L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale. La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»
Guido Viale
A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai - ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana, come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori. Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa); l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo. Infine violenza da stadio e intolleranza antislamica («vadano a pregare e pisciare nel deserto» per riprendere l'invito dell'ex-sindaco di Treviso) avevano già trovato una felice sintesi nella trasformazione di una tifoseria nelle milizie che hanno poi massacrato migliaia di cittadini islamici nella Bosnia di Arkan, Karadzic e Mladic. Ceramente in Italia alcuni di questi fenomeni presentano caratteri estremi e anticipatori; ma molti altri, ascrivibili alla medesima «temperie», cioè alla barbarie, registrano altrettanto considerevoli ritardi. Il fatto è che con la globalizzazione «la Storia» ha ormai preso a procedere in ordine sparso.
L'alibi italiano
L'antiberlusconismo, visto sotto questa luce, è stato e resta un alibi per evitare di fare i conti con la realtà: continuiamo ad accreditare a uno degli uomini più ridicoli della terra le doti di demiurgo che lui si attribuisce: quasi fosse lui, insieme alla sua corte di azzeccagarbugli, «veline» e trafficanti, e non viceversa, ad aver forgiato il carattere di quella maggioranza che regolarmente lo vota, rivota e osanna; nonostante tutti i fiaschi a cui è andato incontro e di cui ha già fornito ampie prove. E' lui, invece, a essere lo specchio e il punto di convergenza non solo delle aspirazioni, ma anche e soprattutto del modo di ragionare, di una moltitudine che va ben al di là del recinto dei suoi fan, o degli elettori del centrodestra; per abbracciare anche la parte preponderante di quel che sta alla sua sinistra e, soprattutto, del ceto politico da cui essa dovrebbe essere rappresentata.
Basta uscire dalla pista del circo a cui i media inchiodano giorno dopo giorno il discorso politico (le diatribe tra maggioranza e «opposizione») per imbattersi in una sostanziale identità di vedute: se non generale, sufficientemente diffusa da rendere impraticabile l'enucleazione di una qualsiasi alternativa. Si guardi, per esempio, al modo in cui l'universo mondo politico ha acclamato Berlusconi per aver «risolto» il problema dei rifiuti in Campania: in sostanza, facendo suoi i pochi risultati raggiunti dal governo precedente (lo sgombero delle strade) e prescrivendo di ricoprire di discariche l'intera regione, come se la Campania non ne avesse già ospitate abbastanza: di lecite e non; portando peraltro al governo del paese e del suo partito uomini oggi indicati come i referenti diretti della camorra casalese, regina incontrastata della gestione criminale dei rifiuti; il tutto in attesa dei mitici inceneritori, pagati «mettendo le mani nelle tasche» degli italiani con la bolletta elettrica e su alcuni dei quali la camorra ha già messo le mani prima ancora che vengano costruiti. E che comunque, come è successo a quello di Acerra sotto il suo precedente governo, arriveranno tra molti anni, o forse mai.
Questa incontestabile aura di successo, che non solo sfida, ma persino si alimenta dei continui fiaschi totalizzati dai suoi governi - l'attuale e i precedenti - sembra aver trovato una spiegazione, proposta e accolta da due editorialisti di Repubblica, in una sorta di format in cui Berlusconi, anche grazie al controllo dei media, è riuscito a imbrigliare il discorso politico: le cose presentate come positive sono merito suo; i suoi fallimenti sono colpa dell'opposizione o del precedente governo (cioè dei «comunisti»). Ma questa, come molte altre spiegazioni simili, elude il problema centrale, che è quello della barbarie: un problema che è sociale e culturale assai più che politico.
La grande resa pubblica
E' indubbio che i media, e soprattutto le sue cinque televisioni, che Prodi non aveva nemmeno cercato di scalfire, hanno e hanno avuto un peso fondamentale nel forgiare, ormai da un quarto di secolo, il carattere degli italiani. Berlusconi ha insediato al potere una nomenclatura e imposto un controllo dell'informazione da fare invidia al defunto potere sovietico. Vista sotto questa luce, la riforma dell'istruzione è stata realizzata da tempo, ben prima di quella, mai avviata, dell'ex ministro Moratti (Inglese, informatica e impresa: nessuno ne parla più) o di quella dal ministro Gelmini (grembiulini, cinque in condotta e 50 allievi per classe). Oggi la cultura degli italiani è quella prodotta dalla Tv: che i giornali del giorno dopo non fanno che ricalcare, e la scuola a subire, facendo come se la televisione non esistesse. Perché nessun preside, nessun insegnante, nessuna sperimentazione ha gli strumenti per confrontarsi con essa. E il ministero dell'istruzione non sarà mai tale fino a quando non avrà accordato ai programmi scolastici - rivisti - l'intero palinsesto, per lo meno della televisione pubblica.
Forse la barbarie sta proprio qui: nella resa della scuola, ma anche della politica e del mondo della cultura, di fronte a questa trasmissione unidirezionale di contenuti (o di non contenuti) culturali, perché sono venuti meno strumenti e condizioni per costruire, prima ancora che per trasmettere, una visione del mondo diversa, che si sottragga alla barbarie del presente: anche solo qualche brandello di una o più concezioni alternative al «pensiero unico» di cui è ormai impregnata la nostra vita quotidiana.
Come uscirne? Nessuno lo sa e se qualcuno crede di saperlo probabilmente è già fuori strada. Molti si aspettano la salvezza da dio. Se a suggerire che «ormai solo un dio può salvarci» era stato il più ateo dei filosofi del secolo scorso, milioni di suoi inconsapevoli seguaci corrono oggi a frotte a ripararsi sotto lo scudo della religione: di una delle tante religioni, non più percepite come veicoli di un rapporto con il trascendente, quanto come legittimazione identitaria della propria collocazione all'interno della barbarie generale. La vicenda degli «atei devoti» è, da questo punto di vista, estremamente esemplare. Quella dei «kamikaze» islamici, all'estremo opposto, anche.
Il fatto è che in un mondo di macerie, come quello prodotto dalle devastazioni della barbarie imperante, le condizioni per costruire una nuova dimora, cioè una diversa vivibilità, o una vivibilità tout court, debbono essere realizzate a partire dalle fondamenta, con i materiali che quelle macerie ci mettono a disposizione, e nei luoghi in cui già siamo o ci ritroviamo gettati. Ma che cosa può essere mai questa nuova dimora? Può essere la rete di relazioni in cui ciascuno di noi è inserito, adattata e trasformata per farne uno strumento di verifica, di trasmissione, e poi di controllo delle proprie condizioni di esistenza; in forme e modalità condivise. Troppo astratto? Certamente sì. Ma se ne possono ricavarne alcune regole per orientarsi nel mare della barbarie contemporanea.
«Piccole» vie d'uscita
Verifica, che vuol dire innanzitutto trasparenza. Ovunque il segreto, che sia politico, militare, industriale o amministrativo, è il nemico principale della verità; più di quanto lo sia la menzogna. Il solo limite legittimo che può - ma non necessariamente deve - incontrare è dato dalla riservatezza sulla propria vita personale.
Trasmissione, per dotarsi di mezzi propri con cui metterci in comunicazione con gli altri. La tecnologia della rete ha creato l'illusione che questi mezzi siano già a disposizione di tutti, o quasi. Ma non è così: c'è una dimensione della vita associata che non passa e non passerà mai attraverso la «Rete». E' la dimensione del contatto fisico, della verifica dello sguardo, del rapporto con ciò che resta della natura, dell'organizzazione materiale dei nostri spostamenti e dei nostri incontri, della necessità di non sottrarsi alle difficoltà, alla fatica, all'imbarazzo, al lutto, al dolore che il mondo reale impone e continuamente ripropone e che il mondo virtuale permette invece di eludere con la semplice pressione di un tasto: ciò che continua a distinguere irrevocabilmente, a dispetto di tante teorizzazioni, questi due universi. Prima di crollare - per poi ricostituirsi sotto l'egida di una versione particolarmente autoritaria del pensiero unico - l'universo sovietico era stato minato dall'interno dal samizdat: una rete di elaborazione e di trasmissione dell'informazione e del pensiero indipendente, veicolati attraverso contatti personali e testi dattiloscritti progressivamente estesa a tutti gli angoli e a tutti gli ambiti dell'impero. Oggi, di fronte alla «temperie culturale» imposta dalla barbarie imperante, a tutti noi si ripropone la stessa sfida, anche se gli strumenti di questa trasmissione non saranno più la macchina da scrivere e la carta copiativa, ma il web o la fotocopiatrice.
Controllo, che vuol dire condivisione. Dall'alto si controlla per linee gerarchiche; dal basso solo trovando un punto di incontro tra soggetti, interessi, visioni e condizioni di partenza differenti. Per questo la trasparenza è così importante: su questioni di comune interesse si possono anche fare patti con il diavolo; a condizione di sapere chi è; e che tutti sappiano quali patti e tra chi sono intercorsi. Più si amplia la gamma delle differenze che concorrono al perseguimento di uno stesso obiettivo, più diventa difficile per chiunque se ne mantenga estraneo sottrarsi a una verifica pubblica delle proprie scelte. E' questa la molla che alimenta la voglia di partecipazione: di costruire e far vivere sedi di consultazione e confronto tra le parti in causa - i cosiddetti stakeholder - quali ambiti di elaborazione e trasmissione di una cultura autonoma. Certo, prima che un processo del genere arrivi a influenzare i centri di comando delle strutture, delle istituzioni e dei meccanismi che governano il mondo la strada da percorrere è molto lunga. Ma quella indicata non è una astratta procedura formale, ma un processo in cui forma e contenuti procedono di pari passo: proprio quello che manca da tempo, e sempre più, alle strutture della democrazia rappresentativa.
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I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
9.10.08
La disfatta del mercato
Marco d'Eramo
Sbilanciamoci: dopo il dibattito dell'altra notte, John McCain perderà queste elezioni e Barack Obama sarà il primo presidente afro-americano degli Stati uniti (sempre che Dick Cheney non ci riservi un bell'attacco all'Iran o che Osama Bin Laden non ci regali un bell'attentato preelettorale).
Ma questa buona notizia è bilanciata da una pessima, e cioè che anche Obama sembra del tutto sconnesso dal mondo reale. Sia lui che John McCain hanno ripetuto, invariate, le loro proposte economiche, come se nulla fosse successo da tre mesi a questa parte. Hanno ammesso che la situazione è seria, ma poi hanno rifritto la stessa solfa, facendo a gara a chi taglia più tasse, come se nel frattempo la situazione non fosse precipitata. Altro che New Deal! sono apparsi del tutto inadeguati all'immanità del compito che li attende. Come se non si rendessero conto della minaccia che incombe sul mondo. Perché, se invece se ne rendono conto, allora non hanno idea di come farvi fronte, prigionieri come sono ambedue dell'ortodossia liberista, per cui l'unico strumento di politica economica a disposizione dello stato è quello di diminuire le tasse e aumentare l'offerta di moneta, o stampandola o allentando il credito.
