo italiano li ha dotati di permessi provvisori a suo avviso conformi agli accordi di Schengen. Ma il governo parigino, tramite il prefetto delle Alpi Marittime, ha impedito senza preavviso ai treni provenienti dall'Italia di varcare la frontiera, al fine di impedire il loro ingresso in Francia.
Due comportamenti che offrono, in egual misura, un'immagine non certo
nobile dell'Europa. Non è per motivi umanitari che il governo italiano ha dotato i migranti, per lo più tunisini, di permessi non riconosciuti validi, a torto o a ragione, dai francesi. Si tratta di una evidente, furba mossa per sbarazzarsene. Ed è per un'altrettanto furba mossa che il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo al suo ministro dell'Interno, ha adottato l'interpretazione parigina degli accordi di Schengen, o ha preso come pretesto la modesta manifestazione franco-italiana in favore dei migranti in corso a Ventimiglia, per respingere i tunisini, molti dei quali hanno parenti in Francia.
Da parte italiana ci si è risentiti anche perché autentici cittadini della Repubblica italiana non hanno potuto varcare il confine, per via dei treni sospesi. Al colmo dell'indignazione, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto al nostro ambasciatore di esprimere una ferma protesta al governo francese. Un incidente diplomatico prodotto da due meschine furbizie a confronto, che interviene in un momento di difficili rapporti tra Roma e Parigi, ed anche di isolamento di Roma nell'Unione europea, dove si evita spesso di familiarizzare con l'odierna Italia politica.
Una crescente ondata di populismo accomuna Italia e Francia e al tempo stesso inasprisce il loro dissenso. A Roma il governo dipende da un partito xenofobo, indispensabile alla maggioranza parlamentare, e solerte nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati. Un dirigente della Lega occupa addirittura il ministero dell'Interno.
A Parigi, a un anno dalle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy conosce i peggiori sondaggi. L'ultimo gli aggiudica il 28 per cento dei consensi, un quoziente che potrebbe annunciare un'impossibile riconferma alla testa della Quinta Repubblica, nel caso Sarkozy intendesse riproporsi. E che, in tal caso, non esclude neppure un'umiliante eliminazione al primo turno. Quest'ultima ipotesi potrebbe avverarsi se la candidata del Front National, Marine Le Pen, andasse al voto decisivo del secondo turno con il campione della sinistra, ancora da designare.
Nicolas Sarkozy cerca dunque di recuperare i voti dell'estrema destra. I quali decisero la sua elezione quattro anni or sono, ma che, stando ai sondaggi, sarebbero stati riassorbiti nel frattempo dal Front National, da quando la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore, ha rinnovato, modernizzato, il discorso dell'ormai vecchio padre. A differenza della Lega, xenofoba ma anche anti-nazionale, il Front National è xenofobo e nazionalista. Entrambi i partiti hanno in comune l'avversione per gli immigrati. Ed è insistendo su questo tema, sia pur nei limiti impostigli dalla carica, che Nicolas Sarkozy spera di recuperare i consensi perduti. Il suo discorso ha compiuto una sterzata in direzione dell'estrema destra. Il rifiuto dei profughi dirottati verso la Francia dal governo italiano è l'evidente conseguenza dell'attuale politica di Sarkozy. Non a caso il suo ministro dell'Interno ha appena proposto di ridurre anche il numero degli immigrati legali.
Cosi i due populismi giocano con i migranti come se fossero una calamità, come se fossero oggetti destinati a far perdere voti. La Lega governa a Roma e il Front National minaccia politicamente il presidente a Parigi. Umberto Bossi appoggia la ridicola idea di boicottare champagne e camembert; e il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo a ordini superiori, ferma i treni italiani alla frontiera.
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11.7.10
La Francia contro i suoi re
Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine - una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibri dell’alta borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa, ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più; il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia, quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.
È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana».
Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.
Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».
Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.
Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.
In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.
Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».
Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.
È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana».
Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.
Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».
Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.
Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.
In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.
Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».
Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.
