Ernesto Galli della Loggia (corriere.it)
Il fallimento del Centro registrato alle recenti elezioni - e dunque, per logica conseguenza, il fallimento del personale di governo alla guida del Paese per oltre un anno - dice molte cose sulle caratteristiche delle élite italiane. Proprio perché per la sua parte più significativa è da queste élite che proveniva un tale personale di governo.
L'aspetto che più colpisce è la scarsa conoscenza da esso dimostrata dei meccanismi della politica e quindi la sua scarsa capacità di leadership . Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano riusciti in alcun modo ad accompagnare all'adozione di provvedimenti tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l'idea che tali provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti» politicamente ai cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità sociale). Invece la democrazia - cioè il regime del suffragio universale e dell'«uomo della strada» - è precisamente questo: e lo è tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti.
Allora più che mai coloro che governano hanno l'obbligo non già solamente di spiegare, di enumerare cifre, vincoli, e rimedi: tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che tuttavia devono essere accompagnate da altro. Dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all'orgoglio, alla speranza. Tutte cose che appartengono alla politica, e di cui i veri capi politici devono essere capaci. Per le quali però bisogna essere convinti della propria autorevolezza, avere una dimestichezza con il comando sociale e con l'esposizione pubblica, essere animati da un pathos di condivisione nazionale, da un capacità di comunicare e di mettersi personalmente in gioco, che le classi dirigenti italiane, chiuse nel loro autoreferenziale esclusivismo professionale e proprietario, evidentemente possiedono in scarsissima misura. E tutte cose, aggiungo, alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei partiti sulla cosa pubblica le ha da tempo disabituate. Staccandole nel profondo dalla politica.
Lo si è visto al momento di organizzarsi in vista delle elezioni. Il Centro ha mostrato di aver capito poco o nulla dell'ansia di grande cambiamento che agitava l'Italia. A un Paese percorso dalle performance di Grillo, ha pensato di potersi presentare da un lato con figure della più esausta nomenclatura partitica (Udc, Fli), dall'altro con il pallido volto di un notabilato catto-confindustriale insaporito da qualche prezzemolino sportivo-accademico. In complesso la raffigurazione di una compiaciuta oligarchia italiana all'insegna del «lei non sa chi sono io e quanto sono importante». Nessuno invece che fosse capace di un parlare vivo e autentico, di una proposta suggestiva, che desse voce a una qualche novità culturale, che incarnasse una figura sociale inedita.
Un'oligarchia, quella del Centro, che ha dato la misura della sua mancanza di sintonia rispetto alla condizione politica reale del Paese quando ha deciso, segnando così la propria sconfitta, di contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era stato della Destra. Come si è visto allorché Monti si è rifiutato di prestare il benché minimo ascolto all'invito di essere il «federatore dei moderati» rivoltogli da Berlusconi: nonostante fosse ovvio che l'elettorato della Destra costituiva l'unico elettorato dove il Centro avrebbe potuto ottenere il consenso di cui andava in cerca.
Perché questo errore? Forse per l'influenza dell'onorevole Casini e del cattolicesimo politico più sprovveduto, mai rassegnatosi al bipolarismo e invece sempre vagheggiante un'illusoria collocazione al di là della Destra e della Sinistra? No, non credo per questo; anche se certamente tutto questo ha contato. Sono invece convinto che nel paralizzare qualunque interlocuzione con il popolo della Destra da parte di Monti e dei suoi, nel far loro escludere qualunque approccio meno che ostile in quella direzione, ha contato molto di più quella sorta di generico interdetto sociale che da sempre la Sinistra si mostra capace di esercitare nei confronti della Destra stessa: in modo specialissimo da quando a destra c'è Berlusconi.
È l'interdetto che si nutre dell'idea che la Destra costituisca la parte impresentabile del Paese, il lato negativo della sua storia. L'Italia imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che non fa la fila e urla al telefonino; l'Italia incolta dei cinepanettoni, che non sa le lingue e non è iscritta al Fai, che non gliene importa nulla dell' Economist e non è di casa né alla Biennale né alla Columbia. E che di conseguenza non può che essere naturalmente clericale, conformista, sessista, solo e sempre reazionaria. In una parola quell'Italia che non è possibile ricevere in società e con la quale non conviene avere alcun rapporto se si vuole essere annoverati tra le persone per bene.
La borghesia che conta, il grande notabilato di ogni genere, l'alto clero in carriera, insomma l' élite italiana, ha profondamente introiettato questo stereotipo (che come tutti gli stereotipi ha naturalmente anche qualcosa di vero). Uno stereotipo tanto più potente perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la Destra dunque l' élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino dell'interdizione della Sinistra. Cioè di farsi la fama di nemica del progresso, di non essere più invitata nei salotti televisivi de La7, a Cernobbio o al Ninfeo di Valle Giulia; di diventare «impresentabile» (oltre che, assai più prosaicamente, per paura degli scheletri negli armadi, che non le mancano...).
Il Centro - così affollato di avveduta «gente per bene» - è rimasto vittima di questo interdetto, del timore di farsi etichettare di destra dalla Sinistra (e magari per giunta dal Club Europeo). In questo modo esso ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non proprio insignificante di diventare un attore politico di terz'ordine.
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Replica
Monti: «Io, la sfida del Centro e la vera leadership senza demagogie»
Caro direttore, ho letto con il consueto interesse, nel Corriere di ieri, l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia («Ciò che il Centro non ha capito»). Concordo con un punto importante: sarebbe stato un errore «contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era stato della Destra». Dissento invece, con grande rispetto verso l'autore, da tutte le altre asserzioni contenute nell'articolo.
Esse mi fanno ritenere che l'autore non abbia colto le motivazioni del progetto politico di Scelta civica, né i vincoli entro i quali questa atipica esperienza politica si è collocata.
Prima c'è stato, per il governo nato nel novembre 2011, come Galli della Loggia riconosce, il duro vincolo imposto dalle circostanze: salvare l'Italia dalla crisi finanziaria. L'autore ci rimprovera, forse giustamente, di non avere avuto «la capacità di parlare ai cuori più che alle menti». Quella capacità l'avevano, e l'hanno molto esercitata, i precedenti governi di Centro-sinistra e di Centro-destra, che però per 15 anni, sempre pensando alle prossime elezioni, non avevano fatto né le riforme necessarie per la crescita e l'occupazione, né quelle necessarie per una finanza pubblica sostenibile. Poi ci siamo dati noi un vincolo, proponendo agli elettori la prosecuzione di un percorso, capace certo di far fruttare i molti sacrifici in una crescita a medio termine, ma fondato sul realismo e sulla responsabilità, non sulle illusioni.
Parrà incomprensibile a un politologo che ci sia chi governa per realizzare non il consenso ma ciò che ritiene essere, in un dato momento, l'obiettivo vitale per la sopravvivenza del Paese e per la sua sovranità, senza cederla a una troika di occupazione (quella sì) tecnocratica. Ma non crede che l'avere spiegato ai cittadini che l'Italia ce l'avrebbe fatta da sola, senza chinare il capo e chiedere prestiti all'Europa o al Fondo monetario internazionale - come la Grecia, il Portogallo, la Spagna - abbia «invogliato al riscatto, mosso alla tenacia, all'orgoglio»? Perché in Italia, a differenza che in quei Paesi, i durissimi sacrifici non hanno portato alla rivolta sociale o di piazza?
Parrà ancora più incomprensibile a un politologo che ci sia chi proponga alle elezioni un progetto che non concede nulla al populismo e alla demagogia, pur in un «Paese percorso dalle performance di Grillo» e di un redivivo, formidabile Berlusconi. E che insiste su riforme, come quelle sul mercato del lavoro, indigeste alla Sinistra ma essenziali, con altre, per dare lavoro e speranza ai giovani. Così come propone di proseguire le azioni contro l'evasione fiscale e la corruzione che hanno trovato ostacoli a Destra durante il governo che sta per chiudersi.
Ma questa Scelta civica - penserà il politologo - ha fatto proprio di tutto per perdere le elezioni! Come se non bastasse, è stata così ingenua da rivendicare i «meriti» del governo uscente, che ha dovuto prendere i provvedimenti più impopolari della storia repubblicana, invece di prenderne le distanze come hanno fatto le altre forze che avevano approvato quei provvedimenti, platealmente il Pdl, in modo meno chiassoso il Pd.
Chi governa così, chi si presenta alle elezioni così, secondo Galli della Loggia denota «scarsa capacità di leadership». Non tocca certo a chi viene giudicato di giudicare il giudice. Ma sarebbe interessante capire meglio che cosa debba intendersi per leadership. È migliore leader chi cerca, magari facendo molti errori perché è un politico inesperto, di guidare il Paese verso quello che considera l'interesse generale e cerca il consenso degli elettori su ciò che è poco gradevole ma utile a più lungo termine; o chi cerca, magari non facendo nessun errore perché è il più abile dei politici, di assecondare gli elettori proponendo proprio ciò che essi vogliono vedersi proporre perché è più gradevole anche se dannoso a più lungo termine? È meglio, per un Paese, avere dei leader non perfetti o dei perfetti follower? Ai politologi l'ardua sentenza.
Forse, il professor Galli della Loggia ha in mente il secondo scenario, quando emette le sue sentenze liquidatorie: «il fallimento del Centro», «il fallimento del personale di governo alla guida del Paese per oltre un anno», il Centro è diventato «un attore politico di terz'ordine». Siano consentite due osservazioni.
Centro. Si direbbe, con l'uso di questo termine come sinonimo di Scelta civica, che l'autore non abbia prestato nessuna attenzione allo sforzo fatto da Scelta civica per spiegare la propria identità. Non si tratta di qualcosa di intermedio tra la Sinistra e la Destra lungo l'asse, a nostro giudizio screditato, di un inconcludente bipolarismo italiano, che alla fine ha avuto bisogno di un governo tecnico per fare alcune riforme che sapeva necessarie, senza mai trovare la forza politica per farle. Si tratta di un impegno nuovo, per unire volontà riformatrici ed europeiste, prima disperse nei due poli contrapposti.
Fallimento. Non ho mai parlato di successo di Scelta civica.
Trovo però curioso che si parli di fallimento per un'entità politica nuova, costruita nella scia di un governo che non aveva fatto proprio nulla per non essere impopolare, portata avanti dall'impegno generoso di molti ma certo senza l'esperienza e la professionalità dei partiti tradizionali o l'articolazione del M5S; e che tuttavia in cinquanta giorni è riuscita a raccogliere tre milioni di voti laddove il Pd e il Pdl hanno perso molti milioni di voti. Se non vi fossero stati quei voti a Scelta civica, provenuti in particolare dalla Destra, la coalizione Pdl-Lega sarebbe ora in grado di formare il governo e, dal 15 aprile, di eleggere il presidente della Repubblica.
Concludo con il punto, importante, sul quale il mio pensiero coincide con quello di Galli della Loggia. Sarebbe stato un errore «contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era stato della Destra». Ha ragione l'autore quando, pur con cattiveria eccessiva, scrive «Uno stereotipo tanto più potente perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la Destra dunque l'élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino dell'interdizione della Sinistra». Per parte mia, forse perché ho idee mie ben radicate, non ho mai condiviso la paura di contaminarmi con la Destra. Sono orgoglioso di aver fatto cooperare per il bene del Paese, nella «strana» maggioranza, Bersani e Berlusconi (oltre a Casini). Né temo l'interdizione della Sinistra, che pure ho sperimentato, in alcuni suoi alti esponenti politici e culturali detentori della moralità, per il solo fatto di avere promosso un movimento politico.
Ma Scelta civica, caro professor Galli della Loggia, non ha compiuto quello che lei e io consideriamo un errore: non si è contrapposta agli elettori della Destra. Anzi, ne ha sollecitato il voto. E sono sorpreso che tanti abbiano scelto Scelta civica e non il Pdl, che pure recava nella scheda il profumo dei soldi, il rimborso dell'Imu.
Quello che non ho fatto, qui lei ha ragione, è accettare l'invito di Berlusconi ad essere il «federatore dei moderati». Per questo invito, che mi ha fatto piacere, ho ringraziato Berlusconi. Ma non l'ho accettato non per sprezzo degli elettori di Destra, ma per due diverse ragioni. In primo luogo, mi sembrava più importante unire i riformatori che federare i moderati. In secondo luogo, avrei forse potuto federare i moderati ma solo se Berlusconi si fosse davvero ritirato dal progetto che cortesemente mi offriva. Non avrei voluto trovarmi nella situazione di Alfano.
Presidente del Consiglio
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
25.3.13
23.3.13
M5S. Ma sanno di cosa parlano?
