di FRANCESCO MERLO
NELL'ISOLA dei disperati il più disperato è lui. Con la camicia scura aperta sul collo e il doppiopetto nero che è diventato enorme, Berlusconi a Lampedusa è più Cetto Laqualunque dello stesso Albanese.
È venuto a svuotare l'isola così come andò a svuotare Napoli. Lì i rifiuti e le lordure furono caricati sui Tir, dispersi via terra con destinazione ignota, e qui sulle navi, onda su onda il mare li porterà al largo dell'Italia degli egoismi regionali e del ricatto secessionista.
"Sono lampedusano" dice, e sembra la caricatura di Kennedy a Berlino, "stamattina ho comprato una villa su Internet, si chiama "Le due palme"". Più tardi, a un cronista che lo aspetta sulla sabbia nascosto dietro una delle due palme confesserà compiaciuto: "Ma è tutta da rifare". Le tv mandano ossessivamente l'immagine della facciata, il muro di cinta, e poi sabbia, stoppie, l'intervista ai vicini di casa. Ha già speso due milioni di euro. Il solito vento che, in qualsiasi stagione, qui fa perdere la voce, agita le piante basse e dunque anche Berlusconi, che è gonfio come una mongolfiera, per un momento perde l'equilibro e sembra migrare, lui che vorrebbe migrare lontano da tutte le regole, anche quella di gravità.
Noi italiani sappiamo che Berlusconi si butta sulle disgrazie quando sente di essere in disgrazia. Ma Lampedusa gli serve anche a dissimulare, a tenere occupata l'Italia nel giorno in cui la maggioranza parlamentare,
ridotta in servitù, lo sta spudoratamente liberando dei suoi processi. Le promesse ai terremotati furono le sue campagne del grano. Ma questa volta la scenografia lo tradisce. Lampedusa infatti è due volte palcoscenico, due volte finzione: è il solenne e forse fatale teatro espiatorio per attirare e distrarre la più vasta delle platee ma è anche il remake dell'autarchia del "ci penso io" come estrema risorsa per illudersi ancora. Berlusconi fa il palo a Lampedusa, mentre a Roma i suoi scassinano il Parlamento e rubano i pesi della Bilancia.
E però tra il governatore Lombardo e il sindaco De Rubeis, circondato da assessori, imprenditori locali e guardie del corpo che qui non si distinguono dai corpi che hanno in guardia, nel mezzo di una nomenklatura scaltra, truce e goffa, Berlusconi esibisce una fisicità terminale che va ben oltre Cetto Laqualunque. È quella dei dittatori africani e degli oligarchi russi. Ha portato a Lampedusa più Africa lui che gli immigrati.
È atterrato all'ora dei Tg quando i soldati avevano finito di pulire il Porto vecchio, la stazione marittima e la famosa "collina della vergogna". Il Tg3 documenta la pulizia anche degli slogan di protesta, si vede il sindaco che grida alla folla: "Basta cu 'sti minchia di cartelli". Ruspe e camion dei netturbini hanno spazzato via la tendopoli proprio come a Napoli spazzarono le strade, e ora le tv mostrano il "com'era" e il "com'è".
Resistono, a testimoniare l'inciviltà della miseria, stracci, bottiglie, escrementi accanto ai ciuffi d'erba di una primavera che a fine marzo a Lempedusa è già estate: domina il giallo che solo al tramonto si tinge di arancione. Berlusconi garantisce che porterà "il colore, come a Portofino". Promette pure il premio Nobel per la Pace, il campo da golf e il casinò che è un vecchio sogno non solo dei lampedusani più eccentrici, vale a dire la risorsa di chi non ha risorse, ma è soprattutto l'aspirazione della malavita intossicata di danaro che ha impiantato in tutti gli angoli della Sicilia le sue bische clandestine, i luoghi sordidi dove si sfogano il bisogno sociale e la pulsione individuale.
Quando Berlusconi scende dall'aereo, i disperati già avanzano sul molo in fila indiana, ciascuno con la mano sulla spalla dell'altro, "una mano sola per evitare l'effetto trenino" mi ha spiegato un funzionario degli Interni. Sono immagini che testimoniano l'umiliazione di uomini ardimentosi. Quasi tutti i primi piani li mostrano con le palpebre semichiuse forse perché non riescono più a vedere lontano. Ai lati, per tenerli in riga, ci sono i poliziotti con i guanti di gomma e le mascherina sulla bocca per proteggersi dal male fisico, per non entrare in contatto con la sofferenza dei corpi che, proprio come aveva ordinato Bossi, si stanno togliendo dalle balle.
E mentre Berlusconi si mette in gioco nella più triste di tutte le sue demagogie, giura di cacciare per sempre gli immigrati che ci sono e quelli che verranno, promette aiuti europei e corrimano, vasi di fiori, niente tasse per tutti, una scuola, investimenti turistici, trasmissioni promozionali della Rai e di Mediaset ..., mentre, insomma, Berlusconi delira, la nave da crociera sembra una carboniera del diciassettesimo secolo, con la broda sciaguattante di acqua di mare, le zaffate, un equipaggio militare efficiente a bordo e riservato a terra, e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati.
Se si mettono a confronto queste immagini che, comunque la si pensi, sono angoscianti e dolorose, con quelle della piccola folla festante attorno allo Sciamano, si capisce che non c'è solo lo stridore tra la violenza della realtà e la pappa fradicia della demagogia. Qui c'è anche il sottosviluppo di piazza, il sud di Baaria, - "santo Silvio pensaci tu" - la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del voto, del miracolo, del divo: "Silvio!, Silvio!, Silvio!". C'è la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale degli imbonitori, dello zio d'America come quel Thomas DiBenedetto che ha appena comprato la Roma, del messia e del conquistador, il mito antico dell'uomo che viene da fuori, dell'uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore e non importa chi, purché venga appunto da fuori, perché è all'interno che questo Sud non trova pace. Ed è probabile che questa visita diventi un mito rituale, la chimera di una Lampedusa protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Dev'essere per questo che i miei sciagurati paesani lo hanno applaudito invece di mandarlo. .. alla deriva nel suo cargo.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.3.11
Il Cavalier Laqualunque
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25.3.11
Ora è certo, il nucleare è un rischio. Ma quanto siamo disposti a rischiare?
Marco Morosini (da Avvenire)
Forse il Giappone è il solo paese capace di trasformare, suo malgrado, una catastrofe industriale in un boomerang per la fede nelle megatecnologie. Così non è improbabile che – come già quello di Lisbona del 1755 – questo tragico terremoto giapponese mini la fede di molti che pensavano di vivere nel migliore dei mondi (tecnologici) possibili. Sull’orlo della catastrofe atomica si è messo un paese che ha invaso il mondo con prodotti tecnologici perfetti e con automobili che hanno la più bassa quota d’avarie, il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici. Così molti si chiedono: se i tecnici più esperti del mondo non riescono a controllare i loro reattori atomici, perché dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo?
