Marco Travaglio (Il fatto quotidiano)
Scalfaro non rubava. Non firmava le leggi incostituzionali (tipo il decreto-spugna Amato-Conso del ‘93). Era religioso dunque non clericale. Difendeva la Costituzione e l’indipendenza dei magistrati dunque era contro le bicamerali e i conflitti d’interessi. Era un intransigente dunque era contro gli inciuci e i “terzismi” paraculi dei berlusconiani travestiti da equidistanti (“chi si dice equidistante fra il ladro e il carabiniere, sta dalla parte del ladro”). Per questo non piaceva a B. e ai suoi servi,ma nemmeno ai finti oppositori di sua maestà. E bene ha fatto B. a non dire una parola sulla sua scomparsa,evitando di scegliere tra lo sputo sulla bara e l’ipocrisia dell’elogio postumo. Invece Renato Schifani, presidente del Senato, ha molto lacrimato per la dipartita di Scalfaro, che “lascia un vuoto nella politica e nelle Istituzioni carico di tristezza. Per chi lo ha conosciuto, per chi ha apprezzato nel corso degli anni il suo impegno a difesa della Costituzione, la ferita della sua scomparsa è particolarmente dolorosa. Scalfaro ha caratterizzato con la sua esperienza e la sua dedizione alla cosa pubblica l’intera stagione dell’Italia repubblicana, fornendoci un esempio insostituibile di senso civico. Ha incarnato e presenta ai cittadini di oggi e di domani un’immagine della Repubblica cui tutti teniamo gelosamente: una Repubblica baluardo dei diritti dell’uomo e della pace. Desidero ricordarlo,collega tra i colleghi, quando entrava in aula e non faceva mancare il suo contributo nei di battiti. Ciascuno di noi, pur nella difesa delle proprie convinzioni, ascoltava con attenzione e rispetto i suoi interventi che hanno sempre avuto il carattere di un altissimo magistero istituzionale e morale. Con quest’immagine, che porterò sempre affettuosamente con me, desidero ricordarlo”. Sempre apprezzato?Ferita dolorosa? Esempio insostituibile e baluardo?Attenzione e rispetto? Gelosamente e affettuosamente? Chissà se Schifani conosce quel tale che il 26.9.2002 si scagliò contro Scalfaro, reo di aver definito “servile” la politica estera di B. con Bush: “Se c’è qualcuno che non conosce la democrazia è proprio Scalfaro, visti i suoi precedenti. Scalfaro ha avallato il più grande tradimento della volontà popolare. Ha cambiato la storia d’Italia consentendo che venissero politicamente ingannati i cittadini. Non accettiamo lezioni da chi è troppo abituato alle congiure di palazzo, ai ‘non ci sto’ su vicende che sono ancora avvolte da fitte nebbie. Il senatore a vita abbia almeno la compiacenza di risparmiarci le sue litanie. Lui è l’ultimo che può fare la predica. Non ci sono dubbi il senatore Scalfaro sta invecchiando male”. Quel tale, autore della solita legge (anzi, “lodo”) per abolire i processi al suo padrone, il 5.6.2003 aggredì Scalfaro che osava opporsi alla porcata: “Noi vogliamo tutelare il mandato popolare. Noi non abbiamo bisogno di chiedere un messaggio in diretta tv dicendo ‘io non ci sto, io non ci sto’. Un intervento che congelò l’azione penale. Noi il processo lo vogliamo” (Ansa, 5 giugno2003). Scalfaro rispose che il “non ci sto” del ‘93 non congelò alcun processo (poi finito in archiviazione):era una replica alle “accuse che mi erano mosse da due personaggi trovati con le mani nel sacco dei servizi”: i ladroni del Sisde. Quel tale il 28.4.2006 insultò Scalfaro che, 87enne e febbricitante, presiedeva il Senato nella maratona notturna per eleggere il nuovo presidente Marini: “Quel che accade al Senato è sconcertante. Il presidente facente funzioni Scalfaro, con un colpo di mano, ha disposto d’autorità il rinvio di una seduta già fissata, per consentire a numerosi parlamentari del centrosinistra di tornare a votare. Un atteggiamento gravissimo, che prosegue il vulnus di elezioni già inficiate da irregolarità. Noi lanciamo un allarme, le regole sono state violate”. Il 19.5.2006 Prodi ottenne la fiducia con i voti (non determinanti) dei senatori a vita, tra cui Scalfaro. Allora quel tale propose una legge per togliere il diritto di voto ai senatori a vita. Quel tale era Renato Schifani: vergogniamoci per lui.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.1.12
L’estremo oltraggio
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I prodigi di "nonno Mario"
Il premier mette sul sito del governo le lettere dei fan. Compare una bimba di 2 anni: "Fa le cose giuste per il futuro"
Davide Giacalone (Il Tempo)
Ascolti «nonno Mario», faccia una cosa utile a sé, agli italiani e all'umanità che ancora riesce a ridere e inorridire: licenzi su due piedi il soggetto che è riuscito a mettere nel sito della presidenza del Consiglio, sotto lo stellone della Repubblica, una lettera in cui si sostiene che una bimba di due anni (povera innocente) la riconosce come «nonno Mario, quello che dice le cose giuste per il futuro». Perché vede, gentile Signor presidente del Consiglio, senatore a vita e professor Mario Monti, esiste un limite al rincitrullimento, ma mettere in bocca queste cose a una bimba di quell'età, solennizzarle in una pubblicazione governativa, porta con sé un ridicolo potente, talché, nel breve volgere di poche ore, lei potrebbe divenire assai meno sobrio del suo predecessore. E non so se mi spiego. Credo, voglio credere, e voglio chiarirlo in modo inequivocabile, che lei non c'entri nulla. Che certi zelanti leccapiedi uno se li trova sulla strada e neanche li riconosce. Sono sicuro, voglio esserlo, che lei non ha mai visto quella pagina vergognosa (questo è l'indirizzo: http://www.governo.it/GovernoInforma/dialogo/estratti.html, controlli e agisca in prima persona). Ma ciò non toglie che ora noi la stiamo informando e che lei è tenuto a provvedere subito, al volo, prima che si possa anche solo supporre un qualche suo compiacimento. Perché in un Paese civile quella roba non è consentita. E se non provvederà a tambur battente sarebbe autorizzato il sospetto circa il passo successivo: chiedere alla bambina di denunciare i genitori, ove non assolvano onestamente agli obblighi fiscali o commettano una quale che sia infrazione al codice del vivere in pace con la legge. A utilizzare quel sistema fu Pol Pot, in una sfortunata Cambogia. Confesso di non avere fatto una ricerca specifica, ma credo d'indovinare se affermo che neanche in quel disgraziato regime nessuno s'è mai spinto a immaginare che i bimbi da usare come spie potessero avere meno di tre anni. Immediatamente prima del citato, e disgustoso, messaggio se ne trova un altro, adulto, di chi afferma d'averla vista ospite di Lucia Annunziata e di averne dedotto che lei è persona degna di fiducia. Per quel che può contare, lo penso anch'io. Ma penso anche che se il suo predecessore avesse pubblicato messaggi di tale natura sarebbe stato sommerso da meritate pernacchie. E siccome non posso escludere che l'abbia fatto, ove così sia gli dedico anche la mia. Sentitamente. Però, oggi, in quel posto c'è lei, e, oggi, è lei a prendere spazio nei salotti della televisione di Stato, che quando cesserà di essere tale sarà sempre troppo tardi, ed è oggi che il sito della presidenza del Consiglio pubblica, sotto la dicitura "dialogo con i cittadini", roba di tal fatta. La faccia rimuovere. Sul serio, e ci faccia sapere che il responsabile sarà assegnato a compiti più consoni alla sua natura, possibilmente non pagati con i soldi delle nostre tasse. A proposito di mestieri, la bambina di due anni non ha scritto la lettera a lei indirizzata, perché, com'è facile intuire, se fosse di così prodigiosa intelligenza e precocità non si dedicherebbe ad un'adulazione così rozza e imbarazzante. A riportare il suo (presunto) pensierino è, così si firma: «una coordinatrice pedagogica di una cooperativa sociale». Faccia cosa di cui tutti le renderanno merito: individui tale sabotatrice d'infanzia, smascheri quest'agente provocatore e, assieme a chi ha messo in pagina cotanto delirio, li avvii verso il loro destino. Servirà anche a chiarire che non sempre strisciando e sbavando s'ottiene il risultato di commuovere e usare il potente di turno. Chiudiamo questo capitolo, attendendo che lei provveda. Grazie, ci faccia sapere. Più in generale, però, occorre guardarsi da un mondo che, come sempre, pratica il servo encomio in attesa di dedicarsi al codardo oltraggio (sintesi perfetta che dobbiamo ad Alessandro Manzoni, il quale discettava di Napoleone, mica cotiche). Mario Monti gode di ottima stampa, e non è difficile supporre che gli faccia piacere. Farebbe piacere a chiunque. Ma il potere è una strana bestia, una mantide che pratica l'amore preparando la morte. Se quando lo spread arriva al 420 i giornali scrivono che va alla grande, che bene così, che solo ora si respira, poi sarà difficile spiegare che a quei livelli facciamo rotta verso il naufragio. E siccome i lecchini odierni saranno feroci, proprio perché vili, domani scriveranno che il governo ha fallito, laddove, invece, la questione era, è e sarà del tutto diversa: o si ristruttura l'euro e l'Unione europea o nulla di quel che vediamo è destinato a durare. Se quando il governo annuncia che si farà un'autorità nazionale per stabilire quante licenze taxi ci vogliono a Bari i giornali scrivono che questa è l'alba delle radiose liberalizzazioni, domani saranno pronti a gettare l'onta del fallimento su chi ebbe l'idea bislacca di chiamare in quel modo ciò che somiglia, più che altro, ad un incubo centralista, statalista e programmatore. Se per mettere le tasse si procede decretando e per cancellare il rudere del valore del titolo di studio si avvia una «consultazione pubblica» (ma che è?), mentre chi commenta omette d'osservare che la cosa è vagamente dissennata, va a finire che il massimo delle contestazioni si concentrerà su quel che non esiste, resuscitando l'estremismo sconclusionato. Se si lascia che il presidente del Consiglio continui a ripetere, con un vezzo di falso imbarazzo simile alla pudicizia dell'amante focoso, che pare, sembra, mi dicono che nei sondaggi il governo è popolarissimo, e nessuno fa mostra di volere ricordare che le democrazie non funzionano con l'applausometro, va a finire che quando poi si vota e il Parlamento si riempie d'antagonisti taluno, per non ammettere la propria imbecillità, sosterrà essere colpa del governo in carica. Con tutti i suoi pregi, che ci sono, e i suoi difetti, che non mancano punto, il governo Monti è il migliore possibile in questo scorcio di legislatura. Sappiamo tutti che non ha legittimazione elettorale, mentre è affollato d'ambizioni politiche. E passi. Ma è un grave errore lasciarsi cullare dal dondolio del consenso acritico e un po' buffonesco, perché è vero che nessuno resiste all'adulazione, ma è anche vero che chi si lascia andare con tanta lascivia rischia di precipitare in un incubo. Quindi, gentile «nonno Mario»: le si offre una ghiotta occasione, consistente nel far vedere che certe cretinerie non le sono solo estranee, ma anche odiose. Che le ripugna anche la sola idea si possa praticare questo genere di pedofilia lecchina e che, quindi, il responsabile va a casa.
Davide Giacalone (Il Tempo)
Ascolti «nonno Mario», faccia una cosa utile a sé, agli italiani e all'umanità che ancora riesce a ridere e inorridire: licenzi su due piedi il soggetto che è riuscito a mettere nel sito della presidenza del Consiglio, sotto lo stellone della Repubblica, una lettera in cui si sostiene che una bimba di due anni (povera innocente) la riconosce come «nonno Mario, quello che dice le cose giuste per il futuro». Perché vede, gentile Signor presidente del Consiglio, senatore a vita e professor Mario Monti, esiste un limite al rincitrullimento, ma mettere in bocca queste cose a una bimba di quell'età, solennizzarle in una pubblicazione governativa, porta con sé un ridicolo potente, talché, nel breve volgere di poche ore, lei potrebbe divenire assai meno sobrio del suo predecessore. E non so se mi spiego. Credo, voglio credere, e voglio chiarirlo in modo inequivocabile, che lei non c'entri nulla. Che certi zelanti leccapiedi uno se li trova sulla strada e neanche li riconosce. Sono sicuro, voglio esserlo, che lei non ha mai visto quella pagina vergognosa (questo è l'indirizzo: http://www.governo.it/GovernoInforma/dialogo/estratti.html, controlli e agisca in prima persona). Ma ciò non toglie che ora noi la stiamo informando e che lei è tenuto a provvedere subito, al volo, prima che si possa anche solo supporre un qualche suo compiacimento. Perché in un Paese civile quella roba non è consentita. E se non provvederà a tambur battente sarebbe autorizzato il sospetto circa il passo successivo: chiedere alla bambina di denunciare i genitori, ove non assolvano onestamente agli obblighi fiscali o commettano una quale che sia infrazione al codice del vivere in pace con la legge. A utilizzare quel sistema fu Pol Pot, in una sfortunata Cambogia. Confesso di non avere fatto una ricerca specifica, ma credo d'indovinare se affermo che neanche in quel disgraziato regime nessuno s'è mai spinto a immaginare che i bimbi da usare come spie potessero avere meno di tre anni. Immediatamente prima del citato, e disgustoso, messaggio se ne trova un altro, adulto, di chi afferma d'averla vista ospite di Lucia Annunziata e di averne dedotto che lei è persona degna di fiducia. Per quel che può contare, lo penso anch'io. Ma penso anche che se il suo predecessore avesse pubblicato messaggi di tale natura sarebbe stato sommerso da meritate pernacchie. E siccome non posso escludere che l'abbia fatto, ove così sia gli dedico anche la mia. Sentitamente. Però, oggi, in quel posto c'è lei, e, oggi, è lei a prendere spazio nei salotti della televisione di Stato, che quando cesserà di essere tale sarà sempre troppo tardi, ed è oggi che il sito della presidenza del Consiglio pubblica, sotto la dicitura "dialogo con i cittadini", roba di tal fatta. La faccia rimuovere. Sul serio, e ci faccia sapere che il responsabile sarà assegnato a compiti più consoni alla sua natura, possibilmente non pagati con i soldi delle nostre tasse. A proposito di mestieri, la bambina di due anni non ha scritto la lettera a lei indirizzata, perché, com'è facile intuire, se fosse di così prodigiosa intelligenza e precocità non si dedicherebbe ad un'adulazione così rozza e imbarazzante. A riportare il suo (presunto) pensierino è, così si firma: «una coordinatrice pedagogica di una cooperativa sociale». Faccia cosa di cui tutti le renderanno merito: individui tale sabotatrice d'infanzia, smascheri quest'agente provocatore e, assieme a chi ha messo in pagina cotanto delirio, li avvii verso il loro destino. Servirà anche a chiarire che non sempre strisciando e sbavando s'ottiene il risultato di commuovere e usare il potente di turno. Chiudiamo questo capitolo, attendendo che lei provveda. Grazie, ci faccia sapere. Più in generale, però, occorre guardarsi da un mondo che, come sempre, pratica il servo encomio in attesa di dedicarsi al codardo oltraggio (sintesi perfetta che dobbiamo ad Alessandro Manzoni, il quale discettava di Napoleone, mica cotiche). Mario Monti gode di ottima stampa, e non è difficile supporre che gli faccia piacere. Farebbe piacere a chiunque. Ma il potere è una strana bestia, una mantide che pratica l'amore preparando la morte. Se quando lo spread arriva al 420 i giornali scrivono che va alla grande, che bene così, che solo ora si respira, poi sarà difficile spiegare che a quei livelli facciamo rotta verso il naufragio. E siccome i lecchini odierni saranno feroci, proprio perché vili, domani scriveranno che il governo ha fallito, laddove, invece, la questione era, è e sarà del tutto diversa: o si ristruttura l'euro e l'Unione europea o nulla di quel che vediamo è destinato a durare. Se quando il governo annuncia che si farà un'autorità nazionale per stabilire quante licenze taxi ci vogliono a Bari i giornali scrivono che questa è l'alba delle radiose liberalizzazioni, domani saranno pronti a gettare l'onta del fallimento su chi ebbe l'idea bislacca di chiamare in quel modo ciò che somiglia, più che altro, ad un incubo centralista, statalista e programmatore. Se per mettere le tasse si procede decretando e per cancellare il rudere del valore del titolo di studio si avvia una «consultazione pubblica» (ma che è?), mentre chi commenta omette d'osservare che la cosa è vagamente dissennata, va a finire che il massimo delle contestazioni si concentrerà su quel che non esiste, resuscitando l'estremismo sconclusionato. Se si lascia che il presidente del Consiglio continui a ripetere, con un vezzo di falso imbarazzo simile alla pudicizia dell'amante focoso, che pare, sembra, mi dicono che nei sondaggi il governo è popolarissimo, e nessuno fa mostra di volere ricordare che le democrazie non funzionano con l'applausometro, va a finire che quando poi si vota e il Parlamento si riempie d'antagonisti taluno, per non ammettere la propria imbecillità, sosterrà essere colpa del governo in carica. Con tutti i suoi pregi, che ci sono, e i suoi difetti, che non mancano punto, il governo Monti è il migliore possibile in questo scorcio di legislatura. Sappiamo tutti che non ha legittimazione elettorale, mentre è affollato d'ambizioni politiche. E passi. Ma è un grave errore lasciarsi cullare dal dondolio del consenso acritico e un po' buffonesco, perché è vero che nessuno resiste all'adulazione, ma è anche vero che chi si lascia andare con tanta lascivia rischia di precipitare in un incubo. Quindi, gentile «nonno Mario»: le si offre una ghiotta occasione, consistente nel far vedere che certe cretinerie non le sono solo estranee, ma anche odiose. Che le ripugna anche la sola idea si possa praticare questo genere di pedofilia lecchina e che, quindi, il responsabile va a casa.
