Il silenzio del movimento pacifista e l'ipocrisia dei media embedded
Luciana Castellina (il manifesto)
Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai).
Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui partecipavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conteggiava le vittime palestinesi: che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell’Olocausto – protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea politica di Hamas – e io lo sono — ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l’Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista.
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato perché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emozioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di commozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pubblico? È perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell’Unione Europea? E se sì, per far che?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio.
E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
30.7.14
Perché Gaza è sola?
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24.7.14
Evgeny Morozov contro la favola dell’eden digitale
Benedetto Vecchi (Il Manifesto)
Codici aperti. Il nuovo saggio di Evgeny Morozov tradotto da Mondadori è un j’accuse contro le tesi di chi vede nella Rete la salvezza dell’umanità. Sotto accusa è l’ideologia del «cyberutopismo» in nome di un indiscusso e indiscutibile principio di realtà
La comparsa del suo nome tra le pagine di questo nuovo e imponente saggio di Evgeny Morozov (Internet non salverà il mondo, pp. 448, euro 19) sorprende non poco. Tanto più che viene inserito in una platea che va da libertario Jason Lanier all’economista liberale Friedrich von Hayek, dal filosofo conservatore Thomas Molnar al critico radicale Ivan Illich, dalla «modernista» Jane Jacobs all’ultra conservatore Michael Oakeshott, da Hans Jonas a lui, Jacques Ellul, teologo, filosofo e sociologo noto per la sua critica alla tecno-scienza.
Eppure la presenza di Jacques Ellul è meno stravagante degli altri nomi, inseriti nell’eccentrico pantheon teorico di Morozov. Ellul, infatti, è stato uno fustigatore del ruolo svolto dalla tecnologia e dalla scienza nelle società contemporanee, collanti di una gabbia di acciaio che definisce il perimetro delle azioni umani, stabilendo all’interno regole di comportamento funzionali alla logica astratta e oggettiva imposta dalla scienza. Nel libro di Morozov tale impianto teorico torna continuamente, sia quando scrive di Internet che dei social network. Sia però chiaro: Morozov non è un apocalittico critico della scienza e della tecnologia, né propone una frugale e austera decrescita che rallenti lo sviluppo scientifico. È un blogger che apprezza il potere comunicativo della Rete e dei social network. Al pari di molti storici della tecnologia ritiene che le macchine siano protesi meccaniche degli essere umani. Ma è altrettanto convinto che la Rete, i computer, gli smartphone non sono protesi «stupide», ma hanno, in quanto «macchine universali» che riproducono attività cognitive, un potere performativo dei comportamenti, delle abitudini individuali e collettive. Sulla scia di Ellul, sostiene che siano espressioni di un sistema tecno-scientifico che limita le libertà dei singoli e inibisce le possibilità alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle dominanti. Questo però non fa di Morozov un critico del capitalismo.
UN LIBERAL DEL WEB
Lo studioso, giornalista nato in Bielorussia, ma statunitense per scelta può essere considerato uno degli esponenti più brillanti di un’attitudine moderatamente anticorporation e conservatrice che sostiene un intervento attivo dello Stato nel regolamentare la vita sociale, stabilendo limiti precisi all’azione delle multinazionali del digitale. Posizione che lo portano a scrivere di essere più in sintonia con i liberal che non con i repubblicani statunitensi. Significative in questo suo nuovo saggio non sono però le sue posizioni politiche, bensì l’analisi proprio della vita dentro e fuori lo schermo dove le strategie imprenditoriali di Apple, Google, Amazon, Facebook e Twitter più che aprire la strada a una società di liberi, stiano minando le basi della democrazia liberale.
Il libro di Morozov è certo una dettagliata critica della egemone welthashauung tecnocratica, anche se limita la sua analisi agli Stati Uniti, con l’Europa vista come una colonia tecnologia della Silicon Valley. Poco infatti viene detto su quanto accade in paesi sempre più rilevanti nello sviluppo della Rete. Alla Cina, all’India dedica infatti qualche distratta citazione e nulla più. Non che nei distretti tecnologici o nelle università cinesi e indiane non ci siano progetti di sviluppo alieni rispetto a quanto accade negli Stati Uniti o nel vecchio continente, ma con una differenza: la tecnologia è sempre una variabile dipendente di altre scelte e priorità economiche e di politica industriale. Il «tecnopolio», termine preso in prestito proprio da Ellul, è relativo solo all’operato delle imprese nella Silicon Valley, ma non dei distretti tecnologici cinesi o indiani. L’assenza di una analisi delle logiche dominante nei cosiddetti paesi emergenti non toglie forza alla requisitoria che svolge contro il determinismo tecnologico dominante. Il suo è un j’accuse contro quello che chiama, di volta in volta, «internet-centrismo», «soluzionismo», «tecnoescapismo», tre modi per qualificare una ideologia egemone che assegna ai modelli economici, produttivi e sociali presenti nella Rete una naturalità indiscutibile e una superiorità rispetto ad altre possibili vie di sviluppo sociale e economico.
GLI IDEOLOGHI DEL DIGITALE
Morozov non esita quindi a prendere di mira tanto gli apologeti della Rete che i media theorist critici del regime della proprietà intellettuale operante su Internet. Da Jason Lanier a Nicholas Carr, da Lawrence Lessig a Yoachai Benkler, nessuno è risparmiato nelle critiche di Morozov, che li considerata tutti responsabili della «produzione» dell’ideologia tecnocratica dominante. Molti sono, ad esempio, gli esempi di come funzioni il «soluzionismo». L’inquinamento a livello planetario può essere risolto usando la Rete, perché limita la mobilità (tutto può essere fatto da casa); perché riduce il consumo di carta; perché i computer e le fibre ottiche possono essere prodotti a poco prezzo e consumando poco petrolio. La realtà dimostra il contrario — il livello di inquinamento provocato dallo smaltimento dei rifiuti «digitali» non ha nulla da invidiare all’inquinamento provocato dal petrolio -, ma questo è dovuto, sostengono i «soluzionisti», al fatto che l’organizzazione sociale è ancora modellata sulla società industriale. Basta quindi prendere coscienza che siamo nella società dell’informazione e adeguare le istituzione politiche è il problema è risolto: l’inquinamento diminuirà di conseguenza. La democrazia è in crisi? Come negarlo, ma attraverso i social network e la comunicazione on-line la partecipazione diffusa nel prendere le decisioni è garantita.
Su questo aspetto, Morozov ha molte frecce nel suo arco nel criticare il populismo digitale. Con feroce ironia, scrive che una proposta non basta che venga sponsorizzata da un numero alto di «naviganti» per essere la migliore. Inoltre, ma su questo aspetto Morozov è evasivo, Facebook, Twitter, Google e molte altre imprese dot.com fanno affari d’oro nel costruire, elaborare e vendere i Big Data accumulati attraverso l’uso dei social network o dei tanti blog operanti tra le due sponde dell’Atlantico. Anzi, alcune imprese fanno affari ospitando e organizzando forum di discussione politici, come testimonia l’impresa che gestisce il Blog di Beppe Grillo.
In fondo, proprio il gruppo italiano del «Movimento 5 stelle» strizza l’occhio alle dinamiche della Rete facendo derivare il proprio nome dal numero massimo di stelle che i recensori di libri o di siti pongono per segnalare il loro gradimento a un libro, un sito o una proposta. Tutto ciò nulla a che fare con una rinnovata democrazia rappresentativa, né con la sbandierata democrazia diretta dei populisti digitali.
I populisti digitali sono la bestia nera di Morozov, perché sono gli agit-prop di quel «tecnoescapismo» che vede nella Rete una sorte di eden dell’individuo proprietario che le vecchie oligarchie vorrebbero vedere cancellato per preservare il loro potere. Morozov è invece convinto che l’animale umano sia un animale sociale e che per questo abbia bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità. Da qui la necessità della mediazione e della condivisione.
IN NOME DELLA CONDIVISIONE
Un’antropologia filosofica ignota agli apologeti della Rete, interessanti invece a spacciare come novità rivoluzionarie ogni minima e spesso irrilevante innovazione tecnologica. Uno spirito polemico, il suo, che raggiunge l’acme acme quando affronta l’oggettività costituita dai modelli proposti dalla tecnologia digitale a partire dalla neutralità rappresentata dagli algoritmi alla base del motore di ricerca Google (Page Rank) e di quello di Facebook (Edge Rank). Al di là del ragionevole dubbio sulla loro oggettività, visto che entrambi gli algoritmi sono coperti da brevetto e che finora nessuno è riuscito a capire come funzionano, è interessante la sottolineatura che l’autore fa del fatto che dentro le multinazionali high-tech lavorano uomini e donne che vivono in una società dove sono vigenti weltanshauung egemoni che ne condizionano l’operato.
La critica alla neutralità degli algoritmi, banco di prova di una teoria critica della Rete ancora da sviluppare, viene sì nominata dallo studioso, ma non sviluppata. Per fare questo, servirebbe una analisi dei modelli epistemologici dominanti e sul regime produttivo del software e dei contenuti dentro e fuori la Rete. In altri termini, a costituire problema è il regime di sfruttamento presente nella società en general, così come costituisce problema la pretesa oggettività delle procedure e degli standard, i format imposti dalle tecnologie, che vengono sviluppate in base a una concezione dei rapporti sociali dove di oggettivo c’è ben poco. Ma è proprio sulla propagandata oggettività degli algoritmi che si manifesta il potere autoritario del «tecnopolio».
