di Marina Boscaino, Marco Gastavigna
Anche la Fiera di Torino è stata un'occasione per parlare, da un punto di vista generale, del rapporto tra libro cartaceo e ebook: integrazione o conflitto? Il Tar del Lazio ha recentemente sospeso la circolare ministeriale sull'adozione dei testi: è stata violata l'autonomia delle scuole e la libertà di insegnamento attraverso l'imposizione di limiti e restrizioni non coerenti. L'auspicio è che la sospensione - considerata l'imminenza della scadenza - rilanci nelle scuole una specifica discussione sui libri digitali, finora quasi del tutto assente. L'impressione per ora è quella di trovarsi davanti ad un'occasione perduta, sacrificata a facili logiche interventiste, a una «modernità» che rischia sempre più di non coincidere con «qualità».
Il consueto decreto che regola l'adozione dei libri di testo definisce le caratteristiche tecnologiche di riferimento per selezionare quello che rimane lo strumento didattico e formativo fondamentale. Il silenzio più o meno indifferente (o ignorante?) di media e mondo della scuola rischia di accreditare come rivoluzione una potenziale, probabile involuzione, se non si rifletterà adeguatamente, senza timori reverenziali, sulle implicazioni culturali del provvedimento. Impresa tanto più ardua, quanto più si configura l'inaugurazione di un mercato alternativo: quando ci sono interessi economici da tutelare l'incentivo al dialogo si stempera fatalmente. Il mondo della scuola, poi, abituato a circolari che inverano realtà inesistenti e incapace di fronteggiarne (se non di notarne) improvvisazione e approssimazione, consegna tutto ciò che è «digitale» a presunti specialisti. A fronte di qualche voce critica, ben più numerosi sono gli entusiasti di una sedicente innovazione metodologica - erronea equazione tra modernità e positività: gli strumenti digitali supererebbero tout court il supporto cartaceo, obsoleto sul piano non solo tecnologico, ma anche comunicativo.
«A sinistra» vi sarebbe poi un'aprioristica denigrazione, da qualcuno già attribuita ai promotori del ricorso al Tar e alle organizzazioni sindacali e alle associazioni che li hanno sostenuti: l'ostilità preconcetta al ministro Gelmini spingerebbe ad opporsi ad un circolo certamente virtuoso, negandone gli aspetti positivi. Non è affatto così. Siamo di fronte ad un'operazione politicamente demagogica, pertanto pericolosa; e culturalmente superficiale, quindi pericolosissima. Riduzione del peso degli zainetti e del costo dei libri: queste le premesse dell'introduzione obbligatoria di libri digitali a partire dal 2012 (da confermare obbligatoriamente per 6 anni). Inoltre: «il passaggio al testo digitale consente di accrescere la funzionalità dei libri di testo in forma tradizionale e di arricchire di nuove funzionalità (...) gli ambienti di apprendimento. A sua volta il testo in forma mista favorisce la possibilità di accedere a schede o testi di approfondimento, tramite appositi link». Peso e costi interesserebbero soprattutto l'opinione pubblica. Il dogma del miglioramento di didattica e apprendimenti spingerebbe i docenti a valorizzare l'impiego di strumenti elettronici. Il mercato, infine, solleciterebbe miracolosamente gli editori a un'aperta concorrenza, che li vedrebbe aggiornare con lieta solerzia i testi - peraltro già adottati e in uso presso le scuole - con nuovi materiali da Internet.
Il decreto esige la massima compatibilità dei prodotti digitali con dispositivi e programmi già presumibilmente in possesso degli studenti: disposizione in sé incontestabile. Non è chiaro però - o forse viene volutamente taciuto - a carico di chi saranno le spese necessarie per permettere a tutti gli allievi di tutte le classi di tutte le scuole della Repubblica di fruire appieno dei nuovi, palingenetici prodotti culturali. Ogni studente dovrà entrare in possesso esclusivo di un pc (se non di un più costoso ebook reader, al momento gadget per lettori appassionati), salvo sdoganare gli appena vietati cellulari e lettori di musica e video, alcuni dei quali in grado di leggere testi, seppure su schermi di dimensioni così piccole da risultare probabilmente un deterrente.
L'impresa non sembra insomma alla portata della scuola pubblica, vittima peraltro di uno spregiudicato disinvestimento, di presunti risparmi che dall'anno prossimo falcidieranno le risorse formative - nonostante la recentissima promessa da parte di Brunetta di «un milione di minipc». Non resterebbe allora che rivolgersi direttamente alle famiglie, per poi cozzare con un altro gigantesco problema infrastrutturale: le aule della stragrande maggioranza delle scuole non permetterebbero di alimentare un dispositivo elettronico per ogni studente in condizioni di sicurezza. È rocambolesco immaginare - considerando i colpevoli ritardi sull'edilizia scolastica - che vi siano da qualche parte i fondi per far fronte a questa necessità. Così come quelli che servirebbero per consentire a tutti e dovunque un ingresso diretto e filtrato a Internet, onde utilizzarne le «potenzialità per l'aggiornamento delle informazioni, accesso a dati remoti e altri servizi integrativi», considerate caratteristiche imprescindibili dei libri scolastici innovati.
L'operazione rischia di ridursi nella maggioranza dei casi al download dei libri, da stampare poi completamente o in parte. Dubitiamo che questa soluzione, che si prospetta quanto mai confusa e disordinata, possa far risparmire davvero le famiglie, che alla fine di una filiera tecnologica così articolata potrebbero vedere zainetti zeppi di brutti libri di carta, avvilenti e avviliti. Inoltre, il fatto che molti editori abbiano riverniciato per l'occasione i loro siti con materiali di repertorio, in modo da soddifare formalmente i requisiti, dimostra solo che nell'immaginario tutto può cambiare a patto nella sostanza nulla cambi.
L'impraticabilità della proposta è evidente. Ma non è l'elemento più grave di questa suprema prova di marketing lessicale. Digitalzzare strumenti didattici non è in sé - se non in letture inconsapevoli o capziose - scelta positiva o negativa. Le motivazioni taumaturgiche, che inverano realtà irreali, sono molto meno negative dell'assenza di riflessione sulla validità culturale dei prodotti, sostituita da profluvi di indicazioni tecnico-giuridiche.
La scuola deve interrogarsi sulla propria latitanza critica. Si rischia che l'impresa si trasformi in una legittimazione istituzionale di operazioni riprovevoli da parte di soggetti spregiudicati. Che a motivare le opzioni e a determinare le scelte, sia l'arrembaggio al mercato, e non autorevolezza, affidabilità di contenuti e di dimensione dinamica, potenzialità inclusive. Un ulteriore inedebolimento degli apprendimenti, ma anche e soprattutto della funzione politica e di cittadinanza civile e democratica della scuola, sarebbe una ricaduta esiziale.
ilmanifesto.it
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