In una scuola paritaria ragazzi promossi agrazie al 10 in religione: che però non dovrebbe esprimere un voto numerico, ma solo un giudizio. E nella mattanza di ore e di posti di lavoro prodotta dalla riforma Gelmini, l'ora di religione è la sola a non subire tagli: docenti nominati dalla Curia, ma pagati dalle tasse degli italiani
C’era una volta la laicità nel nostro Paese. E ora non c’è più. Notizia recente: in un liceo paritario romano – il Seraphicum – i ragazzi sono stati ammessi all’Esame di Stato con il contributo di 10 in religione. Violazione all’art. 309 del Testo Unico delle leggi sulla scuola che stabilisce modalità e criteri di valutazione di chi si avvale dell’Insegnamento Religione cattolica: giudizi e non voti. Il Nuovo Concordato e le successive intese applicative si uniformarono alla normativa statale, che stigmatizza ogni forma di discriminazione determinata dall’avvalersi o no di IRC, che – per ora – è ancora facoltativo. Scuola e Costituzione ha diffidato l’Ufficio scolastico del Lazio, che al momento non ha ancora risposto. Attendiamo fiduciosi.
Chi sale,chi scende
Nella mattanza di ore (e di posti di lavoro) prodotta in tutti gli ordini di scuola dalla “riforma”, l’IRC è il solo a non subìre tagli, arrivando così a una percentuale più ampia sul monte-ore: i nostri studenti fanno meno Italiano ma più Religione! Il paradosso è che negli anni del più grande licenziamento di massa della storia della scuola italiana, gli insegnanti di Rc sono addirittura aumentati: 26.000 in servizio, di cui 14.000 di ruolo. Docenti che hanno una singolare, doppia matrice giuridica: nominati (o rimossi) dalla Curia, pagati dalle tasse di tutti gli Italiani. ”L’ora di Religione non si tocca”, aveva detto Gelmini all’inizio dello scorso anno scolastico. La sollecitazione era venuta dalla “lettera cIRColare” della Congregazione Vaticana per l’Educazione cattolica, che condannava il fatto che in molti Paesi siano state introdotte “nuove regolamentazioni civili, che tendono a sostituirlo (l’insegnamento della IRC, ndr) con un insegnamento del fatto religioso di natura multiconfessionale o di etica e cultura religiosa, anche in contrasto con le scelte e l’indirizzo educativo che i genitori e la Chiesa intendono dare alla formazione delle nuove generazioni”. “Si potrebbe anche creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso se l’insegnamento della religione fosse limitato ad un’esposizione delle diverse religioni, in un modo comparativo e “neutro”. Perciò “(bisogna che) l’insegnamento religioso scolastico appaia come disciplina scolastica, con la stessa esigenza di sistematicità e rigore che hanno le altre discipline”. Infine la Congregazione “non smette di denunciare l’ingiustizia che si compie quando gli alunni cattolici e le loro famiglie vengono privati dei propri diritti educativi ed è ferita la loro libertà religiosa”. Il mondo alla rovescia: incalzano i vertici. Per il presidente della Cei, Bagnasco, l’ora di IRC “non si configura come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola”. L’arcivescovo di Torino, Poletto, sostiene che l’ora di IRC “non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo”. Perché soprassedere su pressioni così insistite? Come non interrogarsi sul senso di questo privilegio?
Le rassicurazioni della Gelmini
Intanto le scuole paritarie (la maggior parte di ispirazione cattolica) lamentano la mancata erogazione dei fondi loro destinati per l’a.s. 2009/10. Le rassicura Gelmini in persona, assicurando che le risorse sono state “rimesse nel capitolo di spesa e attendiamo il via libera dalla Conferenza Stato-Regioni” e affermando: “Nella Finanziaria 2011 i soldi per le paritarie non si toccano”. Cioè, il budget previsto per le paritarie (534 milioni) sarà regolarmente erogato: tagli brutali alla scuola pubblica, fondi inalterati per le private. Gelmini ha poi aggiunto: “Non bisogna dimenticare che la scuola paritaria permette allo Stato un risparmio di oltre 6 miliardi di euro”. Il calcolo teorico della spesa a carico dello Stato se gli studenti delle paritarie frequentassero la pubblica è ricorrente argomentazione mercantile, a cui siamo avvezzi. Che però non considera che la scuola della comunità pubblica – istituzione della Repubblica – esiste a prescindere da quelle quote di studenti. Poiché è lo Stato a garantire l’istruzione, lo spreco è la creazione di istituti privati che ricevono fondi grazie alla legge di parità. Gelmini non apprezza (e non stupisce) l’investimento della collettività in funzione dell’interesse generale e del confronto dialettico, garantiti dalla scuola pubblica. Sono concetti che non fanno parte della cultura grossolana di chi ci governa. E che, temo, stanno scomparendo anche dalla coscienza di molti di noi, nella rinuncia alla vigilanza intransigente su questo arretramento lento ma inesorabile da diritti e principi inalienabili.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.8.10
La religione ti promuove
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29.8.10
Zingari le radici dell'odio
BARBARA SPINELLI
E’ utile ricordare come fu possibile, appena sette-otto decenni fa, la distruzione degli zingari nei campi tedeschi. Non fu un piano di sterminio accanitamente premeditato, in origine non nacque nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf si parla di ebrei, non di zingari. La distruzione (in lingua rom Poràjmos, il «grande divoramento») ha le sue radici nella volontà tenace, insistente, delle campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza possente, antico, che la democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha visto il film di Michael Haneke Il nastro bianco sa come prendono forma i furori che accecano la mente, escludono il diverso, infine l’eliminano perché sia fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella nazione. Anche l’antisemitismo ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi consensi. Ma l’odio dei Rom e dei Sinti (zingari è dal secolo scorso nome spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti. È un odio che ancor oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta: in parte perché è sepolto nelle cantine degli animi, dove vive indisturbato; in parte perché è un’avversione non del tutto razziale; in parte perché il loro genocidio non ha generato l’interdizione sacra tipica del tabù.
A differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò in Europa una diga fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si cominciò a parlare tardi degli zingari, i libri che narrano la loro sorte sono sufficienti ma non molti. E’ strano come Sarkozy, figlio di un ungherese, non abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che essi patirono in Europa orientale. È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei Paesi da cui fuggono, perché l’Est europeo è uscito dalle dittature denunciando il totalitarismo comunista ma non i nazionalismi etnici, non l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di sopra della persona: in Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come sotto-persone. Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche un’ipocrisia, perché come cittadini europei i rom possono tornare in Francia o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati romeni. Sarebbe bene sapere che i Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni. Ovunque, la crisi economica li trasforma in capri espiatori. Il più delle volte non è la razza a svegliare esecrazione. È il modo di vivere itinerante. L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto anche questa comunità speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel nostro continente cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata.
Una direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è turbato, ma la direttiva vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre 2013. Non è chiaro chi oggi abbia ricominciato questa storia di esclusioni, di muri che separando i nomadi dal cittadino «normale» impedisce loro di divenire sedentari se vogliono, di trovar lavori, di non cadere nelle mani di mafie. È probabile che Berlusconi e Bossi abbiano svolto un ruolo d’avanguardia: un ruolo di «modello per l’Europa», ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei (La Stampa, 22 agosto). Molti governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia, Paese fondatore dell’Unione. Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola che ha ripetuto più volte, parlando di immigrati, di rom e di delinquenza a Grenoble, era «guerra». Nello stesso discorso, il Presidente ha annunciato che il cittadino di origine straniera colpevole di delitti perderà la nazionalità francese (la parola décheance, revoca, rimanda a déchet, pattume). La democrazia non ci protegge da simili deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano Amato lo spiega bene, in un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono momenti, e la crisi economica è uno di questi, in cui può crearsi un conflitto mortale fra i due imperativi democratici che sono l’esigenza del consenso e quella di preservare la propria civiltà.
Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili»). Sono rari, nei moderni Stati-nazione, i leader che sappiano tener conto di ambedue gli imperativi, e nei momenti critici anteporre le esigenze della civiltà a quelle del consenso. Quando Obama si dichiara non contrario alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero difende la costituzione laica e la storia americana lunga, non la storia tra un sondaggio e l’altro. Il consenso sente di doverselo creare a partire da qui, sapendo che può anche perderlo. In genere, quando i governanti esaltano ogni minuto la sovranità e le emozioni del popolo non è il popolo a governare: sono le oligarchie, i poteri segreti, le mafie. Anche la nostra Costituzione ha lo sguardo lungo, e non a caso dà la preminenza alla persona, più ancora che al cittadino. Tutti gli articoli che concernono i diritti fondamentali (libertà, divieto della violenza, inviolabilità del domicilio, responsabilità penale, diritto alla salute) parlano non di cittadini ma di persone o individui, e precedono la Costituzione stessa.
Il nomadismo è una forma di vita che tende a scomparire, ma resta una forma della vita umana. Il non aver fissa dimora, il vivere in roulotte, il muoversi in carovane («in orde», era scritto nei decreti d’espulsione ai tempi di Weimar e di Hitler): tutto ciò è parte della cultura dei Rom e Sinti. Lo è anche la scelta di adottare la religione dei Paesi in cui vivono: è l’integrazione che prediligono da secoli. Come tutti i cittadini anch’essi delinquono, specie se vessati. I più sono cittadini plurisecolari dei Paesi in cui girovagano o si sedentarizzano. Da noi, l’80 per cento dei Rom sono italiani. Non sono mancate le proteste contro la politica francese (700 rimpatri entro settembre): nell’Onu, nell’Unione europea. Hanno protestato anche importanti leader della destra: primo fra tutti Dominique de Villepin, secondo cui oggi esiste sulla bandiera una «macchia di vergogna». Resta tuttavia il fatto che i Rom non hanno un Elie Wiesel, che in loro nome trasformi il divieto di odio in tabù. Possono contare solo sulla Chiesa, memore della parabola del Samaritano e della storia d’Europa. L’Europa e le costituzioni postbelliche sono state escogitate per evitare simili ricadute, sempre possibili quando il nazionalismo etnico di tipo ottocentesco riprende il sopravvento. Le strutture imperiali erano più propizie alla diversità, e il compito di uscire dalle gabbie etniche e restaurare autorità superiori a quelle degli Stati sovrani spetta al potere superiore che in tanti ambiti giuridici oggi s’incarna nell’Unione.