Ernesto Maria Ruffini - Espresso Blog
Questa è stata la mia reazione alla conferenza stampa tenuta – con l’ormai nota aria da “eeeh-noi-si-che-la-sappiamo-lunga” – dalla capogruppo grillina alla Camera e da alcuni deputati del M5S, nella quale si è parlato dei bilanci di Camera e Senato: “La Camera dei deputati nel 2013 spenderà complessivamente 1.300 milioni di euro come budget per il suo funzionamento che sommato al budget del Senato arriva a sfiorare una cifra più o meno pari a 2 miliardi di euro”; cifre fornite, suppongo, dall’aspirante questore (della Camera), autodefinitasi nella stessa conferenza “mangiatrice di bilanci”. Ora come potete vedere qui e qui (pag. 52 e seguenti), le spese della Camera nel 2013 saranno 1.062 milioni (1.196 meno il riporto a esercizi futuri dell’avanzo di gestione di 134, che una spesa proprio non è) e quelle del Senato 567 milioni (584 milioni meno 17 milioni di risparmi da riversare allo Stato); totale: 1.629 milioni. Come dire che la capogruppo e la “mangiatrice di bilanci” esordiscono nei loro autoimposti ruoli di catonesse contabili con un errore di quasi 400 milioni, circa il 20% del totale; se il buongiorno (e la precisione) si vedono del mattino…
Ma anche volendo passare sopra l’errore (che appare grande più che altro per la presunzione con il quale è presentato dalle due esponenti del M5S), c’è qualcosa di sbagliato o, per meglio dire, di fuorviante nel discorso: ma davvero è questo il primo problema dell’agenda politica?
Allarghiamo un po’ il panorama e proviamo a fare un totalone, riferito al 2010, ultimo anno per il quale si dispongono di tutti i dati (in particolare quelli locali); è un calcolo consapevolmente spanno metrico (forse un po’ sottostimato), ma che approssima i cosiddetti “costi della politica” molto più di questo, frettolosamente presentato come tale dalla stampa (ma non dall’attento autore).
Stato (analisi per missione, voce “Organi costituzionali, a rilevanza costituzionale e Presidenza del Consiglio dei ministri”): 3.161 milioni.
Regioni (tavola 2, voce “Servizi degli organi istituzionali”; impegni di spesa): 897 milioni; segnalo ai grillini che il 18% della somma era imputabile alla sola Sicilia: buon lavoro.
Province (tavola 3a, voce “Organi istituzionali, partecipazione e decentramento”; impegni di spesa): 404 milioni.
Comuni (tavola 3a, voci “Organi istituzionali, partecipazione e decentramento” e “Indennità per gli organi istituzionali degli enti”; impegni di spesa): 1.938 milioni.
Rimborsi_elettorali: 74 milioni; il dato però riguarda solo le regionali 2010; lo sostituisco con una media dal 1994 al 2010 (2.305 milioni complessivi), con il che si sale a 136 milioni. Peraltro, parte di queste cifre (se non tutte) passa già per i bilanci delle Camere, ma, visto l’importo (relativamente) contenuto, facciamo finta di niente.
Mancano le spese sostenute dallo Stato per l’organizzazione di elezioni, referendum, ecc., ma voglio credere che non sia intenzione dei grillini tagliare anche tali spese o addirittura annullarle; per quanto, a organizzarsi un poco, si potrebbe tornare a votare in un solo giorno e, magari, passare al voto elettronico.
Possiamo quindi dire che il costo complessivo (e approssimativo) della “macchina” politica è stato nel 2010 di 6.536 milioni. Di quanto supponiamo che i virtuosi grillini riescano a tagliare il tutto? Di metà, come propongono per le indennità parlamentare? Bene: sono 3.268 milioni di risparmi. Ora proviamo a confrontare questo risparmio con il totale delle spese pubbliche, sempre del 2010; perché, come diceva il compianto Luigi Spaventa, i numeri hanno senso quando sono relativi, quando sono commisurati a qualcosa. La spesa di tutte le amministrazioni pubbliche in Italia è stata, nel 2010, di 795.311 milioni, secondo il conto consolidato fornito da Banca d Italia (tavola a13.1).
Quindi il risparmio sarebbe il 4,1 per mille (neanche per cento) del totale. Come dire: devi pagare un conto di 1.000 euro, no, guarda, sono 996.
Sia ben chiaro, io non nego che ci siano buone ragioni per tagliare i costi della politica, ragioni, prima di tutto morali, che vanno al di là delle nude cifre. E, anche a voler considerare solo queste ultime, non sputerei certo su 3 miliardi e passa di euro di minori spese: sono pur sempre soldi o, come si direbbe a Genova, palanche. Insomma, è giusto farlo: e visto che per farlo basta volerlo, facciamolo anche subito.
Ma il punto è: basta questo per fare un programma di governo o anche solo costruirvi sopra l’azione di un partito politico? È sufficiente questo proposito per gettare fango sulla politica e sui partiti che hanno garantito la democrazia in questo Paese? Non c’è un po’ di sproporzione fra l’attenzione che vi si dedica e l’importanza concreta? Non si sta gettando un po’ di sabbia negli occhi?
E, infine, per tornare alla mia materia, il fisco, non è un po’ contraddittorio che il M5S sermoneggi sull’importanza cruciale di 3 miliardi su 795 e poi sostenga l’abolizione dell’Imu sulla prima casa con l’argomento “tanto-sono-solo-4-miliardi-su-714” (blog di Claudio Messora, “comunicatore” del M5S)?
Questa è stata la mia reazione alla conferenza stampa tenuta – con l’ormai nota aria da “eeeh-noi-si-che-la-sappiamo-lunga” – dalla capogruppo grillina alla Camera e da alcuni deputati del M5S, nella quale si è parlato dei bilanci di Camera e Senato: “La Camera dei deputati nel 2013 spenderà complessivamente 1.300 milioni di euro come budget per il suo funzionamento che sommato al budget del Senato arriva a sfiorare una cifra più o meno pari a 2 miliardi di euro”; cifre fornite, suppongo, dall’aspirante questore (della Camera), autodefinitasi nella stessa conferenza “mangiatrice di bilanci”. Ora come potete vedere qui e qui (pag. 52 e seguenti), le spese della Camera nel 2013 saranno 1.062 milioni (1.196 meno il riporto a esercizi futuri dell’avanzo di gestione di 134, che una spesa proprio non è) e quelle del Senato 567 milioni (584 milioni meno 17 milioni di risparmi da riversare allo Stato); totale: 1.629 milioni. Come dire che la capogruppo e la “mangiatrice di bilanci” esordiscono nei loro autoimposti ruoli di catonesse contabili con un errore di quasi 400 milioni, circa il 20% del totale; se il buongiorno (e la precisione) si vedono del mattino…
Ma anche volendo passare sopra l’errore (che appare grande più che altro per la presunzione con il quale è presentato dalle due esponenti del M5S), c’è qualcosa di sbagliato o, per meglio dire, di fuorviante nel discorso: ma davvero è questo il primo problema dell’agenda politica?
Allarghiamo un po’ il panorama e proviamo a fare un totalone, riferito al 2010, ultimo anno per il quale si dispongono di tutti i dati (in particolare quelli locali); è un calcolo consapevolmente spanno metrico (forse un po’ sottostimato), ma che approssima i cosiddetti “costi della politica” molto più di questo, frettolosamente presentato come tale dalla stampa (ma non dall’attento autore).
Stato (analisi per missione, voce “Organi costituzionali, a rilevanza costituzionale e Presidenza del Consiglio dei ministri”): 3.161 milioni.
Regioni (tavola 2, voce “Servizi degli organi istituzionali”; impegni di spesa): 897 milioni; segnalo ai grillini che il 18% della somma era imputabile alla sola Sicilia: buon lavoro.
Province (tavola 3a, voce “Organi istituzionali, partecipazione e decentramento”; impegni di spesa): 404 milioni.
Comuni (tavola 3a, voci “Organi istituzionali, partecipazione e decentramento” e “Indennità per gli organi istituzionali degli enti”; impegni di spesa): 1.938 milioni.
Rimborsi_elettorali: 74 milioni; il dato però riguarda solo le regionali 2010; lo sostituisco con una media dal 1994 al 2010 (2.305 milioni complessivi), con il che si sale a 136 milioni. Peraltro, parte di queste cifre (se non tutte) passa già per i bilanci delle Camere, ma, visto l’importo (relativamente) contenuto, facciamo finta di niente.
Mancano le spese sostenute dallo Stato per l’organizzazione di elezioni, referendum, ecc., ma voglio credere che non sia intenzione dei grillini tagliare anche tali spese o addirittura annullarle; per quanto, a organizzarsi un poco, si potrebbe tornare a votare in un solo giorno e, magari, passare al voto elettronico.
Possiamo quindi dire che il costo complessivo (e approssimativo) della “macchina” politica è stato nel 2010 di 6.536 milioni. Di quanto supponiamo che i virtuosi grillini riescano a tagliare il tutto? Di metà, come propongono per le indennità parlamentare? Bene: sono 3.268 milioni di risparmi. Ora proviamo a confrontare questo risparmio con il totale delle spese pubbliche, sempre del 2010; perché, come diceva il compianto Luigi Spaventa, i numeri hanno senso quando sono relativi, quando sono commisurati a qualcosa. La spesa di tutte le amministrazioni pubbliche in Italia è stata, nel 2010, di 795.311 milioni, secondo il conto consolidato fornito da Banca d Italia (tavola a13.1).
Quindi il risparmio sarebbe il 4,1 per mille (neanche per cento) del totale. Come dire: devi pagare un conto di 1.000 euro, no, guarda, sono 996.
Sia ben chiaro, io non nego che ci siano buone ragioni per tagliare i costi della politica, ragioni, prima di tutto morali, che vanno al di là delle nude cifre. E, anche a voler considerare solo queste ultime, non sputerei certo su 3 miliardi e passa di euro di minori spese: sono pur sempre soldi o, come si direbbe a Genova, palanche. Insomma, è giusto farlo: e visto che per farlo basta volerlo, facciamolo anche subito.
Ma il punto è: basta questo per fare un programma di governo o anche solo costruirvi sopra l’azione di un partito politico? È sufficiente questo proposito per gettare fango sulla politica e sui partiti che hanno garantito la democrazia in questo Paese? Non c’è un po’ di sproporzione fra l’attenzione che vi si dedica e l’importanza concreta? Non si sta gettando un po’ di sabbia negli occhi?
E, infine, per tornare alla mia materia, il fisco, non è un po’ contraddittorio che il M5S sermoneggi sull’importanza cruciale di 3 miliardi su 795 e poi sostenga l’abolizione dell’Imu sulla prima casa con l’argomento “tanto-sono-solo-4-miliardi-su-714” (blog di Claudio Messora, “comunicatore” del M5S)?
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22.3.13
Saviano e l’insostenibile banalità su Twitter
di Domenico Naso
Capisco che vivere sotto scorta h24 deve essere pesante, snervante e noioso. Capisco che Twitter è una valvola di sfogo utile all’abbisogna (io stesso sono un cinguettatore compulsivo). Quello che non capisco, però, è perché il nuovo Parlamento non abbia ancora approvato una legge che proibisca l’utilizzo di Twitter a Roberto Saviano. Lo scrittore, da alcuni mesi, twitta una quantità tale di banalità stucchevoli che Gigi Marzullo e Monsieur de La Palice, a confronto, sono profondi e originali pensatori. L’ultimo capolavoro è di oggi, dopo la notizia della morte di Pietro Mennea. Saviano non ha perso tempo e ha twittato urbi et orbi quanto segue: “Mennea…Che ha fatto vedere al mondo come corre un uomo del Sud”. Perbacco! Ma come corre un uomo del Sud? Me lo chiedo ormai da ore e non riesco ancora a trovare una risposta. E pensare che sono calabrese della Piana di Gioia Tauro, quasi maghrebino. Niente, non lo so come corre un uomo del Sud. Forse a ritmo di taranta o lisciandosi i baffi nero corvino. La stucchevole banalità di questo tweet-cliché lascia interdetti. Ma non stupiti, sia chiaro. Perché Roberto Saviano, quando non parla di criminalità organizzata, somiglia sempre più alla macchietta di se stesso. Ed è un gran peccato. Chi va con Fazio impara a fazieggiare?