Il settore dove più evidente è la pretesa dell’internet-centrismo di funzionare come modello «universale» è l’«industria dei memi» — le parole chiave che scandiscono e orientano il flusso dentro Facebook e Twitter — per la sua capacità di condizionare l’opinione pubblica e la formazione delle decisioni politiche per salvaguardare gli interessi economici e la vision sociale delle imprese digitali. La conclusione è lapidaria: l’«internet-centrismo», così come il «tecnoescapismo» hanno molte caratteristiche delle società totalitarie del Novecento. Lo stesso vale per la difesa della privacy: un diritto ridotto a merce da acquistare a caro prezzo sul mercato.
UNA PRIVACY DI CLASSE
Il self tracking, infatti, è ritenuto il settore economico in espansione. Il monitoraggio della informazioni sulla propria vita e la possibilità di eliminare i dati che non vogliono essere resi pubblici sta diventando infatti una prerogative delle élite globali che vogliono salvaguardare la privacy rispetto alle tecnologie del controllo esistenti. Ma come sostengono gli attivisti e ricercatori del gruppo italiano Ippolita, il rispetto della privacy sta acquisendo sempre più caratteristiche di classe: chi può riesce a garantirsi zone d’ombre sulla propria vita; per la maggioranza dellla popolazione connessa alla rete, la propria vita diviene semplicemente trasparente ai colossi dei Big Data.
C’è il rischio che le tesi di Morozov abbiano come conseguenza – e in alcune parti del saggio è evidente una deriva «conservatrice» — un auspicato ritorno all’ordine sociale, economico e politico precedente la cosiddetta «rivoluzione digitale», compresa la difesa del welfare state e dell’intervento dello stato in economia in quanto soggetto economico, non solo come momento regolativo dell’attività economica, momento che non è mai venuto meno, come hanno d’altronde documentato da critici marxisti e da teorici della biopolitica. Ciò che però interessa Morozov è introdurre elementi di moderazione nell’ideologia dominante. È infatti assente ogni analisi sui rapporti sociali e produttivi nella Rete. Ignorati sono i meccanismi di appropriazione privata dei dati personali, elaborati e codificati per definire «profili» da vendere al migliore offerente; nessun accenno a come viene prodotto innovazione tecnologica e sociale; rimangono avvolti nel mistero i meccanismi di sfruttamento nella produzione di software e di contenuti.
Sono solo alcuni degli elementi che potrebbe consentire lo sviluppo di una puntuale teoria critica della Rete. Obiettivo diverso da quello di Morozov. La sua critica al «cyberutopismo» aiuta però a una pratica del dubbio che induce a resistere al canto delle sirene dello status quo.
Codici aperti. Il nuovo saggio di Evgeny Morozov tradotto da Mondadori è un j’accuse contro le tesi di chi vede nella Rete la salvezza dell’umanità. Sotto accusa è l’ideologia del «cyberutopismo» in nome di un indiscusso e indiscutibile principio di realtà
La comparsa del suo nome tra le pagine di questo nuovo e imponente saggio di Evgeny Morozov (Internet non salverà il mondo, pp. 448, euro 19) sorprende non poco. Tanto più che viene inserito in una platea che va da libertario Jason Lanier all’economista liberale Friedrich von Hayek, dal filosofo conservatore Thomas Molnar al critico radicale Ivan Illich, dalla «modernista» Jane Jacobs all’ultra conservatore Michael Oakeshott, da Hans Jonas a lui, Jacques Ellul, teologo, filosofo e sociologo noto per la sua critica alla tecno-scienza.
Eppure la presenza di Jacques Ellul è meno stravagante degli altri nomi, inseriti nell’eccentrico pantheon teorico di Morozov. Ellul, infatti, è stato uno fustigatore del ruolo svolto dalla tecnologia e dalla scienza nelle società contemporanee, collanti di una gabbia di acciaio che definisce il perimetro delle azioni umani, stabilendo all’interno regole di comportamento funzionali alla logica astratta e oggettiva imposta dalla scienza. Nel libro di Morozov tale impianto teorico torna continuamente, sia quando scrive di Internet che dei social network. Sia però chiaro: Morozov non è un apocalittico critico della scienza e della tecnologia, né propone una frugale e austera decrescita che rallenti lo sviluppo scientifico. È un blogger che apprezza il potere comunicativo della Rete e dei social network. Al pari di molti storici della tecnologia ritiene che le macchine siano protesi meccaniche degli essere umani. Ma è altrettanto convinto che la Rete, i computer, gli smartphone non sono protesi «stupide», ma hanno, in quanto «macchine universali» che riproducono attività cognitive, un potere performativo dei comportamenti, delle abitudini individuali e collettive. Sulla scia di Ellul, sostiene che siano espressioni di un sistema tecno-scientifico che limita le libertà dei singoli e inibisce le possibilità alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle dominanti. Questo però non fa di Morozov un critico del capitalismo.
UN LIBERAL DEL WEB
Lo studioso, giornalista nato in Bielorussia, ma statunitense per scelta può essere considerato uno degli esponenti più brillanti di un’attitudine moderatamente anticorporation e conservatrice che sostiene un intervento attivo dello Stato nel regolamentare la vita sociale, stabilendo limiti precisi all’azione delle multinazionali del digitale. Posizione che lo portano a scrivere di essere più in sintonia con i liberal che non con i repubblicani statunitensi. Significative in questo suo nuovo saggio non sono però le sue posizioni politiche, bensì l’analisi proprio della vita dentro e fuori lo schermo dove le strategie imprenditoriali di Apple, Google, Amazon, Facebook e Twitter più che aprire la strada a una società di liberi, stiano minando le basi della democrazia liberale.
Il libro di Morozov è certo una dettagliata critica della egemone welthashauung tecnocratica, anche se limita la sua analisi agli Stati Uniti, con l’Europa vista come una colonia tecnologia della Silicon Valley. Poco infatti viene detto su quanto accade in paesi sempre più rilevanti nello sviluppo della Rete. Alla Cina, all’India dedica infatti qualche distratta citazione e nulla più. Non che nei distretti tecnologici o nelle università cinesi e indiane non ci siano progetti di sviluppo alieni rispetto a quanto accade negli Stati Uniti o nel vecchio continente, ma con una differenza: la tecnologia è sempre una variabile dipendente di altre scelte e priorità economiche e di politica industriale. Il «tecnopolio», termine preso in prestito proprio da Ellul, è relativo solo all’operato delle imprese nella Silicon Valley, ma non dei distretti tecnologici cinesi o indiani. L’assenza di una analisi delle logiche dominante nei cosiddetti paesi emergenti non toglie forza alla requisitoria che svolge contro il determinismo tecnologico dominante. Il suo è un j’accuse contro quello che chiama, di volta in volta, «internet-centrismo», «soluzionismo», «tecnoescapismo», tre modi per qualificare una ideologia egemone che assegna ai modelli economici, produttivi e sociali presenti nella Rete una naturalità indiscutibile e una superiorità rispetto ad altre possibili vie di sviluppo sociale e economico.
GLI IDEOLOGHI DEL DIGITALE
Morozov non esita quindi a prendere di mira tanto gli apologeti della Rete che i media theorist critici del regime della proprietà intellettuale operante su Internet. Da Jason Lanier a Nicholas Carr, da Lawrence Lessig a Yoachai Benkler, nessuno è risparmiato nelle critiche di Morozov, che li considerata tutti responsabili della «produzione» dell’ideologia tecnocratica dominante. Molti sono, ad esempio, gli esempi di come funzioni il «soluzionismo». L’inquinamento a livello planetario può essere risolto usando la Rete, perché limita la mobilità (tutto può essere fatto da casa); perché riduce il consumo di carta; perché i computer e le fibre ottiche possono essere prodotti a poco prezzo e consumando poco petrolio. La realtà dimostra il contrario — il livello di inquinamento provocato dallo smaltimento dei rifiuti «digitali» non ha nulla da invidiare all’inquinamento provocato dal petrolio -, ma questo è dovuto, sostengono i «soluzionisti», al fatto che l’organizzazione sociale è ancora modellata sulla società industriale. Basta quindi prendere coscienza che siamo nella società dell’informazione e adeguare le istituzione politiche è il problema è risolto: l’inquinamento diminuirà di conseguenza. La democrazia è in crisi? Come negarlo, ma attraverso i social network e la comunicazione on-line la partecipazione diffusa nel prendere le decisioni è garantita.
Su questo aspetto, Morozov ha molte frecce nel suo arco nel criticare il populismo digitale. Con feroce ironia, scrive che una proposta non basta che venga sponsorizzata da un numero alto di «naviganti» per essere la migliore. Inoltre, ma su questo aspetto Morozov è evasivo, Facebook, Twitter, Google e molte altre imprese dot.com fanno affari d’oro nel costruire, elaborare e vendere i Big Data accumulati attraverso l’uso dei social network o dei tanti blog operanti tra le due sponde dell’Atlantico. Anzi, alcune imprese fanno affari ospitando e organizzando forum di discussione politici, come testimonia l’impresa che gestisce il Blog di Beppe Grillo.