Con quel buon senso di cui molti esperti sembrano fare a meno, certe catastrofi tecnologiche ed economiche sembrano facili da capire a posteriori. Prendete per esempio il Concorde, l’aereo passeggeri supersonico oggi custodito in un museo: nel 2000 avrebbe dovuto essere l’aereo più venduto al mondo, dicevano i costruttori. Oggi pare strano che tanti tecnici pensassero davvero che, in un mondo dove il petrolio costa e inquina sempre di più, si potessero vendere centinaia di supersonici dal consumo triplo di quello degli altri aerei. O prendete le "Torri gemelle". Secondo il loro progettista dovevano resistere anche all’impatto meccanico di un Jumbo; in effetti l’11 settembre non crollarono per gli schianti, ma per lo stress termico del cherosene incendiato, che il progettista non aveva calcolato. Anche a Fukushima forse è andata così: sì, i tecnici avevano pensato a tante ipotesi, ma non a tutte. Gli esperti del rischio lo confermerebbero: con le megatecnologie la possibilità del massimo evento avverso è reale, ma la sua probabilità è così piccola che alcuni di essi raccontano alla popolazione che è "praticamente" nulla; che le centrali atomiche "sono sicure". Ma se così fosse, le compagnie d’assicurazione farebbero a gara per poter assicurare un rischio in cui c’è solo da guadagnare e "sicuramente" niente da perdere. Invece in Svizzera ogni centrale è assicurata per un massimale di 1 miliardo di franchi, a fronte di un danno possibile di 100 miliardi stimato dall’Ufficio federale della protezione civile; una proposta di legge chiede di introdurre un’assicurazione obbligatoria per 500 miliardi, il che porterebbe ad aumenti del kWh tra 5 e 50 centesimi (ora ne costa 20). In Germania il massimo danno coperto è di 2,5 miliardi di euro per centrale, contro un massimo danno stimato dallo Stato di 5.500 miliardi. Altre stime arrivano a 11 mila miliardi. Per questo numerose organizzazioni tedesche stanno raccogliendo firme per introdurre una vera assicurazione obbligatoria delle centrali (www.atomhaftpflicht.de). Secondo queste cifre le centrali atomiche, a differenza di un’automobile, viaggiano quasi senza assicurazione. È curioso che mentre secondo certe élites «il mercato deve dirigere tutto», per i rischi atomici proprio costoro ignorino il segnale forte e chiaro del mercato delle assicurazioni, capace altrimenti di dare un prezzo a qualunque rischio.
È interessante osservare che in questo caso la risposta del mercato del rischio e quella del filosofo sono simili. Di fatto, non è che le assicurazioni calcolino un premio troppo alto per le centrali atomiche. Semplicemente non assumono quel rischio. Per qualunque prezzo. Il prezzo di un rischio si basa sulla moltiplicazione dell’ammontare del massimo danno per la probabilità che esso si verifichi. Quando però il danno diventa incalcolabile e irreparabile, se la sua probabilità è di un milionesimo o un miliardesimo non cambia nulla. Quando il rischio è la perdita totale, semplicemente non può essere assunto. Nell’era dei megarischi è necessario quindi orientarsi all’"euristica della paura", che dà la preferenza a considerare l’ipotesi più avversa concepibile, a prescindere dal calcolo delle probabilità, quando essa contempla una perdita inammissibile. È questo il messaggio centrale del filosofo Hans Jonas, nel suo classico Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979).
"Too-cheap-to-meter" (troppo-a-buon-mercato-per-misurarla) promettevano i profeti dell’elettricità atomica quando 30 anni fa pronosticavano la scomparsa dei contatori elettrici dalle nostre case. "Troppo costosa per poterla pagare" sembra invece il messaggio che ci viene dal Giappone.
Forse il Giappone è il solo paese capace di trasformare, suo malgrado, una catastrofe industriale in un boomerang per la fede nelle megatecnologie. Così non è improbabile che – come già quello di Lisbona del 1755 – questo tragico terremoto giapponese mini la fede di molti che pensavano di vivere nel migliore dei mondi (tecnologici) possibili. Sull’orlo della catastrofe atomica si è messo un paese che ha invaso il mondo con prodotti tecnologici perfetti e con automobili che hanno la più bassa quota d’avarie, il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici. Così molti si chiedono: se i tecnici più esperti del mondo non riescono a controllare i loro reattori atomici, perché dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo?
Con quel buon senso di cui molti esperti sembrano fare a meno, certe catastrofi tecnologiche ed economiche sembrano facili da capire a posteriori. Prendete per esempio il Concorde, l’aereo passeggeri supersonico oggi custodito in un museo: nel 2000 avrebbe dovuto essere l’aereo più venduto al mondo, dicevano i costruttori. Oggi pare strano che tanti tecnici pensassero davvero che, in un mondo dove il petrolio costa e inquina sempre di più, si potessero vendere centinaia di supersonici dal consumo triplo di quello degli altri aerei. O prendete le "Torri gemelle". Secondo il loro progettista dovevano resistere anche all’impatto meccanico di un Jumbo; in effetti l’11 settembre non crollarono per gli schianti, ma per lo stress termico del cherosene incendiato, che il progettista non aveva calcolato. Anche a Fukushima forse è andata così: sì, i tecnici avevano pensato a tante ipotesi, ma non a tutte. Gli esperti del rischio lo confermerebbero: con le megatecnologie la possibilità del massimo evento avverso è reale, ma la sua probabilità è così piccola che alcuni di essi raccontano alla popolazione che è "praticamente" nulla; che le centrali atomiche "sono sicure". Ma se così fosse, le compagnie d’assicurazione farebbero a gara per poter assicurare un rischio in cui c’è solo da guadagnare e "sicuramente" niente da perdere. Invece in Svizzera ogni centrale è assicurata per un massimale di 1 miliardo di franchi, a fronte di un danno possibile di 100 miliardi stimato dall’Ufficio federale della protezione civile; una proposta di legge chiede di introdurre un’assicurazione obbligatoria per 500 miliardi, il che porterebbe ad aumenti del kWh tra 5 e 50 centesimi (ora ne costa 20). In Germania il massimo danno coperto è di 2,5 miliardi di euro per centrale, contro un massimo danno stimato dallo Stato di 5.500 miliardi. Altre stime arrivano a 11 mila miliardi. Per questo numerose organizzazioni tedesche stanno raccogliendo firme per introdurre una vera assicurazione obbligatoria delle centrali (www.atomhaftpflicht.de). Secondo queste cifre le centrali atomiche, a differenza di un’automobile, viaggiano quasi senza assicurazione. È curioso che mentre secondo certe élites «il mercato deve dirigere tutto», per i rischi atomici proprio costoro ignorino il segnale forte e chiaro del mercato delle assicurazioni, capace altrimenti di dare un prezzo a qualunque rischio.
È interessante osservare che in questo caso la risposta del mercato del rischio e quella del filosofo sono simili. Di fatto, non è che le assicurazioni calcolino un premio troppo alto per le centrali atomiche. Semplicemente non assumono quel rischio. Per qualunque prezzo. Il prezzo di un rischio si basa sulla moltiplicazione dell’ammontare del massimo danno per la probabilità che esso si verifichi. Quando però il danno diventa incalcolabile e irreparabile, se la sua probabilità è di un milionesimo o un miliardesimo non cambia nulla. Quando il rischio è la perdita totale, semplicemente non può essere assunto. Nell’era dei megarischi è necessario quindi orientarsi all’"euristica della paura", che dà la preferenza a considerare l’ipotesi più avversa concepibile, a prescindere dal calcolo delle probabilità, quando essa contempla una perdita inammissibile. È questo il messaggio centrale del filosofo Hans Jonas, nel suo classico Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979).
"Too-cheap-to-meter" (troppo-a-buon-mercato-per-misurarla) promettevano i profeti dell’elettricità atomica quando 30 anni fa pronosticavano la scomparsa dei contatori elettrici dalle nostre case. "Troppo costosa per poterla pagare" sembra invece il messaggio che ci viene dal Giappone.