A loro attenuante, va detto che tutta la classe politica occidentale - ministri dell'economia e banche centrali - è prigioniera della stessa bigotteria monetarista. L'unica definizione possibile dell'integralismo è questa: se una filosofia, ideologia, dottrina economica fallisce miseramente, fondamentalista è colui che attribuisce questo fallimento non alla filosofia, alla dottrina, all'ideologia, ma al fatto che essa è stata applicata male o solo parzialmente. Visto che il libero mercato ha fallito, il fondamentalista dice: c'era troppo stato, bisogna ridurlo ancora (tagliare le tasse rende lo stato più debole).
È questo fondamentalismo di mercato che oggi vediamo in azione. Le banche centrali stanno facendo tutto, e solo quello, che la dottrina liberista consente loro. E più le loro azioni falliscono, più si rinsaldano nelle loro convinzioni.
Un po' di storia: gli anni '70 segnarono la fine di un'epoca, quella del keynesismo e della sua versione politica, la socialdemocrazia in Europa e il New Deal in America. Il keynesismo fu scalzato perché le sue ricette si rivelarono incapaci di guarire la stagflazione (allora fu inventato questo termine) provocata dalla rottura degli accordi di Bretton Woods e dalla conseguente crisi petrolifera. Nell'olimpo delle dottrine economiche, John Maynard Keynes fu spodestato e Milton Fridman assurse a profeta dei nuovi missionari, i Chicago Boys, che diffusero il suo verbo in tutto il mondo, a cominciare dal Cile del generale Pinochet. E a Washington prese il potere la cinghia di trasmissione politica del liberismo, cioè quel Ronald Reagan che fece della deregulation il vangelo dell'occidente.
La crisi attuale è l'equivalente, simmetrico e inverso degli anni '70: è la fine di un paradigma (nel senso in cui Thomas Kuhn ne parlò nel suo libro sulle rivoluzioni scientifiche).
La bufera del 2007-2008 rappresenta per il liberismo quel che i '70 furono per il keynesismo: una disfatta totale. Verifichiamo oggi la totale inefficacia delle misure monetarie per invertire il corso dell'economia reale. Se pure salviamo le banche e tuteliamo i mutui, nulla cambierà l'incontrovertibile realtà, e cioè che se non cresce il potere d'acquisto della maggioranza, l'economia non può ripartire. Ma da 20 anni il liberismo ci ha promesso che tutti avremmo potuto prosperare con salari più bassi, pensioni più striminzite, lavori più precari, licenziamenti più facili. Ora a questi stessi disoccupati, o occupati part-time, o Cococo, si chiede di far ripartire l'economia, cioè di consumare di più, comprare di più. Ma con che soldi? Per sette anni l'amministrazione Bush ci ha fornito una sola risposta: coi «buffi», facendo debiti, con carte di credito regalate come noccioline, con case comprate a ufo e ipotecate per ottenere liquidi con cui andare in vacanza. Ricordate l'infame esortazione di Bush agli americani dopo l'11 settembre: «Go shopping»? E certo che con stipendi bassi, saltuari e precari, l'unico modo per spendere è indebitarsi. Ora il rubinetto del credito si è chiuso. L'unico modo per far ripartire l'economia sarebbe creare lavori reali con stipendi reali, cioè varare in tutto il mondo grandi programmi di lavori pubblici, come fece non solo il New Deal di Roosevelt (la Tennessee Valley Authority), ma anche la Germania nazista di Schacht (il sistema autostradale tedesco), l'Italia fascista di Mussolini (le paludi pontine) e perfino l'America post bellica di Ike Eisenhower con la gigantesca rete autostradale statunitense.
Invece i nostri leader continuano a pensare che basti salvare le banche, le borse, gli azionisti perché tutto si aggiusti. Sarà impietoso, ma è il caso di ricordare il giudizio data sull'economia monetarista da un uomo che certo non può essere sospettato di simpatie progressiste (all'epoca era capo della Cia) , l'ex presidente George Bush, padre dell'attuale presidente, che definì la supply side economy «economia vudu». E infatti sembra che ai nostri banchieri e ministri non resti altro da fare che una bella danza propiziatoria o un bel pellegrinaggio a Lourdes, come Benedetto XVI non fa che ripetere.
ilmanifesto.it
Sbilanciamoci: dopo il dibattito dell'altra notte, John McCain perderà queste elezioni e Barack Obama sarà il primo presidente afro-americano degli Stati uniti (sempre che Dick Cheney non ci riservi un bell'attacco all'Iran o che Osama Bin Laden non ci regali un bell'attentato preelettorale).
Ma questa buona notizia è bilanciata da una pessima, e cioè che anche Obama sembra del tutto sconnesso dal mondo reale. Sia lui che John McCain hanno ripetuto, invariate, le loro proposte economiche, come se nulla fosse successo da tre mesi a questa parte. Hanno ammesso che la situazione è seria, ma poi hanno rifritto la stessa solfa, facendo a gara a chi taglia più tasse, come se nel frattempo la situazione non fosse precipitata. Altro che New Deal! sono apparsi del tutto inadeguati all'immanità del compito che li attende. Come se non si rendessero conto della minaccia che incombe sul mondo. Perché, se invece se ne rendono conto, allora non hanno idea di come farvi fronte, prigionieri come sono ambedue dell'ortodossia liberista, per cui l'unico strumento di politica economica a disposizione dello stato è quello di diminuire le tasse e aumentare l'offerta di moneta, o stampandola o allentando il credito.
A loro attenuante, va detto che tutta la classe politica occidentale - ministri dell'economia e banche centrali - è prigioniera della stessa bigotteria monetarista. L'unica definizione possibile dell'integralismo è questa: se una filosofia, ideologia, dottrina economica fallisce miseramente, fondamentalista è colui che attribuisce questo fallimento non alla filosofia, alla dottrina, all'ideologia, ma al fatto che essa è stata applicata male o solo parzialmente. Visto che il libero mercato ha fallito, il fondamentalista dice: c'era troppo stato, bisogna ridurlo ancora (tagliare le tasse rende lo stato più debole).
È questo fondamentalismo di mercato che oggi vediamo in azione. Le banche centrali stanno facendo tutto, e solo quello, che la dottrina liberista consente loro. E più le loro azioni falliscono, più si rinsaldano nelle loro convinzioni.
Un po' di storia: gli anni '70 segnarono la fine di un'epoca, quella del keynesismo e della sua versione politica, la socialdemocrazia in Europa e il New Deal in America. Il keynesismo fu scalzato perché le sue ricette si rivelarono incapaci di guarire la stagflazione (allora fu inventato questo termine) provocata dalla rottura degli accordi di Bretton Woods e dalla conseguente crisi petrolifera. Nell'olimpo delle dottrine economiche, John Maynard Keynes fu spodestato e Milton Fridman assurse a profeta dei nuovi missionari, i Chicago Boys, che diffusero il suo verbo in tutto il mondo, a cominciare dal Cile del generale Pinochet. E a Washington prese il potere la cinghia di trasmissione politica del liberismo, cioè quel Ronald Reagan che fece della deregulation il vangelo dell'occidente.
La crisi attuale è l'equivalente, simmetrico e inverso degli anni '70: è la fine di un paradigma (nel senso in cui Thomas Kuhn ne parlò nel suo libro sulle rivoluzioni scientifiche).
La bufera del 2007-2008 rappresenta per il liberismo quel che i '70 furono per il keynesismo: una disfatta totale. Verifichiamo oggi la totale inefficacia delle misure monetarie per invertire il corso dell'economia reale. Se pure salviamo le banche e tuteliamo i mutui, nulla cambierà l'incontrovertibile realtà, e cioè che se non cresce il potere d'acquisto della maggioranza, l'economia non può ripartire. Ma da 20 anni il liberismo ci ha promesso che tutti avremmo potuto prosperare con salari più bassi, pensioni più striminzite, lavori più precari, licenziamenti più facili. Ora a questi stessi disoccupati, o occupati part-time, o Cococo, si chiede di far ripartire l'economia, cioè di consumare di più, comprare di più. Ma con che soldi? Per sette anni l'amministrazione Bush ci ha fornito una sola risposta: coi «buffi», facendo debiti, con carte di credito regalate come noccioline, con case comprate a ufo e ipotecate per ottenere liquidi con cui andare in vacanza. Ricordate l'infame esortazione di Bush agli americani dopo l'11 settembre: «Go shopping»? E certo che con stipendi bassi, saltuari e precari, l'unico modo per spendere è indebitarsi. Ora il rubinetto del credito si è chiuso. L'unico modo per far ripartire l'economia sarebbe creare lavori reali con stipendi reali, cioè varare in tutto il mondo grandi programmi di lavori pubblici, come fece non solo il New Deal di Roosevelt (la Tennessee Valley Authority), ma anche la Germania nazista di Schacht (il sistema autostradale tedesco), l'Italia fascista di Mussolini (le paludi pontine) e perfino l'America post bellica di Ike Eisenhower con la gigantesca rete autostradale statunitense.
Invece i nostri leader continuano a pensare che basti salvare le banche, le borse, gli azionisti perché tutto si aggiusti. Sarà impietoso, ma è il caso di ricordare il giudizio data sull'economia monetarista da un uomo che certo non può essere sospettato di simpatie progressiste (all'epoca era capo della Cia) , l'ex presidente George Bush, padre dell'attuale presidente, che definì la supply side economy «economia vudu». E infatti sembra che ai nostri banchieri e ministri non resti altro da fare che una bella danza propiziatoria o un bel pellegrinaggio a Lourdes, come Benedetto XVI non fa che ripetere.
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8.10.08
Usa, i sette errori del capitalismo
Le cifre: 51 mila miliardi di dollari di debito contro 14 mila di Pil: peggio che nella Grande Depressione. I manager: Per i capi delle imprese il guadagno da stock options è salito da 3,5 milioni del 1992 a 14,8 milioni
Eccesso di debito, mutui, innovazioni finanziarie Il doppio via libera alle banche d'investimento
Martedì 7 ottobre 2008, mentre il governo britannico vara aiuti straordinari per 50 miliardi di sterline alle banche in caduta libera al London Stock Exchange, da Lisbona arriva la notizia che il Banco Best offre un interesse speciale dell’8% sui depositi a chi indovinerà il nome del futuro presidente degli Stati Uniti. Sembra una stranezza e invece segnala l’attesa dell’unica novità capace di proporre nuovi rimedi ai sette eccessi del capitalismo contemporaneo e, forse, di far cambiare idea al capo economista del Financial Times, Martin Wolf, che scrive: «Stiamo assistendo alla disintegrazione del sistema finanziario».