È l’Europa che deve ripensare lo statuto dei Rom: permettendo loro di continuare a viaggiare, di trovar lavoro, di difendersi dalle mafie, di rispettare la legge e l’ordine. Nel quindicesimo secolo, quando migrarono in Europa, gli zingari avevano una protezione-salvacondotto universale, non nazionale o locale: la protezione del Papa e quella dell’Imperatore. Solo una protezione di natura universale può garantire «le legittime diversità umane» cui ha accennato Benedetto XVI nell’Angelus pronunciato in francese il 22 agosto. Oggi i Rom hanno la protezione del Papa. Quella dell’Imperatore (della politica) è crudelmente latitante.
E’ utile ricordare come fu possibile, appena sette-otto decenni fa, la distruzione degli zingari nei campi tedeschi. Non fu un piano di sterminio accanitamente premeditato, in origine non nacque nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf si parla di ebrei, non di zingari. La distruzione (in lingua rom Poràjmos, il «grande divoramento») ha le sue radici nella volontà tenace, insistente, delle campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza possente, antico, che la democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha visto il film di Michael Haneke Il nastro bianco sa come prendono forma i furori che accecano la mente, escludono il diverso, infine l’eliminano perché sia fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella nazione. Anche l’antisemitismo ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi consensi. Ma l’odio dei Rom e dei Sinti (zingari è dal secolo scorso nome spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti. È un odio che ancor oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta: in parte perché è sepolto nelle cantine degli animi, dove vive indisturbato; in parte perché è un’avversione non del tutto razziale; in parte perché il loro genocidio non ha generato l’interdizione sacra tipica del tabù.
A differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò in Europa una diga fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si cominciò a parlare tardi degli zingari, i libri che narrano la loro sorte sono sufficienti ma non molti. E’ strano come Sarkozy, figlio di un ungherese, non abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che essi patirono in Europa orientale. È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei Paesi da cui fuggono, perché l’Est europeo è uscito dalle dittature denunciando il totalitarismo comunista ma non i nazionalismi etnici, non l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di sopra della persona: in Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come sotto-persone. Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche un’ipocrisia, perché come cittadini europei i rom possono tornare in Francia o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati romeni. Sarebbe bene sapere che i Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni. Ovunque, la crisi economica li trasforma in capri espiatori. Il più delle volte non è la razza a svegliare esecrazione. È il modo di vivere itinerante. L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto anche questa comunità speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel nostro continente cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata.
Una direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è turbato, ma la direttiva vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre 2013. Non è chiaro chi oggi abbia ricominciato questa storia di esclusioni, di muri che separando i nomadi dal cittadino «normale» impedisce loro di divenire sedentari se vogliono, di trovar lavori, di non cadere nelle mani di mafie. È probabile che Berlusconi e Bossi abbiano svolto un ruolo d’avanguardia: un ruolo di «modello per l’Europa», ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei (La Stampa, 22 agosto). Molti governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia, Paese fondatore dell’Unione. Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola che ha ripetuto più volte, parlando di immigrati, di rom e di delinquenza a Grenoble, era «guerra». Nello stesso discorso, il Presidente ha annunciato che il cittadino di origine straniera colpevole di delitti perderà la nazionalità francese (la parola décheance, revoca, rimanda a déchet, pattume). La democrazia non ci protegge da simili deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano Amato lo spiega bene, in un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono momenti, e la crisi economica è uno di questi, in cui può crearsi un conflitto mortale fra i due imperativi democratici che sono l’esigenza del consenso e quella di preservare la propria civiltà.
Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili»). Sono rari, nei moderni Stati-nazione, i leader che sappiano tener conto di ambedue gli imperativi, e nei momenti critici anteporre le esigenze della civiltà a quelle del consenso. Quando Obama si dichiara non contrario alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero difende la costituzione laica e la storia americana lunga, non la storia tra un sondaggio e l’altro. Il consenso sente di doverselo creare a partire da qui, sapendo che può anche perderlo. In genere, quando i governanti esaltano ogni minuto la sovranità e le emozioni del popolo non è il popolo a governare: sono le oligarchie, i poteri segreti, le mafie. Anche la nostra Costituzione ha lo sguardo lungo, e non a caso dà la preminenza alla persona, più ancora che al cittadino. Tutti gli articoli che concernono i diritti fondamentali (libertà, divieto della violenza, inviolabilità del domicilio, responsabilità penale, diritto alla salute) parlano non di cittadini ma di persone o individui, e precedono la Costituzione stessa.