In fondo, proprio il gruppo italiano del «Movimento 5 stelle» strizza l’occhio alle dinamiche della Rete facendo derivare il proprio nome dal numero massimo di stelle che i recensori di libri o di siti pongono per segnalare il loro gradimento a un libro, un sito o una proposta. Tutto ciò nulla a che fare con una rinnovata democrazia rappresentativa, né con la sbandierata democrazia diretta dei populisti digitali.
I populisti digitali sono la bestia nera di Morozov, perché sono gli agit-prop di quel «tecnoescapismo» che vede nella Rete una sorte di eden dell’individuo proprietario che le vecchie oligarchie vorrebbero vedere cancellato per preservare il loro potere. Morozov è invece convinto che l’animale umano sia un animale sociale e che per questo abbia bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità. Da qui la necessità della mediazione e della condivisione.
IN NOME DELLA CONDIVISIONE
Un’antropologia filosofica ignota agli apologeti della Rete, interessanti invece a spacciare come novità rivoluzionarie ogni minima e spesso irrilevante innovazione tecnologica. Uno spirito polemico, il suo, che raggiunge l’acme acme quando affronta l’oggettività costituita dai modelli proposti dalla tecnologia digitale a partire dalla neutralità rappresentata dagli algoritmi alla base del motore di ricerca Google (Page Rank) e di quello di Facebook (Edge Rank). Al di là del ragionevole dubbio sulla loro oggettività, visto che entrambi gli algoritmi sono coperti da brevetto e che finora nessuno è riuscito a capire come funzionano, è interessante la sottolineatura che l’autore fa del fatto che dentro le multinazionali high-tech lavorano uomini e donne che vivono in una società dove sono vigenti weltanshauung egemoni che ne condizionano l’operato.
La critica alla neutralità degli algoritmi, banco di prova di una teoria critica della Rete ancora da sviluppare, viene sì nominata dallo studioso, ma non sviluppata. Per fare questo, servirebbe una analisi dei modelli epistemologici dominanti e sul regime produttivo del software e dei contenuti dentro e fuori la Rete. In altri termini, a costituire problema è il regime di sfruttamento presente nella società en general, così come costituisce problema la pretesa oggettività delle procedure e degli standard, i format imposti dalle tecnologie, che vengono sviluppate in base a una concezione dei rapporti sociali dove di oggettivo c’è ben poco. Ma è proprio sulla propagandata oggettività degli algoritmi che si manifesta il potere autoritario del «tecnopolio».
Il settore dove più evidente è la pretesa dell’internet-centrismo di funzionare come modello «universale» è l’«industria dei memi» — le parole chiave che scandiscono e orientano il flusso dentro Facebook e Twitter — per la sua capacità di condizionare l’opinione pubblica e la formazione delle decisioni politiche per salvaguardare gli interessi economici e la vision sociale delle imprese digitali. La conclusione è lapidaria: l’«internet-centrismo», così come il «tecnoescapismo» hanno molte caratteristiche delle società totalitarie del Novecento. Lo stesso vale per la difesa della privacy: un diritto ridotto a merce da acquistare a caro prezzo sul mercato.
UNA PRIVACY DI CLASSE
Il self tracking, infatti, è ritenuto il settore economico in espansione. Il monitoraggio della informazioni sulla propria vita e la possibilità di eliminare i dati che non vogliono essere resi pubblici sta diventando infatti una prerogative delle élite globali che vogliono salvaguardare la privacy rispetto alle tecnologie del controllo esistenti. Ma come sostengono gli attivisti e ricercatori del gruppo italiano Ippolita, il rispetto della privacy sta acquisendo sempre più caratteristiche di classe: chi può riesce a garantirsi zone d’ombre sulla propria vita; per la maggioranza dellla popolazione connessa alla rete, la propria vita diviene semplicemente trasparente ai colossi dei Big Data.
C’è il rischio che le tesi di Morozov abbiano come conseguenza – e in alcune parti del saggio è evidente una deriva «conservatrice» — un auspicato ritorno all’ordine sociale, economico e politico precedente la cosiddetta «rivoluzione digitale», compresa la difesa del welfare state e dell’intervento dello stato in economia in quanto soggetto economico, non solo come momento regolativo dell’attività economica, momento che non è mai venuto meno, come hanno d’altronde documentato da critici marxisti e da teorici della biopolitica. Ciò che però interessa Morozov è introdurre elementi di moderazione nell’ideologia dominante. È infatti assente ogni analisi sui rapporti sociali e produttivi nella Rete. Ignorati sono i meccanismi di appropriazione privata dei dati personali, elaborati e codificati per definire «profili» da vendere al migliore offerente; nessun accenno a come viene prodotto innovazione tecnologica e sociale; rimangono avvolti nel mistero i meccanismi di sfruttamento nella produzione di software e di contenuti.
Sono solo alcuni degli elementi che potrebbe consentire lo sviluppo di una puntuale teoria critica della Rete. Obiettivo diverso da quello di Morozov. La sua critica al «cyberutopismo» aiuta però a una pratica del dubbio che induce a resistere al canto delle sirene dello status quo.
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20.7.14
Ruby, la verità di una biografia
Difendiamo la decenza dello Stato e la nobiltà della politica anche dall'idea che esse esistano solo perché un giudice le fa esistere
di FRANCESCO MERLO (La Repubblica)
Rendo esplicita la cosa più indecentemente berlusconiana che ho letto e ascoltato e cioè che "l'amor nostro" (così lo chiama il Foglio) è stato assolto e dunque Repubblica... è stata condannata. Al contrario, un indecente assolto rimane un indecente. E non è certo al potere giudiziario ma ai lettori che in questi anni Repubblica ha raccontato l'indecenza di quella parodia di don Giovanni al governo.
Non era il reato penale che cercavamo quando denunziavamo l'oscenità dei pezzi di Stato con cui l'allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E abbiamo descritto con malinconia, stupore e spesso con pietà l'universo dei ricottari parassiti - quanti giornalisti di fama! - che slurpando lo servivano nell'alcova. Non pensavamo mai ai carabinieri ma qualche volta agli infermieri quando scoprivamo che la consigliera regionale che lui aveva fatto eleggere era l'avvenente mezzana che gli "briffava" le prostitute disprezzandolo in segreto con l'appellativo "culo flaccido". E ci pareva che illustrassero benissimo il potere italiano e non il codice penale quelle buste "dedicate" con cui il ragioniere privato del capo del governo stipendiava le olgettine di Stato, il segretissimo uomo che applicava freddamente una tariffa ad ogni capriccio del padrone e assegnava pure gli appartamenti a Barbara, a Marysthelle, a Miriam, pagava i gioielli, i foulard e i vestiti ad Aris, a Elisa e a Ioana... Noi non abbiamo mai ipotizzato la concussione ma, al contrario, lo strapotere spavaldo dell'impunito commentando quella telefonata che Berlusconi fece alla questura di Milano per liberare la minorenne spacciandola per la nipote di un capo di Stato estero.
Noi condannati dalla sua assoluzione? Al contrario, noi difendiamo la decenza dello Stato e la nobiltà della politica anche dall'idea che esse esistano solo perché un giudice le fa esistere. Mai ci siamo affidati al potere giudiziario o a qualche Robespierre per tutelarle. Non spetta ai magistrati custodire la dignità di un uomo che violava da sé il proprio decoro di vecchio signore prima ancora che di statista. Perso nelle sue orge pubbliche era lui stesso che non rispettava la propria privacy e rendeva immondo ed esibito quell'universo privatissimo che chiunque, e ancora di più un capo di governo, dovrebbe gestire discretamente, con pudore, equilibrio e misura, con l'"onore" ai cui lo obbliga l'articolo 54 della Costituzione. E i vizi, quando ci sono, non si espongono.
Certo, la decadenza di Berlusconi e dell'Italia con lui ("mignottocrazia" la battezzò il berlusconiano più fantasioso, Paolo Guzzanti) è stata materia che ha acceso la libidine oculare e ha certamente eccitato la morbosità di qualche giornalista. Anche noi, com'è ovvio, non siamo tutti uguali. Di sicuro posso dire che tra quelli che hanno incollato l'occhio alla serratura per inseguire il presunto ghiotto affare editoriale non c'era certamente Giuseppe D'Avanzo contro cui Giuliano Ferrara ingaggia ora una polemica alla memoria che è più di una gaffe, è un abbaglio da buona notizia, come la troppa ebbrezza che ti impedisce di godertela e ti fa invece vomitare; insomma un conato di cui siamo sicuri che Giuliano si è già vergognato. E non solo perché tra le famose dieci domande di D'Avanzo a Berlusconi non ce n'era neppure una su Ruby. Non riguardavano infatti la materia di questo processo che, invece di condannare Berlusconi, secondo i giornali di Berlusconi, ha condannato D'Avanzo e noi con lui.