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26.7.08
Il caso francese
Rossana Rossanda
Malgrado gli ori della reggia di Versailles e picchetti d'onore a spada sguainata, il varo delle camere unite della riforma costituzionale in Francia è stato assai poco glorioso. Promessa da Nikolas Sarkozy, elaborata da una commissione diretta da Edouard Balladur, vicepresidente il socialista Jack Lang, la riforma è passata per due soli voti, uno dei quali appunto di Lang, fra i tumulti del Partito socialista, che ha votato contro. Ma tutti i gruppi, partito del presidente compreso, hanno avuto i loro voti contrari, per cui lo scrutinio è stato preceduto da un frenetico mercato, la riforma ha rischiato di colare a picco e l'ha sfangata per miracolo.Si trattava di correggerne il carattere «monocratico» impresso da Charles De Gaulle nell'emergenza della guerra in Algeria e rafforzato dalla più recente e fatale decisione di livellare i tempi dei mandati, presidenza e Camera, eleggendo a suffragio univerale per cinque anni il capo dello stato subito dopo le legislative, con il risultato di corazzarlo di una maggioranza di ferro. Senza indicare nessuno dei contropoteri che nelle repubbliche presidenziali vengono di solito attentamente calibrati.Nulla di questo è stato fatto. Il capo dello stato resta dunque un super primoministro, nomina o cambia il governo, compreso il premier ormai azzoppato. I suoi mandati non potranno essere più di due, ma tutti i poteri sono nelle sue mani. La pretesa riforma consiste solo in qualche piccolo rattoppo: d'ora in poi la Camera potrà decidere l'ordine dei lavori due settimane su quattro (salvo le prioritarie leggi di bilancio) mentre all'opposizione viene elargito ben un giorno al mese. Il cumulo dei mandati (frequente quello di ministro più sindaco) non è soppresso. Né il sistema di voto al Senato, congegnato in modo da dare sempre la maggioranza alla destra. Il Consiglio superiore della magistratura non sarà più presieduto dal capo dello stato e dal ministro della giustizia (come piacerebbe a Berlusconi!) ma composto la maggior parte da consiglieri non togati. Quanto ai pubblici ministeri, essi dipendono dal ministro della giustizia. Addio a ogni pretesa di indipendenza. Le grandi nomine sono di pertinenza del capo dello stato ma potranno essere contestate da una maggioranza di ben tre quinti della Camera... dunque non senza il partito del presidente. E simili.I socialisti, salvo Jack Lang pronto ad accettare da Sarkozy un incarico di governo al primo rimpasto ministeriale, hanno votato contro, condotti da quel Robert Badinter che aveva abolito la pena di morte sotto Mitterrand. Ah, ah - ridacchiano Sarkozy e la stampa, tutta allineata - perché non hanno cambiato loro il sistema durante i quattordici anni della presidenza Mitterrand e i cinque di Jospin premier? Confidavano in una certa decenza del Presidente della Repubblica? Adesso si tengano un iper presidente, come lo chiamano tutti, dotato di un presenzialismo frenetico, che decide tutto, anche senza interpellare i suoi ministri e non esita a smentirli. «I francesi mi hanno eletto perché sono uno che decide» ribadisce Sarkozy a ogni passo. In comune con Berlusconi ha la certezza che la sola vera legittimazione viene dal voto popolare; e come il cavaliere è il solo convinto di sapere e potere, prerogativa che esercita immune da ogni senso del ridicolo. E' fin stupefacente che gran parte del Pd italiano abbia guardato in tema di riforme al sistema francese. Il pericolo maggiore sta in un presidenzialismo strisciante e senza contropoteri, coperti da maggioranze di ferro, decretazioni e fiducia, come quello che funziona di fatto anche da noi, isolando il Quirinale, deprivando le Camere di ogni vera possibilità di contare. Il vero e profondo guaio sta nell'essere divenute delle società senza un'idea di sé, prive di legame sociale, addizioni rissose di interessi individuali e di ceto, tutti malcontenti e tutti disposti a dare deleghe a qualcuno, che eventualmente puniranno alla prossima tornata elettorale. Che intendiamo ormai per democrazia, se questa è ridotta a votare ogni cinque anni un capo e la sua banda? L'agitazione sui diritti umani sta andando di pari passo con l'oscuramento dei diritti politici. Anche qui la critica del parlamentarismo che era propria della sinistra si è ribaltata nel contrario del suo intento; lungi da allargare i poteri fuori dal palazzo, gioca per la manovra della destra: il governo faccia presto e nessuno disturbi.A chi si preoccupa in Italia di riforme istituzionali raccomandiamo caldamente di studiare il caso d'oltralpe.