Capisco che vivere sotto scorta h24 deve essere pesante, snervante e noioso. Capisco che Twitter è una valvola di sfogo utile all’abbisogna (io stesso sono un cinguettatore compulsivo). Quello che non capisco, però, è perché il nuovo Parlamento non abbia ancora approvato una legge che proibisca l’utilizzo di Twitter a Roberto Saviano. Lo scrittore, da alcuni mesi, twitta una quantità tale di banalità stucchevoli che Gigi Marzullo e Monsieur de La Palice, a confronto, sono profondi e originali pensatori. L’ultimo capolavoro è di oggi, dopo la notizia della morte di Pietro Mennea. Saviano non ha perso tempo e ha twittato urbi et orbi quanto segue: “Mennea…Che ha fatto vedere al mondo come corre un uomo del Sud”. Perbacco! Ma come corre un uomo del Sud? Me lo chiedo ormai da ore e non riesco ancora a trovare una risposta. E pensare che sono calabrese della Piana di Gioia Tauro, quasi maghrebino. Niente, non lo so come corre un uomo del Sud. Forse a ritmo di taranta o lisciandosi i baffi nero corvino. La stucchevole banalità di questo tweet-cliché lascia interdetti. Ma non stupiti, sia chiaro. Perché Roberto Saviano, quando non parla di criminalità organizzata, somiglia sempre più alla macchietta di se stesso. Ed è un gran peccato. Chi va con Fazio impara a fazieggiare?
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18.3.13
Si fa presto a dire nuovo
Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano
Gli innegabili aspetti positivi dell’elezione di Laura Boldrini e di Piero Grasso a presidenti di Camera e Senato li ha elencati ieri il nostro direttore Antonio Padellaro. Ma il coro di Exultet, con sottofondo di trombe e tromboni, che ha accompagnato la doppia votazione di sabato rischia di occultarne le ombre, che pure ci sono e vanno segnalate. A costo di passare per bastiancontrari. 1) È comprensibile che alcuni senatori di 5Stelle, pare di provenienza siciliana, non se la siano sentita di contribuire, astenendosi, al ritorno di Schifani (tuttoggi indagato per mafia a Palermo, sia pure con una richiesta di archiviazione dei pm pendente dinanzi al gip) alla presidenza del Senato. E abbiano dunque votato per Piero Grasso, evitando il peggio per la seconda carica dello Stato. Ma il metodo seguito non è stato dei più trasparenti: siccome tutti i candidati M5S si erano impegnati con gli elettori ad attenersi alle decisioni democraticamente assunte a maggioranza dai gruppi parlamentari, chi s’è dissociato dall’astensione decisa dal gruppo del Senato avrebbe dovuto dichiararlo e motivarlo apertamente, anziché rifugiarsi nel voto segreto. E precisare che lo strappo alla regola vale soltanto questa volta, in via eccezionale, trattandosi delle presidenze dei due rami del Parlamento, e non si ripeterà più. 2) Grillo, non essendo presente in Parlamento, deve rassegnarsi: i parlamentari di M5S saranno continuamente chiamati a votare sul tamburo, spesso con pochi secondi per riflettere, quasi sempre col ricatto incombente di dover scegliere il “meno peggio” per sfuggire all’accusa del “tanto peggio tanto meglio”, e neppure se volessero potranno consigliarsi continuamente con lui (che sta a Genova) e col guru Casaleggio (che sta a Milano). È la normale dialettica democratica, che però nasconde un grave pericolo per un movimento fragile e inesperto come 5 Stelle: la continua disunione dei gruppi parlamentari che, se non si atterranno alle regole che si sono dati, si condanneranno all’irrilevanza, vanificando lo strepitoso successo elettorale appena ottenuto. La regola non può essere che quella di decidere a maggioranza nei gruppi e poi di attenersi, tutti, scrupolosamente a quel che si è deciso. Anche quando il voto è segreto. Le eventuali eccezioni e deroghe vanno stabilite in anticipo, e solo per le questioni che interrogano le sfere più profonde della coscienza umana. Nelle prossime settimane il ricatto del “meno peggio” si ripeterà per la presidenza della Repubblica, per la fiducia al governo, per i presidenti delle commissioni di garanzia. Ogni qualvolta si fronteggerà un candidato berlusconiano e uno del centro o del centrosinistra, ci sarà sempre qualcuno che salta su a dire: piuttosto che Berlusconi, meglio D’Alema; piuttosto che Gianni Letta, meglio Enrico; piuttosto che Cicchitto, meglio Casini. Se ciascuno votasse come gli gira, sarebbe la morte del Movimento, che si ridurrebbe a ruota di scorta dei vecchi partiti, tradendo le aspettative dei milioni di elettori che l’hanno votato per spazzarli via o costringerli a rinnovarsi dalle fondamenta. ll che potrà avvenire solo se M5S, pur non rinunciando a fare politica, manterrà la sua alterità e sfuggirà a qualsiasi compromesso al ribasso, senza lasciarsi influenzare dai pressing dei partiti e dai media di regime. 3)Grasso e la Boldrini hanno storie diverse, non assimilabili in un unico, acritico plauso alla loro provenienza dalla mitica “società civile”. La Boldrini, per il suo impegno all’Onu in favore dei migranti, è una figura cristallina e super partes, mai compromessa con i giochetti della bottega politica. Grasso invece alle sirene della politica è stato sempre sensibilissimo, come dimostra la sua controversa carriera di magistrato antimafia: da procuratore di Palermo si sbarazzò dei pm più impegnati nelle indagini su mafia e politica e sulla trattativa Stato-mafia e trascurò filoni d’inchiesta che avrebbero potuto far emergere responsabilità istituzionali con una decina d’anni di anticipo; poi incassò la gratitudine del centrodestra, che di fatto lo nominò procuratore nazionale antimafia con tre leggi contra personam (incostituzionali) che eliminarono il suo concorrente Caselli; infine incassò la gratitudine del centrosinistra con la cooptazione nelle liste del Pd, dopo aver flirtato col Centro di Casini ed essersi guadagnato gli applausi del Pdl proponendo la medaglia al valore antimafia nientemeno che per Berlusconi. Solo la faccia del suo avversario Schifani può nascondere questi e altri altarini. 4) Il centrosinistra ha prevalso d’un soffio alle ultime elezioni col risultato più miserevole mai ottenuto da un vincitore nella storia della Repubblica: meno di un terzo dei votanti. Con che faccia Bersani e Vendola, nonostante le parole di apertura agli altri schieramenti per una distribuzione più equa delle presidenze delle Camere, se le sono accaparrate entrambe? Un minimo di decenza, oltrechè di spirito democratico, avrebbe dovuto indurli a rinunciare all’arroganza e all’ingordigia da poltrone, e a votare, senza mercanteggiare nulla in cambio, il candidato di 5 Stelle (o di un’altra coalizione) al vertice della Camera o del Senato. 5) A prescindere dai meriti e dai demeriti individuali, sia la Boldrini sia Grasso sono parlamentari esclusivamente grazie a quel Porcellum che i loro rispettivi partiti, Sel e Pd, contestano a parole e sfruttano nei fatti. Nessun elettore li ha scelti: sono stati cooptati nelle liste del centrosinistra dagli apparati, all’insaputa degli elettori, non avendo partecipato neppure alle primarie per i candidati. L’altroieri Vendola e Bersani li hanno estratti dal cilindro all’ultimo momento, senz’alcuna consultazione dei rispettivi gruppi, per dare una verniciata di nuovo alle vecchie logiche spartitorie che sarebbero subito saltate agli occhi se a incarnarle fossero stati i Franceschini e le Finocchiaro. Ma la sostanza non cambia. La Boldrini poi rappresenta un partito del 3% e ora presiede la Camera grazie a un altro meccanismo perverso del Porcellum: il mostruoso premio di maggioranza del 55% dei seggi assegnato allo schieramento che arriva primo, anche se non rappresenta nemmeno un terzo dei votanti. Grasso è presidente del Senato per conto di una coalizione minoritaria, con l’aggiunta decisiva di alcuni franchi tiratori del Centro e di 5 Stelle. Quanto di meno nuovo e trasparente si possa immaginare.
Gli innegabili aspetti positivi dell’elezione di Laura Boldrini e di Piero Grasso a presidenti di Camera e Senato li ha elencati ieri il nostro direttore Antonio Padellaro. Ma il coro di Exultet, con sottofondo di trombe e tromboni, che ha accompagnato la doppia votazione di sabato rischia di occultarne le ombre, che pure ci sono e vanno segnalate. A costo di passare per bastiancontrari. 1) È comprensibile che alcuni senatori di 5Stelle, pare di provenienza siciliana, non se la siano sentita di contribuire, astenendosi, al ritorno di Schifani (tuttoggi indagato per mafia a Palermo, sia pure con una richiesta di archiviazione dei pm pendente dinanzi al gip) alla presidenza del Senato. E abbiano dunque votato per Piero Grasso, evitando il peggio per la seconda carica dello Stato. Ma il metodo seguito non è stato dei più trasparenti: siccome tutti i candidati M5S si erano impegnati con gli elettori ad attenersi alle decisioni democraticamente assunte a maggioranza dai gruppi parlamentari, chi s’è dissociato dall’astensione decisa dal gruppo del Senato avrebbe dovuto dichiararlo e motivarlo apertamente, anziché rifugiarsi nel voto segreto. E precisare che lo strappo alla regola vale soltanto questa volta, in via eccezionale, trattandosi delle presidenze dei due rami del Parlamento, e non si ripeterà più. 2) Grillo, non essendo presente in Parlamento, deve rassegnarsi: i parlamentari di M5S saranno continuamente chiamati a votare sul tamburo, spesso con pochi secondi per riflettere, quasi sempre col ricatto incombente di dover scegliere il “meno peggio” per sfuggire all’accusa del “tanto peggio tanto meglio”, e neppure se volessero potranno consigliarsi continuamente con lui (che sta a Genova) e col guru Casaleggio (che sta a Milano). È la normale dialettica democratica, che però nasconde un grave pericolo per un movimento fragile e inesperto come 5 Stelle: la continua disunione dei gruppi parlamentari che, se non si atterranno alle regole che si sono dati, si condanneranno all’irrilevanza, vanificando lo strepitoso successo elettorale appena ottenuto. La regola non può essere che quella di decidere a maggioranza nei gruppi e poi di attenersi, tutti, scrupolosamente a quel che si è deciso. Anche quando il voto è segreto. Le eventuali eccezioni e deroghe vanno stabilite in anticipo, e solo per le questioni che interrogano le sfere più profonde della coscienza umana. Nelle prossime settimane il ricatto del “meno peggio” si ripeterà per la presidenza della Repubblica, per la fiducia al governo, per i presidenti delle commissioni di garanzia. Ogni qualvolta si fronteggerà un candidato berlusconiano e uno del centro o del centrosinistra, ci sarà sempre qualcuno che salta su a dire: piuttosto che Berlusconi, meglio D’Alema; piuttosto che Gianni Letta, meglio Enrico; piuttosto che Cicchitto, meglio Casini. Se ciascuno votasse come gli gira, sarebbe la morte del Movimento, che si ridurrebbe a ruota di scorta dei vecchi partiti, tradendo le aspettative dei milioni di elettori che l’hanno votato per spazzarli via o costringerli a rinnovarsi dalle fondamenta. ll che potrà avvenire solo se M5S, pur non rinunciando a fare politica, manterrà la sua alterità e sfuggirà a qualsiasi compromesso al ribasso, senza lasciarsi influenzare dai pressing dei partiti e dai media di regime. 3)Grasso e la Boldrini hanno storie diverse, non assimilabili in un unico, acritico plauso alla loro provenienza dalla mitica “società civile”. La Boldrini, per il suo impegno all’Onu in favore dei migranti, è una figura cristallina e super partes, mai compromessa con i giochetti della bottega politica. Grasso invece alle sirene della politica è stato sempre sensibilissimo, come dimostra la sua controversa carriera di magistrato antimafia: da procuratore di Palermo si sbarazzò dei pm più impegnati nelle indagini su mafia e politica e sulla trattativa Stato-mafia e trascurò filoni d’inchiesta che avrebbero potuto far emergere responsabilità istituzionali con una decina d’anni di anticipo; poi incassò la gratitudine del centrodestra, che di fatto lo nominò procuratore nazionale antimafia con tre leggi contra personam (incostituzionali) che eliminarono il suo concorrente Caselli; infine incassò la gratitudine del centrosinistra con la cooptazione nelle liste del Pd, dopo aver flirtato col Centro di Casini ed essersi guadagnato gli applausi del Pdl proponendo la medaglia al valore antimafia nientemeno che per Berlusconi. Solo la faccia del suo avversario Schifani può nascondere questi e altri altarini. 4) Il centrosinistra ha prevalso d’un soffio alle ultime elezioni col risultato più miserevole mai ottenuto da un vincitore nella storia della Repubblica: meno di un terzo dei votanti. Con che faccia Bersani e Vendola, nonostante le parole di apertura agli altri schieramenti per una distribuzione più equa delle presidenze delle Camere, se le sono accaparrate entrambe? Un minimo di decenza, oltrechè di spirito democratico, avrebbe dovuto indurli a rinunciare all’arroganza e all’ingordigia da poltrone, e a votare, senza mercanteggiare nulla in cambio, il candidato di 5 Stelle (o di un’altra coalizione) al vertice della Camera o del Senato. 5) A prescindere dai meriti e dai demeriti individuali, sia la Boldrini sia Grasso sono parlamentari esclusivamente grazie a quel Porcellum che i loro rispettivi partiti, Sel e Pd, contestano a parole e sfruttano nei fatti. Nessun elettore li ha scelti: sono stati cooptati nelle liste del centrosinistra dagli apparati, all’insaputa degli elettori, non avendo partecipato neppure alle primarie per i candidati. L’altroieri Vendola e Bersani li hanno estratti dal cilindro all’ultimo momento, senz’alcuna consultazione dei rispettivi gruppi, per dare una verniciata di nuovo alle vecchie logiche spartitorie che sarebbero subito saltate agli occhi se a incarnarle fossero stati i Franceschini e le Finocchiaro. Ma la sostanza non cambia. La Boldrini poi rappresenta un partito del 3% e ora presiede la Camera grazie a un altro meccanismo perverso del Porcellum: il mostruoso premio di maggioranza del 55% dei seggi assegnato allo schieramento che arriva primo, anche se non rappresenta nemmeno un terzo dei votanti. Grasso è presidente del Senato per conto di una coalizione minoritaria, con l’aggiunta decisiva di alcuni franchi tiratori del Centro e di 5 Stelle. Quanto di meno nuovo e trasparente si possa immaginare.