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I sette pilastri della saggezza
Alberto Asor Rosa (Il Manifesto)
Abbiamo assistito a novità straordinarie e profonde. Ma il carattere insolito del processo degli ultimi mesi non è improvvisato, e le novità saranno durature, perché l'alternativa è una crisi verticale di sistema
E se cercassimo di ricostruire l'intera vicenda politica italiana recente almeno nei suoi passaggi fondamentali? Il vantaggio sarebbe duplice: potremmo innanzitutto organizzare dei focolai di discussione intorno a ognuno di quei passaggi al fine di decidere più meditatamente se li abbiamo letti bene oppure no (a suo tempo e oggi): e potremmo in secondo luogo arrivare a conclusioni meno precarie e instabili e, se non più tranquillizzanti, almeno dotate di una più ampia prospettiva strategica.
La mia tesi di fondo, che enuncio subito per amor di chiarezza, è che abbiamo assistito a novità molto più straordinarie e profonde di quanto comunemente non si dica. Il carattere davvero insolito del processo che si è dipanato qui da noi nel corso degli ultimi mesi non è però (almeno non del tutto) improvvisato; ossia, più esattamente: dato quel che che si è visto, non può esserlo. Questo rende le (suddette) novità probabilmente più durature di quanto non si pensi, contrapponendosi loro, in caso di fallimento, una crisi verticale di sistema (la quale resta comunque, fin dall'inizio, una delle principali motivazioni, anzi giustificazioni, anche sul piano etico e locale, di tale esperimento). Ma vediamo.
1. Per essere documentali e precisi dovremmo risalire all'indietro fino, almeno, a vent'anni fa, e cioè alla genesi e alle fortune, imprevedibili in qualsiasi altro paese europeo che si rispetti, di Silvio Berlusconi e del berlusconismo e alla contemporanea decadenza e frantumazione e impotenza del restante quadro politico italiano. Siccome non lo possiamo fare (ma vorremmo comunque che il lettore con la coda dell'occhio lo seguisse e lo tenesse presente), fermiamoci al 2011, al progressivo, rapidissimo, sconvolgente degrado della situazione italiana, ai vizi pubblici e privati da ogni parte debordanti, alla perdita clamorosa di ogni credibilità nazionale (inserita bensì, come sappiamo, in una crisi economica globale ed epocale, ma destinata a renderla più catastrofica che altrove), fino alle prime, drammatiche giornate di novembre.
In questa situazione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appena al di qua del baratro, mette fuori gioco il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, con l'inedita formula: «prima l'approvazione in Parlamento della manovra, poi le dimissioni» (dimissioni sulle quali, come recitò un comunicato del Quirinale, non poteva esistere «nessuna incertezza»). Berlusconi dunque non fu sfiduciato (nel senso letterale del termine) dalle Camere: ma indotto alle dimissione da una moral suasion spinta oltre qualsiasi traguardo precedente.
E' vero: nell'operazione di avvicendamento non c'è stata (io penso) una vera e propria forzatura costituzionale. Ma una formidabile pressione politica sì, non mi pare possa essercene alcun ragionevole dubbio. Può dolersene uno come me che era arrivato a richiedere l'intervento dei carabinieri per liberarci dalla sempre più catastrofica presenza del governo Berlusconi? Evidentemente no. Anzi: chapeau! (potrei, se mai, pretendere che mi sia restituito l'onore che mi era stato strappato ai tempi della mia sparata: in fondo, gli strumenti, i mezzi, la capacità di manovra, la lungimiranza sono stati ben diversi - e come avrebbe potuto essere altrimenti? -, ma le intenzioni e soprattutto gli effetti gli stessi).
2. Date le premesse, è abbastanza ragionevole che nessun governo "politico" fosse in grado di subentrare al governo Berlusconi: ed è perciò che la presidenza del Consiglio è stata affidata dalla presidenza della Repubblica a un "tecnico", il professor Mario Monti, che ha formato intenzionalmente e dichiaratamente un governo di soli "tecnici". Rinuncerei ad entrare nel merito dell'ormai stucchevole questione se il governo Monti, sia al tempo stesso anche un governo "politico": è chiaro che ogni governo "tecnico" è anche "politico", e ogni governo "politico" è anche "tecnico", ammesso che voglia governare; ma - e questo è fondamentale nel mio ragionamento - un governo "tecnico" resta nonostante tutto un governo "tecnico", ben diverso da uno stricto sensu "politico".
E' la prima volta che questo accade in questa misura estrema in Italia. Gli uomini della Destra storica erano in parte dei tecnici, ma prestati da lungo tempo alla politica (facevano, insomma, "partito"). Lo stacco fra "il governo" e "la politica" si fa dunque attualmente più marcato che in qualsiasi altro momento della storia italiana. Per dirla più semplicemente: per governare non è più necessario essere "rappresentanti del popolo", cioè passati attraverso il filtro del voto. I "rappresentanti del popolo" divengono ormai solo l'interfaccia del potere: colloquiano con il potere e in qualche modo tentano d'influenzarlo, ma restandone (almeno per ora) totalmente all'esterno. La meccanica decisionale cambia radicalmente: il "sistema democratico" tende a conformarsi come un "duopolio del potere".
La "tecnicità" di questo governo potrebbe cioè essere una caratteristica non transeunte della gestione del potere in un paese dalla fragile democrazia e dai non irreprensibili costumi come l'Italia. Il primo pilastro dell'esperimento testè iniziato si presenta insomma come uno "strumento decisionale" di tipo nuovo, stabilmente e (molti dicono) finalmente sottratto alle fluttuazioni delle interne (ed esterne) contrattazioni e agli interessi di parte continuamente ricorrenti (la violenta campagna in atto da mesi contro la "casta", certo non priva di motivazioni, tuttavia non ha fatto che accentuare questa richiesta di una governance sottratta alla tabe della politica). Insomma: un governo non più "di parte", ma singolarmente "super partes", e quindi autorevole ed efficace non a dispetto ma in considerazione esattamente della sua natura non rappresentativa.
3. A garantire la persistenza del rapporto fra le due componenti del duopolio (governo tecnico e rappresentanza politica parlamentare) ci pensa l'oculata presenza del Presidente della Repubblica, cui non a caso, ovviamente, va ricondotta l'origine di tutta l'operazione. Il secondo pilastro - ma primo in ordine di tempo e d'importanza - è dunque la presidenza della Repubblica (non a caso gli editorialisti del Corriere della sera Panebianco e Galli della Loggia pretenderebbero che si dia veste anche formale alla innovazione, transitando dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale).
E' giocoforza, di conseguenza, osservare che in una situazione del genere il "duopolio", oltre che dal basso verso l'alto (cioè dal parlamento verso il governo), si genera anche dall'alto verso il basso, e cioè al vertice del potere. Senza voler togliere niente a nessuno (lo dico con autentico rispetto), è il Presidente della Repubblica che dà la linea e il Presidente del Consiglio la interpreta e realizza (il discorso di fine anno di Napolitano conferma in maniera decisiva questa impressione). Per dirla in modo meno tranchant: fra i due esiste un interscambio continuo, che discende da un'assoluta uniformità di vedute su questioni di fondo e da una precisa divisione dei compiti e delle funzioni (una cosa così non s'improvvisa, è evidente che era in gestazione da tempo: altrimenti non avrebbe potuto funzionare così bene).
Come è potuto accadere - e in Italia, poi - un mutamento così rapido e profondo? Qui entriamo nel vivo della questione. Il fatto è che, dietro l'uno come dietro l'altro di questi due protagonisti c'è l'Europa: ovvero, meglio, quell'insieme di valori, comportamenti, giudizi e pregiudizi, orientamenti di politica economica e visioni civili, che tradizionalmente promana dalla tecnocrazia di Bruxelles, più che dal ceto politico per ora dominante in Francia e in Germania: Sarkozy e Merkel hanno certo recitato la loro parte in questa vicenda italiana - non c'è bisogno di pensare alla famosa telefonata in cui la Merkel avrebbe chiesto a Napolitano la liquidazione di Berlusconi, per arrivare alle medesime conclusioni -, ma la stella polare dei nostri due eroi è a Bruxelles, non altrove. Come sia stato possibile che a questa assolutamente non posticcia convergenza di propositi e, direi, di culture politiche siano pervenuti contemporaneamente un raffinato politico iscritto per più di cinquant'anni al più grande partito comunista dell'Occidente e un professore di chiaro orientamento conservatore formato e cresciuto nella più autorevole università privata del nostro paese, è un'altra delle singolarità di questa storia, sulla quale non abbiamo né il tempo né lo spazio per qui soffermarci (ma che di certo, ai fini di migliore conoscenza storica, andrebbe meglio studiata).
4. Il "governo tecnico" prodotto da questo duplice, inedito duopolio del potere, è formato da personale proveniente dalle università (prevalentemente private, e anche questo occupa un suo posto di chiaro rilievo nel mio ragionamento), dalle banche, da iniziative imprenditoriali pubbliche e private, dal personale tecnico-amministrativo dei ministeri corrispondenti, ecc. ecc. Profilo generalmente dignitoso, in qualche caso molto elevato; il salto di stile rispetto al "governo politico" che lo ha preceduto (e anche di molti altri governi degli anni passati) è assolutamente marcato. Quando Monti è apparso per la prima volta in televisione a Strasburgo accanto a Merkel e Sarkozy, mi sono sorpreso a pensare quanto fossero buffi il francese Sarkozy e la germanica Merkel di fronte all'eleganza dignitosa e riservata dell'italiano Monti. E il mio italico cuore non ha potuto reprimere un sobbalzo d'orgoglio.
5. Un altro tratto accomuna i componenti del "governo dei tecnici" Monti: l'essere a fortissima (esclusiva?) caratterizzazione cattolica. Insomma: tutti questi "onesti uomini" ministri e queste "onestissime donne" ministre la domenica vanno a messa. Una cosa del genere non s'era mai vista neanche nei governi della fase di assoluta predominanza democristiana successivi al 1948, nei quali sedevano, e sia pure in posizione di assoluta subalternità, esponenti di chiara, anche se fragile, ascendenza laica. In sé e per sé la cosa non avrebbe motivo di suscitare reazioni. Tuttavia, se il fenomeno da individuale si fa collettivo, esso tende a far massa e a produrre effetti conseguenti (ci si può chiedere fin d'ora, infatti, quale sarebbe l'atteggiamento del governo Monti di fronte a un nuovo caso Englaro). Naturalmente questa spiccata connotazione religiosa non va inscritta automaticamente (mi pare) in nessuna reale o ipocrita vocazione partitica: e questa è un'ulteriore connotazione di novità, da cui il fenomeno appare contraddistinto. Ciò, infatti, apre un fronte di rapporti inediti con la Chiesa di Roma, non mediati, appunto, dai (spesso scomodi) filtri partitici, e perciò più diretti, e insieme più liberi e flessibili: la felice esperienza pluridecennale della Comunità di Sant'Egidio, non a caso assunta direttamente nell'organigramma di questo governo, potrebbe rappresentarne un utile precedente, e magari un ulteriore coagulo nei prossimi mesi, e forse anni. Non stupisce perciò che la Chiesa di Roma, dopo il lungo (e alquanto abnorme) idillio con il governo Berlusconi, si schieri urbi et orbi dietro il governo Monti: esso rappresenta per lei l'ottima chance per rimediare agli errori commessi e recuperare il tempo perduto in un vano inseguimento alla falena Berlusconi.
Il Governo Monti poggia dunque, almeno in questo suo inizio, su questi quattro formidabili pilastri: la sua propria "tecnicità", che va intesa, più che come superiore sapienza ed esperienza, come estraneità alle procedure e allo spirito del tradizionale gioco politico italiano: la Presidenza della Repubblica; l'Europa di Bruxelles; la Chiesa di Roma: autorità d'indiscutibile prestigio, tutte convergenti, in maniera probabilmente non casuale, verso il medesimo obiettivo.
6. Il governo Monti è stato costituito e messo alla prova esplicitamente per arrestare la catastrofe economica nazionale. Le misure di pronto intervento sono state assunte dal governo sotto la pressione di una formidabile urgenza: non si poteva fare di più e soprattutto di meglio nello spazio consentito dall'incalzare degli eventi (per lo stesso motivo è stato esorcizzato il ricorso alle urne, che sarebbe stato il normale metodo per far fronte a una crisi di governo parlamentare irrimediabile). Questo spiega perché tali misure siano apparse da subito così tradizionali: tagliare qualcosa a tutti invece che tagliare molto ad alcuni è, tecnicamente, molto più semplice, rapido ed efficace - se si prescinde, naturalmente, dalle reazioni delle grandi masse duramente toccate dalla manovra. Intervenire sulle pensioni, aumentare l'età pensionabile, tornare a tassare e/o tassare più violentemente la proprietà immobiliare senza distinzioni di ceto né di situazioni sociali poteva venire in mente (lo dico senza ironia) a ognuno di noi comuni mortali. E poi, a seguire: gas, energia elettrica, autostrade, benzina, ecc. ecc.: la logica è sempre la stessa, tutti, più o meno, vengono colpiti, perché il colpo, per così dire, sia universalmente doloroso ma non mortale per nessuno.