Il nomadismo è una forma di vita che tende a scomparire, ma resta una forma della vita umana. Il non aver fissa dimora, il vivere in roulotte, il muoversi in carovane («in orde», era scritto nei decreti d’espulsione ai tempi di Weimar e di Hitler): tutto ciò è parte della cultura dei Rom e Sinti. Lo è anche la scelta di adottare la religione dei Paesi in cui vivono: è l’integrazione che prediligono da secoli. Come tutti i cittadini anch’essi delinquono, specie se vessati. I più sono cittadini plurisecolari dei Paesi in cui girovagano o si sedentarizzano. Da noi, l’80 per cento dei Rom sono italiani. Non sono mancate le proteste contro la politica francese (700 rimpatri entro settembre): nell’Onu, nell’Unione europea. Hanno protestato anche importanti leader della destra: primo fra tutti Dominique de Villepin, secondo cui oggi esiste sulla bandiera una «macchia di vergogna». Resta tuttavia il fatto che i Rom non hanno un Elie Wiesel, che in loro nome trasformi il divieto di odio in tabù. Possono contare solo sulla Chiesa, memore della parabola del Samaritano e della storia d’Europa. L’Europa e le costituzioni postbelliche sono state escogitate per evitare simili ricadute, sempre possibili quando il nazionalismo etnico di tipo ottocentesco riprende il sopravvento. Le strutture imperiali erano più propizie alla diversità, e il compito di uscire dalle gabbie etniche e restaurare autorità superiori a quelle degli Stati sovrani spetta al potere superiore che in tanti ambiti giuridici oggi s’incarna nell’Unione.
È l’Europa che deve ripensare lo statuto dei Rom: permettendo loro di continuare a viaggiare, di trovar lavoro, di difendersi dalle mafie, di rispettare la legge e l’ordine. Nel quindicesimo secolo, quando migrarono in Europa, gli zingari avevano una protezione-salvacondotto universale, non nazionale o locale: la protezione del Papa e quella dell’Imperatore. Solo una protezione di natura universale può garantire «le legittime diversità umane» cui ha accennato Benedetto XVI nell’Angelus pronunciato in francese il 22 agosto. Oggi i Rom hanno la protezione del Papa. Quella dell’Imperatore (della politica) è crudelmente latitante.
26.8.10
Pakistan - IL MONDO INTERVENGA O LO FARANNO I TALEBANI
di ROBERT REICH
La tragedia che ha colpito in questi giorni il Pakistan è tale da richiedere la nostra più totale attenzione. Le alluvioni hanno già causato 20 milioni di profughi, oltre il lodo della popolazione. Un quinto del Paese si ritrova sott'acqua. Più di 3,5 milioni di bambini corrono il rischio di contrarre colera e gravi malattie gastro-intestinali, mentre altri milioni di esseri umani sono in pericolo di morire di fame se gli aiuti non arriveranno prontamente. Le esondazioni dei fiumi hanno già fatto 15oo vittime. È una situazione catastrofica, che minaccia di spalancare le porte ai talebani. Eppure, gli aiuti finora sono stati esigui. Finora gli Usa hanno promesso 15o milioni di dollari, oltre a 12 elicotteri per distribuire cibo e materiali alle vittime. Altre nazioni ricche hanno offerto ancora meno: la Gran Bretagna 48,5 milioni di dollari; il Giappone, 10 milioni; e la Francia, un unico, misero milione. Tutto ciò appare incomprensibile e vergognoso. L'America spenderà quest'anno oltre loo miliardi di dollari in manovre militari per sconfiggere i talebani in Pakistan e Afghanistan. Oltre 200 elicotteri sono operativi a questo scopo. Ed è prevista un'ulteriore spesa di 2 miliardi di dollari in aiuti militari al Pakistan. Occorre fare molto di più per soccorrere le vittime delle alluvioni, e farlo subito. Oltre agli interventi contro il rischio di epidemie e carestia, dovremo aiutare il Pakistan a rimettersi in piedi. Metà della nazione trae sostentamento dall'agricoltura e gran parte dei terreni coltivati sono andati distrutti. Strade, ponti, ferrovie e sistemi di irrigazione, tutto è stato spazzato via. L'anno scorso, il Congresso americano ha varato un pacchetto di aiuti di 7,5 miliardi di dollari destinati alla popolazione civile del Pakistan per infrastrutture, strade, ponti e scuole. Quella cifra dovrebbe essere oggi quadruplicata. E il Congresso dovrebbe sollevare tutti i dazi sul tessile e l'abbigliamento dal Pakistan. Più della metà della popolazione lavora nella coltivazione del cotone, nella tessitura e nella produzione di capi di abbigliamento. Nei mesi e negli anni a venire, il Pakistan affiderà ancora di più la sua rinascita a queste esportazioni. Tuttavia, ancora oggi l'America applica un dazio del 17% sul tessile e l'abbigliamento di provenienza pakistana. Se eliminassimo queste tariffe, le esportazioni pakistane potrebbero toccare i 5 miliardi di dollari all'anno, il che rappresenterebbe un aumento nei salari di milioni di lavoratori. Quanti posti di lavoro americani stiamo proteggendo con una manovra tanto assurda? Quasi nessuno. E invece importiamo una quota più consistente di questi articoli dalla Cina e da altre nazioni asiatiche. E la Cina sovvenziona le sue esportazioni mantenendo la sua valuta artificialmente bassa. La sicurezza futura dell'America è legata al futuro del Pakistan. Dei 175 milioni di pakistani, circa 100 milioni hanno meno di 25 anni. Nei prossimi anni questi giovani cercheranno un lavoro, e se non lo troveranno potrebbero essere tentati di prendere la strada dell'estremismo. In questo momento, i militanti islamici sfruttano il caos provocato dalla catastrofe naturale come un'opportunità, sferrando attacchi contro le postazioni di polizia nel nord-ovest del Pakistan, proprio mentre tutte le forze dell'ordine sono state convogliate nelle operazioni di soccorso. Nel frattempo, privi di aiuti e sfiduciati, molti pakistani cominciano a dimostrare il loro malcontento verso il presidente Asif Ali Zardari.