La locomotiva del debito
L’eccesso di debito è il peccato globale. Al 30 giugno 2008, il debito aggregato degli Stati Uniti (famiglie, imprese, banche e pubbliche amministrazioni) supera i 51mila miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di 14 mila miliardi. The Economist aggiunge che l’incidenza percentuale del debito aggregato sul Pil americano, ora pari al 358%, è raddoppiata rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta ed è superiore perfino a quella della Grande Depressione. Il segreto della crescita della Corporate America è il debito che finanzia soprattutto i consumi. Che abbia copiato dall'Italia da bere degli anni Ottanta? Come ha notato Marco Fortis sul Foglio, i salvataggi ai quali è ora obbligato il governo Usa si mangiano tutto il vantaggio che l’economia americana aveva mostrato negli ultimi 4-5 anni rispetto a quella europea. E quando il granello di sabbia delle insolvenze dei subprime si è infilato nell’ingranaggio, il motore si è fermato. L’Italia è cresciuta meno, ma ha un debito globale che è pari a due volte il Pil. Ed è una provincia debole di Eurolandia. Qual è il sistema più sano?
La centralità della finanza
Alla crescita del debito il contributo maggiore l’hanno dato i mutui immobiliari e il settore finanziario (Martin Wolf, Paulson’s plan was not a true solution to the crisis, Financial Times, 23 settembre 2008). L’esposizione della finanza è passata da 21% del Pil, nel 1980, al 116% nel 2007. Del resto, la finanza ha dato una spinta crescente ai profitti. Tra il 1946 e il 1950, procurava il 9,5% degli utili. Nel 2002 è arrivata al 45% per riaggiustarsi a un comunque rotondo 33% nel 2006 non tanto per un suo calo quanto per la crescita degli altri settori (Ronald Dore, Financialization of the Global Economy, prossima pubblicazione). Quando i tassi d’interesse sono decrescenti, e in certi periodi addirittura negativi se depurati dall’inflazione e dai risparmi fiscali, il debito «costa» assai meno del capitale, al quale andrebbe riconosciuto il rendimento dei titoli di Stato più un premio al rischio. Conviene dunque ricorrere il più possibile al denaro degli altri. Usando il debito come leva, si ottiene il duplice effetto di aumentare a dismisura il rendimento dei capitali propri impiegati e di moltiplicare le attività. La scoperta, a dire il vero, non è recente. Già nel 1913 il futuro giudice della Corte Suprema, Louis Brandeis, ne faceva oggetto di una critica radicale. Ma allora come oggi ci è voluta una Grande Crisi per capire che i debiti hanno un costo certo mentre al capitale può anche essere negato il dividendo, e che i debiti fatti per consumare facendo il passo più lungo della gamba hanno una qualità inferiore a quelli accesi per lavorare e produrre reddito. Nel primo caso, l’insolvenza è dietro l’angolo. Ma per anni e anni si è pensato che questo fosse un rischio del passato.
Il mito dell’innovazione finanziaria
Il primo Cdo (Collateralized debt obligation) risale al 1987. Da allora è stata una fioritura senza fine di innovazioni finanziarie che hanno fatto credere ai loro inventori, matematici privi di filosofia benché talvolta premiati con il Nobel, come Merton e Scholes, di aver trovato la pietra filosofale del secolo XX. Costoro hanno studiato complicati algoritmi in base ai quali costruire portafogli immunizzati, e cioè esposti a un rischio complessivo inferiore a quello dei singoli titoli che racchiudono. I modelli matematici giocano su tre fattori: la diversificazione dei titoli, la scarsa correlazione dei rischi relativi e la diversità delle scadenze che consente di articolare nel tempo i flussi di cassa. Gli innovatori hanno creduto di poter elevare così il rendimento del capitale investito in queste strutture sintetiche senza elevare in proporzione il rischio. I banchieri ci hanno creduto volentieri. Le banche maggiori hanno ridotto gli impieghi classici e si sono imbottite di questi strumenti. Confidando sugli algoritmi, non hanno di pari passo irrobustito il patrimonio. Anzi.Ma i rischi si possono spostare, non cancellare. E al dunque ritornano. A spese loro e soprattutto degli altri, i banchieri possono rimeditare gli studi classici: chi sfida la legge divina pecca di hybris e diventa vittima dello phronos zeon, l’ira degli dei.
L'esaltazione del Roe
La fede nell’illimitata sostenibilità del debito ha alimentato l’attesa di ritorni sempre più alti sul capitale investito dai soci (Roe, return on equity). Negli ultimi 11 anni, le società del S&P 500 Index hanno distribuito agli azionisti, sotto forma di dividendi e acquisti di azioni proprie, ben 4200 miliardi di dollari. Ben 22 delle prime 50 principali società hanno distribuito più dell’utile e altre 8 tra il 90 e il 99% delmedesimo (William Lazonick, The Quest of Shareholder Value, settembre 2008). Un autentico saccheggio delle imprese che, in molti casi, avevano goduto di varie forme di sussidio statale. Un’operazione che ha indebolito la propensione all’investimento, come nel caso della Exxon, e alla spesa in ricerca e sviluppo, come nel caso della Microsoft e delle altre imprese high tech, che hanno investito nella riduzione del capitale, addirittura indebitandosi, multipli di quanto hanno speso nei laboratori. Tra le 50 imprese che più si sono distinte in quest’opera di autodistruzione spiccano tutte e cinque investment banks di Wall Street, le due prime banche commerciali d’America e Fannie Mae (Freddie Mac è al 53esimo posto). Nel periodo 2000-2007 queste otto banche hanno speso 174 miliardi di dollari per ridurre il proprio capitale. Potremmo dire: un gigantesco insider trading legalizzato il più delle volte a sostegno dei corsi azionari nei periodi di esercizio delle stock options da parte dei manager. Non l’avessero fatto, oggi le banche d’investimento sarebbero ancora su piazza.
L’estremismo della deregulation
Gli eccessi delle banche d’investimento sono stati possibili perché il Congresso e il Senato hanno abolito nel 1999, con decisione bipartigiana, il Glass Steagall Act che dagli anni Trenta vietava la commistione tra banche commerciali e banche d’affari e d’investimento. E poi perché nel 2001, una volta ottenuta la sorveglianza delle banche non commerciali, la Sec guidata dal repubblicano Christopher Cox ha concesso alle big five di Wall Street il diritto di autoregolare i propri rischi. Il ricorso al debito si è fatto così sempre più imponente: prima ci voleva un dollaro di capitale per ogni 6-7 di investimento, poi lo stesso dollaro bastava per 30-40. L’autoregolazione ha pure consentito alle banche di tenere fuori bilancio entità da esse stesse promosse e finanziate allo scopo di acquistare titoli variamente innovativi nel presupposto che era loro interesse vagliare la serietà del creditore. Queste tre scelte non sono errori, ma decisioni politiche esaltate come segno di modernità da stuoli di economisti che non si pongono mai il problema dei conflitti d’interesse impliciti nell’accumularsi dei mestieri. Regolare dopo aver deregolato non è facile, specialmente se a farlo sono le stesse persone.
Il breve termine
La deregolazione per favorire l’incessante negoziazione dei titoli ha sempre più focalizzato la gestione delle imprese sul breve termine. È stato coniato perfino un neologismo anglicizzante: shortermismo. Naturalmente tutti i top manager negano di essere shortermisti: la cosa parrebbe gretta e poco lungimirante. Ma con le relazioni trimestrali sulla base delle quali, a Wall Street, si erogano i dividendi e si riconsiderano i «fondamentali » del titolo e con i principi contabili basati sul fair value e sul mark to market (il valore al quale si può compravendere un bene e le quotazioni correnti) gli andamenti a breve termine condizionano come mai in passato. E poiché è chiaro il loro effetto pro ciclico, i gerenti sono incentivati a fare tutto quanto può far salire domani il titolo al quale sono legati i propri compensi. Nel 1864 il banchiere Rothschild discuteva con il ministro Minghetti delle disastrate finanze del Regno d’Italia avendo come orizzonte gli anni. I suoi epigoni americani hanno per orizzonte i giorni e parlano con i loro simili, via computer, 24 ore su 24. Ai primi serviva sapere di economia certo, ma anche di politica e cultura. Ai secondi bastano i modelli matematici. La professione del banchiere si è impoverita. Ma il banchiere è diventato più ricco. E con lui tutto il ceto dei capi-azienda.
La diseguaglianza
Legare in modo meccanico e crescente le remunerazioni dei top manager al rendimento del capitale ha accresciuto le diseguaglianze. Tra i capi delle imprese dello S&P 500 Index, il guadagno da stock options è salito da una media pro capite di 3,5 milioni di dollari del 1992 a un picco di 14,8 milioni nel 2000 per assestarsi sugli 8,7milioni nel 2003. Nell’illuminata Ibm i guadagni da stock options dei 5 primi dirigenti sono stati pari a 689 volte quello del dipendente medio. Più in generale il rapporto tra la paga media degli amministratori delegati delle maggiori imprese americane e quella dei dipendenti è volato dalle 42 volte del 1980 alle 107 volte del 1990 fino al record di 525 volte del 2000 per scendere a 364 volte nel 2006. Dietro la durezza con la quale i membri del Congresso interrogavano il banchiere Dick Fuld della Lehman Brothers c’è la consapevolezza che questo gioco non è più accettabile per il cittadinomedio americano la cui ricchezza netta, già minore di quella del cittadino medio italiano, sta in buona parte evaporando legata com’è alla Borsa. Ma è inutile chiedere al bancarottiere, come pure si è fatto, quali dovrebbero essere le regole per rimediare. Lo dovrà dire il nuovo presidente degli stati Uniti.
Massimo Mucchetti
corriere.it
Eccesso di debito, mutui, innovazioni finanziarie Il doppio via libera alle banche d'investimento
Martedì 7 ottobre 2008, mentre il governo britannico vara aiuti straordinari per 50 miliardi di sterline alle banche in caduta libera al London Stock Exchange, da Lisbona arriva la notizia che il Banco Best offre un interesse speciale dell’8% sui depositi a chi indovinerà il nome del futuro presidente degli Stati Uniti. Sembra una stranezza e invece segnala l’attesa dell’unica novità capace di proporre nuovi rimedi ai sette eccessi del capitalismo contemporaneo e, forse, di far cambiare idea al capo economista del Financial Times, Martin Wolf, che scrive: «Stiamo assistendo alla disintegrazione del sistema finanziario».