La tecnicità, in prima battuta, c'entra poco, mi sembra. Qui converrebbe piuttosto chiamare in causa un'altra, importante caratteristica di questo governo (dopo tecnicità e cattolicesimo): e cioè il fatto che questa tecnicità è a sua volta tutta inscritta nell'orbita di valori - culturali, ideali, economici ma soprattutto, mi verrebbe voglia di dire, antropologici - che caratterizzano l'attuale orizzonte tecnopolitico europeo. Se gli elettori dei rispettivi paesi mandassero a casa, come si spera, Sarkozy e Merkel, forse qualcosa potrebbe cambiare (ma intanto gli elettori spagnoli hanno mandato a casa Zapatero). Per ora, però, il quadro - ferreo quadro - è questo e tout se tient.
Dati quei parametri, quei meccanismi finanziari, quelle scelte civili oltre che economiche (bisognerebbe rendere obbligatorio a sinistra, e anche altrove, la lettura di Finanzcapitalismo di Luciano Gallino), il resto quasi automaticamente ne consegue, e il governo Monti non ha fatto per ora che interpretare questa logica. La «fase due» si profila incerta all'orizzonte. Se essa dovesse imperniarsi, come sembra, sulle liberalizzazioni dei taxi, delle farmacie e delle professioni (che una volta, ormai paradossalmente, si dicevano "liberali"), la tecnicità avrebbe dato per la seconda volta in pochi mesi una prova sostanzialmente modesta. Se invece, com'è pressoché inevitabile, dietro questa cortina sostanzialmente fumogena, si andassero a toccare i rapporti e i diritti del lavoro, il quadro logico-tecnico-politico di questo governo non potrebbe che risultarne ancora più coerente e, nella prospettiva, consolidato: ma anche, al tempo stesso, più energicamente e fino in fondo contestabile.
7. Portato in parlamento il governo Monti ha ricevuto una maggioranza schiacciante; portata in parlamento la manovra ha ricevuto una maggioranza alquanto inferiore, ma sempre straordinaria. Anche questo fenomeno non s'è mai visto in queste dimensioni nella storia dell'Italia unita (dico: dell'Italia unita) se si esclude ovviamente la "parentesi del fascismo". L'esperienza che da questo punto di vista gli si avvicina di più è quella del ministero guidato da Luigi Luzzatti (a modo suo anche lui un tecnico: era stato più volte in precedenza ministro del tesoro), il quale, fra il marzo 1910 e il marzo 1911, in un breve interregno della lunga egemonia giolittiana, ne formò uno composto da uomini di professioni politiche assolutamente eterogenee, con il compito, peculiarmente, di varare una nuova legge elettorale (che invece poi fu bocciata) ed ebbe alla Camera l'astronomica maggioranza di 386 voti favorevoli su 415 votanti. Naturalmente le affinità finiscono qui (anche se anche nel ministero Luzzatti, come in ogni governo «tecnico» che si rispetti, la carica di ministro degli Esteri fu ricoperta da un ambasciatore). Per quel che riguarda il ministero Monti, la cosa ha infatti una rilevanza politica ben maggiore. Il ministero Luzzatti ebbe la sua spropositata maggioranza in base ad una consultazione parlamentare in gran parte preventiva: il ministero Monti l'ha avuta solo dopo, in conseguenza della scelta delle principali forze politiche - fino a quel momento di maggioranza come d'opposizione - di convergere su di esso, una volta formato il governo.
Si presenta qui con forza, a far da quinto pilastro al governo Monti, un protagonista indispensabile e di primissimo piano di tutta la vicenda, e cioè l'Italia, del resto continuamente evocata nel corso del 2011, l'anno del suo centocinquantenario, a far da riferimento o da ammonimento a tutte le azioni politiche in corso nella Repubblica. Superfluo rammentare il ruolo decisivo esercitato anche in questo senso dal Presidente della Repubblica. E' in nome della salvezza della comune e unica patria di cui tutti disponiamo ("la Nostra Patria", appunto, non la patria di questo o di quello), che i partiti rappresentati in parlamento si sono, "con senso di responsabilità" (l'espressione è di Berlusconi, ma rapidissimamente è stata fatta propria da tutti gli altri protagonisti della storia unione), adattati all'inedita e in larga misura imprevista situazione. E' ovvio che una componente di natura nazionale (nazionalistica?) faccia parte di ogni esperienza emergenziale.
8. Ma non esistono più in Italia una Destra e una Sinistra? Non ci sono più diversità e contrapposizioni di logiche, programmi, culture, non ci sono più antagonismi storici, oggettivi, insormontabili, tra i diversi settori dell'elettorato? Qual è la mano santa che riconduce tutto questo all'unità di una sola proposta e manovra di governo? Nel determinare il fenomeno intervengono due fattori, provvisoriamente (solo provvisoriamente?) convergenti, l'uno di natura oggettiva, l'altro eminentemente soggettivo, o anche, a dir la verità, un poco artificioso.
Quello oggettivo, non c'è bisogno di descriverlo molto, è sotto gli occhi di tutti: lo spappolamento in Italia della struttura delle classi, la comparsa di un gigantesco, proteiforme contenitore sociale, dove sacche residue di vecchio proletariato industriale convivono gomito a gomito con fasce di piccola e piccolissima borghesia in sfacelo, e i soggetti dotati ancora di una precisa identità sociale si trovano isolati e circondati da masse anonime di consumatori sempre più allo stremo; e a far da collante a tutto questo una spropositata, crescente (e in larga misura motivata) sfiducia nella politica e nei suoi principali strumenti, i partiti e la cosiddetta "classe dirigente". È in situazioni del genere, contraddistinte da una congenita fragilità democratica, che il capitale rinuncia a servirsi delle tradizionali, ormai inefficaci e inconcludenti, mediazioni politiche e passa a gestire la cosa pubblica in proprio (non a caso pretendendo, come linea generale di condotta, che sia il pubblico ad adattarsi a regole e consuetudini del privato per poter funzionare).
Un governo il quale, per l'appunto, non è dichiaratamente né di destra né di sinistra, e cioè non è un "governo politico" nel senso tradizionale del termine, proprio perché è un "governo tecnico", può pescare consenso, oltre che fra ceti decisamente dominanti, nelle grandi masse prive di identità (la "moltitudine" negriana, ma risolutamente rovesciata in negativo), più di ogni altro settore sociale a rischio.
Su questa realtà oggettiva - e dunque non senza motivazioni e giustificazioni reali - interviene la manovra soggettiva (e artificiosa). I partiti che siedono attualmente in parlamento sono (salvo che qua e là, in zone limitate del paese) larve di organizzazione, non più in grado di secernere il grano dal loglio, perché la confusione sociale circostante si è riversata anche al loro interno (basti pensare al Pd e alle sue molteplici e contraddittorie anime: dalla giraffa comunista non è nato, come io auspicavo anni fa, un buon, normale cavallo occidentale, ma un grifone con la testa d'uccello e gli zoccoli da quadrupede). In questa situazione era normale che i principali protagonisti dell'aspro scontro politico-sociale dell'era berlusconiana convergessero sull'ipotesi dell'appoggio al medesimo "governo unico": non avevano scampo, perché non c'era scampo.
I primi effetti "politici" (questa volta da intendersi in senso tradizionale) di questa manovra sono stati la scomparsa dalla scena del patto di Vasto, l'unico ragionevole marchingegno pre-elettorale che il buon Bersani fosse riuscito con grande fatica a mettere in piedi (Di Pietro, che non ne ha mai sofferto, è stato improvvisamente precipitato nella partita del dubbio amletico; Vendola ha scelto di tacere, perché anche lui non aveva altra scelta); e l'emarginazione del gioco della Lega, che, non avendo a che fare né con la Presidenza della Repubblica, né con i professori universitari, né con l'Europa, né con la Chiesa, è stata costretta a ricacciarsi nei suoi provinciali nidi di partenza. Non irrilevante anche, in questo quadro, che Silvio Berlusconi, depravatissimo e deprecatissimo come Presidente del Consiglio, sia stato restituito a una sua tranquilla, rispettabile e da tutti rispettata onorabilità in quanto leader di uno dei partiti che sostengono l'attuale governo. Non ci sono più escort in giro, la vita privata del Cavaliere è diventata improvvisamente impenetrabile e ingiudicabile, i suoi atti non sono più gravati dal conflitto d'interesse e dalle grane giudiziarie: lo si consulta perciò normalmente e disinvoltamente e lo si ascolta e commenta con grande attenzione quando sussurra, con astuta parsimonia, le sue riflessioni sul bene del popolo e della Nazione. Per forza: se toglie l'appoggio, il castello genialmente creato crolla di colpo.
Quel che strategicamente emerge è dunque una colossale pulsione neocentrista: ossia la spinta a creare al Centro un'aggregazione imponente (non necessariamente un nuovo partito: anzi), che proprio nella tecnicità troverebbe il suo esemplare punto di riferimento e di "rappresentazione". Non a caso esulta più di chiunque altro Casini che, sia pure per ora non in prima persona, si vede idealmente proiettato (e senza sforzo alcuno)... al centro dell'operazione; e nel Pd trionfa di nuovo Walter Veltroni, il quale finalmente scorge le sue pulsioni antibersaniane di sempre colorarsi di realtà.
In Italia, storicamente, questa convergenza delle ali verso il Centro ha preso il nome di trasformismo: nella sua versione nobile una forma della politica destinata a sopperire alle carenze dei singoli partiti, trovando fra i rappresentanti del popolo, nei momenti considerati più gravi, quelli disposti a mettere l'interesse del paese al di sopra di quello delle singole fazioni politiche e, naturalmente (sebbene in accezione puramente o prevalentemente ideale) dei singoli stessi. Nel caso odierno potremmo dire di trovarci di fronte a un esempio di trasformismo di altissimo livello, di cui sono protagonisti non i singoli "individui" ma i partiti stessi, consapevoli di fare responsabilmente il bene del paese e, più sotterraneamente, di non avere neanche loro altra strada al di fuori di questa.
Se l'esperimento di Monti andasse avanti fino, oppure oltre, la scadenza elettorale del 2013, l'ipotesi neo-centrista qui ipotizzata arriverebbe ad avere manifestazioni spettacolari. Del resto, se c'è un solo programma valido, ed è quello che dall'Europa promana all'Italia, come potrebbe essere che la prospettiva del grande, anzi grandissimo Centro non si affiancasse a Presidenza della Repubblica, tecnicità, Europa, Chiesa e Italia, a fondare il sesto pilastro della manovra?
9. Il settimo pilastro della saggezza è di natura squisitamente ideologica e si avvale di strumenti mediatici poderosi. Non solo, infatti, la manovra, e il governo Monti che la raccomanda ed esprime, sono considerati e detti come necessari, e dunque indispensabili, e dunque inevitabili. Ma ciò che si presenta oggettivamente come necessario, e dunque indispensabile, e dunque inevitabile (e come tale potrebbe persino essere accettato da una quota di non consenzienti: insomma, l'invito a "baciare il rospo"), viene presentato come un "sistema di valori" destinato a fondare la "nuova Italia", attraverso l'adozione di generalizzati comportamenti conseguenti. È, insomma, la "coesione sociale" (Napolitano, Bagnasco), il "superamento degli steccati tradizionali" (Casini, Alfano), l'"equità" da raggiungere, però passando attraverso il "sacrificio" (tutti): e cioè, in sostanza, l'idea che il "passaggio" possa essere effettuato soltanto se restiamo tutti uniti, se attenuiamo al massimo i conflitti, e di conseguenza accettiamo più o meno in toto il pacchetto di misure e - di più, molto di più - la prospettiva sociale, politica e civile, che attraverso di esse ci viene proposta. Non vuole dire anche questo che ci vuole sempre meno politica (e conseguentemente, o primariamente, meno politici), se vogliamo andare avanti? Curiosamente, in politica (e i politici) sopravvivono ancora a livello locale e regionale, mentre a quello nazionale li si considera vieppiù superflui e distorcenti. E così il quadro è completo, e si può chiudere.
10. Il pacchetto della saggezza va assunto per intero, per essere efficace (anche la Chiesa di Roma? Sì, almeno nel senso che anche un laico deve riconoscere la funzione positiva che essa attualmente svolge nel grande concerto comune). Nessuna alternativa è considerata come ragionevolmente possibile. Persino quella modesta rivoluzione, puntualmente contemplata e regolamentata all'interno di qualsiasi sistema democratico, che è in caso di necessità, oltre che alle scadenze normali, il ricorso al voto, viene additata come da evitare.
C'è qualcosa di totalitario nel sistema finanzcapitalistico. Non solo ne sono sconosciuti, - e imprevedibili, e non sanzionabili, almeno finora - i grandi protagonisti, cui l'ultimo grande salto tecnologico, quello informatico, ha consentito di agire sempre e ovunque al di fuori di ogni controllo (la tecnica, nel corso del processo storico degli ultimi tre secoli è sempre stata, prevalentemente, dalla parte del capitale e contro il lavoro). Ma il dissenso, la prospettazione di una diversa strategia, persino la sacrosanta difesa di un interesse "particolare" - si tratti del diritto di rappresentanza sindacale in fabbrica, negato a coloro che non firmano accordi con l'impresa, come della difesa di una valle alpina dalla devastazione tecnologica, per giunta, come tutti sanno, economicamente improduttiva - vengono sempre più considerati atti ostili alla soluzione dei problemi di questo sistema e come tali aspramente combattuti. La difesa dei diritti umanitari e della persona riemerge solo ai margini del sistema: l'atteggiamento di solidarietà e di comprensione nei confronti degli immigrati e dei "reietti della terra", più volte recentemente e molto autorevolmente evocato, ne rappresenta una testimonianza (del resto, questo duplice e contraddittorio nesso è stato praticato per secoli con successo dalla Chiesa di Roma). Ma quel che accade in conseguenza delle logiche interne di sistema, e fra coloro che, anche senza affatto volerlo, ne sono principali protagonisti e vittime, questo viene affrontato e ridotto al rango di una pura, necessaria revisione sistemica: tanto più efficace - e ovviamente indiscutibile - quanto più il governo della cosa pubblica è oggi nelle mani di un manipolo di onest'uomini invece che di una banda di predoni di strada.
11. L'ultimo paragrafo di questo discorso riguarderebbe, ce ne avessi la forza e la capacità, l'assenza di una risposta critica e alternativa adeguata al livello dei problemi che mi sono sforzato di discutere (del resto, se la risposta non fosse rimasta assente per troppi decenni, i problemi non sarebbero ingigantiti fino a questo punto che ha assunto la bronzea parvenza dell'oggettività pura e semplice). Qualcosa, certo, è stato già detto ed enunciato; e altro si può, senza grande sforzo, elaborare e dire. Ma quel che mi parrebbe ora giusto sarebbe fissare con chiarezza il "punto di partenza" del nuovo discorso. L'altissimo concentrato di "saggezza", di cui io parlo, non è un'invenzione di parole: è un fatto drammaticamente reale e presenta dimensioni formidabili. Per fronteggiare questa "saggezza", poggiata su pilastri di tale consistenza, ci vuole un pensiero altrettanto globale e onnicomprensivo di quello su cui essa si sostiene e motiva: una "saggezza" persino più scaltrita e raffinata; e al tempo stesso più corposa e vicina al mondo dei normali esseri viventi, degli individui umani a loro volta pensanti, non, come oggi pare, semplici oggetti, distanziati, semintelligenti destinatari delle manovre altrui, quali che siano; e quindi, come tutte le vere "saggezze" capaci di cambiare il mondo e di arrestarne la presunta inevitabilità del corso, anche un po' folle (del resto come tutti sanno, c'è una logica in questa follia). E a questo pensiero, e a questa diversa "saggezza", deve corrispondere un'organizzazione adeguata (questo nesso non è semplicemente storico: è eterno; se non c'è, niente funzione). Da questi due punti di vista noi siamo ancora alle primissime battute: il vecchio che è in noi supera di gran lunga quello che ci fronteggia e sovrasta. Per colmare le lacune e i ritardi ci verranno decenni. Ma intanto bisognerebbe cominciare a farlo.