17.3.11
Senza più cibo né acqua da 5 giorni - Tra i dannati della città abbandonata
Onagawacho è isolata, le squadre dei soccorritori non arrivano. Nel fango ci sono migliaia di morti. Seimila persone in trappola sulla collina. "Qui moriremo tutti"
ONAGAWACHO - Qui fino ad oggi nessuno era arrivato. È bastato il crollo di un ponte, due chilometri all'interno, per isolare Onagawacho dal mondo. Invalicabili macerie, in parte galleggianti sulla melma, impediscono ancora ai soccorritori di raggiungere la cittadina che il Giappone, da venerdì, sembra aver cancellato anche dalla carta geografica.
Poco distante, a Onagawa, la centrale nucleare si è salvata dall'onda per duecento metri e i soldati dell'esercito ammucchiano ora sacchi di sabbia attorno ai capannoni che custodiscono i reattori spenti. Qui invece è servito l'atterraggio di fortuna di un elicottero, sospeso sopra pericolanti cumuli di rovine, per scoprire che seimila persone da cinque giorni sono abbandonate su una collina lambita dal fango e tra gli scogli, contro cui l'oceano sbatte centinaia di corpi.
Metà della popolazione è scomparsa nel mare. I sopravvissuti, dalle 14.46 dell'11 marzo, non mangiano e hanno resistito bruciando i rami e i tetti delle loro case, distrutti dallo tsunami. Hanno centellinato l'acqua, recuperata nel magazzino di un alimentari crollato, ma centinaia sono disidratati, minati dal freddo, dal sonno e dal terrore. Due vecchi all'alba sono morti perché sprovvisti di medicine essenziali e nessuno ha avuto la forza di aprire un varco tra i detriti per chiedere aiuto. Decine di bambini, pur protetti con gli indumenti degli adulti, presentano sintomi di assideramento. Tutti gli scampati sono uniti dalla medesima realtà: hanno perduto qualcuno nel fango
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disteso davanti a loro, in cui non osano entrare.
Nella città senza soccorsi, simbolo della distruzione che ha trasformato la prefettura di Miyagi in una putrescente discarica, si consuma la tragedia di una nazione che appare incapace di reagire alla peggiore catastrofe dalla fine della seconda guerra mondiale. Per tre volte il pilota dell'elicottero ha gridato: "C'è qualcuno? Siete vivi?". Sul fango e tra i relitti nulla si muoveva e sembrava che a Onagawacho fossero morti tutti. Poi gruppi di superstiti, incapaci di parlare, sono scesi dalla macchia, hanno indicato la collina con occhi spenti e si sono seduti sopra le auto rovesciate, in attesa di aiuto. L'impossibilità di essere salvati dagli uomini, dopo essersi sottratti alla natura, è l'incubo che sconvolge gli oltre seicentomila terremotati della regione di Tohoku, epicentro del terremoto.
Giacciono a un'ora di volo da Tokyo, ma si sentono definitivamente in trappola, prigionieri tra le spiagge che rigurgitano corpi, continue e tremende scosse, la centrale di Fukushima, poco più a sud, che erutta gas nucleari. Nessuno avrebbe immaginato che nel Giappone hi-tech, dopo un tempo così lungo dalla grande scossa, la macchina dei soccorsi si sarebbe rivelata tanto arcaica, lenta, insufficiente e inadeguata a fronteggiare l'emergenza degli individui. Nelle prefetture sconvolte manca ancora l'energia elettrica, i collegamenti telefonici risultano circoscritti ai centri principali, le strade e le ferrovie sono interrotte, o riservate ai mezzi di soccorso. Il carburante è distribuito con il contagocce e per ottenere venti litri di benzina, a Kamaishi, sono state necessarie sei ore di attesa. Seicentomila sfollati sono sprovvisti di acqua, cibo, vestiti, coperte, medicine, esposti alla fine di un inverno che rovescia pioggia, neve e notti a quattro gradi sotto zero. La scarsità di gasolio, deserti sconfinati di paludi ribollenti di edifici crollati, fermano i convogli con i generi di prima necessità. Ma il risultato è che lungo i cinquecento chilometri della costa nordest dell'Honshu, finora solo un sopravvissuto su tre ha ricevuto il minimo indispensabile per non morire così, in modo incredibile, con addosso solo i vestiti con cui è sfuggito al Pacifico. Nel villaggio di Takajo la famiglia Sato, genitori e due bambini, è rimasta quattro giorni con sessanta centilitri d'acqua. Nel centro di accoglienza di Sendai, il più grande di Miyagi, mangiano e bevono solo i feriti, i vecchi e i bambini più piccoli. Per evitare un altro disastro, occorrono un milione di pasti e un milione di litri d'acqua al giorno: ne arrivano meno di duecentomila. Gli adulti dicono che ormai non hanno più bisogno di niente, ma la gente è scossa da un inconfessabile sospetto. Teme che i soccorritori realmente inviati, per evitare di esporli al rischio-radiazioni, siano assai meno dei centomila ufficialmente annunciati. E ha paura che ruspe e camion, indispensabili per iniziare a rimuovere le macerie, riparare gli acquedotti, riallacciare almeno qualche tratto delle linee elettriche e del gas, tardino nel timore di essere spazzati via da un nuovo tsunami. Nelle prefetture di Myagi e Iwate mancano però oggi soprattutto bare e buste per spostare i cadaveri. Ne servono migliaia, forse decine di migliaia, ma non si trovano.
Nella palestra di Minami-Sanrikucho, la città cancellata dove in cinque giorni s'è trovato un solo vivo, mille corpi sono allineati sotto un tendone, coperti da fogli di giornale. A Matsushima c'è un solo forno crematorio, continui black-out lo arrestano e riesce a incenerire ventotto salme al giorno. I defunti però qui sono seicento, l'obitorio non è refrigerato e alcuni volontari inondano chi aspetta con acqua marina e fango, per ritardare la decomposizione. "Mi appello a tutto il Giappone e all'estero - dice Yoshihiro Murai, governatore di Miyagi - affinché inviino casse per i nostri cari". Per intuire la profondità del dolore a cui gli uomini possono essere improvvisamente condannati dal destino, bisogna però arrivare a Soma, cento chilometri a sud di Sendai. Su 38 mila abitanti ne sono stati ritrovati meno di 14 mila. Un terzo della città resta inghiottito dall'acqua. La spiaggia è nera di petrolio, che continua ad uscire da centinaia di navi rovesciate davanti alla costa. Nella sabbia inzuppata, i sopravvissuti scavano decine di fosse comuni temporanee, depongono i morti che non possono seppellire e coprono con dieci centimetri di melma. L'odore è indimenticabile ma le persone che giungono qui in cerca di qualcuno, non se ne accorgono. C'è anche Katsuma Ishihara. Venerdì guidava l'autobus a Yamada. Ha visto l'onda passare sul bordo della strada e ha telefonato invano ai suoi. Dopo un chilometro si è fermato. "Chiedo scusa per l'inconveniente ai signori passeggeri - ha detto - ma il fatto è che la mia casa era qui, c'era dentro la mia famiglia, e adesso non c'è più". Attorno regna il caos. Le colline, tra Miyako e Kesennuma, sono occupate da migliaia di persone fuggite da venerdì e prive di soccorsi. Decine di migliaia di persone, a piedi o su mezzi di fortuna, sono in marcia verso nord dalla prefettura di Fukushima, in fuga dalla nube tossica della centrale. Gli eco-profughi di Futabamachi invadono i centri di raccolta delle prefetture di Miyagi e Iwate, dove vengono respinti dai senzatetto locali, terrorizzati dall'idea che il contatto con potenziali contaminati renda tutti radioattivi.
