Intervista. «Renzi vuole una tv pubblica come la Treccani. Viale Mazzini come la Bbc? Non basta fare un corso di inglese ai giornalisti assunti con le clientele». «Il Biscione punta lontano. Berlusconi abbandona la politica e torna protagonista della televisione, con le torri si guadagnano molti soldi»
Daniela Preziosi (Il Manifesto)
Mai come adesso Mediaset stava vivendo come un pachiderma, come una televisione che riprende programmi da un catalogo della tv commerciale ormai vecchio, antico, per nostalgici degli anni 80: l’Isola dei famosi, il Karaoke che andrà in onda più in là. Invece, con questa Opa, diventa un nuovo competitore del mercato». Carlo Freccero, uomo di tv e di comunicazione, nella sua lunga carriera è stato dirigente Rai e Fininvest. Ragiona sull’opa di Mediaset su Rai way, l’infrastruttura delle torri Rai. Qualcosa non gli torna. «Così Mediaset si scrolla di dosso l’immobilità per muoversi con sicurezza sul mercato. Perché?».
Perché, Freccero?
Mediaset da tempo ha perso la battaglia dei contenuti perché i nostri prodotti non possono competere con i colossi americani. Oggi il prodotto vince sulla tv generalista. Ora quindi si muove su altri fronti. Se davvero il patto del Nazareno è rotto, Berlusconi lascia la politica e torna il protagonista della tv. L’Opa sulla struttura, quelle che io chiamo ’le autostrade della comunicazione’, è un modo per dire: almeno controllerò il pedaggio ai nuovi che arrivano. Di più: io, cioè Mediaset, mi aggiorno su un fatto cruciale, la convergenza. La nuova tv lavora sulla convergenza fra tv telefonia e internet.
La tv generalista però da noi va ancora forte.
Perché viviamo in un paese dominato dall’Auditel, che è fatto in quota proprio come le torri. Ma ormai, nel nuovo scenario, il prodotto vince sulla linea editoria. E quindi chi non ha la possibilità di aggiornarsi cerca una presenza massiccia sulle ’autostrade’. E guadagna un sacco di soldi. E poi c’è anche un piano B.
Qual è il piano B?
Credo che Mediaset abbia in testa un patto con Telecom. Anche Telecom ha messo in vendita i suoi siti e le sue torri. E in Telecom c’è il gruppo Bolloré che a sua volta è azionista di Havas, colosso della comunicazione. Che a sua volta è azionista di Canal Plus, che si occupa di contenuti. Ecco la furbizia: farà concorrenza a Murdoch, il vero nemico di Pier Silvio Berlusconi. Anche perché Murdoch sta per scendere dal satellite sul free, perché l’Italia ha un tetto di abbonati oltre in quale non si può andare. Lo ha già fatto con l’informazione. E la Rai per Berlusconi non è un avversario, neanche un alleato: ha un’audience vecchia. Berlusconi deve trovarsi un alleato. E Canal Plus è il nemico acerrimo di Murdoch.
Mediaset punta dunque a fare concorrenza a Murdoch. E la Rai?
Da tutto questo il servizio esce completamente ridimensionato. Vede, nel capitalismo le crisi periodiche hanno la funzione specifica di ripulire il mercato dei rentier dalla rendita parassitaria e riportare tutte le risorse sul mercato degli investimenti. Oggi la crisi ha un compito diverso: privatizzare, tagliare ogni risorsa al pubblico per riversare tutte le risorse sul mercato. Non a caso ai paesi in crisi si offrono finanziamenti in cambio di privatizzazioni, vedi la Grecia. Il modello europeo del secolo scorso aveva come valori lo stato sociale, il servizio pubblico anche radiotv, la scuola pubblica. Oggi invece il ’pubblico’ è diventato sinonimo di spreco, casta, di abuso della politica. Quindi anche i governi che si proclamano di sinistra vogliono privatizzare, tagliare. Il piano per la Rai è tagliare i tg e cioè il pluralismo. Ma il pluralismo è un elemento creativo, era l’unica cosa che rimaneva alla Rai. La verità è che la Rai viene dimensionata, e la politica di Renzi è la privatizzazione.
Ma modello Bbc, di cui si parla oggi, è pluralista ma anche senza sprechi.
Ho letto che Milena Gabanelli propone difare come la Bbc. Ma tu ce li vedi i giornalisti entrati per clientela che si trasformano in giornalisti inglesi? Non è che con un corso di inglese fanno la Bbc. Mi sembra utopia.
Come si dovrebbero nominare i vertici Rai?
È inutile che io dia suggerimenti a Renzi, so che manda sms ai suoi amici e solo quelli legge. Vedo che vuole trasformare la Rai nell’istituto Treccani. Una Rai che già non conta niente verrà ancora ridotta.
Scusi, ma proprio lei che è stato allontanato dalle reti Rai sostiene che l’attuale Rai è pluralista?
Se dovessero dare a me la riforma della Rai, inizierei potenziando il pluralismo. La tv ci condiziona, ci plasma. Molte ricerche dicono che chi è esposto di più a certi programmi tv — cronaca, nera — è più esposto alla paura e all’insicurezza. Questa tv spinge a destra: il successo di Salvini è il tipico prodotto della nostra tv localistica e generalista. Invece oggi più che mai serve un una tv critica, che difenda lo spettatore dalla manipolazione, che è il vero tema della comunicazione. In internet il vero e il falso sono lo stesso. E la manipolazione passa per gli algoritmi di internet. Serve una tv che crei spettatori avvertiti, quindi intelligenti. E infatti la fiction dei grandi colossi americani è fiction di critica,che ti fa vedere per esempio che la giustizia è uno strumento in mano ai più forti. Cosa vuol fare Renzi della Rai? Dice parole vaghe: la bellezza, l’arte. Puttanate. Vuole solo privatizzare.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
27.2.15
Contro l'apatia della democrazia
A guidare le società moderne sempre più plebisciti tecnocratici e sempre meno politica
di Barbara Spinelli* (Il Sole 24 Ore)
Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.
La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».
In Italia, l'acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l'esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l'istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell'Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall'alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l'Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).
Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all'evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d'azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all'interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.
Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l'evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell'economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».
Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l'Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell'espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.
Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell'Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l'accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l'Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell'ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell'autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.
La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell'articolo 6, che l'Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l'Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all'assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d'Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l'Europa che abitiamo: un'Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l'uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.
*Barbaro Spinelli è deputato europeo dell'Altro Europa con Tsipras
di Barbara Spinelli* (Il Sole 24 Ore)
Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.
La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».
In Italia, l'acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l'esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l'istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell'Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall'alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l'Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).
Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all'evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d'azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all'interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.
Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l'evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell'economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».
Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l'Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell'espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.
Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell'Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l'accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l'Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell'ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell'autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.
La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell'articolo 6, che l'Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l'Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all'assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d'Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l'Europa che abitiamo: un'Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l'uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.
*Barbaro Spinelli è deputato europeo dell'Altro Europa con Tsipras
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25.2.15
La politica al tempo dell’esecutivo
Gustavo Zagrebelsky (La Repubblica)
Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
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22.2.15
Arte, politica e feste licenziose il Rinascimento di papa Giulio III
22 febbraio 1550. Dopo 10 settimane di conclave, Giovan Maria Ciocchi del Monte viene eletto pontefice, nonostante il mancato sostegno dell'imperatore Carlo V Tra luci e ombre, il suo regno è strettamente legato alla figura del cardinale Innocenzo suo favorito e presunto amante
Claudio Rendina (La Repubblica)
È durato tre mesi il conclave che ha eletto pontefice il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte; è consacrato il 22 febbraio 1550 assumendo il nome di Giulio III e si delinea subito come un papa fortemente votato ai fasti rinascimentali, alle feste, ai banchetti che accompagnano la sua elezione. Coltiva l'omosessualità con ragazzi e uomini adulti, non badando a nasconderla; ordina la costruzione sulla via Flaminia della villa che sarà poi nominata Giulia dal suo nome, destinata a ospitare ogni tipo di orge. Inoltre, il papa pensa a sistemare il suo amante diciottenne, Santino, «pezzente ragazzo», secondo una qualifica di Antonio Muratori; secondo alcuni pettegolezzi, il ragazzo sarebbe addirittura il figlio naturale del pontefice. Santino è nato «da una povera donna che andava accattando», ribattezzato da Giulio III con il nome di Innocenzo e con il cognome della sua famiglia, grazie all'adozione da parte del fratello Bartolomeo. Il papa «se lo è preso in camera e nel proprio letto» e ha provveduto a farlo «ammaestrare nelle lettere e civilmente educare», iscrivendolo fin dall'età di 12 anni alla «ecclesiastica milizia», assegnandogli da cardinale il titolo di parroco della cattedrale di Arezzo, e pochi mesi dopo la nomina pontificia, il 31 maggio, conferendogli il titolo cardinalizio di San Teodoro.