Abbiamo assistito a novità straordinarie e profonde. Ma il carattere insolito del processo degli ultimi mesi non è improvvisato, e le novità saranno durature, perché l'alternativa è una crisi verticale di sistema
E se cercassimo di ricostruire l'intera vicenda politica italiana recente almeno nei suoi passaggi fondamentali? Il vantaggio sarebbe duplice: potremmo innanzitutto organizzare dei focolai di discussione intorno a ognuno di quei passaggi al fine di decidere più meditatamente se li abbiamo letti bene oppure no (a suo tempo e oggi): e potremmo in secondo luogo arrivare a conclusioni meno precarie e instabili e, se non più tranquillizzanti, almeno dotate di una più ampia prospettiva strategica.
La mia tesi di fondo, che enuncio subito per amor di chiarezza, è che abbiamo assistito a novità molto più straordinarie e profonde di quanto comunemente non si dica. Il carattere davvero insolito del processo che si è dipanato qui da noi nel corso degli ultimi mesi non è però (almeno non del tutto) improvvisato; ossia, più esattamente: dato quel che che si è visto, non può esserlo. Questo rende le (suddette) novità probabilmente più durature di quanto non si pensi, contrapponendosi loro, in caso di fallimento, una crisi verticale di sistema (la quale resta comunque, fin dall'inizio, una delle principali motivazioni, anzi giustificazioni, anche sul piano etico e locale, di tale esperimento). Ma vediamo.
1. Per essere documentali e precisi dovremmo risalire all'indietro fino, almeno, a vent'anni fa, e cioè alla genesi e alle fortune, imprevedibili in qualsiasi altro paese europeo che si rispetti, di Silvio Berlusconi e del berlusconismo e alla contemporanea decadenza e frantumazione e impotenza del restante quadro politico italiano. Siccome non lo possiamo fare (ma vorremmo comunque che il lettore con la coda dell'occhio lo seguisse e lo tenesse presente), fermiamoci al 2011, al progressivo, rapidissimo, sconvolgente degrado della situazione italiana, ai vizi pubblici e privati da ogni parte debordanti, alla perdita clamorosa di ogni credibilità nazionale (inserita bensì, come sappiamo, in una crisi economica globale ed epocale, ma destinata a renderla più catastrofica che altrove), fino alle prime, drammatiche giornate di novembre.
In questa situazione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appena al di qua del baratro, mette fuori gioco il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, con l'inedita formula: «prima l'approvazione in Parlamento della manovra, poi le dimissioni» (dimissioni sulle quali, come recitò un comunicato del Quirinale, non poteva esistere «nessuna incertezza»). Berlusconi dunque non fu sfiduciato (nel senso letterale del termine) dalle Camere: ma indotto alle dimissione da una moral suasion spinta oltre qualsiasi traguardo precedente.
E' vero: nell'operazione di avvicendamento non c'è stata (io penso) una vera e propria forzatura costituzionale. Ma una formidabile pressione politica sì, non mi pare possa essercene alcun ragionevole dubbio. Può dolersene uno come me che era arrivato a richiedere l'intervento dei carabinieri per liberarci dalla sempre più catastrofica presenza del governo Berlusconi? Evidentemente no. Anzi: chapeau! (potrei, se mai, pretendere che mi sia restituito l'onore che mi era stato strappato ai tempi della mia sparata: in fondo, gli strumenti, i mezzi, la capacità di manovra, la lungimiranza sono stati ben diversi - e come avrebbe potuto essere altrimenti? -, ma le intenzioni e soprattutto gli effetti gli stessi).
2. Date le premesse, è abbastanza ragionevole che nessun governo "politico" fosse in grado di subentrare al governo Berlusconi: ed è perciò che la presidenza del Consiglio è stata affidata dalla presidenza della Repubblica a un "tecnico", il professor Mario Monti, che ha formato intenzionalmente e dichiaratamente un governo di soli "tecnici". Rinuncerei ad entrare nel merito dell'ormai stucchevole questione se il governo Monti, sia al tempo stesso anche un governo "politico": è chiaro che ogni governo "tecnico" è anche "politico", e ogni governo "politico" è anche "tecnico", ammesso che voglia governare; ma - e questo è fondamentale nel mio ragionamento - un governo "tecnico" resta nonostante tutto un governo "tecnico", ben diverso da uno stricto sensu "politico".
E' la prima volta che questo accade in questa misura estrema in Italia. Gli uomini della Destra storica erano in parte dei tecnici, ma prestati da lungo tempo alla politica (facevano, insomma, "partito"). Lo stacco fra "il governo" e "la politica" si fa dunque attualmente più marcato che in qualsiasi altro momento della storia italiana. Per dirla più semplicemente: per governare non è più necessario essere "rappresentanti del popolo", cioè passati attraverso il filtro del voto. I "rappresentanti del popolo" divengono ormai solo l'interfaccia del potere: colloquiano con il potere e in qualche modo tentano d'influenzarlo, ma restandone (almeno per ora) totalmente all'esterno. La meccanica decisionale cambia radicalmente: il "sistema democratico" tende a conformarsi come un "duopolio del potere".
La "tecnicità" di questo governo potrebbe cioè essere una caratteristica non transeunte della gestione del potere in un paese dalla fragile democrazia e dai non irreprensibili costumi come l'Italia. Il primo pilastro dell'esperimento testè iniziato si presenta insomma come uno "strumento decisionale" di tipo nuovo, stabilmente e (molti dicono) finalmente sottratto alle fluttuazioni delle interne (ed esterne) contrattazioni e agli interessi di parte continuamente ricorrenti (la violenta campagna in atto da mesi contro la "casta", certo non priva di motivazioni, tuttavia non ha fatto che accentuare questa richiesta di una governance sottratta alla tabe della politica). Insomma: un governo non più "di parte", ma singolarmente "super partes", e quindi autorevole ed efficace non a dispetto ma in considerazione esattamente della sua natura non rappresentativa.
3. A garantire la persistenza del rapporto fra le due componenti del duopolio (governo tecnico e rappresentanza politica parlamentare) ci pensa l'oculata presenza del Presidente della Repubblica, cui non a caso, ovviamente, va ricondotta l'origine di tutta l'operazione. Il secondo pilastro - ma primo in ordine di tempo e d'importanza - è dunque la presidenza della Repubblica (non a caso gli editorialisti del Corriere della sera Panebianco e Galli della Loggia pretenderebbero che si dia veste anche formale alla innovazione, transitando dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale).
E' giocoforza, di conseguenza, osservare che in una situazione del genere il "duopolio", oltre che dal basso verso l'alto (cioè dal parlamento verso il governo), si genera anche dall'alto verso il basso, e cioè al vertice del potere. Senza voler togliere niente a nessuno (lo dico con autentico rispetto), è il Presidente della Repubblica che dà la linea e il Presidente del Consiglio la interpreta e realizza (il discorso di fine anno di Napolitano conferma in maniera decisiva questa impressione). Per dirla in modo meno tranchant: fra i due esiste un interscambio continuo, che discende da un'assoluta uniformità di vedute su questioni di fondo e da una precisa divisione dei compiti e delle funzioni (una cosa così non s'improvvisa, è evidente che era in gestazione da tempo: altrimenti non avrebbe potuto funzionare così bene).
Come è potuto accadere - e in Italia, poi - un mutamento così rapido e profondo? Qui entriamo nel vivo della questione. Il fatto è che, dietro l'uno come dietro l'altro di questi due protagonisti c'è l'Europa: ovvero, meglio, quell'insieme di valori, comportamenti, giudizi e pregiudizi, orientamenti di politica economica e visioni civili, che tradizionalmente promana dalla tecnocrazia di Bruxelles, più che dal ceto politico per ora dominante in Francia e in Germania: Sarkozy e Merkel hanno certo recitato la loro parte in questa vicenda italiana - non c'è bisogno di pensare alla famosa telefonata in cui la Merkel avrebbe chiesto a Napolitano la liquidazione di Berlusconi, per arrivare alle medesime conclusioni -, ma la stella polare dei nostri due eroi è a Bruxelles, non altrove. Come sia stato possibile che a questa assolutamente non posticcia convergenza di propositi e, direi, di culture politiche siano pervenuti contemporaneamente un raffinato politico iscritto per più di cinquant'anni al più grande partito comunista dell'Occidente e un professore di chiaro orientamento conservatore formato e cresciuto nella più autorevole università privata del nostro paese, è un'altra delle singolarità di questa storia, sulla quale non abbiamo né il tempo né lo spazio per qui soffermarci (ma che di certo, ai fini di migliore conoscenza storica, andrebbe meglio studiata).
4. Il "governo tecnico" prodotto da questo duplice, inedito duopolio del potere, è formato da personale proveniente dalle università (prevalentemente private, e anche questo occupa un suo posto di chiaro rilievo nel mio ragionamento), dalle banche, da iniziative imprenditoriali pubbliche e private, dal personale tecnico-amministrativo dei ministeri corrispondenti, ecc. ecc. Profilo generalmente dignitoso, in qualche caso molto elevato; il salto di stile rispetto al "governo politico" che lo ha preceduto (e anche di molti altri governi degli anni passati) è assolutamente marcato. Quando Monti è apparso per la prima volta in televisione a Strasburgo accanto a Merkel e Sarkozy, mi sono sorpreso a pensare quanto fossero buffi il francese Sarkozy e la germanica Merkel di fronte all'eleganza dignitosa e riservata dell'italiano Monti. E il mio italico cuore non ha potuto reprimere un sobbalzo d'orgoglio.
5. Un altro tratto accomuna i componenti del "governo dei tecnici" Monti: l'essere a fortissima (esclusiva?) caratterizzazione cattolica. Insomma: tutti questi "onesti uomini" ministri e queste "onestissime donne" ministre la domenica vanno a messa. Una cosa del genere non s'era mai vista neanche nei governi della fase di assoluta predominanza democristiana successivi al 1948, nei quali sedevano, e sia pure in posizione di assoluta subalternità, esponenti di chiara, anche se fragile, ascendenza laica. In sé e per sé la cosa non avrebbe motivo di suscitare reazioni. Tuttavia, se il fenomeno da individuale si fa collettivo, esso tende a far massa e a produrre effetti conseguenti (ci si può chiedere fin d'ora, infatti, quale sarebbe l'atteggiamento del governo Monti di fronte a un nuovo caso Englaro). Naturalmente questa spiccata connotazione religiosa non va inscritta automaticamente (mi pare) in nessuna reale o ipocrita vocazione partitica: e questa è un'ulteriore connotazione di novità, da cui il fenomeno appare contraddistinto. Ciò, infatti, apre un fronte di rapporti inediti con la Chiesa di Roma, non mediati, appunto, dai (spesso scomodi) filtri partitici, e perciò più diretti, e insieme più liberi e flessibili: la felice esperienza pluridecennale della Comunità di Sant'Egidio, non a caso assunta direttamente nell'organigramma di questo governo, potrebbe rappresentarne un utile precedente, e magari un ulteriore coagulo nei prossimi mesi, e forse anni. Non stupisce perciò che la Chiesa di Roma, dopo il lungo (e alquanto abnorme) idillio con il governo Berlusconi, si schieri urbi et orbi dietro il governo Monti: esso rappresenta per lei l'ottima chance per rimediare agli errori commessi e recuperare il tempo perduto in un vano inseguimento alla falena Berlusconi.
Il Governo Monti poggia dunque, almeno in questo suo inizio, su questi quattro formidabili pilastri: la sua propria "tecnicità", che va intesa, più che come superiore sapienza ed esperienza, come estraneità alle procedure e allo spirito del tradizionale gioco politico italiano: la Presidenza della Repubblica; l'Europa di Bruxelles; la Chiesa di Roma: autorità d'indiscutibile prestigio, tutte convergenti, in maniera probabilmente non casuale, verso il medesimo obiettivo.
6. Il governo Monti è stato costituito e messo alla prova esplicitamente per arrestare la catastrofe economica nazionale. Le misure di pronto intervento sono state assunte dal governo sotto la pressione di una formidabile urgenza: non si poteva fare di più e soprattutto di meglio nello spazio consentito dall'incalzare degli eventi (per lo stesso motivo è stato esorcizzato il ricorso alle urne, che sarebbe stato il normale metodo per far fronte a una crisi di governo parlamentare irrimediabile). Questo spiega perché tali misure siano apparse da subito così tradizionali: tagliare qualcosa a tutti invece che tagliare molto ad alcuni è, tecnicamente, molto più semplice, rapido ed efficace - se si prescinde, naturalmente, dalle reazioni delle grandi masse duramente toccate dalla manovra. Intervenire sulle pensioni, aumentare l'età pensionabile, tornare a tassare e/o tassare più violentemente la proprietà immobiliare senza distinzioni di ceto né di situazioni sociali poteva venire in mente (lo dico senza ironia) a ognuno di noi comuni mortali. E poi, a seguire: gas, energia elettrica, autostrade, benzina, ecc. ecc.: la logica è sempre la stessa, tutti, più o meno, vengono colpiti, perché il colpo, per così dire, sia universalmente doloroso ma non mortale per nessuno.
La tecnicità, in prima battuta, c'entra poco, mi sembra. Qui converrebbe piuttosto chiamare in causa un'altra, importante caratteristica di questo governo (dopo tecnicità e cattolicesimo): e cioè il fatto che questa tecnicità è a sua volta tutta inscritta nell'orbita di valori - culturali, ideali, economici ma soprattutto, mi verrebbe voglia di dire, antropologici - che caratterizzano l'attuale orizzonte tecnopolitico europeo. Se gli elettori dei rispettivi paesi mandassero a casa, come si spera, Sarkozy e Merkel, forse qualcosa potrebbe cambiare (ma intanto gli elettori spagnoli hanno mandato a casa Zapatero). Per ora, però, il quadro - ferreo quadro - è questo e tout se tient.
Dati quei parametri, quei meccanismi finanziari, quelle scelte civili oltre che economiche (bisognerebbe rendere obbligatorio a sinistra, e anche altrove, la lettura di Finanzcapitalismo di Luciano Gallino), il resto quasi automaticamente ne consegue, e il governo Monti non ha fatto per ora che interpretare questa logica. La «fase due» si profila incerta all'orizzonte. Se essa dovesse imperniarsi, come sembra, sulle liberalizzazioni dei taxi, delle farmacie e delle professioni (che una volta, ormai paradossalmente, si dicevano "liberali"), la tecnicità avrebbe dato per la seconda volta in pochi mesi una prova sostanzialmente modesta. Se invece, com'è pressoché inevitabile, dietro questa cortina sostanzialmente fumogena, si andassero a toccare i rapporti e i diritti del lavoro, il quadro logico-tecnico-politico di questo governo non potrebbe che risultarne ancora più coerente e, nella prospettiva, consolidato: ma anche, al tempo stesso, più energicamente e fino in fondo contestabile.