Forse davvero l'ecatombe dell'Honshu è solo all'inizio e i militari sbarcati questa mattina a Ishinomaki pensano che l'allarme atomico stia nascondendo alla nazione il segreto orrendo delle sue vite già consumate. Due terzi della città sono coperti da quattro metri di una densa crema marrone. Si rema sopra i tetti e dalle finestre sfondate, al secondo piano degli edifici rimasti eretti, spuntano braccia di persone che venerdì hanno tentato di buttarsi in un vuoto che invece era liquido. Su una delle barche, cariche di superstiti, naviga anche Hirumi Memoto. È nata a Hiroshima e nell'agosto del 1945, quando fu investita dal fungo atomico della guerra, aveva 19 anni. Trasferita qui, oggi ne ha 85. Maledice il mostro che insiste nel condannarla a sopravvivere e che questa volta è stato pietoso verso il marito Ko Miura, 88 anni, annegato nel letto. È assorta e ripete tra sé: "Non dovevo nascere". Sono due vite aperte e chiuse da due ecatombi ed esprimono la parabola fatale di quella che il Paese inizia a considerare una misteriosa condanna collettiva.
La popolazione travolta dallo tsunami la considera una beffa. Le radio continuano a trasmettere voci che narrano la propria salvezza, tecnici che assicurano che tutto è sotto controllo, politici che decretano la fine dell'emergenza terremotati. A Higashi-Matsushima invece, come lungo tutta la costa, gli ospedali sono senza medicine, senza medici, senza energia. Mancano soluzione salina, disinfettanti, pillole di iodio, misuratori della radioattività. Centomila bambini hanno perso la casa, migliaia anche i genitori, e non si trovano psicologi. Strade interrotte, macerie e fango impediscono di trasportare toilette da campo, ma se non ne arrivano subito migliaia, la situazione igienico-sanitaria è destinata ad esplodere. Nella scuola elementare di Nobiru 103 morti attendono nella sala delle udienze, a fianco di 467 vivi distesi a pochi metri nel corridoio. Nei bagni non c'è acqua e le latrine ormai sono inavvicinabili. Setsuro Sugawara non lascia la mano della figlia Sayaka, 16 anni, ripescata senza vita al largo tre ore fa. "Ho lottato perché la tua vita - dice - fosse migliore della mia". Solo ora le persone si rendono conto che una fascia costiera larga sette chilometri e lunga oltre trecento è diventata un pantano di carcasse di cemento. Città e villaggi non potranno essere ricostruiti dove erano sorti, decine di porti dovranno essere abbandonati. Tre milioni di abitanti si preparano ad un esodo definitivo, ad una migrazione che sconvolgerà la nazione.
Shigamasha Sato, 78 anni di Otsuchicho, spinge una bicicletta lungo un cunicolo aperto tra detriti incombenti alti sette metri. Ha appoggiato una gonfia borsa di nylon sulla sella e dice che se ne va per sempre. "Mio figlio - dice - è morto nel suo ufficio sull'isola di Oshima, mentre spiegava alla moglie come mettersi in salvo". È stata la fine del mondo e ogni mattina ne tracima un brandello. Per non vederla ci si aggrappa a tutto. Anche al vecchio Hiromitsu Shinakawa, recuperato 15 chilometri al largo di Futabamachi su una trave del tetto della sua casa. La moglie ha ceduto a un'onda lunedì notte. Quando l'elicottero gli lancia il verricello dice: "Fate in fretta, pensavo che tra mezz'ora sarei morto". Il Giappone piange di gioia, ma forse non si è sentito mai così disperato.
ONAGAWACHO - Qui fino ad oggi nessuno era arrivato. È bastato il crollo di un ponte, due chilometri all'interno, per isolare Onagawacho dal mondo. Invalicabili macerie, in parte galleggianti sulla melma, impediscono ancora ai soccorritori di raggiungere la cittadina che il Giappone, da venerdì, sembra aver cancellato anche dalla carta geografica.
Poco distante, a Onagawa, la centrale nucleare si è salvata dall'onda per duecento metri e i soldati dell'esercito ammucchiano ora sacchi di sabbia attorno ai capannoni che custodiscono i reattori spenti. Qui invece è servito l'atterraggio di fortuna di un elicottero, sospeso sopra pericolanti cumuli di rovine, per scoprire che seimila persone da cinque giorni sono abbandonate su una collina lambita dal fango e tra gli scogli, contro cui l'oceano sbatte centinaia di corpi.
Metà della popolazione è scomparsa nel mare. I sopravvissuti, dalle 14.46 dell'11 marzo, non mangiano e hanno resistito bruciando i rami e i tetti delle loro case, distrutti dallo tsunami. Hanno centellinato l'acqua, recuperata nel magazzino di un alimentari crollato, ma centinaia sono disidratati, minati dal freddo, dal sonno e dal terrore. Due vecchi all'alba sono morti perché sprovvisti di medicine essenziali e nessuno ha avuto la forza di aprire un varco tra i detriti per chiedere aiuto. Decine di bambini, pur protetti con gli indumenti degli adulti, presentano sintomi di assideramento. Tutti gli scampati sono uniti dalla medesima realtà: hanno perduto qualcuno nel fango
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disteso davanti a loro, in cui non osano entrare.
Nella città senza soccorsi, simbolo della distruzione che ha trasformato la prefettura di Miyagi in una putrescente discarica, si consuma la tragedia di una nazione che appare incapace di reagire alla peggiore catastrofe dalla fine della seconda guerra mondiale. Per tre volte il pilota dell'elicottero ha gridato: "C'è qualcuno? Siete vivi?". Sul fango e tra i relitti nulla si muoveva e sembrava che a Onagawacho fossero morti tutti. Poi gruppi di superstiti, incapaci di parlare, sono scesi dalla macchia, hanno indicato la collina con occhi spenti e si sono seduti sopra le auto rovesciate, in attesa di aiuto. L'impossibilità di essere salvati dagli uomini, dopo essersi sottratti alla natura, è l'incubo che sconvolge gli oltre seicentomila terremotati della regione di Tohoku, epicentro del terremoto.