[Dal Corriere della sera
Ministro del Lavoro sotto Clinton, Reich insegna Politiche pubbliche a Berkeley
© IPS COLUMNIST SERVILE (traduzione di Rita Baldassarre)]
La tragedia che ha colpito in questi giorni il Pakistan è tale da richiedere la nostra più totale attenzione. Le alluvioni hanno già causato 20 milioni di profughi, oltre il lodo della popolazione. Un quinto del Paese si ritrova sott'acqua. Più di 3,5 milioni di bambini corrono il rischio di contrarre colera e gravi malattie gastro-intestinali, mentre altri milioni di esseri umani sono in pericolo di morire di fame se gli aiuti non arriveranno prontamente. Le esondazioni dei fiumi hanno già fatto 15oo vittime. È una situazione catastrofica, che minaccia di spalancare le porte ai talebani. Eppure, gli aiuti finora sono stati esigui. Finora gli Usa hanno promesso 15o milioni di dollari, oltre a 12 elicotteri per distribuire cibo e materiali alle vittime. Altre nazioni ricche hanno offerto ancora meno: la Gran Bretagna 48,5 milioni di dollari; il Giappone, 10 milioni; e la Francia, un unico, misero milione. Tutto ciò appare incomprensibile e vergognoso. L'America spenderà quest'anno oltre loo miliardi di dollari in manovre militari per sconfiggere i talebani in Pakistan e Afghanistan. Oltre 200 elicotteri sono operativi a questo scopo. Ed è prevista un'ulteriore spesa di 2 miliardi di dollari in aiuti militari al Pakistan. Occorre fare molto di più per soccorrere le vittime delle alluvioni, e farlo subito. Oltre agli interventi contro il rischio di epidemie e carestia, dovremo aiutare il Pakistan a rimettersi in piedi. Metà della nazione trae sostentamento dall'agricoltura e gran parte dei terreni coltivati sono andati distrutti. Strade, ponti, ferrovie e sistemi di irrigazione, tutto è stato spazzato via. L'anno scorso, il Congresso americano ha varato un pacchetto di aiuti di 7,5 miliardi di dollari destinati alla popolazione civile del Pakistan per infrastrutture, strade, ponti e scuole. Quella cifra dovrebbe essere oggi quadruplicata. E il Congresso dovrebbe sollevare tutti i dazi sul tessile e l'abbigliamento dal Pakistan. Più della metà della popolazione lavora nella coltivazione del cotone, nella tessitura e nella produzione di capi di abbigliamento. Nei mesi e negli anni a venire, il Pakistan affiderà ancora di più la sua rinascita a queste esportazioni. Tuttavia, ancora oggi l'America applica un dazio del 17% sul tessile e l'abbigliamento di provenienza pakistana. Se eliminassimo queste tariffe, le esportazioni pakistane potrebbero toccare i 5 miliardi di dollari all'anno, il che rappresenterebbe un aumento nei salari di milioni di lavoratori. Quanti posti di lavoro americani stiamo proteggendo con una manovra tanto assurda? Quasi nessuno. E invece importiamo una quota più consistente di questi articoli dalla Cina e da altre nazioni asiatiche. E la Cina sovvenziona le sue esportazioni mantenendo la sua valuta artificialmente bassa. La sicurezza futura dell'America è legata al futuro del Pakistan. Dei 175 milioni di pakistani, circa 100 milioni hanno meno di 25 anni. Nei prossimi anni questi giovani cercheranno un lavoro, e se non lo troveranno potrebbero essere tentati di prendere la strada dell'estremismo. In questo momento, i militanti islamici sfruttano il caos provocato dalla catastrofe naturale come un'opportunità, sferrando attacchi contro le postazioni di polizia nel nord-ovest del Pakistan, proprio mentre tutte le forze dell'ordine sono state convogliate nelle operazioni di soccorso. Nel frattempo, privi di aiuti e sfiduciati, molti pakistani cominciano a dimostrare il loro malcontento verso il presidente Asif Ali Zardari.