7. Portato in parlamento il governo Monti ha ricevuto una maggioranza schiacciante; portata in parlamento la manovra ha ricevuto una maggioranza alquanto inferiore, ma sempre straordinaria. Anche questo fenomeno non s'è mai visto in queste dimensioni nella storia dell'Italia unita (dico: dell'Italia unita) se si esclude ovviamente la "parentesi del fascismo". L'esperienza che da questo punto di vista gli si avvicina di più è quella del ministero guidato da Luigi Luzzatti (a modo suo anche lui un tecnico: era stato più volte in precedenza ministro del tesoro), il quale, fra il marzo 1910 e il marzo 1911, in un breve interregno della lunga egemonia giolittiana, ne formò uno composto da uomini di professioni politiche assolutamente eterogenee, con il compito, peculiarmente, di varare una nuova legge elettorale (che invece poi fu bocciata) ed ebbe alla Camera l'astronomica maggioranza di 386 voti favorevoli su 415 votanti. Naturalmente le affinità finiscono qui (anche se anche nel ministero Luzzatti, come in ogni governo «tecnico» che si rispetti, la carica di ministro degli Esteri fu ricoperta da un ambasciatore). Per quel che riguarda il ministero Monti, la cosa ha infatti una rilevanza politica ben maggiore. Il ministero Luzzatti ebbe la sua spropositata maggioranza in base ad una consultazione parlamentare in gran parte preventiva: il ministero Monti l'ha avuta solo dopo, in conseguenza della scelta delle principali forze politiche - fino a quel momento di maggioranza come d'opposizione - di convergere su di esso, una volta formato il governo.
Si presenta qui con forza, a far da quinto pilastro al governo Monti, un protagonista indispensabile e di primissimo piano di tutta la vicenda, e cioè l'Italia, del resto continuamente evocata nel corso del 2011, l'anno del suo centocinquantenario, a far da riferimento o da ammonimento a tutte le azioni politiche in corso nella Repubblica. Superfluo rammentare il ruolo decisivo esercitato anche in questo senso dal Presidente della Repubblica. E' in nome della salvezza della comune e unica patria di cui tutti disponiamo ("la Nostra Patria", appunto, non la patria di questo o di quello), che i partiti rappresentati in parlamento si sono, "con senso di responsabilità" (l'espressione è di Berlusconi, ma rapidissimamente è stata fatta propria da tutti gli altri protagonisti della storia unione), adattati all'inedita e in larga misura imprevista situazione. E' ovvio che una componente di natura nazionale (nazionalistica?) faccia parte di ogni esperienza emergenziale.
8. Ma non esistono più in Italia una Destra e una Sinistra? Non ci sono più diversità e contrapposizioni di logiche, programmi, culture, non ci sono più antagonismi storici, oggettivi, insormontabili, tra i diversi settori dell'elettorato? Qual è la mano santa che riconduce tutto questo all'unità di una sola proposta e manovra di governo? Nel determinare il fenomeno intervengono due fattori, provvisoriamente (solo provvisoriamente?) convergenti, l'uno di natura oggettiva, l'altro eminentemente soggettivo, o anche, a dir la verità, un poco artificioso.
Quello oggettivo, non c'è bisogno di descriverlo molto, è sotto gli occhi di tutti: lo spappolamento in Italia della struttura delle classi, la comparsa di un gigantesco, proteiforme contenitore sociale, dove sacche residue di vecchio proletariato industriale convivono gomito a gomito con fasce di piccola e piccolissima borghesia in sfacelo, e i soggetti dotati ancora di una precisa identità sociale si trovano isolati e circondati da masse anonime di consumatori sempre più allo stremo; e a far da collante a tutto questo una spropositata, crescente (e in larga misura motivata) sfiducia nella politica e nei suoi principali strumenti, i partiti e la cosiddetta "classe dirigente". È in situazioni del genere, contraddistinte da una congenita fragilità democratica, che il capitale rinuncia a servirsi delle tradizionali, ormai inefficaci e inconcludenti, mediazioni politiche e passa a gestire la cosa pubblica in proprio (non a caso pretendendo, come linea generale di condotta, che sia il pubblico ad adattarsi a regole e consuetudini del privato per poter funzionare).
Un governo il quale, per l'appunto, non è dichiaratamente né di destra né di sinistra, e cioè non è un "governo politico" nel senso tradizionale del termine, proprio perché è un "governo tecnico", può pescare consenso, oltre che fra ceti decisamente dominanti, nelle grandi masse prive di identità (la "moltitudine" negriana, ma risolutamente rovesciata in negativo), più di ogni altro settore sociale a rischio.
Su questa realtà oggettiva - e dunque non senza motivazioni e giustificazioni reali - interviene la manovra soggettiva (e artificiosa). I partiti che siedono attualmente in parlamento sono (salvo che qua e là, in zone limitate del paese) larve di organizzazione, non più in grado di secernere il grano dal loglio, perché la confusione sociale circostante si è riversata anche al loro interno (basti pensare al Pd e alle sue molteplici e contraddittorie anime: dalla giraffa comunista non è nato, come io auspicavo anni fa, un buon, normale cavallo occidentale, ma un grifone con la testa d'uccello e gli zoccoli da quadrupede). In questa situazione era normale che i principali protagonisti dell'aspro scontro politico-sociale dell'era berlusconiana convergessero sull'ipotesi dell'appoggio al medesimo "governo unico": non avevano scampo, perché non c'era scampo.
I primi effetti "politici" (questa volta da intendersi in senso tradizionale) di questa manovra sono stati la scomparsa dalla scena del patto di Vasto, l'unico ragionevole marchingegno pre-elettorale che il buon Bersani fosse riuscito con grande fatica a mettere in piedi (Di Pietro, che non ne ha mai sofferto, è stato improvvisamente precipitato nella partita del dubbio amletico; Vendola ha scelto di tacere, perché anche lui non aveva altra scelta); e l'emarginazione del gioco della Lega, che, non avendo a che fare né con la Presidenza della Repubblica, né con i professori universitari, né con l'Europa, né con la Chiesa, è stata costretta a ricacciarsi nei suoi provinciali nidi di partenza. Non irrilevante anche, in questo quadro, che Silvio Berlusconi, depravatissimo e deprecatissimo come Presidente del Consiglio, sia stato restituito a una sua tranquilla, rispettabile e da tutti rispettata onorabilità in quanto leader di uno dei partiti che sostengono l'attuale governo. Non ci sono più escort in giro, la vita privata del Cavaliere è diventata improvvisamente impenetrabile e ingiudicabile, i suoi atti non sono più gravati dal conflitto d'interesse e dalle grane giudiziarie: lo si consulta perciò normalmente e disinvoltamente e lo si ascolta e commenta con grande attenzione quando sussurra, con astuta parsimonia, le sue riflessioni sul bene del popolo e della Nazione. Per forza: se toglie l'appoggio, il castello genialmente creato crolla di colpo.
Quel che strategicamente emerge è dunque una colossale pulsione neocentrista: ossia la spinta a creare al Centro un'aggregazione imponente (non necessariamente un nuovo partito: anzi), che proprio nella tecnicità troverebbe il suo esemplare punto di riferimento e di "rappresentazione". Non a caso esulta più di chiunque altro Casini che, sia pure per ora non in prima persona, si vede idealmente proiettato (e senza sforzo alcuno)... al centro dell'operazione; e nel Pd trionfa di nuovo Walter Veltroni, il quale finalmente scorge le sue pulsioni antibersaniane di sempre colorarsi di realtà.
In Italia, storicamente, questa convergenza delle ali verso il Centro ha preso il nome di trasformismo: nella sua versione nobile una forma della politica destinata a sopperire alle carenze dei singoli partiti, trovando fra i rappresentanti del popolo, nei momenti considerati più gravi, quelli disposti a mettere l'interesse del paese al di sopra di quello delle singole fazioni politiche e, naturalmente (sebbene in accezione puramente o prevalentemente ideale) dei singoli stessi. Nel caso odierno potremmo dire di trovarci di fronte a un esempio di trasformismo di altissimo livello, di cui sono protagonisti non i singoli "individui" ma i partiti stessi, consapevoli di fare responsabilmente il bene del paese e, più sotterraneamente, di non avere neanche loro altra strada al di fuori di questa.
Se l'esperimento di Monti andasse avanti fino, oppure oltre, la scadenza elettorale del 2013, l'ipotesi neo-centrista qui ipotizzata arriverebbe ad avere manifestazioni spettacolari. Del resto, se c'è un solo programma valido, ed è quello che dall'Europa promana all'Italia, come potrebbe essere che la prospettiva del grande, anzi grandissimo Centro non si affiancasse a Presidenza della Repubblica, tecnicità, Europa, Chiesa e Italia, a fondare il sesto pilastro della manovra?
9. Il settimo pilastro della saggezza è di natura squisitamente ideologica e si avvale di strumenti mediatici poderosi. Non solo, infatti, la manovra, e il governo Monti che la raccomanda ed esprime, sono considerati e detti come necessari, e dunque indispensabili, e dunque inevitabili. Ma ciò che si presenta oggettivamente come necessario, e dunque indispensabile, e dunque inevitabile (e come tale potrebbe persino essere accettato da una quota di non consenzienti: insomma, l'invito a "baciare il rospo"), viene presentato come un "sistema di valori" destinato a fondare la "nuova Italia", attraverso l'adozione di generalizzati comportamenti conseguenti. È, insomma, la "coesione sociale" (Napolitano, Bagnasco), il "superamento degli steccati tradizionali" (Casini, Alfano), l'"equità" da raggiungere, però passando attraverso il "sacrificio" (tutti): e cioè, in sostanza, l'idea che il "passaggio" possa essere effettuato soltanto se restiamo tutti uniti, se attenuiamo al massimo i conflitti, e di conseguenza accettiamo più o meno in toto il pacchetto di misure e - di più, molto di più - la prospettiva sociale, politica e civile, che attraverso di esse ci viene proposta. Non vuole dire anche questo che ci vuole sempre meno politica (e conseguentemente, o primariamente, meno politici), se vogliamo andare avanti? Curiosamente, in politica (e i politici) sopravvivono ancora a livello locale e regionale, mentre a quello nazionale li si considera vieppiù superflui e distorcenti. E così il quadro è completo, e si può chiudere.
10. Il pacchetto della saggezza va assunto per intero, per essere efficace (anche la Chiesa di Roma? Sì, almeno nel senso che anche un laico deve riconoscere la funzione positiva che essa attualmente svolge nel grande concerto comune). Nessuna alternativa è considerata come ragionevolmente possibile. Persino quella modesta rivoluzione, puntualmente contemplata e regolamentata all'interno di qualsiasi sistema democratico, che è in caso di necessità, oltre che alle scadenze normali, il ricorso al voto, viene additata come da evitare.
C'è qualcosa di totalitario nel sistema finanzcapitalistico. Non solo ne sono sconosciuti, - e imprevedibili, e non sanzionabili, almeno finora - i grandi protagonisti, cui l'ultimo grande salto tecnologico, quello informatico, ha consentito di agire sempre e ovunque al di fuori di ogni controllo (la tecnica, nel corso del processo storico degli ultimi tre secoli è sempre stata, prevalentemente, dalla parte del capitale e contro il lavoro). Ma il dissenso, la prospettazione di una diversa strategia, persino la sacrosanta difesa di un interesse "particolare" - si tratti del diritto di rappresentanza sindacale in fabbrica, negato a coloro che non firmano accordi con l'impresa, come della difesa di una valle alpina dalla devastazione tecnologica, per giunta, come tutti sanno, economicamente improduttiva - vengono sempre più considerati atti ostili alla soluzione dei problemi di questo sistema e come tali aspramente combattuti. La difesa dei diritti umanitari e della persona riemerge solo ai margini del sistema: l'atteggiamento di solidarietà e di comprensione nei confronti degli immigrati e dei "reietti della terra", più volte recentemente e molto autorevolmente evocato, ne rappresenta una testimonianza (del resto, questo duplice e contraddittorio nesso è stato praticato per secoli con successo dalla Chiesa di Roma). Ma quel che accade in conseguenza delle logiche interne di sistema, e fra coloro che, anche senza affatto volerlo, ne sono principali protagonisti e vittime, questo viene affrontato e ridotto al rango di una pura, necessaria revisione sistemica: tanto più efficace - e ovviamente indiscutibile - quanto più il governo della cosa pubblica è oggi nelle mani di un manipolo di onest'uomini invece che di una banda di predoni di strada.
11. L'ultimo paragrafo di questo discorso riguarderebbe, ce ne avessi la forza e la capacità, l'assenza di una risposta critica e alternativa adeguata al livello dei problemi che mi sono sforzato di discutere (del resto, se la risposta non fosse rimasta assente per troppi decenni, i problemi non sarebbero ingigantiti fino a questo punto che ha assunto la bronzea parvenza dell'oggettività pura e semplice). Qualcosa, certo, è stato già detto ed enunciato; e altro si può, senza grande sforzo, elaborare e dire. Ma quel che mi parrebbe ora giusto sarebbe fissare con chiarezza il "punto di partenza" del nuovo discorso. L'altissimo concentrato di "saggezza", di cui io parlo, non è un'invenzione di parole: è un fatto drammaticamente reale e presenta dimensioni formidabili. Per fronteggiare questa "saggezza", poggiata su pilastri di tale consistenza, ci vuole un pensiero altrettanto globale e onnicomprensivo di quello su cui essa si sostiene e motiva: una "saggezza" persino più scaltrita e raffinata; e al tempo stesso più corposa e vicina al mondo dei normali esseri viventi, degli individui umani a loro volta pensanti, non, come oggi pare, semplici oggetti, distanziati, semintelligenti destinatari delle manovre altrui, quali che siano; e quindi, come tutte le vere "saggezze" capaci di cambiare il mondo e di arrestarne la presunta inevitabilità del corso, anche un po' folle (del resto come tutti sanno, c'è una logica in questa follia). E a questo pensiero, e a questa diversa "saggezza", deve corrispondere un'organizzazione adeguata (questo nesso non è semplicemente storico: è eterno; se non c'è, niente funzione). Da questi due punti di vista noi siamo ancora alle primissime battute: il vecchio che è in noi supera di gran lunga quello che ci fronteggia e sovrasta. Per colmare le lacune e i ritardi ci verranno decenni. Ma intanto bisognerebbe cominciare a farlo.
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30.1.12
Denaro, sterco del nulla
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano)
Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.
L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.
Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).
Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).
Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.
Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.
Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.
L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.
Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).
Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).
Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.
Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.
27.1.12
Sophie Nezri-Dufour: Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta
di Claudio Cazzola
Sophie Nezri-Dufour, Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta, Fernandel, Ravenna, 2011, pp. 156 €12.00
A mo’ di anticipazione possiamo dire che le funzioni sono straordinariamente poche e i personaggi straordinariamente numerosi.
Se si dovesse scegliere una sentenza proppiana atta a suggerire la chiave di accesso al lavoro indicato sopra, nessuna meglio della presente potrebbe prestarsi allo scopo, magari glossata dalla seguente a stretto giro di pagina [1]:
Gli elementi costanti, stabili della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano le parti componenti fondamentali della favola.
Muniti di tanto viatico, siamo ora attrezzati per delibare la ricerca della studiosa francese, la quale sottopone il bassaniano Libro terzo del Romanzo di Ferrara ad una disamina robustamente strutturata secondo le linee metodologiche appena riportate.