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15.3.13
«Per molti argentini è stato complice»
Horacio Verbitsky* (Il Manifesto)
Delle centinaia di chiamate ed email che ho ricevuto, ne scelgo una sola. «Non riesco a crederci. Sono così angustiata e carica di rabbia che non so che cosa fare. Ha ottenuto ciò che voleva. Mi sembra di vedere Orlando nel salotto di casa nostra, qualche anno fa, che diceva: 'Lui vuole essere Papa'. È la persona più adatta a nascondere il marcio. Lui è un esperto in insabbiamenti. Il mio telefono non smette di suonare, Fito mi ha chiamato in lacrime». La firma è quella di Graciela Yorio, sorella del sacerdote Orlando Yorio, che denunciò Bergoglio come responsabile del suo sequestro e delle torture che ha subito per 5 mesi nell'anno 1976. Il Fito di cui parla. e che l'ha chiamata sconsolato, è Adolfo Yorio, suo fratello. Entrambi hanno dedicato buona parte della loro vita a portare avanti le denunce fatte da Orlando, un teologo e sacerdote terzomondista, morto nel 2000 con l'incubo che ieri è divenuto realtà. Tre anni prima, il suo mostro era stato eletto arcivescovo di Buenos Aires, un avvenimento che preannunciava il resto.
Orlando Yorio non ha mai avuto modo di sentire la deposizione di Bergoglio davanti al Tribunale Orale Federale n. 5. Quella fu la prima volta in cui riconobbe che, dopo la fine della dittatura, seppe che i militari rapivano i bambini. Tuttavia, il Tribunale Orale Federale n. 6, in cui si è svolto il processo per il programma sistematico di sequestro dei figli dei prigionieri-desaparecidos, ha ricevuto documenti in cui si indica che già nell'anno 1979 Bergoglio era perfettamente al corrente della situazione, non solo, ma che addirittura intervenne personalmente, eseguendo un ordine del suo superiore generale, Pedro Arrupe.
Dopo aver ascoltato il racconto dei familiari di Elena de la Cuadra, sequestrata nel 1977, quando si trovava al quinto mese di gravidanza, Bergoglio consegnò loro una lettera per il vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi, chiedendogli di intercedere davanti al governo militare. Picchi riuscì a scoprire che Elena aveva messo al mondo una bambina, poi regalata a un'altra famiglia.
«Ce l'ha una coppia per bene e non c'è modo di tornare indietro», disse alla famiglia. Dichiarando per iscritto nella causa dell'Esma (la Scuola di Meccanica della Marina), per il sequestro di Yorio e di Franscisco Jalics, che era gesuita come lui, Bergoglio disse che nell'archivio episcopale non c'erano documenti sui desaparecidos.
Tuttavia, il suo successore e attuale presidente della Conferenza episcopale, Josè Arancedo, inviò alla giudice Martina Forns una copia del documento che io stesso ho pubblicato, sulla riunione avvenuta tra il dittatore Videla e i vescovi Raul Primatesta, Juan Aramburu y Vicente Zazpe, in cui parlarono in modo straordinariamente franco del fatto che fosse conveniente o no dire che i desaparecidos erano stati uccisi, perché Videla voleva proteggere chi li aveva assassinati.
Nel suo libro ormai divenuto un classico, Iglesia y dictadura (Chiesa e dittatura), Emilio Miglione citò l'episodio come un paradigma di «pastori che consegnano le loro pecore al nemico, senza difenderle o tentare di recuperarle». Bergoglio mi ha raccontato che, in una delle sue prime messe come arcivescovo, riconobbe Mignone e tentò di raggiungerlo per dargli delle spiegazioni, ma che il presidente e fondatore del Cels alzò la mano facendogli segno di non avvicinarsi.
Non sono sicuro che Bergoglio sia stato eletto per nascondere il marcio che ha ridotto all'impotenza Joseph Ratzinger. Le lotte interne alla curia romana seguono una logica cosi imperscrutabile che i fatti più oscuri possono essere attribuiti allo spirito santo, sia che si tratti delle gestioni finanziarie per cui la Banca Vaticana è stata espulsa dal clearing internazionale, visto che non rispetta le regole anti-riciclaggio di denaro sporco, o le pratiche di pedofilia, in quasi tutti i paesi del mondo, che Ratzinger ha insabbiato attraverso il Santo Uffizio e per le quali ha chiesto perdono come Papa. Nemmeno mi sorprenderebbe che, con il pennello in mano e con le scarpe rotte, Bergoglio iniziasse una crociata moralizzante per imbiancare i sepolcri apostolici.
Quello di cui invece sono sicuro è che il nuovo vescovo di Roma sarà un ersatz, una parola tedesca che è impossibile tradurre e che significa un surrogato di qualità minore, come l'acqua mescolata con la farina che le madri povere usano per ingannare la fame dei loro figli. Il teologo della liberazione brasiliano, Leonardo Boff, allontanato da Ratzinger dall'insegnamento e dal sacerdozio, aveva il sogno che a essere eletto Papa fosse il francescano di origine irlandese Sean O'Malley, responsabile della diocesi di Boston, arrivata al fallimento per i tanti indennizzi che ha pagato ai bambini vessati dai suoi sacerdoti.
«È una persona molto legata ai poveri, perché ha lavorato a lungo in America Latina e ai Caraibi, sempre in mezzo agli indigenti. Questo significa che potrebbe essere un papa diverso, un papa che inizi una nuova tradizione», ha scritto l'ex sacerdote. Sul Trono Apostolico non siederà un vero francescano, ma un gesuita che si farà chiamare Francesco, come il poverello di Assisi. Un'amica argentina mi scrive turbata da Berlino, perché secondo i tedeschi, che non conoscono il suo passato, il nuovo papa è un terzomondista. Che grande confusione.
La sua biografia è quella di un populista conservatore, come lo sono stati Pio XII e Giovanni Paolo II: inflessibili su questioni dottrinali, ma con una certa apertura nei confronti del mondo, soprattutto, verso le masse povere. Quando recita la prima messa in una via di Trastevere o nella stazione Termini a Roma e parla di persone sfruttate e prostituite dagli insensibili potenti che chiudono il loro cuore a Cristo; quando i giornalisti amici raccontano che ha viaggiato in metropolitana o in autobus; quando i fedeli sentono le sue omelie recitate coi gesti di un attore, dove le parabole bibliche coesistono con il parlar franco del popolo, ci sarà chi delirerà per il tanto desiderato rinnovamento della Chiesa. Nei tre lustri che ha trascorso alla testa dell'Arcidiocesi di Buenos Aires ha fatto questo e altro. Ma al tempo stesso ha tentato di unire l'opposizione contro il primo governo che, dopo molti anni, ha adottato una politica favorevole ai settori meno abbienti. Addirittura lo ha accusato di essere aggressivo e di cercare provocazioni, perché per farlo è dovuto scendere a patti con quei potenti attaccati nel discorso.
Adesso potrà farlo su scala più grande, ma non significa che si dimenticherà dell'Argentina. Se Pacelli ricevette il finanziamento dell'Intelligence Usa per sostenere la Democrazia Cristiana e impedire la vittoria comunista nelle prime elezioni del Dopoguerra e se Wojtyla è stato l'ariete capace di aprire il primo buco nel muro europeo, allora il Papa argentino potrà svolgere lo stesso ruolo su scala latinoamericana. La sua passata militanza nella Guardia de Hierro, il discorso populista che non ha dimenticato e con cui addirittura ha abbracciato cause storiche come quella delle Malvinas, gli permetteranno di imporre la direzione a questo processo, per apostrofare gli sfruttatori e predicare la bontà degli sfruttati.
*Per gentile concessione del quotidiano argentino Pagina12.
L'autore, Horacio Verbitsky, è giornalista, scrittore e intellettuale, responsabile della sezione americana di Human Rights Watch. Nel 2005 ha scritto «L'isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina», nel quale ha raccolto le testimonianze di sopravvissuti e parenti dei desaparecidos. Nel 1995 aveva già pubblicato «Il Volo - Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos».
Delle centinaia di chiamate ed email che ho ricevuto, ne scelgo una sola. «Non riesco a crederci. Sono così angustiata e carica di rabbia che non so che cosa fare. Ha ottenuto ciò che voleva. Mi sembra di vedere Orlando nel salotto di casa nostra, qualche anno fa, che diceva: 'Lui vuole essere Papa'. È la persona più adatta a nascondere il marcio. Lui è un esperto in insabbiamenti. Il mio telefono non smette di suonare, Fito mi ha chiamato in lacrime». La firma è quella di Graciela Yorio, sorella del sacerdote Orlando Yorio, che denunciò Bergoglio come responsabile del suo sequestro e delle torture che ha subito per 5 mesi nell'anno 1976. Il Fito di cui parla. e che l'ha chiamata sconsolato, è Adolfo Yorio, suo fratello. Entrambi hanno dedicato buona parte della loro vita a portare avanti le denunce fatte da Orlando, un teologo e sacerdote terzomondista, morto nel 2000 con l'incubo che ieri è divenuto realtà. Tre anni prima, il suo mostro era stato eletto arcivescovo di Buenos Aires, un avvenimento che preannunciava il resto.
Orlando Yorio non ha mai avuto modo di sentire la deposizione di Bergoglio davanti al Tribunale Orale Federale n. 5. Quella fu la prima volta in cui riconobbe che, dopo la fine della dittatura, seppe che i militari rapivano i bambini. Tuttavia, il Tribunale Orale Federale n. 6, in cui si è svolto il processo per il programma sistematico di sequestro dei figli dei prigionieri-desaparecidos, ha ricevuto documenti in cui si indica che già nell'anno 1979 Bergoglio era perfettamente al corrente della situazione, non solo, ma che addirittura intervenne personalmente, eseguendo un ordine del suo superiore generale, Pedro Arrupe.
Dopo aver ascoltato il racconto dei familiari di Elena de la Cuadra, sequestrata nel 1977, quando si trovava al quinto mese di gravidanza, Bergoglio consegnò loro una lettera per il vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi, chiedendogli di intercedere davanti al governo militare. Picchi riuscì a scoprire che Elena aveva messo al mondo una bambina, poi regalata a un'altra famiglia.
«Ce l'ha una coppia per bene e non c'è modo di tornare indietro», disse alla famiglia. Dichiarando per iscritto nella causa dell'Esma (la Scuola di Meccanica della Marina), per il sequestro di Yorio e di Franscisco Jalics, che era gesuita come lui, Bergoglio disse che nell'archivio episcopale non c'erano documenti sui desaparecidos.
Tuttavia, il suo successore e attuale presidente della Conferenza episcopale, Josè Arancedo, inviò alla giudice Martina Forns una copia del documento che io stesso ho pubblicato, sulla riunione avvenuta tra il dittatore Videla e i vescovi Raul Primatesta, Juan Aramburu y Vicente Zazpe, in cui parlarono in modo straordinariamente franco del fatto che fosse conveniente o no dire che i desaparecidos erano stati uccisi, perché Videla voleva proteggere chi li aveva assassinati.
Nel suo libro ormai divenuto un classico, Iglesia y dictadura (Chiesa e dittatura), Emilio Miglione citò l'episodio come un paradigma di «pastori che consegnano le loro pecore al nemico, senza difenderle o tentare di recuperarle». Bergoglio mi ha raccontato che, in una delle sue prime messe come arcivescovo, riconobbe Mignone e tentò di raggiungerlo per dargli delle spiegazioni, ma che il presidente e fondatore del Cels alzò la mano facendogli segno di non avvicinarsi.