[Dal Corriere della sera
Ministro del Lavoro sotto Clinton, Reich insegna Politiche pubbliche a Berkeley
© IPS COLUMNIST SERVILE (traduzione di Rita Baldassarre)]
19.8.10
Mondadori salvata dal Fisco, scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano
di MASSIMO GIANNINI
Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.
Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.
Il prologo: paura a Segrate
La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.
Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.
Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"
Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.
L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.
Il secondo tentativo: la Finanziaria
Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.
Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.
Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"
Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.
Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".
L'epilogo: una nazione "ad personam"?
Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).
È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?
di MASSIMO GIANNINI
Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.
Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.
Il prologo: paura a Segrate
La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.
Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.
Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"
Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.
L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.
Il secondo tentativo: la Finanziaria
Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.
Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.
Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"
Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.
Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".
L'epilogo: una nazione "ad personam"?
Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).
È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?
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12.8.10
A healthy relationship
The mere presence of women seems to bring health benefits to men
For hormone-addled teenagers, finding a date can often seem to be a matter of life and death. As it turns out, that may not be so far from the truth. In a paper in the August issue of Demography, a team of researchers led by Nicholas Christakis of Harvard University reports that men who reach sexual maturity in an environment with few available women are at risk of dying sooner than their luckier confrères. The team points out that this finding may have important implications for public health in countries such as India and China, where sex ratios are skewed against women.
The idea that a dearth of available women hurts male longevity has been around for some time. There are several reasons why such a hypothesis makes sense. It is now well established that marriage has a beneficial effect on health and survival. Since women are traditionally the caregivers, these benefits accrue especially to men. If there are fewer potential mates around, men may delay marriage or forgo it entirely, losing out on these nuptial niceties. In addition, with more men and fewer single women, the intense competition for a mate is likely to be stressful. Such early-life stress is known to have effects on health that can last for years.
As reasonable as it all sounds, the hypothesis that a skewed sex ratio leads to shorter male lifespan has never been confirmed in humans. To put it to the test, Dr Christakis and his team made use of two unusual sets of demographic data. The first, known as the Wisconsin Longitudinal Study, consists of a third of all those who graduated from high school in the state of Wisconsin in 1957—about 10,000 people. The male-to-female ratio in each person’s graduating class is known, and provides an indicator of the ratio during the sexually formative years of the study’s participants. The second set of data consists of 7½m white men who were enrolled in America’s Medicare programme in 1993. The researchers found the year and state in which each participant’s Social Security number was issued, which typically happened between his 15th and 25th birthdays. The sex ratio of his contemporaries was then calculated from state-level census data.
In the Wisconsin sample, Dr Christakis looked at those who had died before their 65th birthday. For the women, there was no significant relationship between their school’s sex ratio and their age of death. For the men, however, a significant relationship did emerge. A percentage-point increase in the male-to-female ratio of a man’s graduation class led to a percentage-point increase in his likelihood of dying before the age of 65. The Social Security data, moreover, suggest that a lack of women during men’s teenage years still haunts their health decades later.
The average white American male who was 65 in 1993 could expect to live another 15 years. Dr Christakis found, however, that those who had come of age around the most available women, however, had a life-expectancy three months longer than that of the least favoured. Three months may not seem a huge difference, but according to Dr Christakis it is comparable to the benefit an elderly person can expect from exercising or losing some surplus weight.
In an American context, these results are, perhaps, no more than an interesting curiosity: at the age of 15, boys outnumber girls by about 4% and the ratio shrinks towards equality thereafter. In China, however, it is estimated that there are now 20% more men of marriageable age than women—the result of selective abortion and infanticide consequent upon the country’s “one-child” policy. That bodes ill for the future health of China’s menfolk.
For hormone-addled teenagers, finding a date can often seem to be a matter of life and death. As it turns out, that may not be so far from the truth. In a paper in the August issue of Demography, a team of researchers led by Nicholas Christakis of Harvard University reports that men who reach sexual maturity in an environment with few available women are at risk of dying sooner than their luckier confrères. The team points out that this finding may have important implications for public health in countries such as India and China, where sex ratios are skewed against women.
The idea that a dearth of available women hurts male longevity has been around for some time. There are several reasons why such a hypothesis makes sense. It is now well established that marriage has a beneficial effect on health and survival. Since women are traditionally the caregivers, these benefits accrue especially to men. If there are fewer potential mates around, men may delay marriage or forgo it entirely, losing out on these nuptial niceties. In addition, with more men and fewer single women, the intense competition for a mate is likely to be stressful. Such early-life stress is known to have effects on health that can last for years.