Il capitolo primo (pp. 13-47) è dedicato alla presentazione generale del tema, a partire dall’esordio fiabesco – il prologo etrusco a confronto con la magna domus – e, attraverso una prima identificazione dell’eroe io narrante e del suo antagonista Malnate, si giunge alla locandina ove sono inscritti gli aiutanti preziosi: Micòl ed il professor Ermanno padre suo in primis; a seguire, il rito di iniziazione che comporta la conoscenza del luogo sacro segreto, attraverso il viaggio come tentativo, da parte dell’eroe, di una conquista identitaria, che sarà, alla fine, la certezza che per lui si delinea un avvenire di scrittore (p. 47). Presentate in tal modo i confini esterni della narrazione, apprendiamo nel capitolo successivo (pp. 49-86) quali siano i luoghi simbolici e iniziatici (“regressus ad uterum” viene definita la discesa nella profondità della terra p. 51), ove non può mancare l’ostacolo obbligatorio della foresta incantata, attraverso l’attraversamento della quale si può giungere al castello, luogo sempre separato dal resto del mondo (p. 59). Ebbene, proprio all’interno del castro fortificato, là dove l’accesso è negato a chiunque non sia iniziato, è collocata la torre, vale a dire il recesso segreto adibito a stanza esclusiva della principessa Micòl, alla quale sono dedicate, et pour cause, pagine illuminanti (pp. 69-81), laddove si enuclea in modo egregio l’essenza profondamente ambigua di codesto personaggio, fata-ondina-strega nello stesso tempo – e la memoria di tutti vola alle epifanie femminili dell’Odissea, non ultima quella di Nausicaa, la fanciulla-nave (da giusta etimologia del nome proprio) che salva il naufrago da morte certa: e se vi è la figlia, ecco allora, accanto a lei il padre Alcinoo-Ermanno, non a caso chiamato, a p. 81, il vecchio re. Il quadrante cartesiano spazio-temporale si accampa, nel capitolo terzo (pp. 87-126), subito sotto il segno della atemporalità che regna nel luogo magico dei Finzi-Contini, mentre fuori gli eventi infuriano (p. 87). Se dunque la nozione del tempo è duplice e connotata da polarità opposte a seconda che ci si trovi all’interno ovvero all’esterno della magna domus, pure lo spazio allora subirà la medesima scissione inconciliabile, tanto più che il giardino di Micòl rappresenta l’Eden, il paradiso, da cui l’eroe sarà poi escluso, e alle cui delizie sognerà allora disperatamente di ritornare (pp. 95-96): in un simile hortus conclusus vivono figure altre rispetto al contesto civico della città di pianura. Fra esse spicca il mitico Perotti, guardiano-autista-tuttofare, riedizione del Caronte classico, accompagnato regolarmente dal cane Jor, Cerbero redivivo riadattato alla circostanza; la famiglia del Perotti, poi, che vive in un improbabile mondo bucolico popolato di eredi della Magna Mater mediterranea come la uxor Vittorina, capace di ammannire alla signorina (anzi, sgnurina, in lingua ferrarese) una minestra di fagioli davvero paradisiaca e la nuora, colta nell’atto sacrale dell’allattamento; senza trascurare altri esseri secondari, come se la foresta dei Finzi-Contini fosse popolata da una moltitudine di «folletti» misteriosi (p. 107). Giunta in tal modo al termine della tela con attenta acribia intrecciata, a guisa di Elena iliadica Sophie Nezri-Dufour mette il suggello della propria lettura originale attraverso il quarto ed ultimo capitolo, che già dal titolo (una fiaba particolare) rivela l’intento metodologico perseguito: l’adesione ai dettami proppiani altro non è che un mezzo, uno strumento, un tramite provvisorio per andare anche oltre la conquista consolidata dalla letteratura critica. Questo sconfinamento fertile per il lettore poggia sulle sobrie pagine finali, in particolare quelle dedicate alla assenza di lieto fine (pp. 128-131), ove è avvertibile a livello palmare quanta importanza rivesta, per Bassani, il magistero manzoniano dei Promessi Sposi, il cui capitolo trentottesimo rappresenta il trionfo della non fiaba, con la lucida negazione, appunto, di un finale positivo, quale segno indelebile di sfiducia nei confronti dell’agire umano. Se per don Lisander poi il varco verso la Salute può essere donato dalla grazia della Provvidenza, è certo che nel cosmo bassaniano una eventuale scialuppa di sopravvivenza, e personale e collettiva, alberga solamente nella scrittura [2].
Come il critico russo per la studiosa francese, così pure – si licet parvis componere magna – il ruolo di Sophie Nezri-Dufour per l’estensore di queste note, il quale, ispirato dal cassetto degli attrezzi generosamente offerto, ha seguito l’itinerario dell’io narrante a partire dalla lettura dei risultati scolastici di fine anno. Come è universalmente noto, nel passaggio dalla quarta alla quinta classe ginnasiale Giorgio Bassani subisce uno stop, provvisorio, in matematica, da riparare – come si diceva fino a qualche tempo fa – a settembre; simile sorte accade all’eroe del testo, il quale, alla vista di un numero vergato in rosso sui tabelloni degli scrutini accanto al suo nome, entra in crisi di identità, inforca la bicicletta e, invece di prendere la strada verso casa, si dirige dalla parte opposta senza apparente meta, con l’intenzione sola di fuggire il consorzio umano – premessa indispensabile per l’imminente viaggio nell’Aldilà. Vaga dunque il nostro lungo le Mura degli Angeli, intorno alle quali deserto assoluto [3]:
In giro deserto assoluto. Il viottolo di terra battuta che, come un sonnambulo, avevo percorso fin lì da Porta San Giovanni, proseguiva serpeggiando fra i tronchi secolari verso Porta San Benedetto e la stazione ferroviaria. Mi sdraiai bocconi nell’erba accanto alla bicicletta, col viso che mi scottava nascosto fra le braccia. Aria calda e ventilata attorno al corpo disteso, desiderio esclusivo di rimanere il più a lungo possibile così, ad occhi chiusi. Nel coro narcotizzante delle cicale qualche suono non lontano spiccava isolato: un grido di gallo, uno sbattere di panni prodotto verosimilmente da una lavandaia attardatasi a fare bucato nell’acqua verdastra del canale Panfilio, e infine, vicinissimo, a pochi centimetri dall’orecchio, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità.
La scrittura non può essere, in codesto frangente, più bassaniana di così, dal punto di vista del labor limae, vale a dire quel controllo meticoloso e mai del tutto soddisfatto sia del repertorio lessicale sia della struttura sintattica. Intanto, preliminarmente, eliminazione totale di presenze antropiche, azione atta a favorire l’isolamento dell’eroe; in secondo luogo, la normale strada, via di comunicazione e di scambio urbano, è sostituita da un viottolo di terra battuta, con una significativa regressione ad uno stato pre-civile, laddove il varco non risponde ad una logica razionalizzante, visto che prosegue serpeggiando, e dunque si rivela prodotto più da intervento di animali alla ricerca di cibo che di un piano regolatore; infine, l’assunzione della posizione distesa a terra col volto rivolto verso il basso, il che vale essere disponibili ad una umiltà totale, precondizione necessaria per ricevere l’accoglienza di una esperienza misterica, chiusi gli occhi fisici al mondo. A questo punto, negata la vista materiale, viene esaltato l’aspetto auricolare, con l’innalzamento il più possibile delle antenne uditive, alle quali giungono tre (non sfugga il numero sacro per antonomasia) messaggi decisivi. Il primo proviene dal coro narcotizzante delle cicale, il cui stridio incessante e sempre uguale rimanda alle esibizioni dei coribanti ovvero delle baccanti, il corteo rumoreggiante e rimbombante che accompagna l’epifania del dio Dioniso-Bacco, la divinità dell’estasi, dell’uscita di testa, dell’abbandono della lucidità razionale; in secondo luogo, un grido di gallo, il quale, come suono emesso nel pomeriggio [4] annuncia mala ventura e catastrofe, secondo le credenze popolari ancora vive nel territorio ferrarese specie del contado; in terzo luogo, il tonfo cadenzato (una reminiscenza pascoliana?) dello sbattere di panni presso la riva del canale Panfilio, corso d’acqua che davvero esiste nella città di pianura, ma è sotterraneo, chiuso cioè in tombini sotto l’attuale viale Cavour che mena dal Castello Estense a fuori Porta San Benedetto verso la stazione ferroviaria, e dunque rivo infernale; infine, a conclusione dell’itinerario di avvicinamento all’organo corporeo qui esaltato, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità. Raggiungiamo qui il punto più controllato del contesto, vera e propria klimax della rappresentazione teatrale di una morte favolisticamente apparente ma non per questo meno veritiera: l’affievolirsi, lento ma inesorabile, del rumore prodotto dai cuscinetti a sfera della corona su cui insiste la catena in corrispondenza della ruota posteriore del mezzo di trasporto rinvia allo spegnersi di ogni contatto con il mondo materiale, privilegio appunto dell’eroe, che solo può accedere così all’Altro da Sé. Come Odisseo muore dopo il naufragio e solo un grido femmineo riesce a risvegliarlo per incontrare Nausicaa, così l’io narrante, ripulite le orecchie dalle scorie della vita quotidiana, stenta ad avvertire il suono, quasi impercettibile, della propria Kore, la fanciulla dell’Ade [5]:
«Pss.»
Mi svegliai di soprassalto.
«Pss!»
Alzai lentamente il capo, girandolo a sinistra, dalla parte del sole. Sbattei le palpebre. Chi mi chiamava?
Ecco, sempre attraverso l’esperienza auricolare, il contatto con il mondo dell’oltretomba, la cui guida sarà identificabile ancora più tardi, dopo aver ascoltato l’enunciato seguente [6]:
«Ehi, ma sei proprio anche cieco!», fece una voce allegra di ragazza.
La constatazione della cecità non appaia peregrina – non lasciamoci fuorviare dal tono apparentemente canzonatorio adottato dall’emittente –, trattandosi viceversa di una condizione degna del tropo alto-mimetico, vale a dire tipica di colui che viene privato della vista materiale per poter assumere altra vista, quella della visione. Non per niente altro Omero, il poeta sovrano per antonomasia, viene da sempre ritratto, e ritenuto, cieco, metamorfosi indispensabile per accogliere l’ispirazione sacra della Musa, e poter quindi compiere il Viaggio della conoscenza dentro di sé [7].
Note
[1] Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Einaudi, Torino, 1988, pp. 26-27.
[2] Ed in modo analogo si conclude la ricerca di Sophie Nezri-Dufour: «Legato all’inquietudine dell’esistenza e alla ricerca di senso, Il giardino, vero testo di saggezza, si assimilerebbe per questo quasi al “conte philosophique” settecentesco, pur ricollegandosi sempre alle radici primigenie della fiaba, dalla dimensione metaforica e magica. Ed è questo incontro originale che spiega anche il fascino delle pagine bassaniane, posto com’è all’origine di un discorso carico di immagini e di elementi meravigliosi, creatore di un microcosmo altamente poetico e fatato, e insieme ragione di una riflessione profonda sul senso della vita e sull’assurdità dell’esistenza, salvata forse solo dall’intervento della scrittura» (pp. 150-151).
[3] Da qui in poi si cita da Giorgio Bassani, Opere, a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano, 2001 [1998¹]. Siamo per l’esattezza a p. 352.
[4] Basti dire che verso le due del pomeriggio vagavo tuttora in bicicletta lungo le Mura degli Angeli ecc. (medesima pagina).
[5] Ivi, p. 353.
[6] Ivi, p. 354.
[7] Per il contesto e la continuazione di questa lettura mi permetto di rinviare al mio contributo Kore l’oscura: (in)seguendo Micòl, in Poscritto a Giorgio Bassani. Raccolta di saggi critici nel decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini e R. Blumenfeld, LED Edizioni Universitarie, Milano [di imminente pubblicazione].
Sophie Nezri-Dufour, Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta, Fernandel, Ravenna, 2011, pp. 156 €12.00
A mo’ di anticipazione possiamo dire che le funzioni sono straordinariamente poche e i personaggi straordinariamente numerosi.
Se si dovesse scegliere una sentenza proppiana atta a suggerire la chiave di accesso al lavoro indicato sopra, nessuna meglio della presente potrebbe prestarsi allo scopo, magari glossata dalla seguente a stretto giro di pagina [1]:
Gli elementi costanti, stabili della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano le parti componenti fondamentali della favola.
Muniti di tanto viatico, siamo ora attrezzati per delibare la ricerca della studiosa francese, la quale sottopone il bassaniano Libro terzo del Romanzo di Ferrara ad una disamina robustamente strutturata secondo le linee metodologiche appena riportate.
Il capitolo primo (pp. 13-47) è dedicato alla presentazione generale del tema, a partire dall’esordio fiabesco – il prologo etrusco a confronto con la magna domus – e, attraverso una prima identificazione dell’eroe io narrante e del suo antagonista Malnate, si giunge alla locandina ove sono inscritti gli aiutanti preziosi: Micòl ed il professor Ermanno padre suo in primis; a seguire, il rito di iniziazione che comporta la conoscenza del luogo sacro segreto, attraverso il viaggio come tentativo, da parte dell’eroe, di una conquista identitaria, che sarà, alla fine, la certezza che per lui si delinea un avvenire di scrittore (p. 47). Presentate in tal modo i confini esterni della narrazione, apprendiamo nel capitolo successivo (pp. 49-86) quali siano i luoghi simbolici e iniziatici (“regressus ad uterum” viene definita la discesa nella profondità della terra p. 51), ove non può mancare l’ostacolo obbligatorio della foresta incantata, attraverso l’attraversamento della quale si può giungere al castello, luogo sempre separato dal resto del mondo (p. 59). Ebbene, proprio all’interno del castro fortificato, là dove l’accesso è negato a chiunque non sia iniziato, è collocata la torre, vale a dire il recesso segreto adibito a stanza esclusiva della principessa Micòl, alla quale sono dedicate, et pour cause, pagine illuminanti (pp. 69-81), laddove si enuclea in modo egregio l’essenza profondamente ambigua di codesto personaggio, fata-ondina-strega nello stesso tempo – e la memoria di tutti vola alle epifanie femminili dell’Odissea, non ultima quella di Nausicaa, la fanciulla-nave (da giusta etimologia del nome proprio) che salva il naufrago da morte certa: e se vi è la figlia, ecco allora, accanto a lei il padre Alcinoo-Ermanno, non a caso chiamato, a p. 81, il vecchio re. Il quadrante cartesiano spazio-temporale si accampa, nel capitolo terzo (pp. 87-126), subito sotto il segno della atemporalità che regna nel luogo magico dei Finzi-Contini, mentre fuori gli eventi infuriano (p. 87). Se dunque la nozione del tempo è duplice e connotata da polarità opposte a seconda che ci si trovi all’interno ovvero all’esterno della magna domus, pure lo spazio allora subirà la medesima scissione inconciliabile, tanto più che il giardino di Micòl rappresenta l’Eden, il paradiso, da cui l’eroe sarà poi escluso, e alle cui delizie sognerà allora disperatamente di ritornare (pp. 95-96): in un simile hortus conclusus vivono figure altre rispetto al contesto civico della città di pianura. Fra esse spicca il mitico Perotti, guardiano-autista-tuttofare, riedizione del Caronte classico, accompagnato regolarmente dal cane Jor, Cerbero redivivo riadattato alla circostanza; la famiglia del Perotti, poi, che vive in un improbabile mondo bucolico popolato di eredi della Magna Mater mediterranea come la uxor Vittorina, capace di ammannire alla signorina (anzi, sgnurina, in lingua ferrarese) una minestra di fagioli davvero paradisiaca e la nuora, colta nell’atto sacrale dell’allattamento; senza trascurare altri esseri secondari, come se la foresta dei Finzi-Contini fosse popolata da una moltitudine di «folletti» misteriosi (p. 107). Giunta in tal modo al termine della tela con attenta acribia intrecciata, a guisa di Elena iliadica Sophie Nezri-Dufour mette il suggello della propria lettura originale attraverso il quarto ed ultimo capitolo, che già dal titolo (una fiaba particolare) rivela l’intento metodologico perseguito: l’adesione ai dettami proppiani altro non è che un mezzo, uno strumento, un tramite provvisorio per andare anche oltre la conquista consolidata dalla letteratura critica. Questo sconfinamento fertile per il lettore poggia sulle sobrie pagine finali, in particolare quelle dedicate alla assenza di lieto fine (pp. 128-131), ove è avvertibile a livello palmare quanta importanza rivesta, per Bassani, il magistero manzoniano dei Promessi Sposi, il cui capitolo trentottesimo rappresenta il trionfo della non fiaba, con la lucida negazione, appunto, di un finale positivo, quale segno indelebile di sfiducia nei confronti dell’agire umano. Se per don Lisander poi il varco verso la Salute può essere donato dalla grazia della Provvidenza, è certo che nel cosmo bassaniano una eventuale scialuppa di sopravvivenza, e personale e collettiva, alberga solamente nella scrittura [2].