La verità è che ci occupiamo di Berlusconi sin dal suo esordio romano nel febbraio del 1994 quando si muoveva sul palco imitando Frank Sinatra e incantando quasi tutti i poteri di questo Paese e pure le sue classi sociali. Abbiamo raccontato l'enormità delle leggi ad personam, il potere illegale e il mercato dei parlamentari, le corna e le barzellette al posto della politica estera, l'inedito patto di servizio tra la Rai e Mediaset, il disfacimento morale del bunga bunga, la distruzione di quel po' di destra che aveva l'Italia, tutta decoro e valori, sino al patetico crepuscolo nel cerchio magico di palazzo Grazioli. E abbiamo visto la sua Italia, che si sognava liberale, diventare a poco a poco l'Italia degli avanzi, residuale, una specie di lumpenborghesia marginale. Nessuno può assolvere Berlusconi da questo fallimento epocale che non è stato certo provocato dal voyeurismo di alcuni giornali e giornalisti. Capisco che i suoi fedeli gli vogliano ancora bene, ma l'idea che questa sentenza d'appello lo assolva da quel fallimento e dalla sua propria indecenza è solo la prosecuzione della pornografia sul terreno dell'impostura più naïve.
La sentenza di assoluzione non cancella il nostro lavoro di cronaca e di verità di tutti questi anni, al contrario lo esalta. Si illudevano che questo Appello avesse cancellato gli articoli dei nostri giornalisti. Invece li sta evidenziando. La sua biografia non l'hanno scritta i magistrati. L'abbiamo scritta noi.
di FRANCESCO MERLO (La Repubblica)
Rendo esplicita la cosa più indecentemente berlusconiana che ho letto e ascoltato e cioè che "l'amor nostro" (così lo chiama il Foglio) è stato assolto e dunque Repubblica... è stata condannata. Al contrario, un indecente assolto rimane un indecente. E non è certo al potere giudiziario ma ai lettori che in questi anni Repubblica ha raccontato l'indecenza di quella parodia di don Giovanni al governo.
Non era il reato penale che cercavamo quando denunziavamo l'oscenità dei pezzi di Stato con cui l'allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E abbiamo descritto con malinconia, stupore e spesso con pietà l'universo dei ricottari parassiti - quanti giornalisti di fama! - che slurpando lo servivano nell'alcova. Non pensavamo mai ai carabinieri ma qualche volta agli infermieri quando scoprivamo che la consigliera regionale che lui aveva fatto eleggere era l'avvenente mezzana che gli "briffava" le prostitute disprezzandolo in segreto con l'appellativo "culo flaccido". E ci pareva che illustrassero benissimo il potere italiano e non il codice penale quelle buste "dedicate" con cui il ragioniere privato del capo del governo stipendiava le olgettine di Stato, il segretissimo uomo che applicava freddamente una tariffa ad ogni capriccio del padrone e assegnava pure gli appartamenti a Barbara, a Marysthelle, a Miriam, pagava i gioielli, i foulard e i vestiti ad Aris, a Elisa e a Ioana... Noi non abbiamo mai ipotizzato la concussione ma, al contrario, lo strapotere spavaldo dell'impunito commentando quella telefonata che Berlusconi fece alla questura di Milano per liberare la minorenne spacciandola per la nipote di un capo di Stato estero.
Noi condannati dalla sua assoluzione? Al contrario, noi difendiamo la decenza dello Stato e la nobiltà della politica anche dall'idea che esse esistano solo perché un giudice le fa esistere. Mai ci siamo affidati al potere giudiziario o a qualche Robespierre per tutelarle. Non spetta ai magistrati custodire la dignità di un uomo che violava da sé il proprio decoro di vecchio signore prima ancora che di statista. Perso nelle sue orge pubbliche era lui stesso che non rispettava la propria privacy e rendeva immondo ed esibito quell'universo privatissimo che chiunque, e ancora di più un capo di governo, dovrebbe gestire discretamente, con pudore, equilibrio e misura, con l'"onore" ai cui lo obbliga l'articolo 54 della Costituzione. E i vizi, quando ci sono, non si espongono.
Certo, la decadenza di Berlusconi e dell'Italia con lui ("mignottocrazia" la battezzò il berlusconiano più fantasioso, Paolo Guzzanti) è stata materia che ha acceso la libidine oculare e ha certamente eccitato la morbosità di qualche giornalista. Anche noi, com'è ovvio, non siamo tutti uguali. Di sicuro posso dire che tra quelli che hanno incollato l'occhio alla serratura per inseguire il presunto ghiotto affare editoriale non c'era certamente Giuseppe D'Avanzo contro cui Giuliano Ferrara ingaggia ora una polemica alla memoria che è più di una gaffe, è un abbaglio da buona notizia, come la troppa ebbrezza che ti impedisce di godertela e ti fa invece vomitare; insomma un conato di cui siamo sicuri che Giuliano si è già vergognato. E non solo perché tra le famose dieci domande di D'Avanzo a Berlusconi non ce n'era neppure una su Ruby. Non riguardavano infatti la materia di questo processo che, invece di condannare Berlusconi, secondo i giornali di Berlusconi, ha condannato D'Avanzo e noi con lui.
La verità è che ci occupiamo di Berlusconi sin dal suo esordio romano nel febbraio del 1994 quando si muoveva sul palco imitando Frank Sinatra e incantando quasi tutti i poteri di questo Paese e pure le sue classi sociali. Abbiamo raccontato l'enormità delle leggi ad personam, il potere illegale e il mercato dei parlamentari, le corna e le barzellette al posto della politica estera, l'inedito patto di servizio tra la Rai e Mediaset, il disfacimento morale del bunga bunga, la distruzione di quel po' di destra che aveva l'Italia, tutta decoro e valori, sino al patetico crepuscolo nel cerchio magico di palazzo Grazioli. E abbiamo visto la sua Italia, che si sognava liberale, diventare a poco a poco l'Italia degli avanzi, residuale, una specie di lumpenborghesia marginale. Nessuno può assolvere Berlusconi da questo fallimento epocale che non è stato certo provocato dal voyeurismo di alcuni giornali e giornalisti. Capisco che i suoi fedeli gli vogliano ancora bene, ma l'idea che questa sentenza d'appello lo assolva da quel fallimento e dalla sua propria indecenza è solo la prosecuzione della pornografia sul terreno dell'impostura più naïve.
La sentenza di assoluzione non cancella il nostro lavoro di cronaca e di verità di tutti questi anni, al contrario lo esalta. Si illudevano che questo Appello avesse cancellato gli articoli dei nostri giornalisti. Invece li sta evidenziando. La sua biografia non l'hanno scritta i magistrati. L'abbiamo scritta noi.
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19.7.14
Bungaburla (Gramellini) (e: «Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto (Ferrarella), e ancora: Innocente a sua insaputa (Travaglio)
Massimo Gramellini (La Stampa)
Dunque non era un reato, ma solo una gigantesca figura di m. Prima che, sull’onda della sentenza di assoluzione, l’isteria superficiale dei media trasformi il fu reprobo Silvio in un martire, ci si consenta (direbbe lui) di ricordare che il bunga bunga potrà anche essere legale, ma rimane politicamente incompatibile con un ruolo istituzionale quale quello che il sant’uomo rivestiva all’epoca dei fatti.
Tocca ricorrere al solito esempio stucchevole, ma non c’è purtroppo altro modo per fare intendere a certe crape giulive il nocciolo della questione. Se il capo di qualsiasi governo occidentale, poniamo Obama, avesse telefonato dalla Casa Bianca a un funzionario della polizia di New York per informarlo che la giovane prostituta da lui fermata per furto era la nipote del presidente messicano e andava subito consegnata a Paris Hilton invece che ai servizi sociali – e si fosse poi scoperto che Obama medesimo nella sua casa privata di Chicago si intratteneva in dopocena eleganti con la medesima prostituta e una fitta schiera di «obamine» – forse il presidente americano sarebbe stato costretto a dimettersi l’indomani, ma più probabilmente la sera stessa. E allora quell’erotomane di John Kennedy che si intratteneva con due donne al giorno? Intanto è morto prima che lo si scoprisse, ma soprattutto agiva con discrezione, appunto, presidenziale. Non è moralismo. E’ la consapevolezza di rappresentare un Paese senza mettersi nelle condizioni di sputtanarlo a livello planetario. E’ senso dello Stato. Qualcosa che Berlusconi e i suoi seguaci non comprenderanno mai.
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«Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto
In Appello cade anche l’accusa di prostituzione minorile.
L’ex premier non avrebbe saputo dell’età della ragazza
Luigi Ferrarella (Corriere)
Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima «Ruby» el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto «racconta», in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove.
Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato», cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità «postuma»: nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa.
Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste», segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro «induzione indebita», fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore.
Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona «costretta» dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, «scuola» Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di «minaccia». Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine «concussione» («l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti»), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, «se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore.
Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi». Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: «Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela» o da un generico «timore reverenziale verso il premier». Argomento rovesciato dalla difesa: «Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità».