As reasonable as it all sounds, the hypothesis that a skewed sex ratio leads to shorter male lifespan has never been confirmed in humans. To put it to the test, Dr Christakis and his team made use of two unusual sets of demographic data. The first, known as the Wisconsin Longitudinal Study, consists of a third of all those who graduated from high school in the state of Wisconsin in 1957—about 10,000 people. The male-to-female ratio in each person’s graduating class is known, and provides an indicator of the ratio during the sexually formative years of the study’s participants. The second set of data consists of 7½m white men who were enrolled in America’s Medicare programme in 1993. The researchers found the year and state in which each participant’s Social Security number was issued, which typically happened between his 15th and 25th birthdays. The sex ratio of his contemporaries was then calculated from state-level census data.
In the Wisconsin sample, Dr Christakis looked at those who had died before their 65th birthday. For the women, there was no significant relationship between their school’s sex ratio and their age of death. For the men, however, a significant relationship did emerge. A percentage-point increase in the male-to-female ratio of a man’s graduation class led to a percentage-point increase in his likelihood of dying before the age of 65. The Social Security data, moreover, suggest that a lack of women during men’s teenage years still haunts their health decades later.
The average white American male who was 65 in 1993 could expect to live another 15 years. Dr Christakis found, however, that those who had come of age around the most available women, however, had a life-expectancy three months longer than that of the least favoured. Three months may not seem a huge difference, but according to Dr Christakis it is comparable to the benefit an elderly person can expect from exercising or losing some surplus weight.
In an American context, these results are, perhaps, no more than an interesting curiosity: at the age of 15, boys outnumber girls by about 4% and the ratio shrinks towards equality thereafter. In China, however, it is estimated that there are now 20% more men of marriageable age than women—the result of selective abortion and infanticide consequent upon the country’s “one-child” policy. That bodes ill for the future health of China’s menfolk.
11.8.10
Ma i pretori non ci salveranno
Dario Di Vico
D'accordo. Le sentenze vanno rispettate e dunque tutti in piedi per far passare il collegio giudicante. Ma a costo di essere politicamente scorretti, anche in agosto, va detta una semplice verità. Se i pretori del lavoro tornano ad essere, come in anni che pensavamo passati, i protagonisti delle relazioni industriali italiane le ragioni dell'economia sono destinate inevitabilmente a soccombere.
L'errore che la vicenda di Melfi e i commenti entusiasti di tutte le sinistre ci portano a fare è quello di discutere solo e prevalentemente di relazioni industriali («la cornice») mettendo in secondo piano il futuro dell'industria italiana («il quadro»). Eppure la coesione sociale che tutti auspichiamo dipende dal quadro, da fattori come i livelli occupazionali, le retribuzioni, l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la competitività del made in Italy sui mercati stranieri, tutti legati alle scelte che da settembre sapremo fare in termini di politica industriale. Nessun pretore ci potrà venire in aiuto.
E allora partiamo dal quadro. Come ha sostenuto l'Istat solo una settimana fa la produttività nell'industria italiana ha addirittura innestato la retromarcia. Solo tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7% e siamo comunque da anni il fanalino di coda dell'Ocse. Nel frattempo la Cina si avvia a diventare una potenza industriale presente non solo nelle produzioni low cost ma addirittura nei progetti innovativi per l'auto elettrica. E la Germania con lo spettacolare risveglio della Volkswagen ha dimostrato come la sinergia tra una solida cultura industriale del Paese e un sindacato accorto e intelligente possa dare risultati strepitosi. La competizione, dunque, si fa sempre più dura e non solo con sistemi a bassa intensità di diritti sindacali, come sono ancora quelli asiatici, ma anche con i cugini tedeschi. Del resto gli enormi investimenti di capitale di un'industria come quella dell'auto «rendono necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile». Si tranquillizzino Maurizio Landini e Nichi Vendola, non sto usando frasi di Sergio Marchionne ma di Romano Prodi. Che in un articolo comparso sul Messaggero venerdì 6 agosto ha sostenuto come a Torino le automobili le sappiano ancora progettare molto bene ma non basta: vanno create le condizioni perché si possano fabbricare nel nostro Paese Italia e vendere in Europa. «La mancanza di accordo priverà l'Italia dell'ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane».
Ma allora perché con la Fiom non si riesce a discutere con costrutto di politica industriale e produttività? La verità è che in quel sindacato, sicuramente radicato in fabbrica, presente pressoché in tutta Italia e dotato di buone strutture di base, è prevalsa un'idea di supplenza nei confronti della politica. Orfano di una sinistra capace di tradurre in azioni concrete i valori del lavoro e spaventato dai meccanismi dell'economia globale, il gruppo dirigente della Fiom ha scelto la politica al posto dell'industria, la cornice invece del quadro. Si è fatto partito. La difesa ideologica del contratto nazionale è quanto meno singolare in un sindacato che non sarebbe certo penalizzato da uno sviluppo della contrattazione aziendale. I grandi sindacalisti della Cgil di un tempo a questo punto della vicenda italiana avrebbero sfidato imprenditori e politica sullo sviluppo e la produttività, la Fiom invece ha scelto la trincea. E davanti a un'economia sempre più interdipendente preferisce chiudere gli occhi e non vedere.