Come il critico russo per la studiosa francese, così pure – si licet parvis componere magna – il ruolo di Sophie Nezri-Dufour per l’estensore di queste note, il quale, ispirato dal cassetto degli attrezzi generosamente offerto, ha seguito l’itinerario dell’io narrante a partire dalla lettura dei risultati scolastici di fine anno. Come è universalmente noto, nel passaggio dalla quarta alla quinta classe ginnasiale Giorgio Bassani subisce uno stop, provvisorio, in matematica, da riparare – come si diceva fino a qualche tempo fa – a settembre; simile sorte accade all’eroe del testo, il quale, alla vista di un numero vergato in rosso sui tabelloni degli scrutini accanto al suo nome, entra in crisi di identità, inforca la bicicletta e, invece di prendere la strada verso casa, si dirige dalla parte opposta senza apparente meta, con l’intenzione sola di fuggire il consorzio umano – premessa indispensabile per l’imminente viaggio nell’Aldilà. Vaga dunque il nostro lungo le Mura degli Angeli, intorno alle quali deserto assoluto [3]:
In giro deserto assoluto. Il viottolo di terra battuta che, come un sonnambulo, avevo percorso fin lì da Porta San Giovanni, proseguiva serpeggiando fra i tronchi secolari verso Porta San Benedetto e la stazione ferroviaria. Mi sdraiai bocconi nell’erba accanto alla bicicletta, col viso che mi scottava nascosto fra le braccia. Aria calda e ventilata attorno al corpo disteso, desiderio esclusivo di rimanere il più a lungo possibile così, ad occhi chiusi. Nel coro narcotizzante delle cicale qualche suono non lontano spiccava isolato: un grido di gallo, uno sbattere di panni prodotto verosimilmente da una lavandaia attardatasi a fare bucato nell’acqua verdastra del canale Panfilio, e infine, vicinissimo, a pochi centimetri dall’orecchio, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità.
La scrittura non può essere, in codesto frangente, più bassaniana di così, dal punto di vista del labor limae, vale a dire quel controllo meticoloso e mai del tutto soddisfatto sia del repertorio lessicale sia della struttura sintattica. Intanto, preliminarmente, eliminazione totale di presenze antropiche, azione atta a favorire l’isolamento dell’eroe; in secondo luogo, la normale strada, via di comunicazione e di scambio urbano, è sostituita da un viottolo di terra battuta, con una significativa regressione ad uno stato pre-civile, laddove il varco non risponde ad una logica razionalizzante, visto che prosegue serpeggiando, e dunque si rivela prodotto più da intervento di animali alla ricerca di cibo che di un piano regolatore; infine, l’assunzione della posizione distesa a terra col volto rivolto verso il basso, il che vale essere disponibili ad una umiltà totale, precondizione necessaria per ricevere l’accoglienza di una esperienza misterica, chiusi gli occhi fisici al mondo. A questo punto, negata la vista materiale, viene esaltato l’aspetto auricolare, con l’innalzamento il più possibile delle antenne uditive, alle quali giungono tre (non sfugga il numero sacro per antonomasia) messaggi decisivi. Il primo proviene dal coro narcotizzante delle cicale, il cui stridio incessante e sempre uguale rimanda alle esibizioni dei coribanti ovvero delle baccanti, il corteo rumoreggiante e rimbombante che accompagna l’epifania del dio Dioniso-Bacco, la divinità dell’estasi, dell’uscita di testa, dell’abbandono della lucidità razionale; in secondo luogo, un grido di gallo, il quale, come suono emesso nel pomeriggio [4] annuncia mala ventura e catastrofe, secondo le credenze popolari ancora vive nel territorio ferrarese specie del contado; in terzo luogo, il tonfo cadenzato (una reminiscenza pascoliana?) dello sbattere di panni presso la riva del canale Panfilio, corso d’acqua che davvero esiste nella città di pianura, ma è sotterraneo, chiuso cioè in tombini sotto l’attuale viale Cavour che mena dal Castello Estense a fuori Porta San Benedetto verso la stazione ferroviaria, e dunque rivo infernale; infine, a conclusione dell’itinerario di avvicinamento all’organo corporeo qui esaltato, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità. Raggiungiamo qui il punto più controllato del contesto, vera e propria klimax della rappresentazione teatrale di una morte favolisticamente apparente ma non per questo meno veritiera: l’affievolirsi, lento ma inesorabile, del rumore prodotto dai cuscinetti a sfera della corona su cui insiste la catena in corrispondenza della ruota posteriore del mezzo di trasporto rinvia allo spegnersi di ogni contatto con il mondo materiale, privilegio appunto dell’eroe, che solo può accedere così all’Altro da Sé. Come Odisseo muore dopo il naufragio e solo un grido femmineo riesce a risvegliarlo per incontrare Nausicaa, così l’io narrante, ripulite le orecchie dalle scorie della vita quotidiana, stenta ad avvertire il suono, quasi impercettibile, della propria Kore, la fanciulla dell’Ade [5]:
«Pss.»
Mi svegliai di soprassalto.
«Pss!»
Alzai lentamente il capo, girandolo a sinistra, dalla parte del sole. Sbattei le palpebre. Chi mi chiamava?
Ecco, sempre attraverso l’esperienza auricolare, il contatto con il mondo dell’oltretomba, la cui guida sarà identificabile ancora più tardi, dopo aver ascoltato l’enunciato seguente [6]:
«Ehi, ma sei proprio anche cieco!», fece una voce allegra di ragazza.
La constatazione della cecità non appaia peregrina – non lasciamoci fuorviare dal tono apparentemente canzonatorio adottato dall’emittente –, trattandosi viceversa di una condizione degna del tropo alto-mimetico, vale a dire tipica di colui che viene privato della vista materiale per poter assumere altra vista, quella della visione. Non per niente altro Omero, il poeta sovrano per antonomasia, viene da sempre ritratto, e ritenuto, cieco, metamorfosi indispensabile per accogliere l’ispirazione sacra della Musa, e poter quindi compiere il Viaggio della conoscenza dentro di sé [7].
Note
[1] Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Einaudi, Torino, 1988, pp. 26-27.
[2] Ed in modo analogo si conclude la ricerca di Sophie Nezri-Dufour: «Legato all’inquietudine dell’esistenza e alla ricerca di senso, Il giardino, vero testo di saggezza, si assimilerebbe per questo quasi al “conte philosophique” settecentesco, pur ricollegandosi sempre alle radici primigenie della fiaba, dalla dimensione metaforica e magica. Ed è questo incontro originale che spiega anche il fascino delle pagine bassaniane, posto com’è all’origine di un discorso carico di immagini e di elementi meravigliosi, creatore di un microcosmo altamente poetico e fatato, e insieme ragione di una riflessione profonda sul senso della vita e sull’assurdità dell’esistenza, salvata forse solo dall’intervento della scrittura» (pp. 150-151).
[3] Da qui in poi si cita da Giorgio Bassani, Opere, a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano, 2001 [1998¹]. Siamo per l’esattezza a p. 352.
[4] Basti dire che verso le due del pomeriggio vagavo tuttora in bicicletta lungo le Mura degli Angeli ecc. (medesima pagina).
[5] Ivi, p. 353.
[6] Ivi, p. 354.
[7] Per il contesto e la continuazione di questa lettura mi permetto di rinviare al mio contributo Kore l’oscura: (in)seguendo Micòl, in Poscritto a Giorgio Bassani. Raccolta di saggi critici nel decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini e R. Blumenfeld, LED Edizioni Universitarie, Milano [di imminente pubblicazione].
26.1.12
Galapagos (Il Manifesto)
È una piramide con una base sempre più larga e un vertice più sottile quella che emerge dai dati di Bankitalia sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza. Solo un paio di dati: nel 2010 il 14,4% della popolazione era ufficialmente in una situazione di povertà a causa di un reddito insufficiente. Il tutto mentre il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale stimata in circa 9 mila miliardi di euro. Semplificando, circa 6 milioni di italiani possiedono - in media - una ricchezza di quasi 4200 miliardi, circa 700 mila euro a testa, contro 54 milioni di persone che - sempre in media - hanno un patrimonio di circa 90 mila euro. Come dire: il 10-20 per cento delle persone più povere non ha nulla di ricchezza e il 70-80 per cento ha un patrimonio che corrisponde al valore di una abitazioni modesta. Che ovviamente non tutti hanno, visto che il 21% delle famiglie vive in affitto.
C'è un altro aspetto che colpisce: negli ultimi 20 anni il reddito dell'Italia è cresciuto poco, ma il reddito reale dei lavoratori autonomi è aumentato del 15,7%, quasi 5 volte di più del 3,3% dei lavoratori dipendenti. Siamo di fronte a una gigantesca redistribuzione dei redditi a sfavore del lavoratori dipendenti. La specificità della crisi italiana è in questi dati che confermano come la progressiva pauperizzazione del lavoro dipendente a fronte di uno stato sociale sempre meno generoso è alla base della caduta della domanda. Cioè dei consumi, anche quelli alimentari, come confermano i dati Istat sulla vendite al dettaglio.
Ma c'è ancora un altro dato - non di Bankitalia - che completa il quadro: ieri mattina Attilio Befera, il massimo dirigente dell'agenzia delle entrate, ha denunciato che in Italia l'evasione fiscale tocca i 120 miliardi l'anno. E non sono certo i lavoratori dipendenti (anche se a volte lo fanno) e i pensionati a evadere. Insomma, chi più guadagna più evade. E questo spiega perché molti ristoranti sono pieni e ci siano in circolazione centinaia di migliaia di auto di lusso.
Da questi numeri è possibile trarre alcune conclusioni che dovrebbero fare da guida alla politica economica della sinistra. La prima è che la lotta all'evasione deve essere l'obiettivo prioritario: se non aumenta il gettito fiscale non sarà possibile diminuire il cuneo fiscale che penalizza i lavoratori dipendenti e far pagare meno tasse a loro e ai pensionati. E senza recuperare i soldi degli evasori non sarà possibile aumentare la spesa sociale e i consumi privati di milioni di persone. Di più: la distribuzione della ricchezza indica con chiarezza che è necessario procedere a una riforma fiscale che alleggerisca la pressione sui redditi e aumenti quella sul patrimonio.
Quanto ai salari, non aumentano solo con la diminuzione della pressione fiscale, ma anche con l'aumento della produttività. Attenzione, però: la produttività non deve aumentare «strizzando» ancora di più i lavoratori con innovazioni di processo, magari con l'aggiunta del ricatto della flessibilità in uscita, ma deve essere ottenuta attraverso innovazioni di prodotto. Perché - ce lo spiegano i dati annuali di Mediobanca - nelle imprese che innovano che i profitti, ma anche i salari, sono più alti. Ma la sinistra è convinta che il programma di Monti si muova in questa direzione?
È una piramide con una base sempre più larga e un vertice più sottile quella che emerge dai dati di Bankitalia sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza. Solo un paio di dati: nel 2010 il 14,4% della popolazione era ufficialmente in una situazione di povertà a causa di un reddito insufficiente. Il tutto mentre il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale stimata in circa 9 mila miliardi di euro. Semplificando, circa 6 milioni di italiani possiedono - in media - una ricchezza di quasi 4200 miliardi, circa 700 mila euro a testa, contro 54 milioni di persone che - sempre in media - hanno un patrimonio di circa 90 mila euro. Come dire: il 10-20 per cento delle persone più povere non ha nulla di ricchezza e il 70-80 per cento ha un patrimonio che corrisponde al valore di una abitazioni modesta. Che ovviamente non tutti hanno, visto che il 21% delle famiglie vive in affitto.
C'è un altro aspetto che colpisce: negli ultimi 20 anni il reddito dell'Italia è cresciuto poco, ma il reddito reale dei lavoratori autonomi è aumentato del 15,7%, quasi 5 volte di più del 3,3% dei lavoratori dipendenti. Siamo di fronte a una gigantesca redistribuzione dei redditi a sfavore del lavoratori dipendenti. La specificità della crisi italiana è in questi dati che confermano come la progressiva pauperizzazione del lavoro dipendente a fronte di uno stato sociale sempre meno generoso è alla base della caduta della domanda. Cioè dei consumi, anche quelli alimentari, come confermano i dati Istat sulla vendite al dettaglio.
Ma c'è ancora un altro dato - non di Bankitalia - che completa il quadro: ieri mattina Attilio Befera, il massimo dirigente dell'agenzia delle entrate, ha denunciato che in Italia l'evasione fiscale tocca i 120 miliardi l'anno. E non sono certo i lavoratori dipendenti (anche se a volte lo fanno) e i pensionati a evadere. Insomma, chi più guadagna più evade. E questo spiega perché molti ristoranti sono pieni e ci siano in circolazione centinaia di migliaia di auto di lusso.
Da questi numeri è possibile trarre alcune conclusioni che dovrebbero fare da guida alla politica economica della sinistra. La prima è che la lotta all'evasione deve essere l'obiettivo prioritario: se non aumenta il gettito fiscale non sarà possibile diminuire il cuneo fiscale che penalizza i lavoratori dipendenti e far pagare meno tasse a loro e ai pensionati. E senza recuperare i soldi degli evasori non sarà possibile aumentare la spesa sociale e i consumi privati di milioni di persone. Di più: la distribuzione della ricchezza indica con chiarezza che è necessario procedere a una riforma fiscale che alleggerisca la pressione sui redditi e aumenti quella sul patrimonio.
Quanto ai salari, non aumentano solo con la diminuzione della pressione fiscale, ma anche con l'aumento della produttività. Attenzione, però: la produttività non deve aumentare «strizzando» ancora di più i lavoratori con innovazioni di processo, magari con l'aggiunta del ricatto della flessibilità in uscita, ma deve essere ottenuta attraverso innovazioni di prodotto. Perché - ce lo spiegano i dati annuali di Mediobanca - nelle imprese che innovano che i profitti, ma anche i salari, sono più alti. Ma la sinistra è convinta che il programma di Monti si muova in questa direzione?
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16.1.12
Collisione in vista per la Banca europea qualche consiglio per evitare lo schianto
Bruno Amoroso * (Il Manifesto)
Avviso ai naviganti: la nave Euro si sta schiantando contro un iceberg. Bisogna sganciare alcuni missili. Fuori di metafora, nazionalizzare le banche e riprendere il controllo della sovranità monetaria.
Il Titanic Euro è ormai a vista d'occhio dalla collisione con l'iceberg della speculazione finanziaria internazionale. A bordo il capitano, Mario Draghi, con l'ausilio del personale precario e dei mozzi - Merkel, Sarkozy e Monti - mantiene la calma e si accinge a pulire i vetri della nave con i pannicelli caldi chiamati «liberalizzazioni» e «disciplina di bilancio», e del «mercato del lavoro».