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Innocente a sua insaputa
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Cambiata la legge salvato il Caimano
Ormai è un giochino un po’ frusto, ma ben si attaglia al nostro caso: Silvio Berlusconi è innocente a sua insaputa. Da settimane sia lui sia i suoi legali davano per scontata una condanna anche in appello, almeno per le telefonate intimidatorie alla Questura di Milano per far affidare Ruby al duo Minetti-Conceicao, ed escludevano dal novero delle cose possibili la sconcertante assoluzione plenaria che invece è arrivata ieri. Speravano in uno sconto di pena per la concussione; e confidavano nella vecchia insufficienza di prove per la prostituzione minorile. Non era scaramanzia, la loro. E neppure sfiducia congenita nelle “toghe rosse”, nel “rito ambrosiano” e nei giudici “appiattiti” sui pm: questa è propaganda da dare in pasto agli elettori-tifosi più decerebrati. Ma B. e i suoi avvocati sanno benissimo che ogni collegio giudicante fa storia a sé, come dimostrano i tanti verdetti favorevoli al Caimano proprio a Milano (molte prescrizioni, anche grazie a generose attenuanti generiche, e poche assoluzioni).
Perché allora l’avvocato Coppi confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione, quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma per induzione (come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi con l’articolo di Marco Lillo di qualche giorno fa). Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30 dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione, trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime trasformate in complici (ma la Procura di Bruti Liberati, testardamente, ha sempre difeso i vertici della Questura, insistendo a considerarli vittime). In pratica, nel bel mezzo della partita, si modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che misura quella scriteriata “riforma”–fatta apposta per salvare Penati e B., nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe – ha inciso sul verdetto di ieri. Ma il sospetto è forte, anche perché – come osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un “indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. Dunque pare proprio che la sentenza di ieri, più che Tranfa (il presidente della II Corte d’appello), si chiami Severino. Vedremo se reggerà davanti alla Cassazione. Che potrà confermarla, chiudendo definitivamente il caso; oppure annullarla per motivi di illegittimità, ordinando un nuovo processo di appello e precisando esattamente i confini della costrizione e dell’induzione. E non osiamo immaginare che accadrà se nel processo Ruby-ter si accerterà che le Olgettine, principali testimoni del bunga-bunga, sono state corrotte dall’imputato del Ruby-uno per mentire ai giudici: ce ne sarebbe abbastanza per una revisione del processo principale, inficiato dalle eventuali false testimonianze di chi avrebbe potuto provare ciò che, a causa delle loro menzogne, non fu ritenuto provato. Nell’attesa, alcuni punti fermi si possono già fissare. 1) Chi sostiene che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare non sa quel che dice. Il giro di prostituzione, anche minorile, nella villa di Arcore, così come le telefonate di B. alla Questura, sono fatti assolutamente accertati, dunque meritevoli di una verifica dibattimentale (doverosa, non facoltativa) in base a due leggi del governo B. (Prestigiacomo e Carfagna sulla prostituzione minorile) e a una terza votata anche dal Pdl (Severino). Tantopiù che la Corte d’appello, se giudica insussistente il fatto (cioè il reato) della concussione/ induzione, ritiene che invece il fatto degli atti sessuali a pagamento con Ruby sussista eccome, ma non costituisca reato (forse per mancanza di dolo o “elemento soggettivo”: cioè perché non è provato che B. sapesse della minore età di Ruby). 2) L’assoluzione in appello non significa che la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B. abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). 3) Il discredito nazionale e internazionale per B. non è dipeso dalla condanna di primo grado (giunta soltanto un anno fa, dopo la sconfitta elettorale), ma dai fatti emersi dalle indagini con assoluta certezza: il giro di prostituzione nelle sue ville, l’abuso di potere delle telefonate alla Questura, i milioni di euro alle Olgettine dopo l’esplodere dello scandalo e le tragicomiche giustificazioni (“nipote di Mubarak”, “cene eleganti” e simili) sfoderate dal protagonista su quelle condotte indecenti. Indecenti in sé: lo erano ieri e lo sono anche oggi. A prescindere dalla loro rilevanza penale, visto che nessuna sentenza di assoluzione potrà mai dire che quei fatti non siano avvenuti. 4) Sarebbe puerile collegare la sentenza di ieri con l’atteggiamento remissivo di B. sulle “riforme” e sul governo Renzi: se il Caimano s’è trasformato in agnellino, anzi in zerbino del Pd, è perché spera sempre nella grazia da Napolitano o da chi verrà dopo (che lui confida di concorrere a eleggere con la stessa maggioranza delle “riforme”). Non certo perché i giudici, giusti o sbagliati che siano i loro verdetti, prendano ordini dal governo o dal Pd. Altrimenti non si spiegherebbero le tre condanne in primo grado che B. si beccò fra il 1997 e il ’98, nel bel mezzo dell’altro inciucio: quello della Bicamerale D’Alema. 5) Nessuna sentenza d’appello può più “r i abilitare” B.: né per i fatti oggetto del processo Ruby, che sono in gran parte assodati; né per quelli precedenti, che appartengono ormai alla storia, anzi alla cronaca, e nera. Ieri si è deciso in secondo grado sulle telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti, cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici? Mentre si discute sul reato o meno di riempirsi la casa di mignotte, e si chiede ai giudici di dirci ciò che sappiamo benissimo da noi, si dimentica che in quella stessa casa soggiornò per due anni il mafioso sanguinario Vittorio Mangano. Nemmeno quello è un reato: ma è un fatto. Molto più grave di tutti i reati mai contestati all’imputato B. Erano i primi anni 70 e Renzi non era ancora nato. Ma è bene ricordarglielo, specialmente ora che il Caimano rialza il capino. Quousque tandem, Matteo, gabellerai l’ex Papi Prostituente per un Padre Costituente?
Dunque non era un reato, ma solo una gigantesca figura di m. Prima che, sull’onda della sentenza di assoluzione, l’isteria superficiale dei media trasformi il fu reprobo Silvio in un martire, ci si consenta (direbbe lui) di ricordare che il bunga bunga potrà anche essere legale, ma rimane politicamente incompatibile con un ruolo istituzionale quale quello che il sant’uomo rivestiva all’epoca dei fatti.
Tocca ricorrere al solito esempio stucchevole, ma non c’è purtroppo altro modo per fare intendere a certe crape giulive il nocciolo della questione. Se il capo di qualsiasi governo occidentale, poniamo Obama, avesse telefonato dalla Casa Bianca a un funzionario della polizia di New York per informarlo che la giovane prostituta da lui fermata per furto era la nipote del presidente messicano e andava subito consegnata a Paris Hilton invece che ai servizi sociali – e si fosse poi scoperto che Obama medesimo nella sua casa privata di Chicago si intratteneva in dopocena eleganti con la medesima prostituta e una fitta schiera di «obamine» – forse il presidente americano sarebbe stato costretto a dimettersi l’indomani, ma più probabilmente la sera stessa. E allora quell’erotomane di John Kennedy che si intratteneva con due donne al giorno? Intanto è morto prima che lo si scoprisse, ma soprattutto agiva con discrezione, appunto, presidenziale. Non è moralismo. E’ la consapevolezza di rappresentare un Paese senza mettersi nelle condizioni di sputtanarlo a livello planetario. E’ senso dello Stato. Qualcosa che Berlusconi e i suoi seguaci non comprenderanno mai.
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«Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto
In Appello cade anche l’accusa di prostituzione minorile.
L’ex premier non avrebbe saputo dell’età della ragazza
Luigi Ferrarella (Corriere)
Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima «Ruby» el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto «racconta», in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove.
Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato», cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità «postuma»: nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa.
Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste», segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro «induzione indebita», fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore.
Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona «costretta» dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, «scuola» Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di «minaccia». Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine «concussione» («l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti»), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, «se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore.
Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi». Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: «Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela» o da un generico «timore reverenziale verso il premier». Argomento rovesciato dalla difesa: «Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità».
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Innocente a sua insaputa
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Cambiata la legge salvato il Caimano
Ormai è un giochino un po’ frusto, ma ben si attaglia al nostro caso: Silvio Berlusconi è innocente a sua insaputa. Da settimane sia lui sia i suoi legali davano per scontata una condanna anche in appello, almeno per le telefonate intimidatorie alla Questura di Milano per far affidare Ruby al duo Minetti-Conceicao, ed escludevano dal novero delle cose possibili la sconcertante assoluzione plenaria che invece è arrivata ieri. Speravano in uno sconto di pena per la concussione; e confidavano nella vecchia insufficienza di prove per la prostituzione minorile. Non era scaramanzia, la loro. E neppure sfiducia congenita nelle “toghe rosse”, nel “rito ambrosiano” e nei giudici “appiattiti” sui pm: questa è propaganda da dare in pasto agli elettori-tifosi più decerebrati. Ma B. e i suoi avvocati sanno benissimo che ogni collegio giudicante fa storia a sé, come dimostrano i tanti verdetti favorevoli al Caimano proprio a Milano (molte prescrizioni, anche grazie a generose attenuanti generiche, e poche assoluzioni).