Non finisce qui l'attenzione del pontefice verso l'amante preferito perché, come riferisce sempre il Muratori, «l'empiè fino alla gola di benefizi e di rendite ecclesiastiche», che assommano a 36 mila scudi; Innocenzo viene nominato anche legato di Bologna e della Romagna, nonché protettore dei Catecumeni, ed è messo a capo delle tre abbazie di San Saba, Miramondo e Santa Maria di Grottaferrata. E non finiscono qui le nomine prestigiose, perché il pontefice arriva ad affidare al suo favorito addirittura la Segreteria di Stato, anche se solo nominalmente perché Innocenzo è incapace di curare bene gli affari. Ultimo incarico a favore del giovane, lo nomina a cardinal nepote. A Innocenzo fanno capo le nunziature e i problemi di carattere politico; ma il giovane non ha le capacità necessarie, come per la Segreteria, tanto che si limita a firmare dispacci e a riscuotere le entrate della carica, mentre lo svolgimento degli affari è curato dal Segretario di Stato Girolamo Dandino. Al pontificato di Giulio III, caratterizzato dall'estrema licenziosità dei costumi, va il merito di aver riaperto il concilio di Trento nel 1551, confermando lo statuto dei Gesuiti, ai quali il papa affida l'anno dopo il Collegio Romano e il Collegio Germanico, un abile mossa per tenere lontane da sé le reprimende moralistiche nei confronti della sua vita di corte. E ancora, apertosi il conflitto tra l'impero e la Francia, il pontefice combatte contro i Farnese, alleati del re di Francia, che difende i protestanti, ma di fronte a un conflitto che rischia di prolungarsi, si riappacifica con i Farnese e sospende il concilio, ritenendolo incapace di bloccare le ostilità. Quando nel 1555 Giulio III muore, il nuovo papa Marcello II non fa a tempo a reprimere le velleità di Innocenzo, perché dura in carica solo venti giorni. Va meglio al successivo pontefice Paolo IV, che lo fa imprigionare a Castel Sant'Angelo, prima di morire dopo soli tre mesi di pontificato. Così la sua sorte resta legata al nuovo papa Pio IV, che fa scarcerare Innocenzo dopo sedici mesi, spogliandolo però di tutti i suoi benefici e lasciandogli solo mille scudi, relegandolo a Pisa presso i Gesuiti, perché lo redimano. Ma Innocenzo non dà segni di pentimento, e quando viene fatto tornare a Roma il suo comportamento non è mutato, per cui il nuovo papa Pio V gli toglie il titolo cardinalizio e lo relega a Montecassino per una nuova riabilitazione. Innocenzo tornerà a Roma definitivamente perdonato per volere di Gregorio XIII, ma vivrà di stenti, finché morirà a 46 anni nel 1578.
Claudio Rendina (La Repubblica)
È durato tre mesi il conclave che ha eletto pontefice il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte; è consacrato il 22 febbraio 1550 assumendo il nome di Giulio III e si delinea subito come un papa fortemente votato ai fasti rinascimentali, alle feste, ai banchetti che accompagnano la sua elezione. Coltiva l'omosessualità con ragazzi e uomini adulti, non badando a nasconderla; ordina la costruzione sulla via Flaminia della villa che sarà poi nominata Giulia dal suo nome, destinata a ospitare ogni tipo di orge. Inoltre, il papa pensa a sistemare il suo amante diciottenne, Santino, «pezzente ragazzo», secondo una qualifica di Antonio Muratori; secondo alcuni pettegolezzi, il ragazzo sarebbe addirittura il figlio naturale del pontefice. Santino è nato «da una povera donna che andava accattando», ribattezzato da Giulio III con il nome di Innocenzo e con il cognome della sua famiglia, grazie all'adozione da parte del fratello Bartolomeo. Il papa «se lo è preso in camera e nel proprio letto» e ha provveduto a farlo «ammaestrare nelle lettere e civilmente educare», iscrivendolo fin dall'età di 12 anni alla «ecclesiastica milizia», assegnandogli da cardinale il titolo di parroco della cattedrale di Arezzo, e pochi mesi dopo la nomina pontificia, il 31 maggio, conferendogli il titolo cardinalizio di San Teodoro.
Non finisce qui l'attenzione del pontefice verso l'amante preferito perché, come riferisce sempre il Muratori, «l'empiè fino alla gola di benefizi e di rendite ecclesiastiche», che assommano a 36 mila scudi; Innocenzo viene nominato anche legato di Bologna e della Romagna, nonché protettore dei Catecumeni, ed è messo a capo delle tre abbazie di San Saba, Miramondo e Santa Maria di Grottaferrata. E non finiscono qui le nomine prestigiose, perché il pontefice arriva ad affidare al suo favorito addirittura la Segreteria di Stato, anche se solo nominalmente perché Innocenzo è incapace di curare bene gli affari. Ultimo incarico a favore del giovane, lo nomina a cardinal nepote. A Innocenzo fanno capo le nunziature e i problemi di carattere politico; ma il giovane non ha le capacità necessarie, come per la Segreteria, tanto che si limita a firmare dispacci e a riscuotere le entrate della carica, mentre lo svolgimento degli affari è curato dal Segretario di Stato Girolamo Dandino. Al pontificato di Giulio III, caratterizzato dall'estrema licenziosità dei costumi, va il merito di aver riaperto il concilio di Trento nel 1551, confermando lo statuto dei Gesuiti, ai quali il papa affida l'anno dopo il Collegio Romano e il Collegio Germanico, un abile mossa per tenere lontane da sé le reprimende moralistiche nei confronti della sua vita di corte. E ancora, apertosi il conflitto tra l'impero e la Francia, il pontefice combatte contro i Farnese, alleati del re di Francia, che difende i protestanti, ma di fronte a un conflitto che rischia di prolungarsi, si riappacifica con i Farnese e sospende il concilio, ritenendolo incapace di bloccare le ostilità. Quando nel 1555 Giulio III muore, il nuovo papa Marcello II non fa a tempo a reprimere le velleità di Innocenzo, perché dura in carica solo venti giorni. Va meglio al successivo pontefice Paolo IV, che lo fa imprigionare a Castel Sant'Angelo, prima di morire dopo soli tre mesi di pontificato. Così la sua sorte resta legata al nuovo papa Pio IV, che fa scarcerare Innocenzo dopo sedici mesi, spogliandolo però di tutti i suoi benefici e lasciandogli solo mille scudi, relegandolo a Pisa presso i Gesuiti, perché lo redimano. Ma Innocenzo non dà segni di pentimento, e quando viene fatto tornare a Roma il suo comportamento non è mutato, per cui il nuovo papa Pio V gli toglie il titolo cardinalizio e lo relega a Montecassino per una nuova riabilitazione. Innocenzo tornerà a Roma definitivamente perdonato per volere di Gregorio XIII, ma vivrà di stenti, finché morirà a 46 anni nel 1578.
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Guerre terrorismo violenza. Devo parlare ai miei bimbi per rassicurarli o è meglio tacere?