Qualche telefonata arriva dalla terra ferma dagli attoniti osservatori (Wolf, Galbraith, Krugman ecc.), che raccomandano di mettere in mare le scialuppe di salvataggio per salvare quanti più paesi è possibile e tentare di fermare l'iceberg prima dello scontro. Mario Draghi e i suoi mozzi hanno già pronti gli elicotteri per il loro salvataggio.
Le misure estreme da prendere - estreme perché ormai è già tardi - sono quelle di inviare dei missili ben mirati che frantumino l'iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l'Europa dalla zona dell'Ue alla zona della Grande Germania. Il primo missile, che potrebbe partire dall'Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale.
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d'artificio dei taxisti e delle farmacie. Il secondo missile va diretto alla Banca d'Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi «Ministeri del tesoro pubblico».
Il terzo missile - lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia - deve colpire le società di rating, accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della speculazione. Queste società vanno bandite dall'Europa (la guardia di finanza e l'antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando così la lotta all'evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne seguono gli indirizzi vanno immediatamente «sospese» come si fa normalmente quando interviene una disturbativa d'asta a scopo speculativo.
Il quarto missile non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l'annullamento di tutti gli impegni su titoli ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 % max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la garanzia solidale dell'Ue.
Le ricchezze così recuperate devono costituire la base di un nuovo patto sociale tra i paesi europei che preveda, insieme alla ricostituzione di un «serpente monetario flessibile», quella di una «divisione europea del lavoro» che metta al bando le mire di competizione e rivalità neocoloniali della vecchia Europa, sia dentro che fuori dei suoi confini, e ne fissi invece le scelte produttive dentro un programma di cooperazione internazionale che parta dal riconoscimento delle priorità di crescita e organizzazione sociale, concordate in modo sinergico con le grandi aree mondiali (Asia, America latina, Africa, ecc.). Questa può essere la base per una riorganizzazione delle istituzioni europee che avvii un reale processo d'istituzione dell'Europa federale. Un programma minimo, senza il quale i cittadini europei, colori che si salveranno dall'inabissamento della nave Euro saranno ridotti al ruolo di lavavetri di una nave sul fondo del Mediterraneo.
* Centro studi Federico Caffè
14.1.12
La beffa della caserma «svenduta» e il triplo affare dei francesi
Gian Antonio Stella (Corriere)
Dopo 7 anni lo Stato la rivuole (sborsando il doppio) L'Università
«SPQR: Sono Pazzi Questi Risanatori», ridono i francesi di Bnp Paribas, facendo il verso ad Asterix, se pensano a certe cartolarizzazioni all'italiana: traffico di coca e d'armi a parte, dove lo trovi un investimento che renda in 7 anni oltre il doppio del capitale come la caserma «Miale» di Foggia? Una pazzia da manuale. O da inchiesta penale.
«Tesoro: immobili; no "svendopoli", cambio d'uso per valorizzare», titolava l'Ansa il 23 agosto 2001 spiegando che Giulio Tremonti voleva risanare i conti a partire dalla vendita di migliaia e migliaia di edifici di proprietà pubblica come certi edifici militari nel quartiere Prati di Roma e tanti altri sparsi per la penisola. Un anno dopo, un'altra Ansa spiegava che era in arrivo «la più grande cartolarizzazione mai fatta in Europa».
Si è trattato, in realtà, di due percorsi paralleli. Uno seguito con l'obiettivo di vendere, nelle più rosee speranze, 90 mila immobili di vari enti pubblici e portato avanti attraverso la costituzione di un paio di società in Lussemburgo («Con un capitale di 10 mila euro, due fondazioni olandesi come azioniste e un cittadino scozzese di nome Gordon Burrows alla presidenza», rivelò l'Espresso ) dal nome sventurato (Scip: Società cartolarizzazione immobili pubblici) ideale per i titoli giornalistici sugli edifici «scippati». L'altro con la parallela dismissione di strutture militari.
Quale sia stato l'esito della prima operazione lo hanno spiegato varie inchieste giornalistiche («un saldo negativo di 1,7 miliardi») e il procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci. Il quale un paio d'anni fa, bollando il risultato come «poco lusinghiero» (disastroso, con parole non «magistratesi») invitò chi volesse insistere a pensarci settanta volte sette giacché una nuova «alienazione deve essere attentamente dosata nel tempo e studiata in modo da conseguire risultati migliori di quelli derivanti dalle recenti cartolarizzazioni che a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». Molto meno della metà.
Quanto alle caserme, il tragicomico esempio foggiano è illuminante. Dovete dunque sapere che a Foggia, a due passi dalla facoltà di Giurisprudenza e a poche centinaia di metri dal cuore storico che ruota intorno alla cattedrale barocca della Beata Maria Vergine Assunta in cielo, c'è un grande edificio ottocentesco ancora in ottime condizioni, la «Caserma Miale da Troia».
Nelle foto dall'alto e su Google Maps è inconfondibile: è il palazzo più grande del centro cittadino. Elegante, tre piani, si sviluppa su circa 16 mila metri quadri coperti e ha un cortile interno di altri 6.500, pari (si calcola com'è noto il 25%) a un totale di 17.625 metri quadri. Valore? Altissimo, dice l'attuale proprietario trattando la vendita all'Università di Foggia: dove lo trovi uno spazio altrettanto grande e appetibile nel cuore del capoluogo?
Eppure grazie alla «cartolizzazione» tremontiana, quel proprietario, il Fondo «Patrimonio Uno» gestito dai parigini di «Bnp Paribas Rei Sgr», comprò poco più di sei anni fa quel ben di Dio (all'interno di un pacchetto con altri edifici) per una cifra intorno agli 11 milioni di euro. Pari, per capirsi, a circa 624 euro al metro quadro. Un affarone.
Affarone raddoppiato dalla decisione parallela del ministero degli Interni di prendere contestualmente in affitto la caserma venduta dal Demanio per poterci lasciare dentro la Scuola di polizia fino al 2023. Canone concordato: un milione e 160 mila euro l'anno. Facciamo i conti in tasca ai francesi? Comprata per 11 milioni, la caserma avrebbe loro fruttato in soli 18 anni (un battito di ciglia, per una banca) la bellezza di quasi 21 milioni di affitti (per l'esattezza 20.880.000) dopo di che sarebbe rimasta comunque loro la proprietà rivalutata.
Rovesciamo le parti? Lo Stato italiano fece la parte del giocatore impazzito che, rovinato dal demone febbrile della roulette o del poker, svende a un usuraio la casa in cui vive per prenderla poi in affitto a un canone stratosferico. Un delirio. Ma l'ingloriosa avventura finanziaria della Miale non era ancora finita. Due anni dopo (solo due anni!) aver firmato il contratto di vendita e di affitto, infatti, il Viminale ha deciso che la Scuola di polizia, lì dove stava, a quei prezzi, non gli serviva più. E l'ha chiusa. Risultato: l'edificio è oggi utilizzato solo in minima parte (diciamo un dieci o al massimo un quindici per cento) per la mensa della Questura, per una foresteria di poche stanze e per le esercitazioni del poligono di tiro. E intanto i cittadini italiani continuano a portare sul gobbo il canone stratosferico di 96.666 euro al mese: 3.178 al giorno.
A metterci una pezza, come dicevamo, è arrivata l'Università di Foggia. La quale, come spiega il rettore Giuliano Volpe, il primo a essere scandalizzato per la vicenda, potrebbe trarre «enormi vantaggi dall'acquisizione di questa struttura (nelle immediate vicinanze delle Facoltà di Giurisprudenza e di Economia), per la sistemazione del Rettorato, dell'amministrazione centrale e poi di aule, laboratori, servizi agli studenti, residenze e così via». L'altro ieri se ne è discusso al Cipe e grazie ai «fondi Fas» nell'ambito del «Piano per il Sud» pare che la cosa, per la quale anche Nichi Vendola si è speso molto, possa andare in porto.
Prezzo concordato per il «riacquisto» da parte dello Stato: 16 milioni e mezzo di euro. Cinque e mezzo in più di quelli ricavati dalla vendita del 2005. Ma poi, ammiccano i francesi fregandosi le mani, c'è da contare gli affitti incassati in questi sei anni e passa. Facciamo cifra tonda? Sette milioni di euro di canoni. Per un totale (16,5+7) di 23,5 milioni. Il doppio abbondante di quanto era stato investito. Visto dalla parte nostra: abbiamo fatto la parte dei baccalà. Ammesso, si capisce, che si sia trattato di baccalà sventurati ma in buonafede e non baccalà furbetti ingolositi da qualche «esca» inconfessabile...
E dopo aver visto svendere ai soliti «amici» attici a San Pietro da 113 mila euro e case al Colosseo da 177 mila e poi caserme come la Miale con le modalità descritte vogliamo venderci ancora i gioielli di famiglia? O cambia tutto o mai più, così. Mai più.
Dopo 7 anni lo Stato la rivuole (sborsando il doppio) L'Università
«SPQR: Sono Pazzi Questi Risanatori», ridono i francesi di Bnp Paribas, facendo il verso ad Asterix, se pensano a certe cartolarizzazioni all'italiana: traffico di coca e d'armi a parte, dove lo trovi un investimento che renda in 7 anni oltre il doppio del capitale come la caserma «Miale» di Foggia? Una pazzia da manuale. O da inchiesta penale.
«Tesoro: immobili; no "svendopoli", cambio d'uso per valorizzare», titolava l'Ansa il 23 agosto 2001 spiegando che Giulio Tremonti voleva risanare i conti a partire dalla vendita di migliaia e migliaia di edifici di proprietà pubblica come certi edifici militari nel quartiere Prati di Roma e tanti altri sparsi per la penisola. Un anno dopo, un'altra Ansa spiegava che era in arrivo «la più grande cartolarizzazione mai fatta in Europa».
Si è trattato, in realtà, di due percorsi paralleli. Uno seguito con l'obiettivo di vendere, nelle più rosee speranze, 90 mila immobili di vari enti pubblici e portato avanti attraverso la costituzione di un paio di società in Lussemburgo («Con un capitale di 10 mila euro, due fondazioni olandesi come azioniste e un cittadino scozzese di nome Gordon Burrows alla presidenza», rivelò l'Espresso ) dal nome sventurato (Scip: Società cartolarizzazione immobili pubblici) ideale per i titoli giornalistici sugli edifici «scippati». L'altro con la parallela dismissione di strutture militari.
Quale sia stato l'esito della prima operazione lo hanno spiegato varie inchieste giornalistiche («un saldo negativo di 1,7 miliardi») e il procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci. Il quale un paio d'anni fa, bollando il risultato come «poco lusinghiero» (disastroso, con parole non «magistratesi») invitò chi volesse insistere a pensarci settanta volte sette giacché una nuova «alienazione deve essere attentamente dosata nel tempo e studiata in modo da conseguire risultati migliori di quelli derivanti dalle recenti cartolarizzazioni che a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». Molto meno della metà.
Quanto alle caserme, il tragicomico esempio foggiano è illuminante. Dovete dunque sapere che a Foggia, a due passi dalla facoltà di Giurisprudenza e a poche centinaia di metri dal cuore storico che ruota intorno alla cattedrale barocca della Beata Maria Vergine Assunta in cielo, c'è un grande edificio ottocentesco ancora in ottime condizioni, la «Caserma Miale da Troia».
Nelle foto dall'alto e su Google Maps è inconfondibile: è il palazzo più grande del centro cittadino. Elegante, tre piani, si sviluppa su circa 16 mila metri quadri coperti e ha un cortile interno di altri 6.500, pari (si calcola com'è noto il 25%) a un totale di 17.625 metri quadri. Valore? Altissimo, dice l'attuale proprietario trattando la vendita all'Università di Foggia: dove lo trovi uno spazio altrettanto grande e appetibile nel cuore del capoluogo?
Eppure grazie alla «cartolizzazione» tremontiana, quel proprietario, il Fondo «Patrimonio Uno» gestito dai parigini di «Bnp Paribas Rei Sgr», comprò poco più di sei anni fa quel ben di Dio (all'interno di un pacchetto con altri edifici) per una cifra intorno agli 11 milioni di euro. Pari, per capirsi, a circa 624 euro al metro quadro. Un affarone.
Affarone raddoppiato dalla decisione parallela del ministero degli Interni di prendere contestualmente in affitto la caserma venduta dal Demanio per poterci lasciare dentro la Scuola di polizia fino al 2023. Canone concordato: un milione e 160 mila euro l'anno. Facciamo i conti in tasca ai francesi? Comprata per 11 milioni, la caserma avrebbe loro fruttato in soli 18 anni (un battito di ciglia, per una banca) la bellezza di quasi 21 milioni di affitti (per l'esattezza 20.880.000) dopo di che sarebbe rimasta comunque loro la proprietà rivalutata.
Rovesciamo le parti? Lo Stato italiano fece la parte del giocatore impazzito che, rovinato dal demone febbrile della roulette o del poker, svende a un usuraio la casa in cui vive per prenderla poi in affitto a un canone stratosferico. Un delirio. Ma l'ingloriosa avventura finanziaria della Miale non era ancora finita. Due anni dopo (solo due anni!) aver firmato il contratto di vendita e di affitto, infatti, il Viminale ha deciso che la Scuola di polizia, lì dove stava, a quei prezzi, non gli serviva più. E l'ha chiusa. Risultato: l'edificio è oggi utilizzato solo in minima parte (diciamo un dieci o al massimo un quindici per cento) per la mensa della Questura, per una foresteria di poche stanze e per le esercitazioni del poligono di tiro. E intanto i cittadini italiani continuano a portare sul gobbo il canone stratosferico di 96.666 euro al mese: 3.178 al giorno.
A metterci una pezza, come dicevamo, è arrivata l'Università di Foggia. La quale, come spiega il rettore Giuliano Volpe, il primo a essere scandalizzato per la vicenda, potrebbe trarre «enormi vantaggi dall'acquisizione di questa struttura (nelle immediate vicinanze delle Facoltà di Giurisprudenza e di Economia), per la sistemazione del Rettorato, dell'amministrazione centrale e poi di aule, laboratori, servizi agli studenti, residenze e così via». L'altro ieri se ne è discusso al Cipe e grazie ai «fondi Fas» nell'ambito del «Piano per il Sud» pare che la cosa, per la quale anche Nichi Vendola si è speso molto, possa andare in porto.
Prezzo concordato per il «riacquisto» da parte dello Stato: 16 milioni e mezzo di euro. Cinque e mezzo in più di quelli ricavati dalla vendita del 2005. Ma poi, ammiccano i francesi fregandosi le mani, c'è da contare gli affitti incassati in questi sei anni e passa. Facciamo cifra tonda? Sette milioni di euro di canoni. Per un totale (16,5+7) di 23,5 milioni. Il doppio abbondante di quanto era stato investito. Visto dalla parte nostra: abbiamo fatto la parte dei baccalà. Ammesso, si capisce, che si sia trattato di baccalà sventurati ma in buonafede e non baccalà furbetti ingolositi da qualche «esca» inconfessabile...
E dopo aver visto svendere ai soliti «amici» attici a San Pietro da 113 mila euro e case al Colosseo da 177 mila e poi caserme come la Miale con le modalità descritte vogliamo venderci ancora i gioielli di famiglia? O cambia tutto o mai più, così. Mai più.
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7.1.12
6.1.12
La destra di classe difende gli evasori
Gad Lerner (La Repubblica)
Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.
Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.
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