ilmanifesto.it
Malgrado gli ori della reggia di Versailles e picchetti d'onore a spada sguainata, il varo delle camere unite della riforma costituzionale in Francia è stato assai poco glorioso. Promessa da Nikolas Sarkozy, elaborata da una commissione diretta da Edouard Balladur, vicepresidente il socialista Jack Lang, la riforma è passata per due soli voti, uno dei quali appunto di Lang, fra i tumulti del Partito socialista, che ha votato contro. Ma tutti i gruppi, partito del presidente compreso, hanno avuto i loro voti contrari, per cui lo scrutinio è stato preceduto da un frenetico mercato, la riforma ha rischiato di colare a picco e l'ha sfangata per miracolo.Si trattava di correggerne il carattere «monocratico» impresso da Charles De Gaulle nell'emergenza della guerra in Algeria e rafforzato dalla più recente e fatale decisione di livellare i tempi dei mandati, presidenza e Camera, eleggendo a suffragio univerale per cinque anni il capo dello stato subito dopo le legislative, con il risultato di corazzarlo di una maggioranza di ferro. Senza indicare nessuno dei contropoteri che nelle repubbliche presidenziali vengono di solito attentamente calibrati.Nulla di questo è stato fatto. Il capo dello stato resta dunque un super primoministro, nomina o cambia il governo, compreso il premier ormai azzoppato. I suoi mandati non potranno essere più di due, ma tutti i poteri sono nelle sue mani. La pretesa riforma consiste solo in qualche piccolo rattoppo: d'ora in poi la Camera potrà decidere l'ordine dei lavori due settimane su quattro (salvo le prioritarie leggi di bilancio) mentre all'opposizione viene elargito ben un giorno al mese. Il cumulo dei mandati (frequente quello di ministro più sindaco) non è soppresso. Né il sistema di voto al Senato, congegnato in modo da dare sempre la maggioranza alla destra. Il Consiglio superiore della magistratura non sarà più presieduto dal capo dello stato e dal ministro della giustizia (come piacerebbe a Berlusconi!) ma composto la maggior parte da consiglieri non togati. Quanto ai pubblici ministeri, essi dipendono dal ministro della giustizia. Addio a ogni pretesa di indipendenza. Le grandi nomine sono di pertinenza del capo dello stato ma potranno essere contestate da una maggioranza di ben tre quinti della Camera... dunque non senza il partito del presidente. E simili.I socialisti, salvo Jack Lang pronto ad accettare da Sarkozy un incarico di governo al primo rimpasto ministeriale, hanno votato contro, condotti da quel Robert Badinter che aveva abolito la pena di morte sotto Mitterrand. Ah, ah - ridacchiano Sarkozy e la stampa, tutta allineata - perché non hanno cambiato loro il sistema durante i quattordici anni della presidenza Mitterrand e i cinque di Jospin premier? Confidavano in una certa decenza del Presidente della Repubblica? Adesso si tengano un iper presidente, come lo chiamano tutti, dotato di un presenzialismo frenetico, che decide tutto, anche senza interpellare i suoi ministri e non esita a smentirli. «I francesi mi hanno eletto perché sono uno che decide» ribadisce Sarkozy a ogni passo. In comune con Berlusconi ha la certezza che la sola vera legittimazione viene dal voto popolare; e come il cavaliere è il solo convinto di sapere e potere, prerogativa che esercita immune da ogni senso del ridicolo. E' fin stupefacente che gran parte del Pd italiano abbia guardato in tema di riforme al sistema francese. Il pericolo maggiore sta in un presidenzialismo strisciante e senza contropoteri, coperti da maggioranze di ferro, decretazioni e fiducia, come quello che funziona di fatto anche da noi, isolando il Quirinale, deprivando le Camere di ogni vera possibilità di contare. Il vero e profondo guaio sta nell'essere divenute delle società senza un'idea di sé, prive di legame sociale, addizioni rissose di interessi individuali e di ceto, tutti malcontenti e tutti disposti a dare deleghe a qualcuno, che eventualmente puniranno alla prossima tornata elettorale. Che intendiamo ormai per democrazia, se questa è ridotta a votare ogni cinque anni un capo e la sua banda? L'agitazione sui diritti umani sta andando di pari passo con l'oscuramento dei diritti politici. Anche qui la critica del parlamentarismo che era propria della sinistra si è ribaltata nel contrario del suo intento; lungi da allargare i poteri fuori dal palazzo, gioca per la manovra della destra: il governo faccia presto e nessuno disturbi.A chi si preoccupa in Italia di riforme istituzionali raccomandiamo caldamente di studiare il caso d'oltralpe.
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