La locomotiva del debito
L’eccesso di debito è il peccato globale. Al 30 giugno 2008, il debito aggregato degli Stati Uniti (famiglie, imprese, banche e pubbliche amministrazioni) supera i 51mila miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di 14 mila miliardi. The Economist aggiunge che l’incidenza percentuale del debito aggregato sul Pil americano, ora pari al 358%, è raddoppiata rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta ed è superiore perfino a quella della Grande Depressione. Il segreto della crescita della Corporate America è il debito che finanzia soprattutto i consumi. Che abbia copiato dall'Italia da bere degli anni Ottanta? Come ha notato Marco Fortis sul Foglio, i salvataggi ai quali è ora obbligato il governo Usa si mangiano tutto il vantaggio che l’economia americana aveva mostrato negli ultimi 4-5 anni rispetto a quella europea. E quando il granello di sabbia delle insolvenze dei subprime si è infilato nell’ingranaggio, il motore si è fermato. L’Italia è cresciuta meno, ma ha un debito globale che è pari a due volte il Pil. Ed è una provincia debole di Eurolandia. Qual è il sistema più sano?
La centralità della finanza
Alla crescita del debito il contributo maggiore l’hanno dato i mutui immobiliari e il settore finanziario (Martin Wolf, Paulson’s plan was not a true solution to the crisis, Financial Times, 23 settembre 2008). L’esposizione della finanza è passata da 21% del Pil, nel 1980, al 116% nel 2007. Del resto, la finanza ha dato una spinta crescente ai profitti. Tra il 1946 e il 1950, procurava il 9,5% degli utili. Nel 2002 è arrivata al 45% per riaggiustarsi a un comunque rotondo 33% nel 2006 non tanto per un suo calo quanto per la crescita degli altri settori (Ronald Dore, Financialization of the Global Economy, prossima pubblicazione). Quando i tassi d’interesse sono decrescenti, e in certi periodi addirittura negativi se depurati dall’inflazione e dai risparmi fiscali, il debito «costa» assai meno del capitale, al quale andrebbe riconosciuto il rendimento dei titoli di Stato più un premio al rischio. Conviene dunque ricorrere il più possibile al denaro degli altri. Usando il debito come leva, si ottiene il duplice effetto di aumentare a dismisura il rendimento dei capitali propri impiegati e di moltiplicare le attività. La scoperta, a dire il vero, non è recente. Già nel 1913 il futuro giudice della Corte Suprema, Louis Brandeis, ne faceva oggetto di una critica radicale. Ma allora come oggi ci è voluta una Grande Crisi per capire che i debiti hanno un costo certo mentre al capitale può anche essere negato il dividendo, e che i debiti fatti per consumare facendo il passo più lungo della gamba hanno una qualità inferiore a quelli accesi per lavorare e produrre reddito. Nel primo caso, l’insolvenza è dietro l’angolo. Ma per anni e anni si è pensato che questo fosse un rischio del passato.
Il mito dell’innovazione finanziaria
Il primo Cdo (Collateralized debt obligation) risale al 1987. Da allora è stata una fioritura senza fine di innovazioni finanziarie che hanno fatto credere ai loro inventori, matematici privi di filosofia benché talvolta premiati con il Nobel, come Merton e Scholes, di aver trovato la pietra filosofale del secolo XX. Costoro hanno studiato complicati algoritmi in base ai quali costruire portafogli immunizzati, e cioè esposti a un rischio complessivo inferiore a quello dei singoli titoli che racchiudono. I modelli matematici giocano su tre fattori: la diversificazione dei titoli, la scarsa correlazione dei rischi relativi e la diversità delle scadenze che consente di articolare nel tempo i flussi di cassa. Gli innovatori hanno creduto di poter elevare così il rendimento del capitale investito in queste strutture sintetiche senza elevare in proporzione il rischio. I banchieri ci hanno creduto volentieri. Le banche maggiori hanno ridotto gli impieghi classici e si sono imbottite di questi strumenti. Confidando sugli algoritmi, non hanno di pari passo irrobustito il patrimonio. Anzi.Ma i rischi si possono spostare, non cancellare. E al dunque ritornano. A spese loro e soprattutto degli altri, i banchieri possono rimeditare gli studi classici: chi sfida la legge divina pecca di hybris e diventa vittima dello phronos zeon, l’ira degli dei.
L'esaltazione del Roe
La fede nell’illimitata sostenibilità del debito ha alimentato l’attesa di ritorni sempre più alti sul capitale investito dai soci (Roe, return on equity). Negli ultimi 11 anni, le società del S&P 500 Index hanno distribuito agli azionisti, sotto forma di dividendi e acquisti di azioni proprie, ben 4200 miliardi di dollari. Ben 22 delle prime 50 principali società hanno distribuito più dell’utile e altre 8 tra il 90 e il 99% delmedesimo (William Lazonick, The Quest of Shareholder Value, settembre 2008). Un autentico saccheggio delle imprese che, in molti casi, avevano goduto di varie forme di sussidio statale. Un’operazione che ha indebolito la propensione all’investimento, come nel caso della Exxon, e alla spesa in ricerca e sviluppo, come nel caso della Microsoft e delle altre imprese high tech, che hanno investito nella riduzione del capitale, addirittura indebitandosi, multipli di quanto hanno speso nei laboratori. Tra le 50 imprese che più si sono distinte in quest’opera di autodistruzione spiccano tutte e cinque investment banks di Wall Street, le due prime banche commerciali d’America e Fannie Mae (Freddie Mac è al 53esimo posto). Nel periodo 2000-2007 queste otto banche hanno speso 174 miliardi di dollari per ridurre il proprio capitale. Potremmo dire: un gigantesco insider trading legalizzato il più delle volte a sostegno dei corsi azionari nei periodi di esercizio delle stock options da parte dei manager. Non l’avessero fatto, oggi le banche d’investimento sarebbero ancora su piazza.
L’estremismo della deregulation
Gli eccessi delle banche d’investimento sono stati possibili perché il Congresso e il Senato hanno abolito nel 1999, con decisione bipartigiana, il Glass Steagall Act che dagli anni Trenta vietava la commistione tra banche commerciali e banche d’affari e d’investimento. E poi perché nel 2001, una volta ottenuta la sorveglianza delle banche non commerciali, la Sec guidata dal repubblicano Christopher Cox ha concesso alle big five di Wall Street il diritto di autoregolare i propri rischi. Il ricorso al debito si è fatto così sempre più imponente: prima ci voleva un dollaro di capitale per ogni 6-7 di investimento, poi lo stesso dollaro bastava per 30-40. L’autoregolazione ha pure consentito alle banche di tenere fuori bilancio entità da esse stesse promosse e finanziate allo scopo di acquistare titoli variamente innovativi nel presupposto che era loro interesse vagliare la serietà del creditore. Queste tre scelte non sono errori, ma decisioni politiche esaltate come segno di modernità da stuoli di economisti che non si pongono mai il problema dei conflitti d’interesse impliciti nell’accumularsi dei mestieri. Regolare dopo aver deregolato non è facile, specialmente se a farlo sono le stesse persone.
Il breve termine
La deregolazione per favorire l’incessante negoziazione dei titoli ha sempre più focalizzato la gestione delle imprese sul breve termine. È stato coniato perfino un neologismo anglicizzante: shortermismo. Naturalmente tutti i top manager negano di essere shortermisti: la cosa parrebbe gretta e poco lungimirante. Ma con le relazioni trimestrali sulla base delle quali, a Wall Street, si erogano i dividendi e si riconsiderano i «fondamentali » del titolo e con i principi contabili basati sul fair value e sul mark to market (il valore al quale si può compravendere un bene e le quotazioni correnti) gli andamenti a breve termine condizionano come mai in passato. E poiché è chiaro il loro effetto pro ciclico, i gerenti sono incentivati a fare tutto quanto può far salire domani il titolo al quale sono legati i propri compensi. Nel 1864 il banchiere Rothschild discuteva con il ministro Minghetti delle disastrate finanze del Regno d’Italia avendo come orizzonte gli anni. I suoi epigoni americani hanno per orizzonte i giorni e parlano con i loro simili, via computer, 24 ore su 24. Ai primi serviva sapere di economia certo, ma anche di politica e cultura. Ai secondi bastano i modelli matematici. La professione del banchiere si è impoverita. Ma il banchiere è diventato più ricco. E con lui tutto il ceto dei capi-azienda.
La diseguaglianza
Legare in modo meccanico e crescente le remunerazioni dei top manager al rendimento del capitale ha accresciuto le diseguaglianze. Tra i capi delle imprese dello S&P 500 Index, il guadagno da stock options è salito da una media pro capite di 3,5 milioni di dollari del 1992 a un picco di 14,8 milioni nel 2000 per assestarsi sugli 8,7milioni nel 2003. Nell’illuminata Ibm i guadagni da stock options dei 5 primi dirigenti sono stati pari a 689 volte quello del dipendente medio. Più in generale il rapporto tra la paga media degli amministratori delegati delle maggiori imprese americane e quella dei dipendenti è volato dalle 42 volte del 1980 alle 107 volte del 1990 fino al record di 525 volte del 2000 per scendere a 364 volte nel 2006. Dietro la durezza con la quale i membri del Congresso interrogavano il banchiere Dick Fuld della Lehman Brothers c’è la consapevolezza che questo gioco non è più accettabile per il cittadinomedio americano la cui ricchezza netta, già minore di quella del cittadino medio italiano, sta in buona parte evaporando legata com’è alla Borsa. Ma è inutile chiedere al bancarottiere, come pure si è fatto, quali dovrebbero essere le regole per rimediare. Lo dovrà dire il nuovo presidente degli stati Uniti.
Massimo Mucchetti
corriere.it
Il mondo drogato della vita a credito
di ZYGMUNT BAUMAN
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare...
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
repubblica.it
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare...