Giacciono a un'ora di volo da Tokyo, ma si sentono definitivamente in trappola, prigionieri tra le spiagge che rigurgitano corpi, continue e tremende scosse, la centrale di Fukushima, poco più a sud, che erutta gas nucleari. Nessuno avrebbe immaginato che nel Giappone hi-tech, dopo un tempo così lungo dalla grande scossa, la macchina dei soccorsi si sarebbe rivelata tanto arcaica, lenta, insufficiente e inadeguata a fronteggiare l'emergenza degli individui. Nelle prefetture sconvolte manca ancora l'energia elettrica, i collegamenti telefonici risultano circoscritti ai centri principali, le strade e le ferrovie sono interrotte, o riservate ai mezzi di soccorso. Il carburante è distribuito con il contagocce e per ottenere venti litri di benzina, a Kamaishi, sono state necessarie sei ore di attesa. Seicentomila sfollati sono sprovvisti di acqua, cibo, vestiti, coperte, medicine, esposti alla fine di un inverno che rovescia pioggia, neve e notti a quattro gradi sotto zero. La scarsità di gasolio, deserti sconfinati di paludi ribollenti di edifici crollati, fermano i convogli con i generi di prima necessità. Ma il risultato è che lungo i cinquecento chilometri della costa nordest dell'Honshu, finora solo un sopravvissuto su tre ha ricevuto il minimo indispensabile per non morire così, in modo incredibile, con addosso solo i vestiti con cui è sfuggito al Pacifico. Nel villaggio di Takajo la famiglia Sato, genitori e due bambini, è rimasta quattro giorni con sessanta centilitri d'acqua. Nel centro di accoglienza di Sendai, il più grande di Miyagi, mangiano e bevono solo i feriti, i vecchi e i bambini più piccoli. Per evitare un altro disastro, occorrono un milione di pasti e un milione di litri d'acqua al giorno: ne arrivano meno di duecentomila. Gli adulti dicono che ormai non hanno più bisogno di niente, ma la gente è scossa da un inconfessabile sospetto. Teme che i soccorritori realmente inviati, per evitare di esporli al rischio-radiazioni, siano assai meno dei centomila ufficialmente annunciati. E ha paura che ruspe e camion, indispensabili per iniziare a rimuovere le macerie, riparare gli acquedotti, riallacciare almeno qualche tratto delle linee elettriche e del gas, tardino nel timore di essere spazzati via da un nuovo tsunami. Nelle prefetture di Myagi e Iwate mancano però oggi soprattutto bare e buste per spostare i cadaveri. Ne servono migliaia, forse decine di migliaia, ma non si trovano.
Nella palestra di Minami-Sanrikucho, la città cancellata dove in cinque giorni s'è trovato un solo vivo, mille corpi sono allineati sotto un tendone, coperti da fogli di giornale. A Matsushima c'è un solo forno crematorio, continui black-out lo arrestano e riesce a incenerire ventotto salme al giorno. I defunti però qui sono seicento, l'obitorio non è refrigerato e alcuni volontari inondano chi aspetta con acqua marina e fango, per ritardare la decomposizione. "Mi appello a tutto il Giappone e all'estero - dice Yoshihiro Murai, governatore di Miyagi - affinché inviino casse per i nostri cari". Per intuire la profondità del dolore a cui gli uomini possono essere improvvisamente condannati dal destino, bisogna però arrivare a Soma, cento chilometri a sud di Sendai. Su 38 mila abitanti ne sono stati ritrovati meno di 14 mila. Un terzo della città resta inghiottito dall'acqua. La spiaggia è nera di petrolio, che continua ad uscire da centinaia di navi rovesciate davanti alla costa. Nella sabbia inzuppata, i sopravvissuti scavano decine di fosse comuni temporanee, depongono i morti che non possono seppellire e coprono con dieci centimetri di melma. L'odore è indimenticabile ma le persone che giungono qui in cerca di qualcuno, non se ne accorgono. C'è anche Katsuma Ishihara. Venerdì guidava l'autobus a Yamada. Ha visto l'onda passare sul bordo della strada e ha telefonato invano ai suoi. Dopo un chilometro si è fermato. "Chiedo scusa per l'inconveniente ai signori passeggeri - ha detto - ma il fatto è che la mia casa era qui, c'era dentro la mia famiglia, e adesso non c'è più". Attorno regna il caos. Le colline, tra Miyako e Kesennuma, sono occupate da migliaia di persone fuggite da venerdì e prive di soccorsi. Decine di migliaia di persone, a piedi o su mezzi di fortuna, sono in marcia verso nord dalla prefettura di Fukushima, in fuga dalla nube tossica della centrale. Gli eco-profughi di Futabamachi invadono i centri di raccolta delle prefetture di Miyagi e Iwate, dove vengono respinti dai senzatetto locali, terrorizzati dall'idea che il contatto con potenziali contaminati renda tutti radioattivi.
Forse davvero l'ecatombe dell'Honshu è solo all'inizio e i militari sbarcati questa mattina a Ishinomaki pensano che l'allarme atomico stia nascondendo alla nazione il segreto orrendo delle sue vite già consumate. Due terzi della città sono coperti da quattro metri di una densa crema marrone. Si rema sopra i tetti e dalle finestre sfondate, al secondo piano degli edifici rimasti eretti, spuntano braccia di persone che venerdì hanno tentato di buttarsi in un vuoto che invece era liquido. Su una delle barche, cariche di superstiti, naviga anche Hirumi Memoto. È nata a Hiroshima e nell'agosto del 1945, quando fu investita dal fungo atomico della guerra, aveva 19 anni. Trasferita qui, oggi ne ha 85. Maledice il mostro che insiste nel condannarla a sopravvivere e che questa volta è stato pietoso verso il marito Ko Miura, 88 anni, annegato nel letto. È assorta e ripete tra sé: "Non dovevo nascere". Sono due vite aperte e chiuse da due ecatombi ed esprimono la parabola fatale di quella che il Paese inizia a considerare una misteriosa condanna collettiva.
La popolazione travolta dallo tsunami la considera una beffa. Le radio continuano a trasmettere voci che narrano la propria salvezza, tecnici che assicurano che tutto è sotto controllo, politici che decretano la fine dell'emergenza terremotati. A Higashi-Matsushima invece, come lungo tutta la costa, gli ospedali sono senza medicine, senza medici, senza energia. Mancano soluzione salina, disinfettanti, pillole di iodio, misuratori della radioattività. Centomila bambini hanno perso la casa, migliaia anche i genitori, e non si trovano psicologi. Strade interrotte, macerie e fango impediscono di trasportare toilette da campo, ma se non ne arrivano subito migliaia, la situazione igienico-sanitaria è destinata ad esplodere. Nella scuola elementare di Nobiru 103 morti attendono nella sala delle udienze, a fianco di 467 vivi distesi a pochi metri nel corridoio. Nei bagni non c'è acqua e le latrine ormai sono inavvicinabili. Setsuro Sugawara non lascia la mano della figlia Sayaka, 16 anni, ripescata senza vita al largo tre ore fa. "Ho lottato perché la tua vita - dice - fosse migliore della mia". Solo ora le persone si rendono conto che una fascia costiera larga sette chilometri e lunga oltre trecento è diventata un pantano di carcasse di cemento. Città e villaggi non potranno essere ricostruiti dove erano sorti, decine di porti dovranno essere abbandonati. Tre milioni di abitanti si preparano ad un esodo definitivo, ad una migrazione che sconvolgerà la nazione.
Shigamasha Sato, 78 anni di Otsuchicho, spinge una bicicletta lungo un cunicolo aperto tra detriti incombenti alti sette metri. Ha appoggiato una gonfia borsa di nylon sulla sella e dice che se ne va per sempre. "Mio figlio - dice - è morto nel suo ufficio sull'isola di Oshima, mentre spiegava alla moglie come mettersi in salvo". È stata la fine del mondo e ogni mattina ne tracima un brandello. Per non vederla ci si aggrappa a tutto. Anche al vecchio Hiromitsu Shinakawa, recuperato 15 chilometri al largo di Futabamachi su una trave del tetto della sua casa. La moglie ha ceduto a un'onda lunedì notte. Quando l'elicottero gli lancia il verricello dice: "Fate in fretta, pensavo che tra mezz'ora sarei morto". Il Giappone piange di gioia, ma forse non si è sentito mai così disperato.
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16.3.11
Il dovere della paura
di BARBARA SPINELLI
Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.
All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che
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ne risulta" (Il principio di responsabilità, Einaudi '90).
Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: "Non si può fare come se nulla fosse". Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine "catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave". Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.
Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.
In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?
Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right": tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo "nel migliore dei mondi possibili".
Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"), lo sguardo di Voltaire: "Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: "Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino", dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: "legno storto", "mai più grande dell'uomo".
Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il male è sulla terra", e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!") che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.
È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.
Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.
All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che
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Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: "Non si può fare come se nulla fosse". Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine "catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave". Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.
Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.
In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?
Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right": tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo "nel migliore dei mondi possibili".
Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"), lo sguardo di Voltaire: "Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: "Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino", dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: "legno storto", "mai più grande dell'uomo".
Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il male è sulla terra", e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!") che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.
È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.
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15.3.11
Parliamo di nucleare. Seriamente
di Ferruccio Sansa
L’energia nucleare ha un pregio: svela le ipocrisie. Parlo di me stesso prima di tutto. Nei miei interventi sul blog cerco sempre di esprimere una posizione precisa. Ma sul nucleare, di fronte alle immagini di quanto sta avvenendo in Giappone, mi accorgo di avere moltissimi dubbi.
L’Italia tra poche settimane dovrà votare per un referendum molto importante. Credo, e non è una previsione difficile, che il disastro giapponese sia stato una mazzata tremenda per i sostenitori del nucleare. Le esplosioni nella centrale di Fukushima hanno dimostrato che l’energia nucleare non è così sicura come qualcuno vorrebbe far credere. E però, nonostante questa tragedia, credo che dobbiamo mantenere lucidità. Parlo per me stesso, cerco di ragionare insieme con voi.
Io sono contrario al ritorno dell’energia nucleare in Italia. La questione, però, non è così semplice. L’Italia dipende per il 67 per cento da energia prodotta da centrali termoelettriche che bruciano soprattutto combustibili fossili. Quindi carbone. E gli effetti del carbone non sono meno dannosi di quelli del nucleare, basta ascoltare le proteste di chi abita vicino alla centrale di Vado. Si dice di puntare sulle energie pulite. Giusto. E però bisogna essere realistici. Prendiamo le centrali idroelettriche, le uniche energie pulite che in Italia finora hanno un peso rilevante. Bene, andiamo a vedere i danni devastanti che le dighe hanno prodotto per esempio sul Piave che ormai è privato del 90 per cento delle proprie acque. Ricordiamoci di tragedie provocate dalle dighe, come il Vajont. E l’eolico? È un tecnologia residuale e soprattutto con un impatto devastante sul paesaggio. Andate a vedere le pale alte più di cento metri che in Molise stanno crescendo ovunque, perfino sulle antiche città dei Sanniti. Resta il solare, ma è difficile pensare che possa essere la principale fonte di energia in un paese come l’Italia.
Arrivato a questo punto del ragionamento io mi trovo con le spalle al muro. Sono contrario al nucleare, ma mi rendo conto che non si può salvare la propria coscienza dicendo “no” se poi non si indicano alternative credibili. Sarebbe, appunto, ipocrisia.
Allora? In Italia noi vogliamo tutto: vogliamo consumare quantità immense di energia, ma non accettiamo il nucleare. Questo è il vero nodo da sciogliere: siamo disposti, come io credo sia possibile, a cercare di ridurre drasticamente i nostri consumi oppure accettiamo fonti di produzione di energia che comportano rischi? Questa è la vera domanda. Se consumiamo energia nucleare, è giusto ospitare le centrali e accettare che siano costruite anche davanti a casa nostra. Non possiamo pensare di tenerci i benefici lasciando alle solite regioni del Sud le centrali (volete scommettere che nelle regioni amministrate dalla Lega non ne costruiranno nemmeno una?).
Purtroppo, però, le premesse per un ragionamento serio sul nucleare non ci sono. Basta guardare gli spot sul nucleare che si definiscono “obiettivi” e invece sono prodotti da un forum finanziato da imprese interessate al nucleare. No, bisogna prima chiarire chi c’è dietro la febbre da nucleare che ha contagiato l’Italia, se ci sono imprenditori amici degli amici. Bisogna capire perché noi costruiamo impianti di terza generazione quando in Francia già si parla della quarta. Bisogna prima fare chiarezza sullo smaltimento delle scorie che non possiamo rifilare all’Africa. Soprattutto: occorrono Autorità davvero indipendenti che, in caso di costruzione delle centrali, vigilino sull’assoluta trasparenza degli appalti e dell’informazione.
Ecco, vi offro tanti dubbi. Ma una sola certezza, almeno per me: lasciare agli altri i rischi e a noi i benefici è ipocrisia.
L’energia nucleare ha un pregio: svela le ipocrisie. Parlo di me stesso prima di tutto. Nei miei interventi sul blog cerco sempre di esprimere una posizione precisa. Ma sul nucleare, di fronte alle immagini di quanto sta avvenendo in Giappone, mi accorgo di avere moltissimi dubbi.
L’Italia tra poche settimane dovrà votare per un referendum molto importante. Credo, e non è una previsione difficile, che il disastro giapponese sia stato una mazzata tremenda per i sostenitori del nucleare. Le esplosioni nella centrale di Fukushima hanno dimostrato che l’energia nucleare non è così sicura come qualcuno vorrebbe far credere. E però, nonostante questa tragedia, credo che dobbiamo mantenere lucidità. Parlo per me stesso, cerco di ragionare insieme con voi.
Io sono contrario al ritorno dell’energia nucleare in Italia. La questione, però, non è così semplice. L’Italia dipende per il 67 per cento da energia prodotta da centrali termoelettriche che bruciano soprattutto combustibili fossili. Quindi carbone. E gli effetti del carbone non sono meno dannosi di quelli del nucleare, basta ascoltare le proteste di chi abita vicino alla centrale di Vado. Si dice di puntare sulle energie pulite. Giusto. E però bisogna essere realistici. Prendiamo le centrali idroelettriche, le uniche energie pulite che in Italia finora hanno un peso rilevante. Bene, andiamo a vedere i danni devastanti che le dighe hanno prodotto per esempio sul Piave che ormai è privato del 90 per cento delle proprie acque. Ricordiamoci di tragedie provocate dalle dighe, come il Vajont. E l’eolico? È un tecnologia residuale e soprattutto con un impatto devastante sul paesaggio. Andate a vedere le pale alte più di cento metri che in Molise stanno crescendo ovunque, perfino sulle antiche città dei Sanniti. Resta il solare, ma è difficile pensare che possa essere la principale fonte di energia in un paese come l’Italia.
Arrivato a questo punto del ragionamento io mi trovo con le spalle al muro. Sono contrario al nucleare, ma mi rendo conto che non si può salvare la propria coscienza dicendo “no” se poi non si indicano alternative credibili. Sarebbe, appunto, ipocrisia.
Allora? In Italia noi vogliamo tutto: vogliamo consumare quantità immense di energia, ma non accettiamo il nucleare. Questo è il vero nodo da sciogliere: siamo disposti, come io credo sia possibile, a cercare di ridurre drasticamente i nostri consumi oppure accettiamo fonti di produzione di energia che comportano rischi? Questa è la vera domanda. Se consumiamo energia nucleare, è giusto ospitare le centrali e accettare che siano costruite anche davanti a casa nostra. Non possiamo pensare di tenerci i benefici lasciando alle solite regioni del Sud le centrali (volete scommettere che nelle regioni amministrate dalla Lega non ne costruiranno nemmeno una?).