(dal Corriere)
Sono madre di due figli (5 e io anni) e sempre di più mi spaventa non solo pensare al mondo in cui ho messo i miei figli tra guerre, terrorismo, violenza contro le vittime più innocenti - ma anche il fatto che i miei bambini possano vedere immagini tremende di uccisioni e attentati, morti e feriti, e sentano parlare di queste tragedie di cui ormai discutono anche i bambini. Non dovrebbero essere protetti da queste terribili realtà ? Che cosa posso fare in questa situazione?
(Risponde Anna Rezzara, professore ordinario di Pedgogia)
C'è una inquietante contraddizione, nel nostro tempo, tra il desiderio crescente dei genitori di proteggere i figli da ogni rischio, di saperli sani, sicuri, felici, e il fatto che mai come oggi i bambini siano immersi in una comunicazione diffusa, la stessa comunicazione che arriva agli adulti, e che non li preserva dal contatto anche con gli aspetti più duri e tragici della realtà. Immagini di guerre, massacri e distruzioni dallo schermo della televisione, parole come terrorismo, attentato e strage sono esperienze quotidiane di bambini e ragazzi, che qualche volta si traducono in domande ai genitori, ma più spesso rimangono inespresse ad animare pensieri, paure e fantasie. Le immagini molto più delle parole, rischiano di turbare: mostrano direttamente al bambino, senza la mediazione di un racconto, la possibilità reale che la normalità della sua vita, la sopravvivenza stessa sua e delle persone care siano in pericolo. Non possiamo illuderci di preservare i bambini dal contatto con queste realtà, possiamo però fare molto per evitare che generino angoscia, che li facciano sentire insicuri e indifesi. Dobbiamo innanzitutto rinunciare alla tentazione di negare o nascondere ai bambini questi aspetti dolorosi della realtà: saranno più forti se avranno potuto progressivamente pensarli e parlarne all'interno di un rapporto rassicurante con i genitori. Due sono le cose essenziali da fare: aiutare i figli a esprimere pensieri e paure, e rispondere al loro bisogno di sentirsi protetti. Non lasciamoli soli con queste immagini e parole, parliamone con loro, sollecitiamoli a dire che cosa pensano e che emozioni provano, rispondiamo alle domande. I modi sono diversi nelle diverse età. Con i più piccoli, che dovrebbero essere protetti da immagini troppo dure, possiamo commentare ciò che vedono o sentono, tradurre in parole e racconti le immagini, dare semplici spiegazioni, rispondere alle loro domande in modo breve e chiaro, sconfinare anche in linguaggi loro familiari, come gioco e disegno, per esprimere pensieri ed emozioni. Dobbiamo aiutarli ad avvicinarsi a pensieri difficili rendendoli comprensibili e tollerabili, senza dimenticare che per loro realtà e immaginazione sono ancora in rapporto stretto. Per i più piccoli la rassicurazione sarà fatta di vicinanza, di contatto fisico, di gesti, a garantire che qualcuno protegge dal male del mondo di fuori. I più grandi (dai 78 anni in su) si dovrà aiutarli a trovare motivi e significati agli eventi drammatici di cui vedono le immagini e sentono parlare: dare, o cercare insieme, informazioni, spiegare cause, collocare nella storia e situare nei luoghi le guerre, i conflitti, definire i termini usati nell'informazione, aiutarli a passare dall'impatto di un'immagine alla comprensione di che cosa accade e perché. Si dovrà aver cura di aprire e tenere aperto un discorso con loro sia sugli eventi che li colpiscono sia su pensieri, sentimenti che provocano in loro. Essenziale sarà pure rispondere alle loro domande, attenti a comprendere quale sia la vera richiesta (informazione? conforto? condivisione?). Il consiglio è di puntare sulla loro curiosità e capacità di ragionamento per sciogliere paure, sensazioni di rischio e di fragilità trasformandole in risorse di conoscenza, in informazione, in questioni etiche e anche in ipotesi su come potrà risolversi o evolvere la vicenda: perché comprendere una situazione la rende meno temibile. Li rassicureremo, oltre che con la nostra presenza e attenzione, anche parlando di ciò che si fa e si potrà fare contro le guerre, della forza di essere insieme e tanti impegnati in cause di pace. Una raccomandazione, infine: per aiutare i figli a reagire in modo costruttivo a ciò che li spaventa, riflettiamo anche sulle emozioni e gli stati d'animo che comunichiamo loro, perché le nostre paure o la nostra serenità; il nostro sentirci indifesi e minacciati oppure fiduciosi influiranno sulle loro reazioni ben più di ciò che diremo loro.
Sono madre di due figli (5 e io anni) e sempre di più mi spaventa non solo pensare al mondo in cui ho messo i miei figli tra guerre, terrorismo, violenza contro le vittime più innocenti - ma anche il fatto che i miei bambini possano vedere immagini tremende di uccisioni e attentati, morti e feriti, e sentano parlare di queste tragedie di cui ormai discutono anche i bambini. Non dovrebbero essere protetti da queste terribili realtà ? Che cosa posso fare in questa situazione?
(Risponde Anna Rezzara, professore ordinario di Pedgogia)
C'è una inquietante contraddizione, nel nostro tempo, tra il desiderio crescente dei genitori di proteggere i figli da ogni rischio, di saperli sani, sicuri, felici, e il fatto che mai come oggi i bambini siano immersi in una comunicazione diffusa, la stessa comunicazione che arriva agli adulti, e che non li preserva dal contatto anche con gli aspetti più duri e tragici della realtà. Immagini di guerre, massacri e distruzioni dallo schermo della televisione, parole come terrorismo, attentato e strage sono esperienze quotidiane di bambini e ragazzi, che qualche volta si traducono in domande ai genitori, ma più spesso rimangono inespresse ad animare pensieri, paure e fantasie. Le immagini molto più delle parole, rischiano di turbare: mostrano direttamente al bambino, senza la mediazione di un racconto, la possibilità reale che la normalità della sua vita, la sopravvivenza stessa sua e delle persone care siano in pericolo. Non possiamo illuderci di preservare i bambini dal contatto con queste realtà, possiamo però fare molto per evitare che generino angoscia, che li facciano sentire insicuri e indifesi. Dobbiamo innanzitutto rinunciare alla tentazione di negare o nascondere ai bambini questi aspetti dolorosi della realtà: saranno più forti se avranno potuto progressivamente pensarli e parlarne all'interno di un rapporto rassicurante con i genitori. Due sono le cose essenziali da fare: aiutare i figli a esprimere pensieri e paure, e rispondere al loro bisogno di sentirsi protetti. Non lasciamoli soli con queste immagini e parole, parliamone con loro, sollecitiamoli a dire che cosa pensano e che emozioni provano, rispondiamo alle domande. I modi sono diversi nelle diverse età. Con i più piccoli, che dovrebbero essere protetti da immagini troppo dure, possiamo commentare ciò che vedono o sentono, tradurre in parole e racconti le immagini, dare semplici spiegazioni, rispondere alle loro domande in modo breve e chiaro, sconfinare anche in linguaggi loro familiari, come gioco e disegno, per esprimere pensieri ed emozioni. Dobbiamo aiutarli ad avvicinarsi a pensieri difficili rendendoli comprensibili e tollerabili, senza dimenticare che per loro realtà e immaginazione sono ancora in rapporto stretto. Per i più piccoli la rassicurazione sarà fatta di vicinanza, di contatto fisico, di gesti, a garantire che qualcuno protegge dal male del mondo di fuori. I più grandi (dai 78 anni in su) si dovrà aiutarli a trovare motivi e significati agli eventi drammatici di cui vedono le immagini e sentono parlare: dare, o cercare insieme, informazioni, spiegare cause, collocare nella storia e situare nei luoghi le guerre, i conflitti, definire i termini usati nell'informazione, aiutarli a passare dall'impatto di un'immagine alla comprensione di che cosa accade e perché. Si dovrà aver cura di aprire e tenere aperto un discorso con loro sia sugli eventi che li colpiscono sia su pensieri, sentimenti che provocano in loro. Essenziale sarà pure rispondere alle loro domande, attenti a comprendere quale sia la vera richiesta (informazione? conforto? condivisione?). Il consiglio è di puntare sulla loro curiosità e capacità di ragionamento per sciogliere paure, sensazioni di rischio e di fragilità trasformandole in risorse di conoscenza, in informazione, in questioni etiche e anche in ipotesi su come potrà risolversi o evolvere la vicenda: perché comprendere una situazione la rende meno temibile. Li rassicureremo, oltre che con la nostra presenza e attenzione, anche parlando di ciò che si fa e si potrà fare contro le guerre, della forza di essere insieme e tanti impegnati in cause di pace. Una raccomandazione, infine: per aiutare i figli a reagire in modo costruttivo a ciò che li spaventa, riflettiamo anche sulle emozioni e gli stati d'animo che comunichiamo loro, perché le nostre paure o la nostra serenità; il nostro sentirci indifesi e minacciati oppure fiduciosi influiranno sulle loro reazioni ben più di ciò che diremo loro.