Non sono sicuro che Bergoglio sia stato eletto per nascondere il marcio che ha ridotto all'impotenza Joseph Ratzinger. Le lotte interne alla curia romana seguono una logica cosi imperscrutabile che i fatti più oscuri possono essere attribuiti allo spirito santo, sia che si tratti delle gestioni finanziarie per cui la Banca Vaticana è stata espulsa dal clearing internazionale, visto che non rispetta le regole anti-riciclaggio di denaro sporco, o le pratiche di pedofilia, in quasi tutti i paesi del mondo, che Ratzinger ha insabbiato attraverso il Santo Uffizio e per le quali ha chiesto perdono come Papa. Nemmeno mi sorprenderebbe che, con il pennello in mano e con le scarpe rotte, Bergoglio iniziasse una crociata moralizzante per imbiancare i sepolcri apostolici.
Quello di cui invece sono sicuro è che il nuovo vescovo di Roma sarà un ersatz, una parola tedesca che è impossibile tradurre e che significa un surrogato di qualità minore, come l'acqua mescolata con la farina che le madri povere usano per ingannare la fame dei loro figli. Il teologo della liberazione brasiliano, Leonardo Boff, allontanato da Ratzinger dall'insegnamento e dal sacerdozio, aveva il sogno che a essere eletto Papa fosse il francescano di origine irlandese Sean O'Malley, responsabile della diocesi di Boston, arrivata al fallimento per i tanti indennizzi che ha pagato ai bambini vessati dai suoi sacerdoti.
«È una persona molto legata ai poveri, perché ha lavorato a lungo in America Latina e ai Caraibi, sempre in mezzo agli indigenti. Questo significa che potrebbe essere un papa diverso, un papa che inizi una nuova tradizione», ha scritto l'ex sacerdote. Sul Trono Apostolico non siederà un vero francescano, ma un gesuita che si farà chiamare Francesco, come il poverello di Assisi. Un'amica argentina mi scrive turbata da Berlino, perché secondo i tedeschi, che non conoscono il suo passato, il nuovo papa è un terzomondista. Che grande confusione.
La sua biografia è quella di un populista conservatore, come lo sono stati Pio XII e Giovanni Paolo II: inflessibili su questioni dottrinali, ma con una certa apertura nei confronti del mondo, soprattutto, verso le masse povere. Quando recita la prima messa in una via di Trastevere o nella stazione Termini a Roma e parla di persone sfruttate e prostituite dagli insensibili potenti che chiudono il loro cuore a Cristo; quando i giornalisti amici raccontano che ha viaggiato in metropolitana o in autobus; quando i fedeli sentono le sue omelie recitate coi gesti di un attore, dove le parabole bibliche coesistono con il parlar franco del popolo, ci sarà chi delirerà per il tanto desiderato rinnovamento della Chiesa. Nei tre lustri che ha trascorso alla testa dell'Arcidiocesi di Buenos Aires ha fatto questo e altro. Ma al tempo stesso ha tentato di unire l'opposizione contro il primo governo che, dopo molti anni, ha adottato una politica favorevole ai settori meno abbienti. Addirittura lo ha accusato di essere aggressivo e di cercare provocazioni, perché per farlo è dovuto scendere a patti con quei potenti attaccati nel discorso.
Adesso potrà farlo su scala più grande, ma non significa che si dimenticherà dell'Argentina. Se Pacelli ricevette il finanziamento dell'Intelligence Usa per sostenere la Democrazia Cristiana e impedire la vittoria comunista nelle prime elezioni del Dopoguerra e se Wojtyla è stato l'ariete capace di aprire il primo buco nel muro europeo, allora il Papa argentino potrà svolgere lo stesso ruolo su scala latinoamericana. La sua passata militanza nella Guardia de Hierro, il discorso populista che non ha dimenticato e con cui addirittura ha abbracciato cause storiche come quella delle Malvinas, gli permetteranno di imporre la direzione a questo processo, per apostrofare gli sfruttatori e predicare la bontà degli sfruttati.
*Per gentile concessione del quotidiano argentino Pagina12.
L'autore, Horacio Verbitsky, è giornalista, scrittore e intellettuale, responsabile della sezione americana di Human Rights Watch. Nel 2005 ha scritto «L'isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina», nel quale ha raccolto le testimonianze di sopravvissuti e parenti dei desaparecidos. Nel 1995 aveva già pubblicato «Il Volo - Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos».
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14.3.13
Grillo politico? E' nato 20 anni fa
di Gigi Riva
«Tutto iniziò nel '92, quando nei camerini dello Smeraldo, a Milano, parlammo di pesticidi e ambiente». Il racconto di Marco Morosini, lo scienziato che da sempre «fornisce idee» al comico fondatore del M5S
Cosa sia Marco Morosini per Beppe Grillo è difficile da definire. Valga una citazione della "Neue Zürcher Zeitung" dell'anno scorso: «Come persone che gli hanno aperto gli occhi, Grillo nomina l'economista e premio Nobel americano Joseph Stiglitz, col quale discute regolarmente, il sociologo tedesco Wolfgang Sachs e lo scienziato italiano Marco Morosini, del Politecnico federale di Zurigo/ETH». Ma come gli ha «aperto gli occhi»? Bisogna fare molti passi indietro e tornare al 1992. Beppe è un comico che mira principalmente a far ridere e a fustigare sia i personaggi sia i tic del nostro vivere quotidiano e che ancora non affronta temi ecologici ed economici.
Marco è un milanese laureato in Chimica e tecnologia farmaceutica che ha da tre anni scelto l'estero, l'università di Ulm in Germania dove prenderà un dottorato in Chimica analitica ambientale. Beppe è in scena al teatro "Smeraldo" di Milano, Marco sta in platea e alla fine vuole conoscere la star, suggerirgli una battuta sui giornali troppo carichi di pubblicità. Incontro cruciale. La frase entra nello show. Segue un lungo pranzo in cui Morosini, fa ascoltare a Grillo l'audiocassetta di una conferenza che tiene nelle terze classi delle scuole medie. L'uomo è uno scienziato duro, di quelli che stanno in laboratorio col camice bianco, ma ha interessi multiformi. Gira film (molto premiati) sulle spedizioni in Antartide dove scopre che nei licheni di quei ghiacci ci sono tracce dei pesticidi che usiamo. Ed è il pretesto per parlare ai ragazzi di ecologia globale, di come i nostri comportamenti abbiano consegueze nefaste, tipo lasciare aperto un rubinetto mentre ci si lava i denti.
Chi ha seguito Grillo lo sa: temi, anche minimali, che entrano nei suoi monologhi. Tornato in Germania, inonda il fax dello showman di informazioni sullo sviluppo sostenibile. Nasce un'amicizia e una collaborazione assidua. Morosini, 60 anni, oggi riassume: «Ho scritto per lui duemila pagine, gli ho procurato contatti con persone del mondo che hanno buone idee da mettere in circolo, da Stiglitz a Sachs a molti altri colleghi, e ho scritto testi satirici per gli spettacoli, come facevo per "Cuore" e per "Linus". Farlo mi lusingava molto dal punto di vista umano. Mi dava la sensazione che i miei argomenti potessero essere divulgati, grazie a lui, con una grande potenza».
Dai suoi studi proposte che giudica «clamorose», nel senso che sono «suscettibili di far inalberare gli avversari e entusiasmare i fautori». Eccone alcune: ridurre il consumo di energia da 6000 a 2000 watt pro capite all'anno. Commento: «E' la più importante e la più solida. Non è mia. E' il cardine della scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il 2050». Ridurre il consumo di materie prime da 40 a 20 tonnellate pro capite l'anno, per limitare il saccheggio che stiamo facendo del pianeta. Settimana di lavoro di 30 ore da subito e di 20 ore tra vent'anni, naturalmente allo stesso stipendio: «Perché un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i danni, solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest'ultimo. Del resto la nostra testa è piena di triangoli come ci hanno insegnato i retori, a partire da Cicerone, e alla base della nostra cultura c'è una Trinità». Ridurre il divario salariale a un rapporto massimo di uno a 12: «Nessun manager possa guadagnare in un mese più di quanto i suoi dipendenti guadagnano in un anno. Anche in questo caso è curioso come sia la Svizzera l'epicentro della rivolta internazionale contro le disuguaglianze come ha dimostrato il referendum vinto "Contro le retribuzioni abusive"». Dare agli azionisti il potere di votare in Internet i loro manager e i loro salari. «Ognuna di queste idee potrebbe essere oggetto di dibattito nazionale vivace come avviene in altri paesi. Invece sono state quasi ignorate dai media».
Morosini vorrebbe al più presto ridurre a 18 anni l'età per votare per il Senato, e aprire una discussione sul voto ai sedicenni, come vige in Austria dal 2007. Ed è comprensibile se il Movimento 5 Stelle ha fatto il pieno tra i giovani. Movimento che ora vede come una piramide: «Sul primo gradino ci sono i nove milioni di elettori. Sul secondo il milione o poco meno dei frequentatori del blog; sul terzo i 250 mila iscritti; sul quarto i 40 mila iscritti e identificati con documento che hanno diritto di partecipare alle scelte dei candidati; sul quinto gli iscriti ai meetup; sul sesto i candidati alle elezioni; sul settimo i 163 eletti; sull'ottavo ci sono due seggiole uguali ma diverse».
Lo scienziato è anche un cittadino italiano e come tale guarda la situazione parlamentare che si è prodotta «con molta curiosità e poca preoccupazione. Forse ci sarebbe da farsi tremare le gambe ma mi piace credere che siamo davanti a una grande opportunità. Può girare male e allora finiamo come la Grecia. Ma puà girare bene e allora facciamo come l'Islanda dove hanno mandato a casa tutta la classe dirigente, cambiato il governo, nazionalizzato le banche, annullato il proprio debito, il popolo ha riscritto la Costituzione (e senza un comitato di saggi con Calderoli presidente), c'è una sensazione di fratellanza possibile e l'idea che la vecchia Islanda era marcia, era giusto che crollasse e andava rifondata. Cosa che mi auguro per l'Italia». Quanto a lui che ruolo avrà? «Continuo a scovare diffondere idee che avranno senso nei decenni. Poi certo ci vuole la politica del giorno per giorno e nutro grande ammirazione per Casaleggio, Grillo, gli eletti e gli iscritti che ora la dovranno fare. La politica giorno per giorno cerco di guardarla come un appassionato di ippica guarda di striscio il campionato di calcio».
«Tutto iniziò nel '92, quando nei camerini dello Smeraldo, a Milano, parlammo di pesticidi e ambiente». Il racconto di Marco Morosini, lo scienziato che da sempre «fornisce idee» al comico fondatore del M5S
Cosa sia Marco Morosini per Beppe Grillo è difficile da definire. Valga una citazione della "Neue Zürcher Zeitung" dell'anno scorso: «Come persone che gli hanno aperto gli occhi, Grillo nomina l'economista e premio Nobel americano Joseph Stiglitz, col quale discute regolarmente, il sociologo tedesco Wolfgang Sachs e lo scienziato italiano Marco Morosini, del Politecnico federale di Zurigo/ETH». Ma come gli ha «aperto gli occhi»? Bisogna fare molti passi indietro e tornare al 1992. Beppe è un comico che mira principalmente a far ridere e a fustigare sia i personaggi sia i tic del nostro vivere quotidiano e che ancora non affronta temi ecologici ed economici.
Marco è un milanese laureato in Chimica e tecnologia farmaceutica che ha da tre anni scelto l'estero, l'università di Ulm in Germania dove prenderà un dottorato in Chimica analitica ambientale. Beppe è in scena al teatro "Smeraldo" di Milano, Marco sta in platea e alla fine vuole conoscere la star, suggerirgli una battuta sui giornali troppo carichi di pubblicità. Incontro cruciale. La frase entra nello show. Segue un lungo pranzo in cui Morosini, fa ascoltare a Grillo l'audiocassetta di una conferenza che tiene nelle terze classi delle scuole medie. L'uomo è uno scienziato duro, di quelli che stanno in laboratorio col camice bianco, ma ha interessi multiformi. Gira film (molto premiati) sulle spedizioni in Antartide dove scopre che nei licheni di quei ghiacci ci sono tracce dei pesticidi che usiamo. Ed è il pretesto per parlare ai ragazzi di ecologia globale, di come i nostri comportamenti abbiano consegueze nefaste, tipo lasciare aperto un rubinetto mentre ci si lava i denti.
Chi ha seguito Grillo lo sa: temi, anche minimali, che entrano nei suoi monologhi. Tornato in Germania, inonda il fax dello showman di informazioni sullo sviluppo sostenibile. Nasce un'amicizia e una collaborazione assidua. Morosini, 60 anni, oggi riassume: «Ho scritto per lui duemila pagine, gli ho procurato contatti con persone del mondo che hanno buone idee da mettere in circolo, da Stiglitz a Sachs a molti altri colleghi, e ho scritto testi satirici per gli spettacoli, come facevo per "Cuore" e per "Linus". Farlo mi lusingava molto dal punto di vista umano. Mi dava la sensazione che i miei argomenti potessero essere divulgati, grazie a lui, con una grande potenza».