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
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1.10.08
IL VENTENNIO DI BERLUSCONI
Alberto Asor Rosa
Nel corso dell'estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato su questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l'attenzione (se c'è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull'«incipit» di quell'articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi». Di questa frase è soggetto implicito l' Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l'Italia sotto specie di Nazione («dall'Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione. Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d'accordo su questo punto di partenza, dell'Italia, più esattamente dell'Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l'eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo). Poiché si parla dell'Italia, e dell'Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l' unità (e il senso dell'unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell'identità e dell'appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell' unità la fondatezza di tale affermazione è lampante. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell'unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell'essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani. Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell'interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l'esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno. Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell'esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all'esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...). Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico. Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall'impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest'ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo. Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti. Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all'ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre. Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l'identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo. Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant'anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo. Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l'ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent'anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo). La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d'intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s'accompagnerà, non c'è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov'è? E, visto che non c'è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere? P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
ilmanifesto.it
Nel corso dell'estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato su questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l'attenzione (se c'è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull'«incipit» di quell'articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi». Di questa frase è soggetto implicito l' Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l'Italia sotto specie di Nazione («dall'Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione. Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d'accordo su questo punto di partenza, dell'Italia, più esattamente dell'Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l'eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo). Poiché si parla dell'Italia, e dell'Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l' unità (e il senso dell'unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell'identità e dell'appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell' unità la fondatezza di tale affermazione è lampante. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell'unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell'essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani. Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell'interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l'esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno. Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell'esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all'esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...). Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico. Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall'impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest'ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo. Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti. Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all'ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre. Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l'identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo. Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant'anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo. Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l'ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent'anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo). La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d'intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s'accompagnerà, non c'è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov'è? E, visto che non c'è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere? P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
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Forgiare strumenti insegnò a passare dalle cause agli effetti
Tommaso Pincio
Dovendo andare nella giungla, preferireste avere con voi un'ascia o un amico? Molto probabilmente la paura di affrontare da soli insidie a cui non siamo più avvezzi suggerirebbe di propendere per la seconda possibilità. Ma è ancor più probabile che i nostri antenati ragionassero in modo affatto diverso: non ci avrebbero pensato due volte a sacrificare un amico in cambio di un'ascia. Si dirà che ci siamo evoluti, la nostra sensibilità si è affinata inducendoci a valutare le cose diversamente.
D'altro canto, è proprio grazie all'estremo senso pratico di chi ci ha preceduto se siamo cambiati quel tanto da considerare una persona più importante di un arnese qualunque. Tutto ciò potrà apparire scontato, giacché il discernimento è il tratto che più ci distingue dagli animali, incluse le scimmie, che pure tanto ci somigliano e dalle quali pare discendiamo. Il guaio è che tendiamo spesso a sopravvalutarci, attribuendoci qualità che solo in parte ci appartengono. La soluzione del dubbio fra l'amico e l'ascia dovrebbe essere una scelta di buon senso e in quanto tale immutabile nel tempo, ciò nonostante si è evoluta. Come mai? Erano i nostri predecessori a peccare di brutalità o siamo noi ad eccellere in saggezza? A giudicare da certe contemporanee storture parrebbe quasi l'inverso. C'è poi un altro nostro aspetto che cozza fortemente con il buon senso di cui andiamo fieri: l'enorme diffusione di credenze più o meno improbabili. Oroscopi, superstizioni, religioni, fanatismi. «Credere con passione in ciò che chiaramente non è vero è la principale occupazione dell'umanità» diceva Henry Louis Mencken, acerbo critico della società americana. Come dargli torto? Una buona fetta d'umanità preferisce toccare ferro o informarsi sui transiti di Saturno piuttosto che affidarsi a spiegazioni razionali e scientifiche. Molte nostre irragionevoli inclinazioni sembrano quanto di più lontano si possa immaginare dalla tecnologia, eppure eccoci qua. Come conciliare questa apparente contraddizione? L'antropologo Clifford Geertz ha notato che non si è ancora prestata la dovuta attenzione a cosa in effetti sia il buon senso. Di solito, pensiamo al buon senso come qualcosa che ci consente di soppesare gli eventi in modo ragionevole ed efficace così da affrontare al meglio i problemi della vita quotidiana. Capire che il fuoco brucia o l'acqua bagna è una conquista alla portata di tutti, anche degli idioti. Il buon senso è quello scarto in più che permette all'individuo di prendere le dovute precauzioni. Cercare di porre rimedio alla siccità con la danza della pioggia non è probabilmente una soluzione dettata dal buon senso, ma era comunque quella prevalente nelle tribù primitive. È ormai un bel po' che ci siamo lasciati l'età della pietra alle spalle, ma alle danze della pioggia non ci abbiamo ancora rinunciato del tutto. Lewis Wolpert, noto biologo, ha cercato di dare una risposta al problema in un agile quanto arguto volume, Sei cose impossibili prima di colazione.
Il titolo è un omaggio a Lewis Carroll. In Attraverso lo specchio , infatti, quando Alice nega di poter credere in qualcosa d'impossibile, la Regina Bianca obietta: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età mi esercitavo mezzora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Wolpert sostiene che questa assurda sorta di allenamento ha una sua ragione di essere ed è anche alla base del meccanismo evolutivo che ci porta a preferire un amico a un'ascia. L'idea è che tutte le nostre credenze, dalle più sciocche alle più sofisticate quali le grandi fedi religiose, sono nate quando gli uomini cominciarono a fabbricare utensili. Ricordate la famosa scena di 2001: Odissea nello spazio , quella in cui una scimmia raccoglie un osso e si rende conto di poterlo usare come un'arma per dominare i suoi compagni? Ebbene, secondo Wolpert, a partire da quel fatidico momento la struttura del cervello avrebbe iniziato a mutare.
La selezione naturale avrebbe fatto il resto premiando gli individui la cui mente era più portata a individuare relazioni di causa ed effetto. In teoria, nulla è più razionale del principio di casualità. Tuttavia un osso è un osso, vederci la possibilità di diventare un capo richiede un notevole sforzo d'immaginazione. Guardandolo per quello è, un osso può diventare un'arma né più né meno come un corno può rivelarsi un efficace strumento contro le sciagure. È dunque probabile che la selezione naturale abbia premiato quei geni che consentono al cervello di stabilire nessi di causa ed effetto tra le cose anche dove apparentemente non ve ne sono. Per molti sarà blasfemo, ma anche le religioni sono frutto di questa programmazione genetica. «Una volta sviluppate le credenze casuali in relazione agli strumenti, e una volta sviluppato il linguaggio, fu inevitabile che le persone desiderassero comprendere le cause di tutti gli eventi che influenzavano la loro vita, dalla malattia ai cambiamenti climatici, alla morte stessa. Una volta nato il concetto di causa ed effetto, l'ignoranza smise di essere una beatitudine». In altre parole, l'umanità scoprì il tormento dell'incertezza riguardo l'origine e il futuro di cose d'importanza primaria, trovandosi di fronte alla necessità di superare la paura che ne derivava. La religione si mostrò un ottimo strumento, poiché promuoveva l'ottimismo e la speranza, offriva ai credenti la sensazione che la vita abbia uno scopo e un significato. Wolpert ammette che le prove a sostegno della sua tesi sono ancora frammentarie, ma è altresì convinto che quando sapremo di più sul funzionamento del cervello «sarà tutto molto più chiaro e interessante». Non per nulla conclude le sue riflessioni con una citazione da Virgilio: «Felice è chi ha potuto conoscere la causa delle cose». Il che, in fondo, è un modo come un altro per dire: basta crederci.
LIBRI LEWIS WOLPERT, SEI COSE IMPOSSIBILI PRIMA DI COLAZIONE CODICE, TRAD. SIMONETTA FREDIANI, PP. 209, EURO 21
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Dovendo andare nella giungla, preferireste avere con voi un'ascia o un amico? Molto probabilmente la paura di affrontare da soli insidie a cui non siamo più avvezzi suggerirebbe di propendere per la seconda possibilità. Ma è ancor più probabile che i nostri antenati ragionassero in modo affatto diverso: non ci avrebbero pensato due volte a sacrificare un amico in cambio di un'ascia. Si dirà che ci siamo evoluti, la nostra sensibilità si è affinata inducendoci a valutare le cose diversamente.
D'altro canto, è proprio grazie all'estremo senso pratico di chi ci ha preceduto se siamo cambiati quel tanto da considerare una persona più importante di un arnese qualunque. Tutto ciò potrà apparire scontato, giacché il discernimento è il tratto che più ci distingue dagli animali, incluse le scimmie, che pure tanto ci somigliano e dalle quali pare discendiamo. Il guaio è che tendiamo spesso a sopravvalutarci, attribuendoci qualità che solo in parte ci appartengono. La soluzione del dubbio fra l'amico e l'ascia dovrebbe essere una scelta di buon senso e in quanto tale immutabile nel tempo, ciò nonostante si è evoluta. Come mai? Erano i nostri predecessori a peccare di brutalità o siamo noi ad eccellere in saggezza? A giudicare da certe contemporanee storture parrebbe quasi l'inverso. C'è poi un altro nostro aspetto che cozza fortemente con il buon senso di cui andiamo fieri: l'enorme diffusione di credenze più o meno improbabili. Oroscopi, superstizioni, religioni, fanatismi. «Credere con passione in ciò che chiaramente non è vero è la principale occupazione dell'umanità» diceva Henry Louis Mencken, acerbo critico della società americana. Come dargli torto? Una buona fetta d'umanità preferisce toccare ferro o informarsi sui transiti di Saturno piuttosto che affidarsi a spiegazioni razionali e scientifiche. Molte nostre irragionevoli inclinazioni sembrano quanto di più lontano si possa immaginare dalla tecnologia, eppure eccoci qua. Come conciliare questa apparente contraddizione? L'antropologo Clifford Geertz ha notato che non si è ancora prestata la dovuta attenzione a cosa in effetti sia il buon senso. Di solito, pensiamo al buon senso come qualcosa che ci consente di soppesare gli eventi in modo ragionevole ed efficace così da affrontare al meglio i problemi della vita quotidiana. Capire che il fuoco brucia o l'acqua bagna è una conquista alla portata di tutti, anche degli idioti. Il buon senso è quello scarto in più che permette all'individuo di prendere le dovute precauzioni. Cercare di porre rimedio alla siccità con la danza della pioggia non è probabilmente una soluzione dettata dal buon senso, ma era comunque quella prevalente nelle tribù primitive. È ormai un bel po' che ci siamo lasciati l'età della pietra alle spalle, ma alle danze della pioggia non ci abbiamo ancora rinunciato del tutto. Lewis Wolpert, noto biologo, ha cercato di dare una risposta al problema in un agile quanto arguto volume, Sei cose impossibili prima di colazione.
Il titolo è un omaggio a Lewis Carroll. In Attraverso lo specchio , infatti, quando Alice nega di poter credere in qualcosa d'impossibile, la Regina Bianca obietta: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età mi esercitavo mezzora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Wolpert sostiene che questa assurda sorta di allenamento ha una sua ragione di essere ed è anche alla base del meccanismo evolutivo che ci porta a preferire un amico a un'ascia. L'idea è che tutte le nostre credenze, dalle più sciocche alle più sofisticate quali le grandi fedi religiose, sono nate quando gli uomini cominciarono a fabbricare utensili. Ricordate la famosa scena di 2001: Odissea nello spazio , quella in cui una scimmia raccoglie un osso e si rende conto di poterlo usare come un'arma per dominare i suoi compagni? Ebbene, secondo Wolpert, a partire da quel fatidico momento la struttura del cervello avrebbe iniziato a mutare.