18.2.15
La guerra in Libia è un regalo al califfo
Lucio Caracciolo (Limes)
Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più.
Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.
Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).
Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.
Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili.
Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».
Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.
Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.
Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan.
Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”.
Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».
Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.
Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”.
In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati.
Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.
Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più.
Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.
Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).
Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.
Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili.
Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».
Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.
Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.
Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan.
Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”.
Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».
Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.
Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”.
In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati.
Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.
17.2.15
Libia "libera": tutte le frasi più stupide
(Libero)
Nel 2011 molti politici e intellettuali si esaltarono per le «primavere arabe». E quando Berlusconi si dimostrò restìo ad intervenire contro Gheddafi, nel timore del caos libico che ne sarebbe seguito, tutti gli diedero addosso. Ecco una breve antologia di quanto si diceva all’epoca. In alcuni casi abbiamo accostato, dello stesso autore, le opinioni di quattro anni fa a quelle di oggi: i giudizi sulla situazione libica sono quasi opposti, manca l’ammissione di avere sbagliato.
"Il primo ministro (Berlusconi, ndr) non ha osato ancora riconoscere che dopo quasi 42 anni di dittatura - il doppio di Mussolini! - è ben venuto il tempo che si allontani dal potere quel partner sanguinario cui Silvio Berlusconi ha da poco baciato la mano assassina in pubblico. Neanche le cifre di una vera e propria ecatombe in Libia lo hanno indotto a chiedere che Gheddafi sia assicurato a una corte di giustizia internazionale. Come mai persiste una simile, vile titubanza?"
(Gad Lerner, la Repubblica, 24 febbraio 2011)
"Che la situazione in Libia potesse precipitare era chiaro fin dall’estate scorsa, quando si è perso ogni controllo su questo territorio mediterraneo posto sui nostri confini meridionali (...) Le crudeli decapitazioni dei cristiani copti a Sirte segnano oggi un passaggio senza ritorno. Mi auguro che il governo e lo stato maggiore delle Forze Armate abbiano predisposto in questi mesi piani efficaci di intervento a tutela della nostra sicurezza nazionale".
(Gad Lerner, sul suo blog, 15 febbraio 2015)
"Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. (…) Anche l’Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l’Italia di Berlusconi ha mancato all’appuntamento d’onore per un paese democratico. Se l’insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 22 febbraio 2011)
"Oggi la Libia non è più oppressa da un raìs megalomane e sanguinario, ma è un mosaico di tribù rissose incontrollabili dal governo centrale".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 18 gennaio 2013)
"Angela Merkel ha usato un’espressione rivelatrice: vuole “aspettare e vedere come si evolve la situazione”. I prossimi popoli che covano voglie di ribellione e libertà sono avvisati. (...) L’Italia poi è irrilevante, e tiene a esserlo. Ogni giorno che passa rende lo scioglimento più arduo. Che la banda Gheddafi se ne vada per via di persuasione e qualche embargo, è impensabile. Che si rimetta saldamente in sella e tutti ricomincino a trafficarci come prima, è il sogno di molti, ma difficile da realizzare. E allora? Allora, siccome il tempo è un fattore decisivo per qualunque sbocco, l’Europa prende, cioè perde, tempo".
(Adriano Sofri, la Repubblica, 17 marzo 2011)
«Non c’è nessun “kafir”, infedele, persona o paese, che possa sentirsi al riparo dal jihad islamista. Il terrorismo politico di formazioni arabe di altri tempi consentiva furbizie e sotterfugi, per il terrore superstizioso di oggi non ci sono mediatori come il colonnello Giovannone. Questo vuol dire anche che quando si dice che “la soluzione è in Libia” (Renzi) o “siamo pronti a batterci in Libia”, non si può fermarsi lì, tantomeno tornare indietro».
(Adriano Sofri, la Repubblica, 15 febbraio 2015)
«Peccato per il silenzio dei “pacifisti”: ma dove sono mentre Gheddafi bombarda il suo popolo? In week end temo».
(Gianni Riotta, il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)
"Ieri il ministro Gentiloni ha detto bene: finché Isis occupa uno Stato terrorista non ci sarà pace in Europa".
(Gianni Riotta, la Stampa, 9 gennaio 2015)
"Per quanto abborracciato sia stato l’intervento in Libia, le conseguenze di un non-intervento sarebbero state assolutamente peggiori. La Francia ha il merito di aver reso tempestivo l’intervento e la colpa di aver preteso una leadership che nessuno aveva voglia di riconoscerle".
(Vittorio Emanuele Parsi, la Stampa, 20 aprile 2011)
"Com’è risaputo, sono stati i francesi a insistere per deporre Gheddafi, ma non hanno pianificato la fase successiva. (...) La responsabilità di questo pasticcio grava su Londra e Parigi ma, anche se la frittata l’hanno fatta gli altri, ora chi se la ritrova davanti alle proprie coste siamo noi".
(Vittorio Emanuele Parsi, intervista al Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2015)
"Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l’intimo delle coscienze. L’accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler “disturbare” Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti".
(Barbara Spinelli, la Repubblica, 23 febbraio 2011)
"In Iraq come in Libia, stiamo assistendo alle conseguenze di guerre che hanno letteralmente generato Stati fallimentari e caos, nonostante i fuorvianti propositi iniziali".
(Barbara Spinelli, intervento all’Europarlamento, 2 settembre 2014)
"Le violenze (di Gheddafi, ndr) andavano condannate subito. Riconosco che c’erano stati tali legami e un tale intreccio di interessi per cui c’era qualche difficoltà ad avere la reazione che questi eventi richiedono. Berlusconi ha blandito Gheddafi. I rapporti con la Libia sono utili ma la dignità va sempre salvata".
(Romano Prodi, 22 febbraio 2011)
"Non poteva esserci diversa conseguenza di una guerra sciagurata voluta sconsideratamente dalla Francia e che l’Italia ha seguito in modo folle e incomprensibile. Non avevo mai visto un paese che paga una guerra fatta contro di lui".
(Romano Prodi, 14 febbraio 2015)
"Berlusconi ha ripetuto per anni: “amico Putin, amico Gheddafi”, ma a cosa ci hanno portato le sue relazioni speciali? Ad essere il tappetino delle autocrazie, se non vere e proprie dittature".
(Pier Luigi Bersani, 22 febbraio 2011)
"L’Italia sta apparendo complice di un tiranno nel momento in cui si denuncia un genocidio. Di fronte a questo non è possibile essere esitanti. (...) L’attenzione non va spostata sui profughi. In questo momento il tema è il vento di libertà che sta soffiando e come contribuiamo a cacciare i dittatori dal Mediterraneo".
(Nichi Vendola, 23 febbraio 2011)
"Protagonisti della rivolta sono stati giovani che non sanno che farsene del Libretto verde, connessi alla società mondiale attraverso la Rete. (...) Cosa hanno a che fare essi con Al Qaeda? Per gli islamisti radicali queste rivolte sono una cocente sconfitta".