Dai suoi studi proposte che giudica «clamorose», nel senso che sono «suscettibili di far inalberare gli avversari e entusiasmare i fautori». Eccone alcune: ridurre il consumo di energia da 6000 a 2000 watt pro capite all'anno. Commento: «E' la più importante e la più solida. Non è mia. E' il cardine della scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il 2050». Ridurre il consumo di materie prime da 40 a 20 tonnellate pro capite l'anno, per limitare il saccheggio che stiamo facendo del pianeta. Settimana di lavoro di 30 ore da subito e di 20 ore tra vent'anni, naturalmente allo stesso stipendio: «Perché un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i danni, solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest'ultimo. Del resto la nostra testa è piena di triangoli come ci hanno insegnato i retori, a partire da Cicerone, e alla base della nostra cultura c'è una Trinità». Ridurre il divario salariale a un rapporto massimo di uno a 12: «Nessun manager possa guadagnare in un mese più di quanto i suoi dipendenti guadagnano in un anno. Anche in questo caso è curioso come sia la Svizzera l'epicentro della rivolta internazionale contro le disuguaglianze come ha dimostrato il referendum vinto "Contro le retribuzioni abusive"». Dare agli azionisti il potere di votare in Internet i loro manager e i loro salari. «Ognuna di queste idee potrebbe essere oggetto di dibattito nazionale vivace come avviene in altri paesi. Invece sono state quasi ignorate dai media».
Morosini vorrebbe al più presto ridurre a 18 anni l'età per votare per il Senato, e aprire una discussione sul voto ai sedicenni, come vige in Austria dal 2007. Ed è comprensibile se il Movimento 5 Stelle ha fatto il pieno tra i giovani. Movimento che ora vede come una piramide: «Sul primo gradino ci sono i nove milioni di elettori. Sul secondo il milione o poco meno dei frequentatori del blog; sul terzo i 250 mila iscritti; sul quarto i 40 mila iscritti e identificati con documento che hanno diritto di partecipare alle scelte dei candidati; sul quinto gli iscriti ai meetup; sul sesto i candidati alle elezioni; sul settimo i 163 eletti; sull'ottavo ci sono due seggiole uguali ma diverse».
Lo scienziato è anche un cittadino italiano e come tale guarda la situazione parlamentare che si è prodotta «con molta curiosità e poca preoccupazione. Forse ci sarebbe da farsi tremare le gambe ma mi piace credere che siamo davanti a una grande opportunità. Può girare male e allora finiamo come la Grecia. Ma puà girare bene e allora facciamo come l'Islanda dove hanno mandato a casa tutta la classe dirigente, cambiato il governo, nazionalizzato le banche, annullato il proprio debito, il popolo ha riscritto la Costituzione (e senza un comitato di saggi con Calderoli presidente), c'è una sensazione di fratellanza possibile e l'idea che la vecchia Islanda era marcia, era giusto che crollasse e andava rifondata. Cosa che mi auguro per l'Italia». Quanto a lui che ruolo avrà? «Continuo a scovare diffondere idee che avranno senso nei decenni. Poi certo ci vuole la politica del giorno per giorno e nutro grande ammirazione per Casaleggio, Grillo, gli eletti e gli iscritti che ora la dovranno fare. La politica giorno per giorno cerco di guardarla come un appassionato di ippica guarda di striscio il campionato di calcio».
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Il lato oscuro del cardinale
In un libro le collusioni dell'arcivescovo di Buenos Aires con la dittatura militare
Stella Spinelli (Peace Reporter 11.5.2006)
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, presidente dei vescovi argentini, nonché tra i più votati, un anno fa, nel conclave Vaticano che ha scelto il successore di Giovanni Paolo II, è accusato di collusione con la dittatura argentina che sterminò novemila persone. Le prove del ruolo giocato da Bergoglio a partire dal 24 marzo 1976, sono racchiuse nel libro L’isola del Silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, del giornalista argentino Horacio Verbitsky, che da anni studia e indaga sul periodo più tragico del Paese sudamericano, lavorando sulla ricostruzione degli eventi attraverso ricerche serie e attente.
Stella Spinelli (Peace Reporter 11.5.2006)
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, presidente dei vescovi argentini, nonché tra i più votati, un anno fa, nel conclave Vaticano che ha scelto il successore di Giovanni Paolo II, è accusato di collusione con la dittatura argentina che sterminò novemila persone. Le prove del ruolo giocato da Bergoglio a partire dal 24 marzo 1976, sono racchiuse nel libro L’isola del Silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, del giornalista argentino Horacio Verbitsky, che da anni studia e indaga sul periodo più tragico del Paese sudamericano, lavorando sulla ricostruzione degli eventi attraverso ricerche serie e attente.
I fatti riferiti da
Verbitsky. Nei primi anni
Settanta Bergoglio, 36 anni, gesuita, divenne il più giovane Superiore
provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Entrando a capo della
congregazione, ereditò molta influenza e molto potere, dato che in quel
periodo
l'istituzione religiosa ricopriva un ruolo determinante in tutte le
comunità ecclesiastiche di base,
attive nelle baraccopoli di Buenos Aires. Tutti i sacerdoti gesuiti che
operavano nell’area erano sotto le sue dipendenze. Fu così che nel
febbraio del
’76, un mese prima del colpo di stato, Bergoglio chiese a due dei
gesuiti
impegnati nelle comunità di abbandonare il loro lavoro nelle
baraccopoli e di
andarsene. Erano Orlando Yorio e Francisco Jalics, che si rifiutarono
di andarsene. Non se la sentirono di abbandonare tutta quella gente
povera che faceva
affidamento su di loro.
La svolta. Verbitsky racconta come Bergoglio reagì con due
provvedimenti immediati. Innanzitutto li escluse dalla Compagnia di
Gesù senza
nemmeno informarli, poi fece pressioni all’allora arcivescovo di
Buenos Aires
per toglier loro l’autorizzazione a dir messa. Pochi giorni dopo il
golpe, furono rapiti. Secondo quanto sostenuto dai due sacerdoti,
quella revoca fu il
segnale per i militari, il via libera ad agire: la protezione della
Chiesa era
ormai venuta meno. E la colpa fu proprio di Bergoglio, accusato di aver
segnalato i due padri alla dittatura come sovversivi. Con l’accezione
“sovversivo”, nell’Argentina di quegli anni, venivano qualificate
persone di
ogni ordine e grado: dai professori universitari simpatizzanti del
peronismo a
chi cantava canzoni di protesta, dalle donne che osavano indossare le
minigonne
a chi viaggiava armato fino ai denti, fino ad arrivare a chi era
impegnato nel
sociale ed educava la gente umile a prendere coscienza di diritti e
libertà.
Dopo sei mesi di sevizie nella
famigerata
Scuola di meccanica della marina (Esma), i due religiosi furono
rilasciati,
grazie alle pressioni del Vaticano.
Botta e risposta. Alle
accuse dei padri gesuiti di averli traditi e denunciati, il cardinal
Bergoglio si difende spiegando che la richiesta di lasciare la
baraccopoli era
un modo per metterli in guardia di fronte a un imminente pericolo. Un
botta e risposta
che è andato avanti per anni e che Verbitsky ha sempre riportato
fedelmente, fiutando che la verità fosse nel mezzo. Poi la luce: dagli
archivi del
ministero degli Esteri sono emersi documenti che confermano la versione
dei due
sacerdoti, mettendo fine a ogni diatriba. In particolare Verbitsky fa
riferimento a un episodio specifico: nel 1979 padre Francisco Jalics si
era
rifugiato in Germania, da dove chiese il rinnovo del passaporto per
evitare di
rimetter piede nell’Argentina delle torture. Bergoglio si offrì di fare
da
intermediario, fingendo di perorare la causa del padre: invece
l’istanza fu
respinta. Nella nota apposta sulla documentazione dal direttore
dell’Ufficio
del culto cattolico, allora organismo del ministero degli Esteri, c’è
scritto:
“Questo prete è un sovversivo. Ha avuto problemi con i suoi superiori
ed è
stato detenuto nell’Esma”. Poi termina dicendo che la fonte di queste
informazioni su Jalics è proprio il Superiore provinciale dei gesuiti
padre
Bergoglio, che raccomanda che non si dia corso all’istanza.
E non finisce qui. Un
altro documento evidenzia ancora più chiaramente il ruolo di Bergoglio:
“Nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia Argentina non ha
fatto pulizia al suo interno. I gesuiti furbi per qualche tempo sono rimasti in
disparte, ma adesso con gran sostegno dall’esterno di certi vescovi
terzomondisti hanno cominciato una nuova fase”. È il documento classificato
Direzione del culto, raccoglitore 9, schedario B2B, Arcivescovado di Buenos
Aires, documento 9. Nel libro di Verbitsky sono pubblicati anche i resoconti
dell’incontro fra il giornalista argentino e il cardinale, durante i quali
quest’ultimo ha cercato di presentare le prove che ridimensionassero il suo
ruolo. “Non ebbi mai modo di etichettarli come guerriglieri o comunisti
–
affermò l’arcivescovo – tra l’altro perché no ho mai creduto che lo fossero”.
Ma… Ad inchiodarlo c’è anche la testimonianza di
padre Orlando Yorio, morto nel 2000 in Uruguay e mai ripresosi
pienamente dalle
torture, dalla terribile esperienza vissuta chiuso nell’Esma. In
un’intervista
rilasciata a Verbistky nel 1999 racconta il suo arrivo a Roma dopo la
partenza
dall’Argentina: “Padre Gavigna, segretario generale dei gesuiti, mi
aprì gli
occhi – raccontò in quell’occasione – Era un colombiano che aveva
vissuto in
Argentina e mi conosceva bene. Mi riferì che l’ambasciatore argentino
presso la
Santa Sede lo aveva informato che secondo il governo eravamo stati
catturati
dalle Forze armate perché i nostri superiori ecclesiastici lo avevano
informato che almeno uno di noi era un guerrigliero. Chiesi a Gavigna
di
mettermelo per iscritto e lo fece”.
Nel libro, inoltre,
Verbistky spiega come Bergoglio, durante la dittatura militare, abbia svolto
attività politica nella Guardia di ferro, un’organizzazione della destra
peronista, che ha lo stesso nome di una formazione rumena sviluppatasi fra gli
anni Venti e i Trenta del Novecento, legata al nazionalsocialismo. Secondo il
giornalista, l’attuale arcivescovo di Buenos Aires, quando ricoprì il ruolo di
Provinciale della Compagnia di Gesù, decise che l’Università gestita dai gesuiti
fosse collegata a un’associazione privata controllata dalla Guardia di ferro.
Controllo che terminò proprio quando Bergoglio fu trasferito di ruolo. “Io non
conosco casi moderni di vescovi che abbiano avuto una partecipazione politica
così esplicita come è stata quella di Bergoglio”, incalza Verbitsky. “Lui agisce
con il tipico stile di un politico. È in relazione costante con il mondo
politico, ha persino incontri costanti con ministri del governo.
Oggi. Nonostante non abbia mai ammesso le sue colpe, il
presidente dei vescovi argentini ha spinto la Chiesa del paese latinoamericano
a pubblicare una sorta di mea culpa in occasione del 30esimo anniversario del
colpo di Stato, celebratosi lo scorso marzo. “Ricordare il passato per
costruire saggiamente il presente” è il titolo della missiva apostolica, dove
viene chiesto agli
argentini di volgere lo sguardo al passato per ricordare la rottura della
vita democratica, la violazione della dignità umana e il disprezzo per la legge
e le istituzioni. “Questo, avvenuto in un contesto di grande fragilità
istituzionale – hanno scritto i vescovi argentini – e reso possibile dai
dirigenti di quel periodo storico, ebbe gravi conseguenze che segnarono
negativamente la vita e la convivenza del nostro popolo. Questi fatti del
passato che ci parlano di enormi errori contro la vita e del disprezzo per la
legge e le istituzioni sono un’occasione propizia affinché come argentini ci
pentiamo una volta di più dai nostri errori
per assimilare l’insegnamento della nostra storia nella costruzione del
presente”.
Tanti tasselli, quelli
raccolti dal giornalista argentino nel suo libro che ci aiutano a vedere un
po’ meglio in un mosaico tanto complesso quanto doloroso della storia recente
di Santa Romana Chiesa.