Perché allora l’avvocato Coppi confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione, quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma per induzione (come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi con l’articolo di Marco Lillo di qualche giorno fa). Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30 dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione, trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime trasformate in complici (ma la Procura di Bruti Liberati, testardamente, ha sempre difeso i vertici della Questura, insistendo a considerarli vittime). In pratica, nel bel mezzo della partita, si modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che misura quella scriteriata “riforma”–fatta apposta per salvare Penati e B., nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe – ha inciso sul verdetto di ieri. Ma il sospetto è forte, anche perché – come osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un “indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. Dunque pare proprio che la sentenza di ieri, più che Tranfa (il presidente della II Corte d’appello), si chiami Severino. Vedremo se reggerà davanti alla Cassazione. Che potrà confermarla, chiudendo definitivamente il caso; oppure annullarla per motivi di illegittimità, ordinando un nuovo processo di appello e precisando esattamente i confini della costrizione e dell’induzione. E non osiamo immaginare che accadrà se nel processo Ruby-ter si accerterà che le Olgettine, principali testimoni del bunga-bunga, sono state corrotte dall’imputato del Ruby-uno per mentire ai giudici: ce ne sarebbe abbastanza per una revisione del processo principale, inficiato dalle eventuali false testimonianze di chi avrebbe potuto provare ciò che, a causa delle loro menzogne, non fu ritenuto provato. Nell’attesa, alcuni punti fermi si possono già fissare. 1) Chi sostiene che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare non sa quel che dice. Il giro di prostituzione, anche minorile, nella villa di Arcore, così come le telefonate di B. alla Questura, sono fatti assolutamente accertati, dunque meritevoli di una verifica dibattimentale (doverosa, non facoltativa) in base a due leggi del governo B. (Prestigiacomo e Carfagna sulla prostituzione minorile) e a una terza votata anche dal Pdl (Severino). Tantopiù che la Corte d’appello, se giudica insussistente il fatto (cioè il reato) della concussione/ induzione, ritiene che invece il fatto degli atti sessuali a pagamento con Ruby sussista eccome, ma non costituisca reato (forse per mancanza di dolo o “elemento soggettivo”: cioè perché non è provato che B. sapesse della minore età di Ruby). 2) L’assoluzione in appello non significa che la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B. abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). 3) Il discredito nazionale e internazionale per B. non è dipeso dalla condanna di primo grado (giunta soltanto un anno fa, dopo la sconfitta elettorale), ma dai fatti emersi dalle indagini con assoluta certezza: il giro di prostituzione nelle sue ville, l’abuso di potere delle telefonate alla Questura, i milioni di euro alle Olgettine dopo l’esplodere dello scandalo e le tragicomiche giustificazioni (“nipote di Mubarak”, “cene eleganti” e simili) sfoderate dal protagonista su quelle condotte indecenti. Indecenti in sé: lo erano ieri e lo sono anche oggi. A prescindere dalla loro rilevanza penale, visto che nessuna sentenza di assoluzione potrà mai dire che quei fatti non siano avvenuti. 4) Sarebbe puerile collegare la sentenza di ieri con l’atteggiamento remissivo di B. sulle “riforme” e sul governo Renzi: se il Caimano s’è trasformato in agnellino, anzi in zerbino del Pd, è perché spera sempre nella grazia da Napolitano o da chi verrà dopo (che lui confida di concorrere a eleggere con la stessa maggioranza delle “riforme”). Non certo perché i giudici, giusti o sbagliati che siano i loro verdetti, prendano ordini dal governo o dal Pd. Altrimenti non si spiegherebbero le tre condanne in primo grado che B. si beccò fra il 1997 e il ’98, nel bel mezzo dell’altro inciucio: quello della Bicamerale D’Alema. 5) Nessuna sentenza d’appello può più “r i abilitare” B.: né per i fatti oggetto del processo Ruby, che sono in gran parte assodati; né per quelli precedenti, che appartengono ormai alla storia, anzi alla cronaca, e nera. Ieri si è deciso in secondo grado sulle telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti, cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici? Mentre si discute sul reato o meno di riempirsi la casa di mignotte, e si chiede ai giudici di dirci ciò che sappiamo benissimo da noi, si dimentica che in quella stessa casa soggiornò per due anni il mafioso sanguinario Vittorio Mangano. Nemmeno quello è un reato: ma è un fatto. Molto più grave di tutti i reati mai contestati all’imputato B. Erano i primi anni 70 e Renzi non era ancora nato. Ma è bene ricordarglielo, specialmente ora che il Caimano rialza il capino. Quousque tandem, Matteo, gabellerai l’ex Papi Prostituente per un Padre Costituente?
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13.7.14
La realtà di Gaza e le illusioni israeliane
Gideon Levy (giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz. Internazionale)
In seguito al rapimento e all’uccisione di tre ragazzi israeliani nei Territori occupati, Israele ha arrestato in maniera indiscriminata circa cinquecento palestinesi, tra cui alcuni parlamentari e decine di ex detenuti già scarcerati che non avevano alcun legame con il sequestro. L’esercito israeliano ha seminato il terrore in tutta la Cisgiordania con retate e arresti di massa allo scopo dichiarato di “schiacciare Hamas”.
Su internet ha imperversato una campagna razzista in seguito alla quale un adolescente palestinese è stato bruciato vivo. Tutto questo dopo che Israele aveva intrapreso un’offensiva contro il tentativo di creare un governo di unità palestinese che il mondo era pronto a riconoscere, aveva violato l’impegno a scarcerare dei detenuti, aveva congelato la via diplomatica e aveva rifiutato di proporre un piano alternativo per continuare il dialogo.
Pensavamo davvero che i palestinesi avrebbero accettato tutto questo in modo remissivo, obbediente e calmo, e che nelle città israeliane avrebbero continuato a regnare la pace e la tranquillità?
Cosa credevamo, noi israeliani? Che Gaza sarebbe vissuta per sempre all’ombra dell’arbitrio di Israele (e dell’Egitto), alternando momenti di lieve allentamento delle restrizioni imposte ai suoi abitanti a momenti di penoso inasprimento? Che il carcere più vasto del mondo sarebbe continuato a essere un carcere? Che centinaia di migliaia di residenti a Gaza sarebbero rimasti tagliati fuori per sempre? Che sarebbero state bloccate le esportazioni e decretate limitazioni alla pesca? Ma di cosa deve vivere un milione e mezzo di persone? Qualcuno sa spiegare perché prosegue il blocco, benché parziale, di Gaza? Qualcuno sa spiegare perché del suo futuro non si discute mai? Credevamo davvero che tutto sarebbe andato avanti come prima e che Gaza l’avrebbe accettato passivamente? Chiunque lo abbia creduto è stato vittima di un pericoloso delirio, e adesso il prezzo lo stiamo pagando tutti.
Però, per favore, non mostratevi stupiti. Non ricominciate a gridare che i palestinesi fanno piovere missili sulle città israeliane senza motivo: certi lussi non sono più ammissibili. Il terrore che provano adesso i cittadini israeliani non è più grande del terrore che hanno provato le centinaia di migliaia di palestinesi vissuti per settimane nell’attesa che nel bel mezzo della notte i soldati gli sfondassero le porte e gli invadessero le case per perquisire, smantellare, distruggere, umiliare e poi magari portarsi via un membro della famiglia.
La paura che stiamo vivendo noi israeliani non è più grande di quella vissuta dai bambini e dagli adolescenti palestinesi, alcuni dei quali sono stati uccisi inutilmente in queste ultime settimane dall’esercito d’Israele. La trepidazione che provano gli israeliani è sicuramente minore di quella che provano gli abitanti di Gaza, che non hanno allarmi rossi né rifugi né un sistema antimissile come Iron dome che li salvi, ma soltanto centinaia di terrificanti incursioni dell’aviazione militare israeliana che si concludono con la devastazione e la morte di innocenti, compresi anziani, donne e bambini: ne sono già stati uccisi durante l’operazione in corso, come durante tutte quelle che l’hanno preceduta.
Quest’operazione ha già un nome puerile, Protective edge, Margine di protezione. Ma l’operazione Protective edge è cominciata e si concluderà come tutte le precedenti, cioè senza assicurarci né la protezione né il margine. I mezzi d’informazione e l’opinione pubblica israeliani esigono il sangue dei palestinesi e la loro distruzione, e il centrosinistra è d’accordo, naturalmente, così come è sempre d’accordo all’inizio. Il seguito, però, è già scritto da un pezzo nelle cronache di tutte le operazioni insensate e sanguinarie condotte a Gaza in ogni epoca. Stupisce, semmai, che da un’operazione militare all’altra sembra che nessuno impari niente. L’unica cosa che cambia sono le armi impiegate.
È vero che inizialmente il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito con moderazione, e per questo è stato debitamente elogiato, ma certo neanche lui poteva starsene fermo davanti ai missili sparati da Gaza. Comunque tutti sanno che Netanyahu non aveva alcun interesse a questo scontro.
Ma le cose stanno proprio così? Se davvero lo scontro non gli interessava, avrebbe dovuto perseguire seriamente delle trattative diplomatiche. Invece non l’ha fatto, quindi è chiaro che in realtà gli interessava eccome. Il suo quotidiano, Israel Hayom (“Israele oggi”), è uscito con titoli strillati: “Vai fino in fondo”. Ma Israele non raggiungerà mai il pazzesco “fondo” auspicato da Israel Hayom, e comunque non certo con la forza.
“Non c’è modo di sfuggire al castigo per ciò che sta succedendo qui da quasi cinquant’anni”, ha dichiarato lo scrittore David Grossman in occasione della Conferenza israeliana sulla pace, che si è aperta a Tel Aviv l’8 luglio. Queste parole sono state pronunciate solo poche ore prima che l’ultimo castigo nella lunga catena di delitti e castighi si abbattesse sui civili israeliani, così innocenti e senza colpa.