(Renzo Guolo, la Repubblica, 25 febbraio 2011)
"Il “dopo” terrorizza. E si accusa la Francia dello smanioso Sarkozy di procedere alla cieca, senza preoccuparsi del predominio delle tribù, o dello spazio dei fondamentalismi che si potrebbe spalancare “dopo” Gheddafi. (…) Ma il terrore del “dopo” può essere un principio di paralisi se il “dopo” è pressoché ineluttabile. E non c’è peggiore impotenza politica dichi è prigioniero della nostalgia per il dittatore con cui si facevano ottimi affari. Nella stabilità perduta".
(Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 30 marzo 2011)
Nel 2011 molti politici e intellettuali si esaltarono per le «primavere arabe». E quando Berlusconi si dimostrò restìo ad intervenire contro Gheddafi, nel timore del caos libico che ne sarebbe seguito, tutti gli diedero addosso. Ecco una breve antologia di quanto si diceva all’epoca. In alcuni casi abbiamo accostato, dello stesso autore, le opinioni di quattro anni fa a quelle di oggi: i giudizi sulla situazione libica sono quasi opposti, manca l’ammissione di avere sbagliato.
"Il primo ministro (Berlusconi, ndr) non ha osato ancora riconoscere che dopo quasi 42 anni di dittatura - il doppio di Mussolini! - è ben venuto il tempo che si allontani dal potere quel partner sanguinario cui Silvio Berlusconi ha da poco baciato la mano assassina in pubblico. Neanche le cifre di una vera e propria ecatombe in Libia lo hanno indotto a chiedere che Gheddafi sia assicurato a una corte di giustizia internazionale. Come mai persiste una simile, vile titubanza?"
(Gad Lerner, la Repubblica, 24 febbraio 2011)
"Che la situazione in Libia potesse precipitare era chiaro fin dall’estate scorsa, quando si è perso ogni controllo su questo territorio mediterraneo posto sui nostri confini meridionali (...) Le crudeli decapitazioni dei cristiani copti a Sirte segnano oggi un passaggio senza ritorno. Mi auguro che il governo e lo stato maggiore delle Forze Armate abbiano predisposto in questi mesi piani efficaci di intervento a tutela della nostra sicurezza nazionale".
(Gad Lerner, sul suo blog, 15 febbraio 2015)
"Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. (…) Anche l’Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l’Italia di Berlusconi ha mancato all’appuntamento d’onore per un paese democratico. Se l’insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 22 febbraio 2011)
"Oggi la Libia non è più oppressa da un raìs megalomane e sanguinario, ma è un mosaico di tribù rissose incontrollabili dal governo centrale".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 18 gennaio 2013)
"Angela Merkel ha usato un’espressione rivelatrice: vuole “aspettare e vedere come si evolve la situazione”. I prossimi popoli che covano voglie di ribellione e libertà sono avvisati. (...) L’Italia poi è irrilevante, e tiene a esserlo. Ogni giorno che passa rende lo scioglimento più arduo. Che la banda Gheddafi se ne vada per via di persuasione e qualche embargo, è impensabile. Che si rimetta saldamente in sella e tutti ricomincino a trafficarci come prima, è il sogno di molti, ma difficile da realizzare. E allora? Allora, siccome il tempo è un fattore decisivo per qualunque sbocco, l’Europa prende, cioè perde, tempo".
(Adriano Sofri, la Repubblica, 17 marzo 2011)
«Non c’è nessun “kafir”, infedele, persona o paese, che possa sentirsi al riparo dal jihad islamista. Il terrorismo politico di formazioni arabe di altri tempi consentiva furbizie e sotterfugi, per il terrore superstizioso di oggi non ci sono mediatori come il colonnello Giovannone. Questo vuol dire anche che quando si dice che “la soluzione è in Libia” (Renzi) o “siamo pronti a batterci in Libia”, non si può fermarsi lì, tantomeno tornare indietro».
(Adriano Sofri, la Repubblica, 15 febbraio 2015)
«Peccato per il silenzio dei “pacifisti”: ma dove sono mentre Gheddafi bombarda il suo popolo? In week end temo».
(Gianni Riotta, il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)
"Ieri il ministro Gentiloni ha detto bene: finché Isis occupa uno Stato terrorista non ci sarà pace in Europa".
(Gianni Riotta, la Stampa, 9 gennaio 2015)
"Per quanto abborracciato sia stato l’intervento in Libia, le conseguenze di un non-intervento sarebbero state assolutamente peggiori. La Francia ha il merito di aver reso tempestivo l’intervento e la colpa di aver preteso una leadership che nessuno aveva voglia di riconoscerle".
(Vittorio Emanuele Parsi, la Stampa, 20 aprile 2011)
"Com’è risaputo, sono stati i francesi a insistere per deporre Gheddafi, ma non hanno pianificato la fase successiva. (...) La responsabilità di questo pasticcio grava su Londra e Parigi ma, anche se la frittata l’hanno fatta gli altri, ora chi se la ritrova davanti alle proprie coste siamo noi".
(Vittorio Emanuele Parsi, intervista al Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2015)
"Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l’intimo delle coscienze. L’accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler “disturbare” Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti".
(Barbara Spinelli, la Repubblica, 23 febbraio 2011)
"In Iraq come in Libia, stiamo assistendo alle conseguenze di guerre che hanno letteralmente generato Stati fallimentari e caos, nonostante i fuorvianti propositi iniziali".
(Barbara Spinelli, intervento all’Europarlamento, 2 settembre 2014)
"Le violenze (di Gheddafi, ndr) andavano condannate subito. Riconosco che c’erano stati tali legami e un tale intreccio di interessi per cui c’era qualche difficoltà ad avere la reazione che questi eventi richiedono. Berlusconi ha blandito Gheddafi. I rapporti con la Libia sono utili ma la dignità va sempre salvata".
(Romano Prodi, 22 febbraio 2011)
"Non poteva esserci diversa conseguenza di una guerra sciagurata voluta sconsideratamente dalla Francia e che l’Italia ha seguito in modo folle e incomprensibile. Non avevo mai visto un paese che paga una guerra fatta contro di lui".
(Romano Prodi, 14 febbraio 2015)
"Berlusconi ha ripetuto per anni: “amico Putin, amico Gheddafi”, ma a cosa ci hanno portato le sue relazioni speciali? Ad essere il tappetino delle autocrazie, se non vere e proprie dittature".
(Pier Luigi Bersani, 22 febbraio 2011)
"L’Italia sta apparendo complice di un tiranno nel momento in cui si denuncia un genocidio. Di fronte a questo non è possibile essere esitanti. (...) L’attenzione non va spostata sui profughi. In questo momento il tema è il vento di libertà che sta soffiando e come contribuiamo a cacciare i dittatori dal Mediterraneo".
(Nichi Vendola, 23 febbraio 2011)
"Protagonisti della rivolta sono stati giovani che non sanno che farsene del Libretto verde, connessi alla società mondiale attraverso la Rete. (...) Cosa hanno a che fare essi con Al Qaeda? Per gli islamisti radicali queste rivolte sono una cocente sconfitta".
(Renzo Guolo, la Repubblica, 25 febbraio 2011)
"Il “dopo” terrorizza. E si accusa la Francia dello smanioso Sarkozy di procedere alla cieca, senza preoccuparsi del predominio delle tribù, o dello spazio dei fondamentalismi che si potrebbe spalancare “dopo” Gheddafi. (…) Ma il terrore del “dopo” può essere un principio di paralisi se il “dopo” è pressoché ineluttabile. E non c’è peggiore impotenza politica dichi è prigioniero della nostalgia per il dittatore con cui si facevano ottimi affari. Nella stabilità perduta".
(Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 30 marzo 2011)
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6.2.15
Draghi fa ballare Grecia e Merkel
di Paul Krugman (La Repubblica)
NELLA drammatica vicenda della Grecia le cose si fanno quasi folli.