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5.3.13
Molto da imparare poco da insegnare
di Marco Revelli ( Il Manifesto del 5 marzo)
I tedeschi, che di filosofia della storia se ne intendono (quantomeno per averla inventata), le chiamano «epoche assiali». Achsenzeit: un tempo in cui il mondo ruota sul suo asse, e ogni cosa si rovescia. E noi ci siamo dentro fino al collo. Basta dare un’occhiata a Roma, mai come oggi caput mundi nel simbolismo del vuoto che ostenta. Vuoto tutto. Vuoto il Sacro Soglio, con un papa arreso al disordine spirituale del mondo e al disordine morale della curia romana. Vuoto il Parlamento, capace forse di rappresentare il mosaico infranto della nostra società ma impossibilitato comunque a produrre uno straccio di sintesi.
Vuoto, tra poco, il Colle dove è vissuto l’ultimo Sovrano tentato di governare lo stato d’eccezione permanente in cui siamo caduti. Vuota persino la poltrona del capo della polizia.
Certo, il combinato disposto di burocrazie e sistema dell’informazione si è messo al lavoro per metabolizzare il tragico nel banale: le prime assorbendo nella continuità procedurale anche le più dirompenti discontinuità reali (non comunica forse un senso di teatro dell’assurdo tutto questo accanimento sui tempi del Conclave, il motu proprio, le modalità dell’arrivo dei Cardinali mentre si è appena schiantato il dogma dell’infallibilità del Capo? o, si parva licet, l’immagine del povero Bersani, a disquisire in un’estemporanea conferenza stampa sul diritto del perdente arrivato primo a dare inizio alle danze nel salone d’onore mentre fuori, come dopo un’esplosione nucleare, è persino difficile identificare i muri entro i quali raccogliersi…).
Il secondo – il famigerato sistema dei media – pronto, nella sua ingordigia di spettacolarità, a divorare ogni evento consumandolo per lasciarlo alla fine spolpato come se, una volta spenti i riflettori, esso non producesse più effetti. E tuttavia nulla potrà occultare o attenuare la potenza tellurica del mutamento. Il cambio di scenario. La rottura di paradigma – chiamiamolo come vogliamo – che quest’inizio di 2013 ha rivelato in tutta la sua portata.
«È finita», urlava Grillo dal palco. E può apparire un paradosso che sia toccato a un ex comico annunciarlo, nel linguaggio della commedia dell’arte. Le elezioni politiche italiane non hanno certo un valore programmatico, lo vedrebbe anche un cieco che non indicano nessuna via d’uscita. Ma uno diagnostico sì. Ci dicono che è finita una forma della politica. Ridiciamolo nel modo più sgradevole: che è finita la politica del Novecento. Quella in cui una società sostanzialmente aggregata in gruppi e classi si strutturava e riconosceva stabilmente nella forma del partito politico e attraverso questo provava a esprimersi e a contare dentro le istituzioni. Ci dicono anche che il suo tentativo di prolungarsi, e sopravvivere a se stessa nell’ultimo periodo, era diventato insopportabile: un misto di finzione e supponenza. Di filisteismo e rapacità. Tanto più odiosi, quanto più accompagnati al fallimento sostanziale, e trasversale, di un’intera classe politica nella gestione di quella cosa pubblica della cui proprietà pretendeva di mantenere il monopolio.
Non si spiega altrimenti l’intensità torrentizia con cui la forza sradicante del cambiamento si è espressa nelle urne: come di una molla compressa da tempo. O un magma incandescente accumulato sotto un tappo di pietra e d’improvviso tracimato. Non si era mai visto un partito salire, dal nulla, fino a occupare il podio della maggioranza relativa. Lo dicono tutti i commentatori, un po’ col tono con cui si annuncia un Guinness dei primati, senza tuttavia interrogarsi su cosa “ci sia sotto” quel record. In quella moltitudine di portatori di scheda che silenziosamente, in due giorni, hanno smontato un sistema politico che sembrava di pietra, e che evidentemente non aspettavano altro che trovare un canale di sfogo, per esprimere la propria voglia di farla finita con l’esistente. Eppure i numeri parlano chiaro, dovrebbero invitare perentoriamente ad abbandonare ogni vecchia abitudine, ogni continuismo di sguardo e di progetto, ogni pigrizia mentale e ogni tentazione di rassicurazione.
Ho davanti a me la mappa del voto provincia per provincia nel 2013 e nel 2008. E il confronto (un esercizio che consiglio a tutti) ci parla di un paesaggio totalmente trasformato, come dopo uno tzunami, appunto. O un bradisisma sistemico. Ci dice intanto che negli ultimi cinque anni altri 2 milioni e mezzo di “aventi diritto al voto” (quasi tre volte la popolazione di Torino, sei volte quella di Firenze) si sono aggiunti all’esercito degli astenuti che ha superato ampiamente i 13 milioni (più di un quarto dell’elettorato). Ci dice anche che se sommiamo la massa degli astenuti e quella dei voti al Movimento 5 Stelle superiamo di qualche punto la soglia del 50%, come a dire che almeno la metà del corpo elettorale italiano sta fuori dallo spazio politico “ufficiale”. Nega, silenziosamente o in modo partecipato, la propria adesione a “quella” politica.
Di più, se non ci accontentiamo delle percentuali misurate sui soli votanti, o sui voti validi, ma calcoliamo in valori assoluti il peso dei due schieramenti “ufficiali” – centrosinistra e centrodestra – all’interno dell’intero corpo elettorale, scopriamo che insieme non raccolgono, oggi, più di 19.900.000 voti su quasi 47 milioni di “aventi diritto” (poco più del 40 per cento). Tutti e due insieme hanno perso, rispetto al 2008, qualcosa come 12 milioni di elettori, per effetto dell’emorragia che ha colpito soprattutto i due principali partiti: il Pd, che ne ha smarriti quasi 3 milioni e mezzo (è passato dai 12.095.000 del 2008 agli 8.642.000 del 2013, con una flessione del proprio “capitale elettorale” vicina al 30%). E soprattutto il Pdl – la cui euforia successiva al voto si spiega solo con il precedente terrore della scomparsa -, che ne ha mollati addirittura 6 milioni e 300mila (dai 13.629.000 del 2008 ai 7.332.000 di oggi). Erano, fino a ieri, i playmakers assoluti: i due pilastri di un sistema politico che come un tormentone continuava a definirsi idealmente bipolare, egemonicamente maggioritario, in un’autonarrazione stucchevole ma pervasiva, tanto che i riflettori dei media erano accesi solo su di essi. Si sono rivelati congiuntamente minoritari. Confinati in un settore parziale dello spazio politico, e tendenzialmente in via di regressione. Contenitori bucati il cui liquido in parte si disperde nell’ambiente, come nell’acquedotto pugliese (l’istituto Cattaneo calcola che quei due milioni di astensionisti in più provengano proprio dai due dioscuri falliti). In parte viene intercettato dall’outsider assoluto, quello che i professionisti della politica trattavano con sufficienza come “antipolitico” e che ha stravinto politicamente, prelevando quote massicce di voti dall’uno e dall’altro, alternativamente, con una precisione chirurgica, da tosatura d’artista. A Torino, per esempio, nella Torino gesuitica del TAV di regime, ha salassato il Pd, prendendosi quasi il 40% dei propri voti di lì, oltre a un altro 20% dagli ex dipietristi. E a Reggio Calabria stremata dalla malavita berlusconiana si è ciucciato quasi un 50% di successo dal Pdl. Nella Brescia ex padana, ha distribuito equamente il prelievo tra Lega Nord (un 30%) e Pd (32%), ma a Padova è andato giù più duro, conquistandosi un 47% di consenso tra i leghisti orfani di Bossi, mentre a Firenze ha fatto il pieno tra gli ex Pd (il 58% dei voti arriva di lì), un po’ come a Napoli (44%) dove comunque non lascia indenne il Pdl (26%).
Si sarebbe tentati di immaginare che sia stata all’opera una grande regia, capace di ridisegnare la mappa del consenso con astuzia mefistofelica. Ma sappiamo che non è così. Dietro questo capolavoro non c’è un “soggetto”. Né tantomeno un apparato (non per nulla Grillo definisce il suo “un non-partito”). Non c’è una “forza politica”, come novecentescamente avremmo detto. C’è la forza delle cose. Un processo selvaggio che ha usato la breccia aperta da Grillo con la sua espressività radicale per forare l’involucro in cui era stato compresso. E sgombrare il campo. Per questo non si possono neppure immaginare le vecchie pratiche (e i vecchi trucchi). E fa un po’ ridere l’idea stessa che si possa ragionare in termini di alleanze, “assi” (Grillo-Bersani???). “accordi di programma” (???) o spartizione delle cariche istituzionali, come se Grillo e Casaleggio fossero come Bersani e Letta, o come Alfano e Cicchitto. Non lo sono – guardategli i capelli e lo capirete – non solo perché vengono da un’altra galassia (hanno vinto per quello), ma perché stanno dentro (o davanti, o sopra) a un’altra cosa: un “non-partito” che non sanno neppure loro che cosa sia realmente. Che gli è cresciuto sotto, o dietro, o davanti, d’improvviso. Che solo vagamente “guidano”. E che non sappiamo neppure se e fino a quando resterà insieme, né come e in quale direzione scaricherà la sua spaventosa energia.
Quello che sappiamo è che d’ora in poi si gioca un’altra partita, su una scacchiera in frantumi e con altri pezzi. Possiamo oscillare tra l’horror vacui che inevitabilmente ci prende se si pensa al futuro e il senso di liberazione per questo brusco e salutare ritorno alla realtà che il voto ci rivela. Ma una cosa non possiamo più permetterci: illuderci che si possa ritrovare presto un qualche equilibrio, e che qualcuno di noi abbia la ricetta giusta da prescrivere. Attrezziamoci pure, perché dovremo abituarci a convivere a lungo con il terremoto. E avremo molto da imparare, quasi nulla da insegnare.
I tedeschi, che di filosofia della storia se ne intendono (quantomeno per averla inventata), le chiamano «epoche assiali». Achsenzeit: un tempo in cui il mondo ruota sul suo asse, e ogni cosa si rovescia. E noi ci siamo dentro fino al collo. Basta dare un’occhiata a Roma, mai come oggi caput mundi nel simbolismo del vuoto che ostenta. Vuoto tutto. Vuoto il Sacro Soglio, con un papa arreso al disordine spirituale del mondo e al disordine morale della curia romana. Vuoto il Parlamento, capace forse di rappresentare il mosaico infranto della nostra società ma impossibilitato comunque a produrre uno straccio di sintesi.
Vuoto, tra poco, il Colle dove è vissuto l’ultimo Sovrano tentato di governare lo stato d’eccezione permanente in cui siamo caduti. Vuota persino la poltrona del capo della polizia.
Certo, il combinato disposto di burocrazie e sistema dell’informazione si è messo al lavoro per metabolizzare il tragico nel banale: le prime assorbendo nella continuità procedurale anche le più dirompenti discontinuità reali (non comunica forse un senso di teatro dell’assurdo tutto questo accanimento sui tempi del Conclave, il motu proprio, le modalità dell’arrivo dei Cardinali mentre si è appena schiantato il dogma dell’infallibilità del Capo? o, si parva licet, l’immagine del povero Bersani, a disquisire in un’estemporanea conferenza stampa sul diritto del perdente arrivato primo a dare inizio alle danze nel salone d’onore mentre fuori, come dopo un’esplosione nucleare, è persino difficile identificare i muri entro i quali raccogliersi…).
Il secondo – il famigerato sistema dei media – pronto, nella sua ingordigia di spettacolarità, a divorare ogni evento consumandolo per lasciarlo alla fine spolpato come se, una volta spenti i riflettori, esso non producesse più effetti. E tuttavia nulla potrà occultare o attenuare la potenza tellurica del mutamento. Il cambio di scenario. La rottura di paradigma – chiamiamolo come vogliamo – che quest’inizio di 2013 ha rivelato in tutta la sua portata.
«È finita», urlava Grillo dal palco. E può apparire un paradosso che sia toccato a un ex comico annunciarlo, nel linguaggio della commedia dell’arte. Le elezioni politiche italiane non hanno certo un valore programmatico, lo vedrebbe anche un cieco che non indicano nessuna via d’uscita. Ma uno diagnostico sì. Ci dicono che è finita una forma della politica. Ridiciamolo nel modo più sgradevole: che è finita la politica del Novecento. Quella in cui una società sostanzialmente aggregata in gruppi e classi si strutturava e riconosceva stabilmente nella forma del partito politico e attraverso questo provava a esprimersi e a contare dentro le istituzioni. Ci dicono anche che il suo tentativo di prolungarsi, e sopravvivere a se stessa nell’ultimo periodo, era diventato insopportabile: un misto di finzione e supponenza. Di filisteismo e rapacità. Tanto più odiosi, quanto più accompagnati al fallimento sostanziale, e trasversale, di un’intera classe politica nella gestione di quella cosa pubblica della cui proprietà pretendeva di mantenere il monopolio.