La selezione naturale avrebbe fatto il resto premiando gli individui la cui mente era più portata a individuare relazioni di causa ed effetto. In teoria, nulla è più razionale del principio di casualità. Tuttavia un osso è un osso, vederci la possibilità di diventare un capo richiede un notevole sforzo d'immaginazione. Guardandolo per quello è, un osso può diventare un'arma né più né meno come un corno può rivelarsi un efficace strumento contro le sciagure. È dunque probabile che la selezione naturale abbia premiato quei geni che consentono al cervello di stabilire nessi di causa ed effetto tra le cose anche dove apparentemente non ve ne sono. Per molti sarà blasfemo, ma anche le religioni sono frutto di questa programmazione genetica. «Una volta sviluppate le credenze casuali in relazione agli strumenti, e una volta sviluppato il linguaggio, fu inevitabile che le persone desiderassero comprendere le cause di tutti gli eventi che influenzavano la loro vita, dalla malattia ai cambiamenti climatici, alla morte stessa. Una volta nato il concetto di causa ed effetto, l'ignoranza smise di essere una beatitudine». In altre parole, l'umanità scoprì il tormento dell'incertezza riguardo l'origine e il futuro di cose d'importanza primaria, trovandosi di fronte alla necessità di superare la paura che ne derivava. La religione si mostrò un ottimo strumento, poiché promuoveva l'ottimismo e la speranza, offriva ai credenti la sensazione che la vita abbia uno scopo e un significato. Wolpert ammette che le prove a sostegno della sua tesi sono ancora frammentarie, ma è altresì convinto che quando sapremo di più sul funzionamento del cervello «sarà tutto molto più chiaro e interessante». Non per nulla conclude le sue riflessioni con una citazione da Virgilio: «Felice è chi ha potuto conoscere la causa delle cose». Il che, in fondo, è un modo come un altro per dire: basta crederci.
LIBRI LEWIS WOLPERT, SEI COSE IMPOSSIBILI PRIMA DI COLAZIONE CODICE, TRAD. SIMONETTA FREDIANI, PP. 209, EURO 21
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27.9.08
Ma così è nato Google
di Francesco Giavazzi
In Svezia vent'anni fa fallirono tutte le banche, anche allora a causa di una crisi del mercato immobiliare. Il reddito scese di oltre il 5% e la disoccupazione salì dal 2 al 10%. La crisi durò tre anni. Lo Stato nazionalizzò le banche e per salvarle spese 6 punti di pil, più o meno quanto costerebbe il piano del Segretario Paulson negli Stati Uniti. Si avviò anche un ripensamento profondo del modello sociale svedese: nei quindici anni successivi l'economia crebbe a un tasso medio di oltre il 3% l'anno, quasi il doppio dei Paesi europei continentali, trascinata da un boom di produttività.
Le crisi scuotono i Paesi, ma talvolta consentono quelle riforme che in tempi normali è impossibile realizzare. Un punto di crescita in più per un decennio significa guadagnare quasi 15 punti di reddito, più che sufficienti a compensare la recessione nei tre anni di crisi. Dopo qualche anno il governo di Stoccolma rivendette le banche e recuperò quasi per intero quanto aveva speso per salvarle. Con il piano Paulson il Tesoro acquisterebbe dalle banche (mediante un’asta) mutui immobiliari con uno sconto del 60-70% sul loro valore nominale. I prezzi delle case americane sono scesi del 20%: anche ammettendo che scendano ancora, acquistando per 30-40 centesimi mutui che valgono un dollaro, Paulson — e quindi i contribuenti americani — fanno un buon affare: oggi risolvono la crisi e domani, quando il Tesoro rivenderà i mutui, potrebbero incassare una plusvalenza sufficiente a cancellare una parte del debito pubblico. Non solo: il Tesoro scambia titoli pubblici su cui paga un interesse del 2% con obbligazioni che rendono il 10%. Un incasso netto di quasi 50 miliardi di dollari l’anno (meglio ancora, il Tesoro potrebbe acquistare azioni delle banche, come accadde in Svezia: oggi ne rafforza il capitale, a crisi finita le rivende incassando un premio).
Fra 5 anni potremmo esserci dimenticati della crisi e ricominciare a guardare con ammirazione gli Usa che crescono più di noi e con meno debito pubblico. L'opinione comune in Europa è che la «deregulation selvaggia» dei mercati finanziari americani abbia rovinato il mondo: se Washington avesse seguito l'esempio europeo, si dice, i guai che oggi osserviamo non sarebbero accaduti. Vero, ma la deregulation degli anni 80 consentì anche a investitori audaci («barbari» li chiamò Tom Wolfe in un libro che divenne famoso) di comprare aziende a debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in modo più efficiente. Senza i leverage buy-out di quegli anni, gli straordinari guadagni di produttività degli anni 90 non si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4% mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al 2,2%.
E senza le banche di investimento, oggi tanto criticate, forse non vi sarebbe stata la «bolla» del Nasdaq, ma non sarebbe neppure nata Google, un'azienda che ha per sempre cambiato il mondo. I «derivati» hanno creato guai gravi, ma negli anni passati hanno anche consentito alle banche americane di offrire mutui a famiglie recentemente immigrate alle quali le vecchie banche non avrebbero mai fatto credito. Queste famiglie hanno potuto acquistare una casa e integrarsi più rapidamente nella società. Alcune di loro, una minoranza, oggi la perde, ma nel frattempo (grazie ai mutui con interessi differiti nel tempo) ha abitato gratis per alcuni anni: ora deve semplicemente restituire le chiavi (il sito youwalkaway. com spiega come) e acquistare (a un prezzo conveniente) una casa più consona al suo reddito. I politici, sia in Europa che negli Stati Uniti, oggi reclamano il diritto di riscrivere le regole dei mercati finanziari. In una democrazia è normale, ma può essere anche pericoloso. La «deregulation selvaggia » oggi tanto biasimata non è piovuta dal cielo.
E' il risultato di una legge (il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999) fatta approvare dal senatore repubblicano Phil Gramm, un politico che fino a qualche settimana fa John McCain pensava di nominare segretario al Tesoro, e che negli anni è stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6 milioni di dollari di contributi elettorali. Il Gramm-Leach-Bliley Act trasferì la responsabilità per la sorveglianza delle banche di investimento dalla Federal Reserve alla Sec (la Consob americana), la quale da quel giorno sostanzialmente dormì. Da sei-sette anni il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche d’investimento sono fragili perché hanno troppo poco capitale in rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma gli allarmi dei banchieri centrali sono caduti inascoltati o non hanno voluto essere ascoltati (fino all’anno scorso i politici non si preoccupavano delle banche, ma dei fondi hedge, tra le poche istituzioni che sono uscite quasi intatte dalla crisi). Siamo davvero convinti che il senatore Gramm scriverebbe regole migliori del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke? I guai cui oggi assistiamo non sono intrinseci al capitalismo, ma a «un» capitalismo, quello corrotto dalla politica.
corriere.it
In Svezia vent'anni fa fallirono tutte le banche, anche allora a causa di una crisi del mercato immobiliare. Il reddito scese di oltre il 5% e la disoccupazione salì dal 2 al 10%. La crisi durò tre anni. Lo Stato nazionalizzò le banche e per salvarle spese 6 punti di pil, più o meno quanto costerebbe il piano del Segretario Paulson negli Stati Uniti. Si avviò anche un ripensamento profondo del modello sociale svedese: nei quindici anni successivi l'economia crebbe a un tasso medio di oltre il 3% l'anno, quasi il doppio dei Paesi europei continentali, trascinata da un boom di produttività.
Le crisi scuotono i Paesi, ma talvolta consentono quelle riforme che in tempi normali è impossibile realizzare. Un punto di crescita in più per un decennio significa guadagnare quasi 15 punti di reddito, più che sufficienti a compensare la recessione nei tre anni di crisi. Dopo qualche anno il governo di Stoccolma rivendette le banche e recuperò quasi per intero quanto aveva speso per salvarle. Con il piano Paulson il Tesoro acquisterebbe dalle banche (mediante un’asta) mutui immobiliari con uno sconto del 60-70% sul loro valore nominale. I prezzi delle case americane sono scesi del 20%: anche ammettendo che scendano ancora, acquistando per 30-40 centesimi mutui che valgono un dollaro, Paulson — e quindi i contribuenti americani — fanno un buon affare: oggi risolvono la crisi e domani, quando il Tesoro rivenderà i mutui, potrebbero incassare una plusvalenza sufficiente a cancellare una parte del debito pubblico. Non solo: il Tesoro scambia titoli pubblici su cui paga un interesse del 2% con obbligazioni che rendono il 10%. Un incasso netto di quasi 50 miliardi di dollari l’anno (meglio ancora, il Tesoro potrebbe acquistare azioni delle banche, come accadde in Svezia: oggi ne rafforza il capitale, a crisi finita le rivende incassando un premio).
Fra 5 anni potremmo esserci dimenticati della crisi e ricominciare a guardare con ammirazione gli Usa che crescono più di noi e con meno debito pubblico. L'opinione comune in Europa è che la «deregulation selvaggia» dei mercati finanziari americani abbia rovinato il mondo: se Washington avesse seguito l'esempio europeo, si dice, i guai che oggi osserviamo non sarebbero accaduti. Vero, ma la deregulation degli anni 80 consentì anche a investitori audaci («barbari» li chiamò Tom Wolfe in un libro che divenne famoso) di comprare aziende a debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in modo più efficiente. Senza i leverage buy-out di quegli anni, gli straordinari guadagni di produttività degli anni 90 non si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4% mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al 2,2%.
E senza le banche di investimento, oggi tanto criticate, forse non vi sarebbe stata la «bolla» del Nasdaq, ma non sarebbe neppure nata Google, un'azienda che ha per sempre cambiato il mondo. I «derivati» hanno creato guai gravi, ma negli anni passati hanno anche consentito alle banche americane di offrire mutui a famiglie recentemente immigrate alle quali le vecchie banche non avrebbero mai fatto credito. Queste famiglie hanno potuto acquistare una casa e integrarsi più rapidamente nella società. Alcune di loro, una minoranza, oggi la perde, ma nel frattempo (grazie ai mutui con interessi differiti nel tempo) ha abitato gratis per alcuni anni: ora deve semplicemente restituire le chiavi (il sito youwalkaway. com spiega come) e acquistare (a un prezzo conveniente) una casa più consona al suo reddito. I politici, sia in Europa che negli Stati Uniti, oggi reclamano il diritto di riscrivere le regole dei mercati finanziari. In una democrazia è normale, ma può essere anche pericoloso. La «deregulation selvaggia » oggi tanto biasimata non è piovuta dal cielo.