Purtroppo, però, le premesse per un ragionamento serio sul nucleare non ci sono. Basta guardare gli spot sul nucleare che si definiscono “obiettivi” e invece sono prodotti da un forum finanziato da imprese interessate al nucleare. No, bisogna prima chiarire chi c’è dietro la febbre da nucleare che ha contagiato l’Italia, se ci sono imprenditori amici degli amici. Bisogna capire perché noi costruiamo impianti di terza generazione quando in Francia già si parla della quarta. Bisogna prima fare chiarezza sullo smaltimento delle scorie che non possiamo rifilare all’Africa. Soprattutto: occorrono Autorità davvero indipendenti che, in caso di costruzione delle centrali, vigilino sull’assoluta trasparenza degli appalti e dell’informazione.
Ecco, vi offro tanti dubbi. Ma una sola certezza, almeno per me: lasciare agli altri i rischi e a noi i benefici è ipocrisia.
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14.3.11
L'abitudine al dolore è dentro il destino
La lotta contro il terremoto si combatte con le piccole armi della organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere. Un fatto d'onore
di VITTORIO ZUCCONI
Si vive ogni giorno sull'orlo del vulcano, con la certezza della fine del mondo sotto i piedi, con il terrore della vergogna, non della morte. I bambini esercitati dalle maestre, il poliziotto di quartiere che ti bussa alla porta di per accertarsi che ci siano l'accetta, l'estintore, l'aqua distillata, la cassetta del pronto soccorso e la coperta antiincendio, gli scarafaggi che avvertono qualcosa e si arrampicano sul letto a cercare la solidarietà degli uomini, sono la normalità, non l'eccezione. Per i gaijin, per gli stranieri che vivono in Giappone, il grande sisma con le sue onde di terra e poi di acqua è un mostro, risveglia con il fiato grosso e il pigiama intriso di sudore, al primo tintinnare delle maniglie di ferro sui cassetti dei "tansu", degli armadi. Per i nihonjin, per i giapponesi, è la vita che hanno scelto di vivere, il destino che hanno accettato di subire, l'essere quello che sono. Vale per loro, parafrasandola, la formula di John F. Kennedy per l'impresa lunare: "Non siamo giapponesi perché è facile esserlo, ma perché è difficile".
Semplicemente sanno che nessuno, ricco o povero, nobile nato sotto i tre rombi dei baroni Mitsubishi venditore ambulante di patate dolci, sfuggirà all'incontro con la terra che trema e che pratica la democrazia del vulcano. Che ci saranno tributi da pagare al fatto di vivere in un arcipelago che deve tutto al mare e ai vulcani dai quali è stato creato.
La lotta contro questo nemico va combattuta con le piccole armi della
Advertisement
organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere, come le cariche banzai degli ultimi reparti giapponesi nelle isole accerchiate, assalti suicidi senza alcuna speranza di ributtarli in mare. Un fatto d'onore. Le scene dei bambini degli asili e delle elementari addestrati regolarmente ad accucciarsi sotto i banchi, a formare file ordinate anche quando tutto balla attorno a loro.
Non ci si esercita perché davvero possano esistere manovre protettive contro una muraglia d'acqua alta tre piani, dieci metri, che avanza verso l'interno alla velocità di un treno, ma perché nell'esercitazione e nella preparazione si celebra il rito propiziatorio della sopravvivenza e della cultura collettiva. La resistenza è la vittoria, il sacrificio è la testimonianza. "Tuo fratello è caduto in battaglia, e tu che fai ancora vivo?" scrivevano le madri dei soldati e dei marinai in guerra. Una settimana dopo la bomba di Hiroshima, la stazione radio locale aveva ripreso le trasmissioni.
Le autorità di Tokyo, che da 88 anni attendono il grande jishin, il superterremoto della piana del Kanto dove vivono mille e duecento persone per chilometro quadrato, dieci volte la densità abitativa dell'Italia, tengono centinaia di autopompe, migliaia di tonnellate di viveri e soccorsi, ambulanze, mezzi pesanti, raccolti e nascosti in grandi rimesse bunker. I grattacieli di Shinjuko e di Shibuya sono costruiti su fondamenta elastiche, capaci di oscillazioni che agli ultimi piani lanciano tra le pareti impiegati come palline da flipper, e fecero ruzzolare anche il presidente Pertini, quando li visitò e fu sorpreso da una scossa, come ogni giorno si avvertono. Ma non cadono.
Ogni medico, dentista, farmacista o infermiere, ogni ospedale, ogni clinica ha istruzioni continuamente aggiornate per il giorno in cui il nuovo, grande terremoto del Kanto, colpirà, come è certo che farà. Il loro terrore, in una città che vive quasi più sotto la superficie della terra che sopra, nell'infinita rete di tubi della metropolitana e delle stazioni, sono i fornellini a gas dei microristoranti famigliari che arrostiscono filetti d'anguilla, nocciole, verdure per sfamare la fiumana affrettata di umanità che sottoterra può comperare tutto, sposarsi, curarsi, mangiare, tutto meno che essere seppellita, rito per il quale si deve tornare sopra la terra. E' l'incendio, non il crollo, il vero incubo.
Ma neppure i centomila morti che le autorità si attendono quando Tokyo e il cuore dell'isola più grande, Honshu, sarà colpita come sarà colpita, è quello che può inzuppare di sudore i sindaci, le maestre, i capi della polizia e dell'autorità militari, quando ci pensano.
di VITTORIO ZUCCONI
Si vive ogni giorno sull'orlo del vulcano, con la certezza della fine del mondo sotto i piedi, con il terrore della vergogna, non della morte. I bambini esercitati dalle maestre, il poliziotto di quartiere che ti bussa alla porta di per accertarsi che ci siano l'accetta, l'estintore, l'aqua distillata, la cassetta del pronto soccorso e la coperta antiincendio, gli scarafaggi che avvertono qualcosa e si arrampicano sul letto a cercare la solidarietà degli uomini, sono la normalità, non l'eccezione. Per i gaijin, per gli stranieri che vivono in Giappone, il grande sisma con le sue onde di terra e poi di acqua è un mostro, risveglia con il fiato grosso e il pigiama intriso di sudore, al primo tintinnare delle maniglie di ferro sui cassetti dei "tansu", degli armadi. Per i nihonjin, per i giapponesi, è la vita che hanno scelto di vivere, il destino che hanno accettato di subire, l'essere quello che sono. Vale per loro, parafrasandola, la formula di John F. Kennedy per l'impresa lunare: "Non siamo giapponesi perché è facile esserlo, ma perché è difficile".
Semplicemente sanno che nessuno, ricco o povero, nobile nato sotto i tre rombi dei baroni Mitsubishi venditore ambulante di patate dolci, sfuggirà all'incontro con la terra che trema e che pratica la democrazia del vulcano. Che ci saranno tributi da pagare al fatto di vivere in un arcipelago che deve tutto al mare e ai vulcani dai quali è stato creato.
La lotta contro questo nemico va combattuta con le piccole armi della
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organizzazione collettiva e della preparazione, non perché possa mai essere vinta, ma perché è la vita che è stata data da vivere, come le cariche banzai degli ultimi reparti giapponesi nelle isole accerchiate, assalti suicidi senza alcuna speranza di ributtarli in mare. Un fatto d'onore. Le scene dei bambini degli asili e delle elementari addestrati regolarmente ad accucciarsi sotto i banchi, a formare file ordinate anche quando tutto balla attorno a loro.