Non si spiega altrimenti l’intensità torrentizia con cui la forza sradicante del cambiamento si è espressa nelle urne: come di una molla compressa da tempo. O un magma incandescente accumulato sotto un tappo di pietra e d’improvviso tracimato. Non si era mai visto un partito salire, dal nulla, fino a occupare il podio della maggioranza relativa. Lo dicono tutti i commentatori, un po’ col tono con cui si annuncia un Guinness dei primati, senza tuttavia interrogarsi su cosa “ci sia sotto” quel record. In quella moltitudine di portatori di scheda che silenziosamente, in due giorni, hanno smontato un sistema politico che sembrava di pietra, e che evidentemente non aspettavano altro che trovare un canale di sfogo, per esprimere la propria voglia di farla finita con l’esistente. Eppure i numeri parlano chiaro, dovrebbero invitare perentoriamente ad abbandonare ogni vecchia abitudine, ogni continuismo di sguardo e di progetto, ogni pigrizia mentale e ogni tentazione di rassicurazione.
Ho davanti a me la mappa del voto provincia per provincia nel 2013 e nel 2008. E il confronto (un esercizio che consiglio a tutti) ci parla di un paesaggio totalmente trasformato, come dopo uno tzunami, appunto. O un bradisisma sistemico. Ci dice intanto che negli ultimi cinque anni altri 2 milioni e mezzo di “aventi diritto al voto” (quasi tre volte la popolazione di Torino, sei volte quella di Firenze) si sono aggiunti all’esercito degli astenuti che ha superato ampiamente i 13 milioni (più di un quarto dell’elettorato). Ci dice anche che se sommiamo la massa degli astenuti e quella dei voti al Movimento 5 Stelle superiamo di qualche punto la soglia del 50%, come a dire che almeno la metà del corpo elettorale italiano sta fuori dallo spazio politico “ufficiale”. Nega, silenziosamente o in modo partecipato, la propria adesione a “quella” politica.
Di più, se non ci accontentiamo delle percentuali misurate sui soli votanti, o sui voti validi, ma calcoliamo in valori assoluti il peso dei due schieramenti “ufficiali” – centrosinistra e centrodestra – all’interno dell’intero corpo elettorale, scopriamo che insieme non raccolgono, oggi, più di 19.900.000 voti su quasi 47 milioni di “aventi diritto” (poco più del 40 per cento). Tutti e due insieme hanno perso, rispetto al 2008, qualcosa come 12 milioni di elettori, per effetto dell’emorragia che ha colpito soprattutto i due principali partiti: il Pd, che ne ha smarriti quasi 3 milioni e mezzo (è passato dai 12.095.000 del 2008 agli 8.642.000 del 2013, con una flessione del proprio “capitale elettorale” vicina al 30%). E soprattutto il Pdl – la cui euforia successiva al voto si spiega solo con il precedente terrore della scomparsa -, che ne ha mollati addirittura 6 milioni e 300mila (dai 13.629.000 del 2008 ai 7.332.000 di oggi). Erano, fino a ieri, i playmakers assoluti: i due pilastri di un sistema politico che come un tormentone continuava a definirsi idealmente bipolare, egemonicamente maggioritario, in un’autonarrazione stucchevole ma pervasiva, tanto che i riflettori dei media erano accesi solo su di essi. Si sono rivelati congiuntamente minoritari. Confinati in un settore parziale dello spazio politico, e tendenzialmente in via di regressione. Contenitori bucati il cui liquido in parte si disperde nell’ambiente, come nell’acquedotto pugliese (l’istituto Cattaneo calcola che quei due milioni di astensionisti in più provengano proprio dai due dioscuri falliti). In parte viene intercettato dall’outsider assoluto, quello che i professionisti della politica trattavano con sufficienza come “antipolitico” e che ha stravinto politicamente, prelevando quote massicce di voti dall’uno e dall’altro, alternativamente, con una precisione chirurgica, da tosatura d’artista. A Torino, per esempio, nella Torino gesuitica del TAV di regime, ha salassato il Pd, prendendosi quasi il 40% dei propri voti di lì, oltre a un altro 20% dagli ex dipietristi. E a Reggio Calabria stremata dalla malavita berlusconiana si è ciucciato quasi un 50% di successo dal Pdl. Nella Brescia ex padana, ha distribuito equamente il prelievo tra Lega Nord (un 30%) e Pd (32%), ma a Padova è andato giù più duro, conquistandosi un 47% di consenso tra i leghisti orfani di Bossi, mentre a Firenze ha fatto il pieno tra gli ex Pd (il 58% dei voti arriva di lì), un po’ come a Napoli (44%) dove comunque non lascia indenne il Pdl (26%).
Si sarebbe tentati di immaginare che sia stata all’opera una grande regia, capace di ridisegnare la mappa del consenso con astuzia mefistofelica. Ma sappiamo che non è così. Dietro questo capolavoro non c’è un “soggetto”. Né tantomeno un apparato (non per nulla Grillo definisce il suo “un non-partito”). Non c’è una “forza politica”, come novecentescamente avremmo detto. C’è la forza delle cose. Un processo selvaggio che ha usato la breccia aperta da Grillo con la sua espressività radicale per forare l’involucro in cui era stato compresso. E sgombrare il campo. Per questo non si possono neppure immaginare le vecchie pratiche (e i vecchi trucchi). E fa un po’ ridere l’idea stessa che si possa ragionare in termini di alleanze, “assi” (Grillo-Bersani???). “accordi di programma” (???) o spartizione delle cariche istituzionali, come se Grillo e Casaleggio fossero come Bersani e Letta, o come Alfano e Cicchitto. Non lo sono – guardategli i capelli e lo capirete – non solo perché vengono da un’altra galassia (hanno vinto per quello), ma perché stanno dentro (o davanti, o sopra) a un’altra cosa: un “non-partito” che non sanno neppure loro che cosa sia realmente. Che gli è cresciuto sotto, o dietro, o davanti, d’improvviso. Che solo vagamente “guidano”. E che non sappiamo neppure se e fino a quando resterà insieme, né come e in quale direzione scaricherà la sua spaventosa energia.
Quello che sappiamo è che d’ora in poi si gioca un’altra partita, su una scacchiera in frantumi e con altri pezzi. Possiamo oscillare tra l’horror vacui che inevitabilmente ci prende se si pensa al futuro e il senso di liberazione per questo brusco e salutare ritorno alla realtà che il voto ci rivela. Ma una cosa non possiamo più permetterci: illuderci che si possa ritrovare presto un qualche equilibrio, e che qualcuno di noi abbia la ricetta giusta da prescrivere. Attrezziamoci pure, perché dovremo abituarci a convivere a lungo con il terremoto. E avremo molto da imparare, quasi nulla da insegnare.
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4.3.13
Svizzera: un referendum vinto e un altro in arrivo contro le disuguaglianze economiche
#qualcosadisinistra dalla Svizzera
Lo tsunami anche oltre le Alpi. Oggi in Svizzera è stato approvato a larga maggioranza un referendum che si propone di ridurre le disuguaglianze economiche. E presto ne arriverà un altro che vuole imporre un limite ai superstipendi. Una strada percorribile anche in Italia, grazie al Movimento 5 stelle? Dalla Svizzera ci aiuta a capire di più Marco Morosini, senior scientist e ex professore del Politecnico federale di Zurigo.
LOTTA DI CLASSE ALLA GUGLIELMO TELLLo tsunami anche oltre le Alpi. Oggi in Svizzera è stato approvato a larga maggioranza un referendum che si propone di ridurre le disuguaglianze economiche. E presto ne arriverà un altro che vuole imporre un limite ai superstipendi. Una strada percorribile anche in Italia, grazie al Movimento 5 stelle? Dalla Svizzera ci aiuta a capire di più Marco Morosini, senior scientist e ex professore del Politecnico federale di Zurigo.
Svizzera, epicentro della rivolta contro le crescenti disuguaglianze economiche
Probabilmente il 3 marzo 2013 resterà una giornata memorabile, non solo nella storia della Svizzera, ma anche nella storia della politica e delle ideologie di questi decenni, come già affermano alcuni osservatori.
Oggi il 100% dei cantoni svizzeri e il 68% dei votanti hanno detto sì alla iniziativa popolare di modifica della costituzione “Contro le retribuzioni abusive”, lanciata da un singolo cittadino, il piccolo imprenditore di Sciaffusa, Thomas Minder.
L’attuazione della volontà del sovrano – come si dice in Svizzera – spetta ora al governo, che entro un anno dovrà modificare l’articolo 95 della Costituzione, inserendovi le vittoriose prescrizioni referendarie, che danno un nuovo e grande potere agli azionisti e riducono i poteri e forse le retribuzioni degli amministratori. La Costituzione dovrà affermare fra l’altro:
- tutti gli azionisti possono votare anche con voto elettronico a distanza
- l’assemblea annuale degli azionisti vota per decidere i compensi dei membri del consiglio d’amministrazione, del presidente e dell’amministratore delegato e per eleggere e confermare ogni anno gli stessi;
- le casse pensioni votano nell’interesse dei loro assicurati e rendono pubblico il loro voto
- la rappresentanza del diritto di voto da parte degli organi e per i titoli in deposito è vietata
- i membri dei vari organi non ricevono liquidazioni, altre indennità, retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite di ditte e contratti supplementari di consulenza o di lavoro da parte di società del gruppo
- l’infrazione delle disposizioni precedenti è punita con la pena detentiva fino a tre anni e con la pena pecuniaria fino a sei retribuzioni annuali.
Da anni la “Minder-Initiative” – dal nome del suo promotore – detta anche “Abzocker Initiative” (“Iniziativa contro i profittatori”) era molto popolare nel Paese.
Eppure l’intero governo e una grande maggioranza del parlamento e dei partiti, hanno condotto una tenace campagna per il no. Economie suisse, la confindustria elvetica, ha sperperato 8 milioni di franchi – un record storico – riempiendo la Svizzera di inutili manifesti. Minder e i suoi sostenitori sono invece riusciti a convincere 7 votanti su 10 con i modesti 200 000 franchi del loro budget.
Daniel Vasella, 72 milioni di franchi per non far niente
Come ha scritto un editorialista sull’imminente referendum “8 milioni non possono niente contro 72 milioni”. Quest’ultimo è il “compenso” (!) che fino a due settimane fa Daniel Vasella, il presidente uscente di Novartis, avrebbe dovuto ricevere in sei anni, in cambio dell’impegno a non lavorare per la concorrenza – peraltro dopo che il suo ultimo stipendio annuo era stato di 40 milioni. Scoperto da un hacker e divulgato come prima notizia in stampa e telegiornali, lo stipendio di “72 milioni per non far niente” di Vasella ha dominato i media per due settimane, infiammando ulteriormente il sentimento di indignazione che da dieci anni la grande maggioranza degli svizzeri nutre verso retribuzioni annue dei manager che vanno dai 10 ai 150 milioni franchi.
Il 22 febbraio Vasella si è piegato allo sdegno popolare e ha annunciato davanti all’assemblea degli azionisti che rinunciava ai 72 milioni e che aveva sbagliato ad accettarli. Troppo tardi.
Forse sono proprio le parole di dieci giorni fa dello stesso Vasella davanti a 2000 dei suoi azionisti quelle che oggi meglio spiegano perché il sì “Contro le retribuzioni abusive” ha vinto con la percentuale del 68%, record storico in Svizzera:
Da questa vicenda traggo una conseguenza positiva: la trasparenza è il più importante fattore regolativo dei salari dei manager, anche in assenza di leggi dello Stato.”
Prosperi e felici, ma contrari alle disuguaglianze economiche crescenti
La Svizzera è ai primissimi posti nelle classifiche di prosperità e felicità dei suoi abitanti e gode da decenni di tassi di disoccupazione sotto il 2-4%. Eppure è proprio la Svizzera l’epicentro mondiale delle iniziative per ridurre i divari di reddito e di patrimonio che crescono da 30 anni nei Paesi industriali.
In autunno, infatti, seguirà un secondo referendum costituzionale, quello sulla iniziativa popolare “1:12 per salari equi”. In inverno seguirà un terzo referendum costituzionale per introdurre una tassa di successione del 20% sulle eredità superiori a 2 milioni di franchi.
L’ostilità degli Svizzeri all’aumento delle diseguaglianze economiche dimostra la fragilità della teoria del “trickle down”, secondo la quale tutti i ceti meno abbienti profittano almeno un poco, se i più abbienti accrescono (anche moltissimo) i loro redditi – anche se oltre ogni misura e merito. In teoria potrebbe anche essere vero che gli svizzeri meno abbienti stiano oggettivamente un poco meglio proprio grazie al fatto che i più abbienti raddoppino redditi e patrimoni ogni dieci anni. Ma i ¾ degli svizzeri non ne sono convinti, o comunque ritengono inaccettabile questa dinamica sociale.
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