E' il risultato di una legge (il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999) fatta approvare dal senatore repubblicano Phil Gramm, un politico che fino a qualche settimana fa John McCain pensava di nominare segretario al Tesoro, e che negli anni è stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6 milioni di dollari di contributi elettorali. Il Gramm-Leach-Bliley Act trasferì la responsabilità per la sorveglianza delle banche di investimento dalla Federal Reserve alla Sec (la Consob americana), la quale da quel giorno sostanzialmente dormì. Da sei-sette anni il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche d’investimento sono fragili perché hanno troppo poco capitale in rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma gli allarmi dei banchieri centrali sono caduti inascoltati o non hanno voluto essere ascoltati (fino all’anno scorso i politici non si preoccupavano delle banche, ma dei fondi hedge, tra le poche istituzioni che sono uscite quasi intatte dalla crisi). Siamo davvero convinti che il senatore Gramm scriverebbe regole migliori del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke? I guai cui oggi assistiamo non sono intrinseci al capitalismo, ma a «un» capitalismo, quello corrotto dalla politica.
corriere.it
ISTRUZIONE IL PIANO GELMINI. Scuola, 132mila tagli
Via 88 mila docenti e 45 mila tecnici. E in ogni classe trenta alunni
Meno ore di lezione, meno docenti e aule sovraffollate, con almeno 29-30 alunni per classe. Chiuse, o accorpate con altri istituti, le scuole con meno di 500 alunni. La ministra presenta ai sindacati il suo piano per riformare la scuola italiana: «Previsti risparmi pari a otto miliardi di euro in tre anni». Ma è una vera e propria mannaia che rischia di distruggere il sistema pubblico italiano. E tra docenti e genitori monta la protesta. La prossima settimana la riforma va in Parlamento
Andrea Gangemi
La suspance è finita: il ministero dell'Istruzione ha consegnato ai sindacati il «piano programmatico» per la riforma scolastica atteso da giorni che conferma 132 mila tagli a docenti e personale Ata (rispettivamente 87 mila e 44.500) e il ritorno al maestro unico. E di conseguenza classi più numerose: fino a 30 alunni per ciascun insegnante. Da chiudere o accorpare tutti gli istituti con meno di 500 iscritti. All'insegna di «essenzialità» e «continuità», il piano si articola lungo tre direttrici: revisione degli ordinamenti scolastici, dimensionamento della rete scolastica italiana e razionalizzazione delle risorse umane (i tagli). Cominciando dalla scuola materna, il piano reintroduce le «sezioni primavera» per i piccoli fra due e tre anni, già previste dalla riforma Moratti, e non tocca gli orari. Cosa che accade invece alle primarie, dove dal 2009 partiranno le prime classi con 24 ore di lezioni settimanali affidate al maestro unico che sostituisce il «modulo» dei tre insegnanti ogni due classi. Salvo l'insegnamento dell'inglese, che sarà affidato ad insegnanti specializzati attraverso corsi di 400/500 ore. Il tempo pieno? «Resta comunque aperta - recita il testo - la possibilità di una più ampia articolazione del tempo scuola, tenuto conto della domanda delle famiglie». Due le opzioni possibili, «limitatamente all'organico disponibile», di 27 e 30 ore a settimana. Le ore di lezione però potranno essere estese ulteriormente di altre 10 ore settimanali al massimo, compresa la pausa per la mensa. Sul vecchio tempo pieno (quello a 40 ore), insomma, la Gelmini "promette" che potrebbe essere addirittura incrementato ma, su questo punto, pare che il ministero dell'Economia non sia d'accordo. Per quanto riguarda le scuole medie, l'obiettivo è di scalare le classifiche internazionali dell'Ocse, sfavorevoli all'Italia. Ma anche qui il piano si limita a dare un colpo di forbice alle ore di lezione: 29 ore settimanali (rispetto alle 32 attuali), anche se è previsto un potenziamento dell'insegnamento di italiano, inglese e matematica. I licei classici, linguistici e scientifici avranno invece 30 ore settimanali, mentre negli istituti tecnici e professionali l'orario non potrà superare le 32 ore, comprese quelle di laboratorio. Allo scientifico, in uno o più corsi, le scuole autonome potranno sostituire il latino con una lingua straniera. Altro obiettivo perseguito dalla ministra è lo sfoltimento del numero di indirizzi di studio, che attualmente raggiungono quota 868. Ma i tagli più temuti e contestati sono quelli che riguardano il personale didattico e dell'Ata. Alla fine del triennio 2009-2012 il governo Berlusconi farà sparire 87.400 cattedre di insegnanti e 44.500 posti (pari al 17%) di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata): 132 mila posti in tutto. Operazione, questa, che secondo i calcoli del governo, dovrebbe consentire risparmi fino a 8 miliardi di euro in tre anni. In conseguenza dei tagli «razionalizzatori», gli insegnanti dovranno prendersi cura fino a 29 alunni per classe all'asilo, e fino a 30 nelle prime di medie e superiori. Per quanto riguarda la «riorganizzazione della rete scolastica», secondo la bozza di viale Trastevere, possono essere considerati istituti «autonomi» a pieno titolo quelli con almeno 500 alunni; gli altri dovranno essere chiusi o accorpati ad altri istituti. Un piano, questo della ministra Gelmini, che da oggi probabilmente sarà oggetto di studio da parte di docenti, studenti e genitori. Per il momento il sindacato attacca il governo sulla finanziaria perché, dice il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, «nei fatti riduce ulteriormente i salari degli insegnanti». La quantità delle risorse, aggiunge, «è del tutto insufficiente per pretendere di rinnovare i contratti per il biennio e nei fatti non ci sarà più il contratto nazionale: il Governo, infatti, ha deciso unilateralmente e discrezionalmente di distribuire il 90% delle stesse risorse».
ilmanifesto.it
Meno ore di lezione, meno docenti e aule sovraffollate, con almeno 29-30 alunni per classe. Chiuse, o accorpate con altri istituti, le scuole con meno di 500 alunni. La ministra presenta ai sindacati il suo piano per riformare la scuola italiana: «Previsti risparmi pari a otto miliardi di euro in tre anni». Ma è una vera e propria mannaia che rischia di distruggere il sistema pubblico italiano. E tra docenti e genitori monta la protesta. La prossima settimana la riforma va in Parlamento
Andrea Gangemi
La suspance è finita: il ministero dell'Istruzione ha consegnato ai sindacati il «piano programmatico» per la riforma scolastica atteso da giorni che conferma 132 mila tagli a docenti e personale Ata (rispettivamente 87 mila e 44.500) e il ritorno al maestro unico. E di conseguenza classi più numerose: fino a 30 alunni per ciascun insegnante. Da chiudere o accorpare tutti gli istituti con meno di 500 iscritti. All'insegna di «essenzialità» e «continuità», il piano si articola lungo tre direttrici: revisione degli ordinamenti scolastici, dimensionamento della rete scolastica italiana e razionalizzazione delle risorse umane (i tagli). Cominciando dalla scuola materna, il piano reintroduce le «sezioni primavera» per i piccoli fra due e tre anni, già previste dalla riforma Moratti, e non tocca gli orari. Cosa che accade invece alle primarie, dove dal 2009 partiranno le prime classi con 24 ore di lezioni settimanali affidate al maestro unico che sostituisce il «modulo» dei tre insegnanti ogni due classi. Salvo l'insegnamento dell'inglese, che sarà affidato ad insegnanti specializzati attraverso corsi di 400/500 ore. Il tempo pieno? «Resta comunque aperta - recita il testo - la possibilità di una più ampia articolazione del tempo scuola, tenuto conto della domanda delle famiglie». Due le opzioni possibili, «limitatamente all'organico disponibile», di 27 e 30 ore a settimana. Le ore di lezione però potranno essere estese ulteriormente di altre 10 ore settimanali al massimo, compresa la pausa per la mensa. Sul vecchio tempo pieno (quello a 40 ore), insomma, la Gelmini "promette" che potrebbe essere addirittura incrementato ma, su questo punto, pare che il ministero dell'Economia non sia d'accordo. Per quanto riguarda le scuole medie, l'obiettivo è di scalare le classifiche internazionali dell'Ocse, sfavorevoli all'Italia. Ma anche qui il piano si limita a dare un colpo di forbice alle ore di lezione: 29 ore settimanali (rispetto alle 32 attuali), anche se è previsto un potenziamento dell'insegnamento di italiano, inglese e matematica. I licei classici, linguistici e scientifici avranno invece 30 ore settimanali, mentre negli istituti tecnici e professionali l'orario non potrà superare le 32 ore, comprese quelle di laboratorio. Allo scientifico, in uno o più corsi, le scuole autonome potranno sostituire il latino con una lingua straniera. Altro obiettivo perseguito dalla ministra è lo sfoltimento del numero di indirizzi di studio, che attualmente raggiungono quota 868. Ma i tagli più temuti e contestati sono quelli che riguardano il personale didattico e dell'Ata. Alla fine del triennio 2009-2012 il governo Berlusconi farà sparire 87.400 cattedre di insegnanti e 44.500 posti (pari al 17%) di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata): 132 mila posti in tutto. Operazione, questa, che secondo i calcoli del governo, dovrebbe consentire risparmi fino a 8 miliardi di euro in tre anni. In conseguenza dei tagli «razionalizzatori», gli insegnanti dovranno prendersi cura fino a 29 alunni per classe all'asilo, e fino a 30 nelle prime di medie e superiori. Per quanto riguarda la «riorganizzazione della rete scolastica», secondo la bozza di viale Trastevere, possono essere considerati istituti «autonomi» a pieno titolo quelli con almeno 500 alunni; gli altri dovranno essere chiusi o accorpati ad altri istituti. Un piano, questo della ministra Gelmini, che da oggi probabilmente sarà oggetto di studio da parte di docenti, studenti e genitori. Per il momento il sindacato attacca il governo sulla finanziaria perché, dice il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, «nei fatti riduce ulteriormente i salari degli insegnanti». La quantità delle risorse, aggiunge, «è del tutto insufficiente per pretendere di rinnovare i contratti per il biennio e nei fatti non ci sarà più il contratto nazionale: il Governo, infatti, ha deciso unilateralmente e discrezionalmente di distribuire il 90% delle stesse risorse».
ilmanifesto.it
EDITORIA. La «casta» resta, colpita la libertà
Parla Gian Antonio Stella del Corriere della Sera : «Bisognava tagliare i privilegi, invece colpiscono i piccoli giornali come ilmanifesto »
Tommaso Di Francesco
Gian Antonio Stella non ha bisogno di presentazioni. Il suo libro La casta , scritto insieme a Sergio Rizzo, rappresenta un punto alto del giornalismo d'inchiesta e denuncia. A lui, così attento ai costi della politica, abbiamo rivolto alcune domande.