È però legittimo chiedersi se questa scelta sia utile a garantire più occasioni di lavoro, più reddito, più successi aziendali o invece non equivalga a un Aventino sindacale. Per quale motivo nelle aziende alimentari grazie a una disposizione prevista nel contratto sottoscritto anche dalla Cgil si può arrivare a 21 turni settimanali mentre a Pomigliano è uno scandalo contrattarne 18? E come mai nel recente passato anche i metalmeccanici discussero con la loro controparte di banca delle ore, ovvero di un calendario su base annuale che potesse rispondere alle esigenze di flessibilità delle aziende? Per carità, ogni proposta è opinabile e può essere sostituita con un'altra migliore, ma il terreno di gioco no. Non ce n'è un altro. Se si vuole salvare l'industria e il lavoro italiano bisogna sporcarsi le mani. Un sindacalista si dovrebbe sempre distinguere da un politico.
D'accordo. Le sentenze vanno rispettate e dunque tutti in piedi per far passare il collegio giudicante. Ma a costo di essere politicamente scorretti, anche in agosto, va detta una semplice verità. Se i pretori del lavoro tornano ad essere, come in anni che pensavamo passati, i protagonisti delle relazioni industriali italiane le ragioni dell'economia sono destinate inevitabilmente a soccombere.
L'errore che la vicenda di Melfi e i commenti entusiasti di tutte le sinistre ci portano a fare è quello di discutere solo e prevalentemente di relazioni industriali («la cornice») mettendo in secondo piano il futuro dell'industria italiana («il quadro»). Eppure la coesione sociale che tutti auspichiamo dipende dal quadro, da fattori come i livelli occupazionali, le retribuzioni, l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la competitività del made in Italy sui mercati stranieri, tutti legati alle scelte che da settembre sapremo fare in termini di politica industriale. Nessun pretore ci potrà venire in aiuto.
E allora partiamo dal quadro. Come ha sostenuto l'Istat solo una settimana fa la produttività nell'industria italiana ha addirittura innestato la retromarcia. Solo tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7% e siamo comunque da anni il fanalino di coda dell'Ocse. Nel frattempo la Cina si avvia a diventare una potenza industriale presente non solo nelle produzioni low cost ma addirittura nei progetti innovativi per l'auto elettrica. E la Germania con lo spettacolare risveglio della Volkswagen ha dimostrato come la sinergia tra una solida cultura industriale del Paese e un sindacato accorto e intelligente possa dare risultati strepitosi. La competizione, dunque, si fa sempre più dura e non solo con sistemi a bassa intensità di diritti sindacali, come sono ancora quelli asiatici, ma anche con i cugini tedeschi. Del resto gli enormi investimenti di capitale di un'industria come quella dell'auto «rendono necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile». Si tranquillizzino Maurizio Landini e Nichi Vendola, non sto usando frasi di Sergio Marchionne ma di Romano Prodi. Che in un articolo comparso sul Messaggero venerdì 6 agosto ha sostenuto come a Torino le automobili le sappiano ancora progettare molto bene ma non basta: vanno create le condizioni perché si possano fabbricare nel nostro Paese Italia e vendere in Europa. «La mancanza di accordo priverà l'Italia dell'ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane».
Ma allora perché con la Fiom non si riesce a discutere con costrutto di politica industriale e produttività? La verità è che in quel sindacato, sicuramente radicato in fabbrica, presente pressoché in tutta Italia e dotato di buone strutture di base, è prevalsa un'idea di supplenza nei confronti della politica. Orfano di una sinistra capace di tradurre in azioni concrete i valori del lavoro e spaventato dai meccanismi dell'economia globale, il gruppo dirigente della Fiom ha scelto la politica al posto dell'industria, la cornice invece del quadro. Si è fatto partito. La difesa ideologica del contratto nazionale è quanto meno singolare in un sindacato che non sarebbe certo penalizzato da uno sviluppo della contrattazione aziendale. I grandi sindacalisti della Cgil di un tempo a questo punto della vicenda italiana avrebbero sfidato imprenditori e politica sullo sviluppo e la produttività, la Fiom invece ha scelto la trincea. E davanti a un'economia sempre più interdipendente preferisce chiudere gli occhi e non vedere.
È però legittimo chiedersi se questa scelta sia utile a garantire più occasioni di lavoro, più reddito, più successi aziendali o invece non equivalga a un Aventino sindacale. Per quale motivo nelle aziende alimentari grazie a una disposizione prevista nel contratto sottoscritto anche dalla Cgil si può arrivare a 21 turni settimanali mentre a Pomigliano è uno scandalo contrattarne 18? E come mai nel recente passato anche i metalmeccanici discussero con la loro controparte di banca delle ore, ovvero di un calendario su base annuale che potesse rispondere alle esigenze di flessibilità delle aziende? Per carità, ogni proposta è opinabile e può essere sostituita con un'altra migliore, ma il terreno di gioco no. Non ce n'è un altro. Se si vuole salvare l'industria e il lavoro italiano bisogna sporcarsi le mani. Un sindacalista si dovrebbe sempre distinguere da un politico.
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