In pratica, la Bce non accetterà più in garanzia i titoli del debito pubblico di Atene. La reazione iniziale all’annuncio da parte di alcuni osservatori è che questa è la fine e che la Bce di fatto sta staccando arbitrariamente e bruscamente la spina. Ancor prima che avessi modo di approfondire i particolari, però, ho intuito che non deve essere così. Di Mario Draghi si possono dire molte cose: che forse non riuscirà a salvare l’euro, e che forse commetterà qualche errore madornale. Ma ottusità e durezza no, non rientrano nel suo stile. Certo, stiamo parlando di una decisione che implica molto più di quanto abbiano suggerito i primi titoloni. Le banche greche non fanno più molto ricorso a questo canale di finanziamento, che non necessariamente le mantiene a galla. Tramite la loro banca centrale, le banche greche potranno continuare a chiedere prestiti indirettamente. Di conseguenza, non si tratta di un evento in grado di innescare una crisi.
Qual è il punto, allora? Si tratta di un atteggiamento. Di un segnale. Ma lanciato a chi? E a quale scopo?
Forse si tratta di uno sforzo mirante a spingere i greci a raggiungere un accordo, ma secondo me — e la mia è una semplice supposizione — tutto ciò di fatto è rivolto ai tedeschi.
Da un lato, la Bce sta facendo la voce forte, così da togliere un po’ i tedeschi dal groppone dei greci. Dall’altro, si tratta di un vero e proprio segnale d’allarme: “Cara Cancelliera Merkel, ormai siamo tanto vicini a un crac delle banche e all’uscita di Atene dall’euro. Sei sicura, davvero sicura, di voler proseguire lungo questa strada? Davvero davvero?”. È un colpo d’avvertimento a tutti, affinché capiscano che cosa accadrà in seguito. Draghi sa quello che sta facendo? No, ovviamente. Nessuno, in simili circostanze sa esattamente che cosa sta facendo, perché siamo in un caos strutturale. In ogni caso, non facciamoci prendere dal panico. Non ancora.
NELLA drammatica vicenda della Grecia le cose si fanno quasi folli.
In pratica, la Bce non accetterà più in garanzia i titoli del debito pubblico di Atene. La reazione iniziale all’annuncio da parte di alcuni osservatori è che questa è la fine e che la Bce di fatto sta staccando arbitrariamente e bruscamente la spina. Ancor prima che avessi modo di approfondire i particolari, però, ho intuito che non deve essere così. Di Mario Draghi si possono dire molte cose: che forse non riuscirà a salvare l’euro, e che forse commetterà qualche errore madornale. Ma ottusità e durezza no, non rientrano nel suo stile. Certo, stiamo parlando di una decisione che implica molto più di quanto abbiano suggerito i primi titoloni. Le banche greche non fanno più molto ricorso a questo canale di finanziamento, che non necessariamente le mantiene a galla. Tramite la loro banca centrale, le banche greche potranno continuare a chiedere prestiti indirettamente. Di conseguenza, non si tratta di un evento in grado di innescare una crisi.
Qual è il punto, allora? Si tratta di un atteggiamento. Di un segnale. Ma lanciato a chi? E a quale scopo?
Forse si tratta di uno sforzo mirante a spingere i greci a raggiungere un accordo, ma secondo me — e la mia è una semplice supposizione — tutto ciò di fatto è rivolto ai tedeschi.
Da un lato, la Bce sta facendo la voce forte, così da togliere un po’ i tedeschi dal groppone dei greci. Dall’altro, si tratta di un vero e proprio segnale d’allarme: “Cara Cancelliera Merkel, ormai siamo tanto vicini a un crac delle banche e all’uscita di Atene dall’euro. Sei sicura, davvero sicura, di voler proseguire lungo questa strada? Davvero davvero?”. È un colpo d’avvertimento a tutti, affinché capiscano che cosa accadrà in seguito. Draghi sa quello che sta facendo? No, ovviamente. Nessuno, in simili circostanze sa esattamente che cosa sta facendo, perché siamo in un caos strutturale. In ogni caso, non facciamoci prendere dal panico. Non ancora.
2.2.15
Alle scuole private un fiume di soldi pubblici
di Michele Grasso (L'Espresso)
Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame
C'è un paradosso nel mondo dell’istruzione che sopravvive alle riforme e ai proclami. Da una parte scuole pubbliche a corto di risorse, con 250 mila insegnanti precari ed edifici senza sicurezza come testimoniano i crolli nell’asilo di Milano e nella media di Bologna di inizio gennaio.
Dall’altra istituti privati che continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno, senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità.
Il governo Renzi ha promesso di mettere mano almeno alle condizioni delle aule, con un piano di investimenti ambizioso che però stenta a partire proprio per la carenza di fondi: l’operazione richiede quattro miliardi di euro. Così il dossier “La buona scuola” considera inevitabile il sostegno agli imprenditori dell’istruzione: «Va offerto al settore privato e no-profit un pacchetto di vantaggi graduali, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni».
Così ogni anno il ministero dell’Istruzione versa poco meno di mezzo miliardo alle paritarie.
Un lascito mai rimosso del secolo scorso, quando il maestro non arrivava nei paesi più remoti e ai piccoli studenti ci pensavano soprattutto le suore.
Oggi quel finanziamento è un nervo scoperto tra i pasdaran della statale ad ogni costo e i paladini delle strutture private. Per i primi andrebbe cancellato il contributo per gli istituti laici e confessionali che vogliono stare sul mercato, mentre i secondi difendono la possibilità di educare ai valori cattolici o con sistemi alternativi.
La rivoluzione annunciata più volte da Renzi per la scuola non ha cambiato nulla.
Le due opzioni sono sempre sullo stesso piano, rispolverando un vecchio mantra caro al centrodestra italiano: la libertà di scegliere dove mandare i figli a scuola è sacrosanta e siccome le paritarie costano, ci vuole un aiutino. Tesi sposata in pieno anche dal ministro Stefania Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato».
Per gli “amici delle famiglie” sono riservati per quest’anno 473 milioni, necessari ad accogliere quasi un milione di allievi dai tre ai diciotto anni. Fondi che arrivano da Roma in base al numero di sezioni e che solo negli ultimi anni sono scesi sotto quota mezzo miliardo
. La riduzione è stata di venti milioni, poco più del tre per cento imposto ai ministeri dalla spending review, ma ha fatto lievitare il malcontento. Come spiega padre Francesco Macrì, presidente della federazione degli istituti cattolici: «Siamo il vaso di argilla più debole di tutti, subiamo il taglio dei finanziamenti a fronte di una crescita di responsabilità e di impegni educativi».
Di diverso avviso Massimo Mari della Cgil:«Quella della Giannini è una presa di posizione degna dei governi democristiani. Con un problema mai superato: al centro dell’istruzione c’è il cittadino e non la famiglia. Finanziare la scuola cattolica contrasta con lo Stato stesso».
Ancora più tranchant la Rete studenti:«Investire nelle paritarie è un insulto ai milioni di ragazzi che frequentano istituti che cadono a pezzi, senza servizi e sotto finanziati».
Le statali italiane superano quota 41 mila, tutte le altre sono 13.625. Di queste, oltre 11 mila sotto forma di cooperativa, congregazione o srl offrono un ampio ventaglio di formazione.
Per stare in piedi chiedono una retta che può arrivare fino ad ottomila euro all’anno. Tanto. E allora oltre allo Stato ci pensano gli enti locali a dare una mano, con il buono-scuola della Regione Lombardia a fare da modello o gli aiuti dei comuni emiliani: a Bologna il milione di euro destinato ogni anno alle scuole d’infanzia è stato bocciato da un referendum. Governatori e sindaci alimentano un altro fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico stimato dalla Cgil in altri 200 milioni, che si somma alla sovvenzione ministeriale.
Un assegno in bianco, che non premia solo le eccellenze: finisce pure ad enti privati che non brillano per qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame.
STORIE DI ORDINARIO SFRUTTAMENTO
Tra le distorsioni più frequenti delle private ci sono gli insegnanti alle prime armi che diventano vittime del ricatto.
Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra a gratis.
Lezioni a costo zero e tenuti sotto scacco nel purgatorio delle parificate per prendere il volo il prima possibile verso il paradiso delle statali. Paolo Latella, insegnante e sindacalista Unicobas, ha raccolto le testimonianze: «È un fenomeno così diffuso che tocca almeno il cinquanta per cento delle strutture. “Vuoi che ti pago quando c’è la fila fuori?” è la risposta più frequente data dai gestori senza scrupoli ai docenti disarmati». In centinaia firmano il contratto e una lettera di dimissioni senza data. È sufficiente aggiungerla e cacciarli. Senza strascichi in tribunale. Lo stipendio in diversi istituti è sotto la soglia di sopravvivenza: ci sono esempi di retribuzioni da 200-300 euro al mese, significa due euro all’ora. E poi un elenco vergognoso di condizioni a cui sottostare. Dai rimborsi della maternità da restituire, fino alla pratica del pagamento con assegno mensile da ridare in contanti alla segreteria.
Centinaia di casi, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, con tanto di minacce e pressioni. Tutte segnalazioni anonime, come se fare la prof fosse un mestiere a rischio. «Per sei anni sono stata malpagata a Cagliari. Sei mesi fa ho fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro e ho scoperto l’ovvio: i contratti a progetto che avevo firmato sono illegali». Dopo l’esposto però la beffa. Licenziata con una motivazione paradossale: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento».
Epicentro del fenomeno la provincia di Caserta, dove si contano oltre 400 tra srl e cooperative e solo 217 istituti con lo stemma della Repubblica. Da qui arriva la storia di Maria: «Ho lavorato un anno intero senza ricevere neppure un euro, firmando però la busta paga. Ho fatto anche gli esami di idoneità senza portare a casa nulla, tutto sotto minaccia di licenziamento e di perdere posizioni in graduatoria».
In Campania nelle scuole private resiste anche la pratica dei “diplomifici”: pago tanto, studio poco e prendo il pezzo di carta. Ecco il racconto di una ragazza bolognese:«A Nola mi sono presentata tre volte per le prove scritte ed orali. Mi facevano copiare tutto». È una delle testimoni ascoltate dai finanzieri dopo il sequestro di due istituti nel Napoletano. La maturità partendo da zero, grazie a registri taroccati e atti pubblici falsi. Il tutto per 12mila euro in contanti. A chi organizzava la truffa sono finiti in tasca milioni di euro: in centinaia si sono catapultati qui da Roma, Foggia e dalla Sardegna. Per prendere un diploma che non vale nulla: dopo l’inchiesta i titoli sospetti sono stati cancellati.
SOPRAVVIVE IL SISTEMA FORMIGONI
Sul fronte dei finanziamenti, in Lombardia una dote ad hoc è stata il vanto dell’ex presidente Roberto Formigoni. Partiti nel lontano 2001, in tredici anni i contributi regionali hanno superato quota 500 milioni.
Messi a disposizione in nome della possibilità di scegliere: la libertà educativa è in mano ai genitori, che se vogliono iscrivere i propri figli nelle scuole cattoliche ricevono sostegno dal Pirellone, che sborsa una parte delle rette. Un sistema fortemente contestato dalla Cgil, come spiega Claudio Arcari: «Per come viene distribuita, la dote finisce alle famiglie benestanti, alimentando un diritto allo studio al contrario: tanto a chi si può permettere rette da migliaia di euro e nulla a chi ha poco».
L’aiuto non si è inceppato neppure con la bocciatura del Tar dello scorso aprile. Ecco come è andata. Due studentesse milanesi fanno ricorso: troppa differenza (a parità di reddito familiare) tra quanto destinato a loro - tra 60 e 290 euro - e quello che va a una coetanea privatista, che può intascare fino a 950 euro. Una disparità non accettabile per i giudici amministrativi: «Senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità, le erogazioni sono diverse e più favorevoli per chi frequenta una paritaria».
La sentenza è tuttavia una vittoria a metà perché è stata respinta la parte del ricorso che colpiva il sostegno economico. E anche per quest’anno scolastico sono arrivati trenta milioni di euro sotto forma di dote. La scelta del leghista Roberto Maroni è stata copiata dal compagno di partito Luca Zaia.
Il governatore veneto ha messo sul tavolo 42 milioni (21 per gli asili nido e altrettanti per le scuole d’infanzia) con questa motivazione: «Il Governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alle comunità parrocchiali e congregazionali. In Veneto non cerchiamo e non vogliamo nessuna alternativa».
PRIMA GLI ULTIMI
Non sempre vince il malaffare. Oltre ai predatori voraci e governatori generosi, non mancano le buone pratiche: inclusione sociale, esperienze di eccellenza e una visone moderna dell’insegnamento.
A Rimini il centro educativo italo-svizzero (Ceis) è stato fondato nel dopoguerra dal Soccorso operaio elvetico. Una istituzione privata laica che col tempo è diventata un modello: niente cattedre, orari flessibili e classi che gestircono in autonomia le lezioni per oltre 350 bambini fino a dieci anni. Di questi, cinquanta hanno una qualche forma di disabilità, oltre il triplo di una scuola pubblica.
Un’attenzione simile a quella riservata dall’Istituto per le arti grafiche di Trento, di proprietà della congregazione dei Figli di Maria Immacolata, ma finanziata interamente dalla Provincia.
È normale trovare in ogni classe almeno un paio di ragazzi con handicap. «Il dualismo normalità-disabilità va superato», afferma il direttore Erik Gadoni: «Ognuno può portare un contributo al gruppo in cui è inserito». Ottimi i risultati anche sul fronte dell’autismo. Rudy è un ragazzo con la sindrome di Asperger: quando entrò la prima volta si nascondeva sotto il banco. Grazie un percorso ad hoc allargato alla famiglia e ai compagni, la sua capacità relazionale è migliorata.
E adesso Rudy ha lasciato Trento per iscriversi all’università. Una vita normale, dopo cinque anni e tanti investimenti per la sua educazione. A buon fine.
Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame
C'è un paradosso nel mondo dell’istruzione che sopravvive alle riforme e ai proclami. Da una parte scuole pubbliche a corto di risorse, con 250 mila insegnanti precari ed edifici senza sicurezza come testimoniano i crolli nell’asilo di Milano e nella media di Bologna di inizio gennaio.
Dall’altra istituti privati che continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno, senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità.
Il governo Renzi ha promesso di mettere mano almeno alle condizioni delle aule, con un piano di investimenti ambizioso che però stenta a partire proprio per la carenza di fondi: l’operazione richiede quattro miliardi di euro. Così il dossier “La buona scuola” considera inevitabile il sostegno agli imprenditori dell’istruzione: «Va offerto al settore privato e no-profit un pacchetto di vantaggi graduali, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni».
Così ogni anno il ministero dell’Istruzione versa poco meno di mezzo miliardo alle paritarie.
Un lascito mai rimosso del secolo scorso, quando il maestro non arrivava nei paesi più remoti e ai piccoli studenti ci pensavano soprattutto le suore.
Oggi quel finanziamento è un nervo scoperto tra i pasdaran della statale ad ogni costo e i paladini delle strutture private. Per i primi andrebbe cancellato il contributo per gli istituti laici e confessionali che vogliono stare sul mercato, mentre i secondi difendono la possibilità di educare ai valori cattolici o con sistemi alternativi.
La rivoluzione annunciata più volte da Renzi per la scuola non ha cambiato nulla.
Le due opzioni sono sempre sullo stesso piano, rispolverando un vecchio mantra caro al centrodestra italiano: la libertà di scegliere dove mandare i figli a scuola è sacrosanta e siccome le paritarie costano, ci vuole un aiutino. Tesi sposata in pieno anche dal ministro Stefania Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato».