Non ci si esercita perché davvero possano esistere manovre protettive contro una muraglia d'acqua alta tre piani, dieci metri, che avanza verso l'interno alla velocità di un treno, ma perché nell'esercitazione e nella preparazione si celebra il rito propiziatorio della sopravvivenza e della cultura collettiva. La resistenza è la vittoria, il sacrificio è la testimonianza. "Tuo fratello è caduto in battaglia, e tu che fai ancora vivo?" scrivevano le madri dei soldati e dei marinai in guerra. Una settimana dopo la bomba di Hiroshima, la stazione radio locale aveva ripreso le trasmissioni.
Le autorità di Tokyo, che da 88 anni attendono il grande jishin, il superterremoto della piana del Kanto dove vivono mille e duecento persone per chilometro quadrato, dieci volte la densità abitativa dell'Italia, tengono centinaia di autopompe, migliaia di tonnellate di viveri e soccorsi, ambulanze, mezzi pesanti, raccolti e nascosti in grandi rimesse bunker. I grattacieli di Shinjuko e di Shibuya sono costruiti su fondamenta elastiche, capaci di oscillazioni che agli ultimi piani lanciano tra le pareti impiegati come palline da flipper, e fecero ruzzolare anche il presidente Pertini, quando li visitò e fu sorpreso da una scossa, come ogni giorno si avvertono. Ma non cadono.
Ogni medico, dentista, farmacista o infermiere, ogni ospedale, ogni clinica ha istruzioni continuamente aggiornate per il giorno in cui il nuovo, grande terremoto del Kanto, colpirà, come è certo che farà. Il loro terrore, in una città che vive quasi più sotto la superficie della terra che sopra, nell'infinita rete di tubi della metropolitana e delle stazioni, sono i fornellini a gas dei microristoranti famigliari che arrostiscono filetti d'anguilla, nocciole, verdure per sfamare la fiumana affrettata di umanità che sottoterra può comperare tutto, sposarsi, curarsi, mangiare, tutto meno che essere seppellita, rito per il quale si deve tornare sopra la terra. E' l'incendio, non il crollo, il vero incubo.
Ma neppure i centomila morti che le autorità si attendono quando Tokyo e il cuore dell'isola più grande, Honshu, sarà colpita come sarà colpita, è quello che può inzuppare di sudore i sindaci, le maestre, i capi della polizia e dell'autorità militari, quando ci pensano.
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13.3.11
L’urlo universale della natura e la coscienza (perduta) del pericolo
Claudio Magris
In queste ore si ha talvolta l’impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l’acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D’improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s’incendia. Ma cos’è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l’arroganza del dominatore, ora con l’angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch’essi parte della natura, come se non fossero anch’essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell’uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L’apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un’ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell’uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura. Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all’insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall’infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche. L’orgoglio dell’uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l’invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l’uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C’è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l’agire di chi coltiva la vite e vendemmia l’uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l’attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell’appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l’impulso dell’uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all’impeto, altrettanto naturale, delle acque. L’uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura. La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell’uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall’ansia di sapere di dovere, un giorno o l’altro, morire. Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall’esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l’atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l’uomo sa talora far fronte al disastro. Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l’equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall’antica madre ossia dalla totalità che l’ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l’albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie. C’è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell’uomo; l’ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi». Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo. Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli. Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l’uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto. ] L'urlo universale della natura
e la coscienza (perduta) del pericolo
In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.
L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.
L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.
La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.
Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.
Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.
C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».
Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.
Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.
Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.
In queste ore si ha talvolta l’impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l’acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D’improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s’incendia. Ma cos’è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l’arroganza del dominatore, ora con l’angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch’essi parte della natura, come se non fossero anch’essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell’uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L’apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un’ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell’uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura. Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all’insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall’infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche. L’orgoglio dell’uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l’invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l’uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C’è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l’agire di chi coltiva la vite e vendemmia l’uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l’attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell’appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l’impulso dell’uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all’impeto, altrettanto naturale, delle acque. L’uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura. La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell’uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall’ansia di sapere di dovere, un giorno o l’altro, morire. Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall’esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l’atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l’uomo sa talora far fronte al disastro. Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l’equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall’antica madre ossia dalla totalità che l’ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l’albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie. C’è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell’uomo; l’ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi». Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo. Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli. Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l’uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto. ] L'urlo universale della natura
e la coscienza (perduta) del pericolo
In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.
L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.
L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.
La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.
Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.
Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.
C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».
Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.
Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.
Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.
9.3.11
Parlare chiaro
Rossana Rossanda (il Manifesto)
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
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Le procure sotto tutela
di BARBARA SPINELLI
QUANDO giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l'idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l'Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria. È osservando quel che accade in Francia che l'impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l'indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all'avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l'indifferenza al peso che l'Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria. Alla base di questa miope indifferenza c'è una doppia fallacia. Prima fallacia: l'idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l'ignoranza di un'Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri. L'idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l'Europa s'è unita con questa consapevolezza. L'illusione monolitica è un'eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l'articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: è l'arma del popolo sovrano, dell'esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d'origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l'Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un'autentica Corte costituzionale, e soprattutto l'indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest'ultimo l'obbligo di esercitare l'azione penale, come imposto dall'articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che "il pubblico ministero non è un'autorità giudiziaria indipendente", visto che "non garantisce l'indipendenza e l'imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l'autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l'"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l'associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: "In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell'esecutivo". Tanto più è soggetta "all'influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall'esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto". È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l'Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest'ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l'Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che "gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa", per "la similarità e complementarietà delle due funzioni" (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d'Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L'obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell'accusa", più vicino per cultura all'avvocato della difesa che al giudice: mentre con l'ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell'imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l'avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l'imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L'avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l'Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell'adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l'Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel '93 per l'ammissione dei paesi dell'Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un'affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell'uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell'Unione, invece, l'Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d'ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l'Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell'Unione per quei Paesi dell'Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all'Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell'assenza di anticorpi, in Italia. Ma l'Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.
QUANDO giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l'idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l'Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria. È osservando quel che accade in Francia che l'impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l'indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all'avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l'indifferenza al peso che l'Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria. Alla base di questa miope indifferenza c'è una doppia fallacia. Prima fallacia: l'idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l'ignoranza di un'Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri. L'idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l'Europa s'è unita con questa consapevolezza. L'illusione monolitica è un'eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l'articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: è l'arma del popolo sovrano, dell'esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d'origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l'Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un'autentica Corte costituzionale, e soprattutto l'indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest'ultimo l'obbligo di esercitare l'azione penale, come imposto dall'articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che "il pubblico ministero non è un'autorità giudiziaria indipendente", visto che "non garantisce l'indipendenza e l'imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l'autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l'"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l'associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: "In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell'esecutivo". Tanto più è soggetta "all'influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall'esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto". È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l'Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest'ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l'Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che "gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa", per "la similarità e complementarietà delle due funzioni" (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d'Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L'obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell'accusa", più vicino per cultura all'avvocato della difesa che al giudice: mentre con l'ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell'imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l'avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l'imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L'avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l'Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell'adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l'Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel '93 per l'ammissione dei paesi dell'Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un'affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell'uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell'Unione, invece, l'Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d'ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l'Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell'Unione per quei Paesi dell'Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all'Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell'assenza di anticorpi, in Italia. Ma l'Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.
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5.3.11
Ipotesi sulla crisi libica
Valentino Parlato (il Manifesto)
Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».
Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.
Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».
Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.
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