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11.7.14
Fausto Bertinotti: “Le feste mi hanno rovinato, la sinistra ora ha 5 stelle”
Antonello Caporale (Il Fatto Quotidiano)
Al momento dei saluti dico a Fausto Bertinotti: Matteo Renzi, ammesso che le legga, trasformerà le sue parole in chewingum. “Ho le mie responsabilità e ne sopporto il peso. Parlo da vinto, da commentatore, da chi ha consumato il suo impegno politico. Mica ho da domandare”.
Quanti errori però.
Uno più di tutti mi brucia: non essermi reso conto che alcuni miei comportamenti potessero essere scambiati per commistione con un ceto simigliante a una casta.
Le feste a cui partecipava col sorriso comunista, i capitalisti che frequentava, e quella comunione con volti particolarmente aderenti all’opposto vagheggiato. Un ossimoro più che un compagno.
Pensavo che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, il mio lavoro di operaio, le lotte a cui ho partecipato potessero immunizzarmi. Ero così tanto distante da quel mondo e ritenevo che nessuno potesse trafugare il mio volto e cambiargli colore.
Anche il cachemire ha fatto la sua parte.
Sul punto dissento.
Fatto sta che la sua storia si è conclusa e le resta sul groppone una sconfitta cosmica. Con i suoi compagni di Sel che si dividono le ultime spoglie e si incamminano a capo chino verso le tende del vincitore.
È morta la sinistra. Non dico il comunismo, c’era stato il muro di Berlino a ricordarci le pietre che schiacciavano i nostri corpi. Ma il socialismo sembra scomparso, piegato. Simultaneamente alla forma avanzata di capitalismo. Ci avevano detto che il mercato si autoregolamenta. E abbiamo visto: siamo tornati all’800.
Non c’è più sinistra e destra.
No, tutto finito. Ora è l’alto contro il basso. È il tempo della post democrazia. Molti sono gli inclusi nel sistema politico, con un partito di governo che è il Pd e un leader con tentazioni autoritarie e una luccicante venatura neobonapartista. Dileggia il ceto dirigente, riduce a un cofanetto le assemblee elettive. Poi ci sono gli esclusi, quelli che stanno fuori, i barbari.
A Nichi Vendola chiede di passare con i barbari?
Delle persone non parlo e uno come me può dare solo consigli, sperando che siano buoni consigli.
Un consiglio a noi disperati di sinistra.
Abbassare il vessillo dei partiti, chiudere le sezioni per come sono strutturate adesso. Nell’ottocento mica esistevano i partiti? Ma le idee di sinistra sì.
Chiudere ogni bottega, sparire dalla circolazione.
Far rinascere lo spirito, il senso, le idee rivoluzionarie nella grande prateria degli esclusi, in quel popolo disordinato ma vitale. Sono barbari, però siamo nelle stesse condizioni dell’800.
I barbari votano Grillo.
E meno male. In Francia votano Le Pen.
Attendere che da lì nasca qualcosa?
Solo da lì. La deriva autoritaria ha preso forma e oramai siamo ingabbiati in una condizione di sospensione della democrazia. Con la legge elettorale che sbarra, ostruisce, esclude e un governo sovranazionale di non eletti che esercita un potere abusivo. Maastricht è stata la nostra rovina e Bruxelles ha commissariato il Parlamento nazionale. Con i risultati che vediamo.
Lei parla in quale veste?
So di appartenere a un mondo concluso. Per tutta la vita abbiamo pensato che il nostro obiettivo fosse fare la rivoluzione. E s’è visto dove siamo giunti. Oggi ci sono parole innominabili. Per esempio non è più spendibile quella di padrone. I capitalisti ci dicevano meraviglie della globalizzazione, vero? Eccoci qua. Non è più pronunciabile la parola, non si può dire padrone altrimenti rechi offesa. E sempre oggi, che nel mondo esiste il più alto numero di operai, quella classe è cancellata dalla società, i diritti si assottigliano fino a divenire inconsistenti. Se tu nasci per cambiare il mondo, e poi il risultato è questo, non puoi cavartela con: scusate, abbiamo sbagliato.
È triste convenire e spero non si dispiaccia, ma lei proprio non può cavarsela così.
Lo so, lo ammetto. Sono un vinto.
Ci avete fatto tribolare, sempre a spararvi contro.
Siamo stati nani seduti sulle spalle di giganti. Ricorda?
Adesso ci tocca Renzi.
Il Partito democratico si trasformerà in un moderno Partito di governo.
È già un partito-Stato.
Arriveremo presto alla tracimazione: quando l’articolo 1 della nostra Costituzione verrà di fatto soppresso.
Solo i barbari ci salveranno.
Le idee nascono anche fuori dal Palazzo, e nelle piazze si costruisce un sentimento che forma una comunità.
Ma i barbari usavano anche le mani. Altro che feste e cachemire.
Bisogna rendersi conto che i nostri vessilli non raccontano più e non rappresentano più. Certo che in piazza non sempre il pranzo è di gala. Ma quello è il luogo, non altri.
E lei cosa fa?
Non vede? Abbiamo questa Fondazione, si chiama Cercare ancora.
Cercare ancora?
Dovremo lasciare questa sede, non ci sono più soldi”.
Al momento dei saluti dico a Fausto Bertinotti: Matteo Renzi, ammesso che le legga, trasformerà le sue parole in chewingum. “Ho le mie responsabilità e ne sopporto il peso. Parlo da vinto, da commentatore, da chi ha consumato il suo impegno politico. Mica ho da domandare”.
Quanti errori però.
Uno più di tutti mi brucia: non essermi reso conto che alcuni miei comportamenti potessero essere scambiati per commistione con un ceto simigliante a una casta.
Le feste a cui partecipava col sorriso comunista, i capitalisti che frequentava, e quella comunione con volti particolarmente aderenti all’opposto vagheggiato. Un ossimoro più che un compagno.
Pensavo che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, il mio lavoro di operaio, le lotte a cui ho partecipato potessero immunizzarmi. Ero così tanto distante da quel mondo e ritenevo che nessuno potesse trafugare il mio volto e cambiargli colore.
Anche il cachemire ha fatto la sua parte.
Sul punto dissento.
Fatto sta che la sua storia si è conclusa e le resta sul groppone una sconfitta cosmica. Con i suoi compagni di Sel che si dividono le ultime spoglie e si incamminano a capo chino verso le tende del vincitore.
È morta la sinistra. Non dico il comunismo, c’era stato il muro di Berlino a ricordarci le pietre che schiacciavano i nostri corpi. Ma il socialismo sembra scomparso, piegato. Simultaneamente alla forma avanzata di capitalismo. Ci avevano detto che il mercato si autoregolamenta. E abbiamo visto: siamo tornati all’800.
Non c’è più sinistra e destra.
No, tutto finito. Ora è l’alto contro il basso. È il tempo della post democrazia. Molti sono gli inclusi nel sistema politico, con un partito di governo che è il Pd e un leader con tentazioni autoritarie e una luccicante venatura neobonapartista. Dileggia il ceto dirigente, riduce a un cofanetto le assemblee elettive. Poi ci sono gli esclusi, quelli che stanno fuori, i barbari.
A Nichi Vendola chiede di passare con i barbari?
Delle persone non parlo e uno come me può dare solo consigli, sperando che siano buoni consigli.
Un consiglio a noi disperati di sinistra.
Abbassare il vessillo dei partiti, chiudere le sezioni per come sono strutturate adesso. Nell’ottocento mica esistevano i partiti? Ma le idee di sinistra sì.
Chiudere ogni bottega, sparire dalla circolazione.
Far rinascere lo spirito, il senso, le idee rivoluzionarie nella grande prateria degli esclusi, in quel popolo disordinato ma vitale. Sono barbari, però siamo nelle stesse condizioni dell’800.
I barbari votano Grillo.
E meno male. In Francia votano Le Pen.
Attendere che da lì nasca qualcosa?
Solo da lì. La deriva autoritaria ha preso forma e oramai siamo ingabbiati in una condizione di sospensione della democrazia. Con la legge elettorale che sbarra, ostruisce, esclude e un governo sovranazionale di non eletti che esercita un potere abusivo. Maastricht è stata la nostra rovina e Bruxelles ha commissariato il Parlamento nazionale. Con i risultati che vediamo.
Lei parla in quale veste?
So di appartenere a un mondo concluso. Per tutta la vita abbiamo pensato che il nostro obiettivo fosse fare la rivoluzione. E s’è visto dove siamo giunti. Oggi ci sono parole innominabili. Per esempio non è più spendibile quella di padrone. I capitalisti ci dicevano meraviglie della globalizzazione, vero? Eccoci qua. Non è più pronunciabile la parola, non si può dire padrone altrimenti rechi offesa. E sempre oggi, che nel mondo esiste il più alto numero di operai, quella classe è cancellata dalla società, i diritti si assottigliano fino a divenire inconsistenti. Se tu nasci per cambiare il mondo, e poi il risultato è questo, non puoi cavartela con: scusate, abbiamo sbagliato.
È triste convenire e spero non si dispiaccia, ma lei proprio non può cavarsela così.
Lo so, lo ammetto. Sono un vinto.
Ci avete fatto tribolare, sempre a spararvi contro.