Per gli “amici delle famiglie” sono riservati per quest’anno 473 milioni, necessari ad accogliere quasi un milione di allievi dai tre ai diciotto anni. Fondi che arrivano da Roma in base al numero di sezioni e che solo negli ultimi anni sono scesi sotto quota mezzo miliardo
. La riduzione è stata di venti milioni, poco più del tre per cento imposto ai ministeri dalla spending review, ma ha fatto lievitare il malcontento. Come spiega padre Francesco Macrì, presidente della federazione degli istituti cattolici: «Siamo il vaso di argilla più debole di tutti, subiamo il taglio dei finanziamenti a fronte di una crescita di responsabilità e di impegni educativi».
Di diverso avviso Massimo Mari della Cgil:«Quella della Giannini è una presa di posizione degna dei governi democristiani. Con un problema mai superato: al centro dell’istruzione c’è il cittadino e non la famiglia. Finanziare la scuola cattolica contrasta con lo Stato stesso».
Ancora più tranchant la Rete studenti:«Investire nelle paritarie è un insulto ai milioni di ragazzi che frequentano istituti che cadono a pezzi, senza servizi e sotto finanziati».
Le statali italiane superano quota 41 mila, tutte le altre sono 13.625. Di queste, oltre 11 mila sotto forma di cooperativa, congregazione o srl offrono un ampio ventaglio di formazione.
Per stare in piedi chiedono una retta che può arrivare fino ad ottomila euro all’anno. Tanto. E allora oltre allo Stato ci pensano gli enti locali a dare una mano, con il buono-scuola della Regione Lombardia a fare da modello o gli aiuti dei comuni emiliani: a Bologna il milione di euro destinato ogni anno alle scuole d’infanzia è stato bocciato da un referendum. Governatori e sindaci alimentano un altro fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico stimato dalla Cgil in altri 200 milioni, che si somma alla sovvenzione ministeriale.
Un assegno in bianco, che non premia solo le eccellenze: finisce pure ad enti privati che non brillano per qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame.
STORIE DI ORDINARIO SFRUTTAMENTO
Tra le distorsioni più frequenti delle private ci sono gli insegnanti alle prime armi che diventano vittime del ricatto.
Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra a gratis.
Lezioni a costo zero e tenuti sotto scacco nel purgatorio delle parificate per prendere il volo il prima possibile verso il paradiso delle statali. Paolo Latella, insegnante e sindacalista Unicobas, ha raccolto le testimonianze: «È un fenomeno così diffuso che tocca almeno il cinquanta per cento delle strutture. “Vuoi che ti pago quando c’è la fila fuori?” è la risposta più frequente data dai gestori senza scrupoli ai docenti disarmati». In centinaia firmano il contratto e una lettera di dimissioni senza data. È sufficiente aggiungerla e cacciarli. Senza strascichi in tribunale. Lo stipendio in diversi istituti è sotto la soglia di sopravvivenza: ci sono esempi di retribuzioni da 200-300 euro al mese, significa due euro all’ora. E poi un elenco vergognoso di condizioni a cui sottostare. Dai rimborsi della maternità da restituire, fino alla pratica del pagamento con assegno mensile da ridare in contanti alla segreteria.
Centinaia di casi, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, con tanto di minacce e pressioni. Tutte segnalazioni anonime, come se fare la prof fosse un mestiere a rischio. «Per sei anni sono stata malpagata a Cagliari. Sei mesi fa ho fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro e ho scoperto l’ovvio: i contratti a progetto che avevo firmato sono illegali». Dopo l’esposto però la beffa. Licenziata con una motivazione paradossale: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento».
Epicentro del fenomeno la provincia di Caserta, dove si contano oltre 400 tra srl e cooperative e solo 217 istituti con lo stemma della Repubblica. Da qui arriva la storia di Maria: «Ho lavorato un anno intero senza ricevere neppure un euro, firmando però la busta paga. Ho fatto anche gli esami di idoneità senza portare a casa nulla, tutto sotto minaccia di licenziamento e di perdere posizioni in graduatoria».
In Campania nelle scuole private resiste anche la pratica dei “diplomifici”: pago tanto, studio poco e prendo il pezzo di carta. Ecco il racconto di una ragazza bolognese:«A Nola mi sono presentata tre volte per le prove scritte ed orali. Mi facevano copiare tutto». È una delle testimoni ascoltate dai finanzieri dopo il sequestro di due istituti nel Napoletano. La maturità partendo da zero, grazie a registri taroccati e atti pubblici falsi. Il tutto per 12mila euro in contanti. A chi organizzava la truffa sono finiti in tasca milioni di euro: in centinaia si sono catapultati qui da Roma, Foggia e dalla Sardegna. Per prendere un diploma che non vale nulla: dopo l’inchiesta i titoli sospetti sono stati cancellati.
SOPRAVVIVE IL SISTEMA FORMIGONI
Sul fronte dei finanziamenti, in Lombardia una dote ad hoc è stata il vanto dell’ex presidente Roberto Formigoni. Partiti nel lontano 2001, in tredici anni i contributi regionali hanno superato quota 500 milioni.
Messi a disposizione in nome della possibilità di scegliere: la libertà educativa è in mano ai genitori, che se vogliono iscrivere i propri figli nelle scuole cattoliche ricevono sostegno dal Pirellone, che sborsa una parte delle rette. Un sistema fortemente contestato dalla Cgil, come spiega Claudio Arcari: «Per come viene distribuita, la dote finisce alle famiglie benestanti, alimentando un diritto allo studio al contrario: tanto a chi si può permettere rette da migliaia di euro e nulla a chi ha poco».
L’aiuto non si è inceppato neppure con la bocciatura del Tar dello scorso aprile. Ecco come è andata. Due studentesse milanesi fanno ricorso: troppa differenza (a parità di reddito familiare) tra quanto destinato a loro - tra 60 e 290 euro - e quello che va a una coetanea privatista, che può intascare fino a 950 euro. Una disparità non accettabile per i giudici amministrativi: «Senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità, le erogazioni sono diverse e più favorevoli per chi frequenta una paritaria».
La sentenza è tuttavia una vittoria a metà perché è stata respinta la parte del ricorso che colpiva il sostegno economico. E anche per quest’anno scolastico sono arrivati trenta milioni di euro sotto forma di dote. La scelta del leghista Roberto Maroni è stata copiata dal compagno di partito Luca Zaia.
Il governatore veneto ha messo sul tavolo 42 milioni (21 per gli asili nido e altrettanti per le scuole d’infanzia) con questa motivazione: «Il Governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alle comunità parrocchiali e congregazionali. In Veneto non cerchiamo e non vogliamo nessuna alternativa».
PRIMA GLI ULTIMI
Non sempre vince il malaffare. Oltre ai predatori voraci e governatori generosi, non mancano le buone pratiche: inclusione sociale, esperienze di eccellenza e una visone moderna dell’insegnamento.
A Rimini il centro educativo italo-svizzero (Ceis) è stato fondato nel dopoguerra dal Soccorso operaio elvetico. Una istituzione privata laica che col tempo è diventata un modello: niente cattedre, orari flessibili e classi che gestircono in autonomia le lezioni per oltre 350 bambini fino a dieci anni. Di questi, cinquanta hanno una qualche forma di disabilità, oltre il triplo di una scuola pubblica.
Un’attenzione simile a quella riservata dall’Istituto per le arti grafiche di Trento, di proprietà della congregazione dei Figli di Maria Immacolata, ma finanziata interamente dalla Provincia.
È normale trovare in ogni classe almeno un paio di ragazzi con handicap. «Il dualismo normalità-disabilità va superato», afferma il direttore Erik Gadoni: «Ognuno può portare un contributo al gruppo in cui è inserito». Ottimi i risultati anche sul fronte dell’autismo. Rudy è un ragazzo con la sindrome di Asperger: quando entrò la prima volta si nascondeva sotto il banco. Grazie un percorso ad hoc allargato alla famiglia e ai compagni, la sua capacità relazionale è migliorata.
E adesso Rudy ha lasciato Trento per iscriversi all’università. Una vita normale, dopo cinque anni e tanti investimenti per la sua educazione. A buon fine.
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