Siamo stati nani seduti sulle spalle di giganti. Ricorda?
Adesso ci tocca Renzi.
Il Partito democratico si trasformerà in un moderno Partito di governo.
È già un partito-Stato.
Arriveremo presto alla tracimazione: quando l’articolo 1 della nostra Costituzione verrà di fatto soppresso.
Solo i barbari ci salveranno.
Le idee nascono anche fuori dal Palazzo, e nelle piazze si costruisce un sentimento che forma una comunità.
Ma i barbari usavano anche le mani. Altro che feste e cachemire.
Bisogna rendersi conto che i nostri vessilli non raccontano più e non rappresentano più. Certo che in piazza non sempre il pranzo è di gala. Ma quello è il luogo, non altri.
E lei cosa fa?
Non vede? Abbiamo questa Fondazione, si chiama Cercare ancora.
Cercare ancora?
Dovremo lasciare questa sede, non ci sono più soldi”.
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8.7.14
Si fa presto a dire FABLAB
Ma cosa sono e possono essere un business sostenibile? Ecco come è nato questo fenomeno e come si sta evolvendo in tutto il mondo. Italia compresa.
Nel 1998 un professore del MIT di Boston, Neil Gershenfeld, inaugurò un corso intitolato Come costruire (quasi) qualsiasi cosa. Si era accorto che i ragazzi che studiavano al MIT erano sempre più teorici e sempre meno pratici. Il corso voleva fornire ai ragazzi le conoscenze e i mezzi per creare qualsiasi tipo di oggetto. Nelle scuole da cui provenivano erano spariti i laboratori con le macchine, sostituiti sempre più spesso dai computer in cui tutto si simula o si programma. Il corso del 1998 prevedeva solo dieci posti perché era una specie di scommessa e Gershenfeld non aveva idea se la cosa avrebbe avuto successo oppure no. Il professore preparò una ventina di lezioni e fece allestire un laboratorio. Le lezioni parlavano di tecniche additive e sottrattive, di stampa in 3d, di come tagliare e plasmare i materiali, di elettronica e microcontrollori, di programmazione, ma soprattutto di come trasformare “bit” in “atomi”, cioè di come trasferire disegni e progetti realizzati con dei computer a delle macchine in grado di realizzarle in poco tempo.
Il primo FabLab del mondo
Il laboratorio era fornito di macchine per tagliare materiali con laser, plasma e acqua, di stampanti 3D, scanner, strumenti elettronici e quant’altro necessario per realizzare prototipi. Fu battezzato FabLab, contrazione di Faboulous Lab ma anche di Fabrication Lab. I primi progetti stupirono Gershenfeld, perché si aspettava che i ragazzi lavorassero su temi puù vicini ai loro studi,. Invece vide realizzare cose come la borsa ammazza-strilli, un browser per pappagalli o delle biciclette in plexiglass. La notizia dell’esistenza di questo corso “un po’ matto” e del laboratorio in cui poter creare (quasi) qualsiasi cosa fece, ben presto, il giro del campus: erano molti gli studenti con un’idea e la curiosità di vederla realizzata in poco tempo.
Le edizioni successive del corso furono un successo. Presto il laboratorio fu aperto anche a tutti gli studenti. La fama aumentava anche al di fuori dell’università qualche anno dopo l’inaugurazione fu aperto al pubblico.
Le edizioni successive del corso furono un successo. Presto il laboratorio fu aperto anche a tutti gli studenti. La fama aumentava anche al di fuori dell’università qualche anno dopo l’inaugurazione fu aperto al pubblico.
Dai FabLab alla fabbricazione digitale
Anche altre università crearono un FabLab al loro interno e nel giro di pochi anni si arrivò a una cinquantina di laboratori in tutto il mondo. In seguito a tutto cio si è iniziato anche a parlare di digital fabrication e autoproduzione. In effetti la digital fabrication permette di realizzare oggetti unici o in piccole serie e quindi con carattere artistico o artigianale, ma con tecnologie e caratteristiche industriali e cioè con finiture precisissime e ripetibili. Questo grazie alla fatto di poter passare, come dice Gershenfeld, dal bit all’atomo.
Lo sbarco in Italia
In Italia il primo FabLab è stato aperto a Torino, nel 2011, presso un padiglione dell’eventoorganizzato per festeggiare i 150 anni della Repubblica Italiana. Oggi si contano circa una ventina di laboratori, nati spontaneamente in tutta la penisola. Un FabLab è un laboratorio aperto al pubblico, in cui chiunque può entrare e utilizzare le macchine a controllo numerico per realizzare oggetti in breve tempo. Alcune macchine sono potenzialmente pericolose e quindi sono necessari dei corsi di formazione per poterle utilizzare in autonomia e sicurezza. Tutti i FabLab adottano il Charter, un documento che stabilisce le regole elementari di funzionamento e di condotta e garantisce lo scopo etico e sociale delle strutture. Le macchine che dovrebbero trovarsi in un FabLab sono di norma: laser cutter, stampante 3D, scanner 3D, vinil cutter, fresa CNC (a controllo numerico) e un laboratorio elettronico. Questo insieme di macchine richiede un certo investimento iniziale che ammonta a qualche decina di migliaia di euro.
FabLab, un business pientamene sostenibile
Chiunque può aprire un FabLab e questo documento del MIT di Boston, in inglese, contiene le principali linee guida: è sufficiente procurarsi le macchine, un locale in cui metterle e un po’ di organizzazione per poter gestire l’attività. Una volta aperto il laboratorio è possibile segnalarlo presso l’associazione internazionale che si occupa di coordinare tutti i laboratori del mondo. Ogni anno viene anche organizzata una conferenza ed è possibile partecipare a coordinamenti e attività periodiche tra i laboratori. Un FabLab nella forma più pura non è un business pienamente sostenibile. Peter Troxler, ricercatore e membro attivo nella comunità internazionale dei FabLab, studia da anni i modelli di business usati dai FabLab. Perché il business sia sostenibile è necessario fare un’analisi di costi e profitti. Il laboratorio, per sopravvivere, può contare sulle iscrizioni annuali dei soci, su ingressi e abbonamenti e sui proventi dell’attività di “service” per taglio o stampa. Può ricavare utili anche da consulenze tecniche e di progettazione, dalla vendita di materiali consumabili e organizzando corsi, workshop ed eventi.
Quattro modelli di business possibili
Anche Massimo Menichinelli studia da anni i modelli di Business dei FabLab. In un recentearticolo pubblicato su p2pfoundation riassume i 4 modelli principali da lui individuati:
- business enabler: il laboratorio promuove e sponsorizza nuovi laboratori e li sostiene fornendo servizi di tipo b2b;
- business basato sull’istruzione: in cui il FabLab propone corsi e consulenze “formative” a privati e aziende;
- incubatore: supporta ed ospita la nascita di startup;
- business replicator/network: il FabLab diventa un punto di produzione locale e diffuzione di un prodotto. La rete dei laboratori è usata per diffondere il prodotto sul territorio.
Personalmente credo che un FabLab “puro” sia poco sostenibile e che necessiti di una serie di attività che lo supportino e che lo aiutino a sopravvivere. Ho sempre percepito i FabLab come unbusiness etico, in cui il fine primario non è quello di produrre utili, ma quello di promuovere tecnologia e cultura. Si deve mirare alla sostenibilità, per poter retribuire chi vi presta il proprio lavoro. Le attività a supporto del laboratorio devono essere coerenti con quanto indicato nel Charter e non possono essere in conflitto con l’orientamento del laboratorio. Questo apre la strada a un diverso tipo di business model in cui il FabLab “puro” è supportato da una società che si preoccupa di sostenerlo, svolgendo attività di formazione, consulenza e vendita.
FabLab, illustri sconosciuti
In Italia il fenomeno dei FabLab si sta diffondendo ma, anche se la trasmissione Report di RAI3 ha dedicato un servizio sul tema, sono ancora pochi a sapere cosa siano esattamente. Visto che il laboratorio è pensato per risolvere i problemi della gente comune, si rivolge al pubblico di massa e questo offre molte possibilità di sviluppo. Si pensi che in città come New York o Amsterdam ci sono più laboratori. In effetti la cosa ha senso perché i laboratori hanno un carattere fortemente locale e cercano (devono cercare) di attivare il territorio e quanto presente nel tessuto “urbano” in cui sorgono, cercando di sfruttare o “attivare” le caratteristiche del luogo in cui sorge il laboratorio. Nel nostro paese abbiamo grandissime potenzialità offerte dalla nostra tradizione artigiana. Ogni provincia o città eccelle nella realizzazione di manufatti o particolari prodotti. Gli artigiani, da secoli tramandano conoscenze e saperi di carattere pratico che potrebbero trovare nuove strade e appplicazioni nello scambio con i FabLab: entrambi le figure ne uscirebbero arricchite.
Per approfondire
Modelli di business per i FabLab – di Peter Troxler e Simone Schweikert
HowTo start your own FabLab - Fab8 International Conference – 2012
Associazione internazionale FabLab
Charter dei FabLab
Business Model per i FabLab – di Massimo Menichinelli
HowTo start your own FabLab - Fab8 International Conference – 2012
Associazione internazionale FabLab
Charter dei FabLab
Business Model per i FabLab – di Massimo Menichinelli
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