L'esigenza corretta era razionalizzare i fondi per l'editoria, invece i nuovi provvedimenti dimezzano i fondi per il 2008 a molti giornali di partito e soprattutto a noi che siamo una cooperativa di giornalisti e lavoratori, proponendo perdipiù un regolamento che ogni anno sarà deciso dal governo. Che ne pensi?
In sé la razionalizzazione non è scandalosa. E un governo democraticamente eletto fa scelte a nome della maggioranza dei cittadini che l'hanno votato. Ma è del tutto sbagliata la scelta di andare a tagliare - pur colpendo giornali assai diversi - là dove è più facile, dove si possono ottenere due piccioni con una fava: da una parte recuperando soldi e dall'altra colpendo chi tradizionalmente infastidisce, è in grado di infastidirti o comunque potrebbe infastidirti.
Insomma, bisognava colpire la casta, e alla fine hanno colpito «il manifesto» e le comunità montane? Infatti.
È incredibile che non si tocchino assolutamente gli stipendi dei parlamentari; che passi il principio che un deputato che dà soldi al partito possa, su quelli, non essere tassato. Confermando che c'è una massima attenzione a non toccare gli stipendi di deputati, senatori, consiglieri regionali, mentre il governatore della ricchissima California prende 215mila dollari all'anno, circa 150mila euro, molto meno di quanto prende un qualunque deputato italiano. Ecco, tutto questo non viene toccato e invece vanno a colpire il 70% delle indennità dei piccoli presidenti e assessori delle comunità montane, anche di quelle serie. Alla fine ipocritamente si risparmia sulle comunità montane e sui giornali di partito e in cooperativa per non toccare invece i veri centri di spesa. E ovviamente non si può non vedere che a prendere una tale decisione, come giustamente ha scritto Furio Colombo, sia il titolare del più grande conflitto di interessi del mondo.
Già, il padrone di larga parte del sistema mediatico è il capo del governo che decide di tagliare i fondi per l'editoria...
È un fatto curioso, molto, molto curioso. E poi c'è una cosa che mi convince, sollevata sia da il manifesto , da Avvenire , ma anche dal Secolo d'Italia e perfino dalla Padania , in una trasversalità saggia, non inciuciona: un paese deve farsi carico di mantenere più libertà di espressione possibile. Io non sono d'accordo o raramente con una sola parola di alcuni dei giornali che vengono colpiti, però è interesse mio come cittadino che questi giornali vivano perché sono opinioni diverse. La Padania mi avrà attaccato non so quante volte ma io faccio il tifo perché viva. La libertà non la puoi avere a fette. Ci si risponde che in altri paesi non è così. Certo, ma in altri paesi non ci sono posizioni di monopolio o di duopolio che assorbono la stragrande maggioranza della pubblicità che asfissia tutti i piccoli giornali. Inoltre, sei mesi fa il presidente del consiglio polemizzando sulla scelta del governo Prodi di vendere Alitalia ad Air France ha detto una frase: un paese deve sapere sopportare le perdite di certe aziende. Personalmente penso che non tutti i dipendenti di Alitalia - i privilegiati e i ricattatori - siano interesse dei cittadini, come non lo è l'azienda clientelare Amat di Palermo che ha assunto 110 autisti d'autobus senza patente d'autobus. Ma se per Berlusconi è vitale che lo stato si faccia carico di alcune spese anche in perdita per una questione di principio come l'italianità dell'Alitalia, per me è altrettanto essenziale che uno stato si faccia carico della libertà di espressione massima ottenibile. In un paese dove la libertà di espressione è già compromessa, perché è molto più facile fondare una televisione negli Stati uniti che fondarla in Italia.
Che rispondi a chi sembra dire, come Grillo: bene così, chiudiamoli e la regola resti il mercato?
Non è affatto di destra invocare il mercato, però per davvero e dappertutto. E con regole molto chiare. All'estero alcuni conflitti d'interesse sono stati chiariti all'istante perché altrimenti chi era eletto non si sarebbe mai potuto insediare. Se il mercato avesse delle regole nette che consentissero a tutti di giocarsela alla pari davanti ai lettori, in edicola, e alla pari sul mercato pubblicitario, allora viva quelli che sopravvivono e pazienza per quelli che muoiono. Ma se parti fin dall'inizio da una posizione molto diseguale, in cui non puoi giocartela alla pari, il discorso cambia. E poi ora nel governo, An e la Lega devono riflettere: che scelta democratica è quella che lascia che tutta l'informazione, anche a destra, sia fatta da chi ruota intorno al presidente del Consiglio o alla sua famiglia?
ilmanifesto.it
Tommaso Di Francesco
Gian Antonio Stella non ha bisogno di presentazioni. Il suo libro La casta , scritto insieme a Sergio Rizzo, rappresenta un punto alto del giornalismo d'inchiesta e denuncia. A lui, così attento ai costi della politica, abbiamo rivolto alcune domande.
L'esigenza corretta era razionalizzare i fondi per l'editoria, invece i nuovi provvedimenti dimezzano i fondi per il 2008 a molti giornali di partito e soprattutto a noi che siamo una cooperativa di giornalisti e lavoratori, proponendo perdipiù un regolamento che ogni anno sarà deciso dal governo. Che ne pensi?
In sé la razionalizzazione non è scandalosa. E un governo democraticamente eletto fa scelte a nome della maggioranza dei cittadini che l'hanno votato. Ma è del tutto sbagliata la scelta di andare a tagliare - pur colpendo giornali assai diversi - là dove è più facile, dove si possono ottenere due piccioni con una fava: da una parte recuperando soldi e dall'altra colpendo chi tradizionalmente infastidisce, è in grado di infastidirti o comunque potrebbe infastidirti.
Insomma, bisognava colpire la casta, e alla fine hanno colpito «il manifesto» e le comunità montane? Infatti.
È incredibile che non si tocchino assolutamente gli stipendi dei parlamentari; che passi il principio che un deputato che dà soldi al partito possa, su quelli, non essere tassato. Confermando che c'è una massima attenzione a non toccare gli stipendi di deputati, senatori, consiglieri regionali, mentre il governatore della ricchissima California prende 215mila dollari all'anno, circa 150mila euro, molto meno di quanto prende un qualunque deputato italiano. Ecco, tutto questo non viene toccato e invece vanno a colpire il 70% delle indennità dei piccoli presidenti e assessori delle comunità montane, anche di quelle serie. Alla fine ipocritamente si risparmia sulle comunità montane e sui giornali di partito e in cooperativa per non toccare invece i veri centri di spesa. E ovviamente non si può non vedere che a prendere una tale decisione, come giustamente ha scritto Furio Colombo, sia il titolare del più grande conflitto di interessi del mondo.
Già, il padrone di larga parte del sistema mediatico è il capo del governo che decide di tagliare i fondi per l'editoria...
È un fatto curioso, molto, molto curioso. E poi c'è una cosa che mi convince, sollevata sia da il manifesto , da Avvenire , ma anche dal Secolo d'Italia e perfino dalla Padania , in una trasversalità saggia, non inciuciona: un paese deve farsi carico di mantenere più libertà di espressione possibile. Io non sono d'accordo o raramente con una sola parola di alcuni dei giornali che vengono colpiti, però è interesse mio come cittadino che questi giornali vivano perché sono opinioni diverse. La Padania mi avrà attaccato non so quante volte ma io faccio il tifo perché viva. La libertà non la puoi avere a fette. Ci si risponde che in altri paesi non è così. Certo, ma in altri paesi non ci sono posizioni di monopolio o di duopolio che assorbono la stragrande maggioranza della pubblicità che asfissia tutti i piccoli giornali. Inoltre, sei mesi fa il presidente del consiglio polemizzando sulla scelta del governo Prodi di vendere Alitalia ad Air France ha detto una frase: un paese deve sapere sopportare le perdite di certe aziende. Personalmente penso che non tutti i dipendenti di Alitalia - i privilegiati e i ricattatori - siano interesse dei cittadini, come non lo è l'azienda clientelare Amat di Palermo che ha assunto 110 autisti d'autobus senza patente d'autobus. Ma se per Berlusconi è vitale che lo stato si faccia carico di alcune spese anche in perdita per una questione di principio come l'italianità dell'Alitalia, per me è altrettanto essenziale che uno stato si faccia carico della libertà di espressione massima ottenibile. In un paese dove la libertà di espressione è già compromessa, perché è molto più facile fondare una televisione negli Stati uniti che fondarla in Italia.
Che rispondi a chi sembra dire, come Grillo: bene così, chiudiamoli e la regola resti il mercato?
Non è affatto di destra invocare il mercato, però per davvero e dappertutto. E con regole molto chiare. All'estero alcuni conflitti d'interesse sono stati chiariti all'istante perché altrimenti chi era eletto non si sarebbe mai potuto insediare. Se il mercato avesse delle regole nette che consentissero a tutti di giocarsela alla pari davanti ai lettori, in edicola, e alla pari sul mercato pubblicitario, allora viva quelli che sopravvivono e pazienza per quelli che muoiono. Ma se parti fin dall'inizio da una posizione molto diseguale, in cui non puoi giocartela alla pari, il discorso cambia. E poi ora nel governo, An e la Lega devono riflettere: che scelta democratica è quella che lascia che tutta l'informazione, anche a destra, sia fatta da chi ruota intorno al presidente del Consiglio o alla sua famiglia?
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Manifesto. Chi ha pagato la nostra libertà
37 anni di vita e un solo sponsor: i lettori.
Storia di una sottoscrizione infinita, che dalla fondazione a oggi ci ha salvato la vita con 13 milioni di euro
«Chi li paga?» era scritto a caratteri cubitali su un manifesto parecchio malizioso affisso dal Pci (avevano ripreso una notizia acida diffusa dal quotidiano Izvestja che ci accusava di essere finanziati dal capitalismo internazionale) prima ancora che fosse pubblicato il primo numero del nostro giornale. «Ecco chi ci paga», fu la nostra campagna. E sul primo numero - il 28 aprile '71 - pubblicammo i nomi di tutti i sottoscrittori che con circa 50 milioni - avevano reso possibile l'uscita in edicola (a 50 lire). Pubblicammo anche il preventivo mensile delle entrate necessarie a tenerci in vita. Già all'uscita del primo numero il capitale iniziale era però «bruciato». Di più: eravamo stati troppo ottimisti sui preventivi di spesa. Senza contare che le entrate delle vendite non erano immediate. Fin dall'inizio soffrivamo di una grave crisi di cassa e fummo costretti a lanciare la prima sottoscrizione chiedendo ai nostri lettori «100 lire al giorno». Tra maggio e giugno in questo modo arrivarono 10,6 milioni e i nomi di chi ci inviava i soldi erano tutti pubblicati. Le vendite seguitavano ad andare bene - oltre 30 mila copie ma i soldi non bastavano. A luglio chiedemmo ai lettori 100 lire per ogni giorno di ferie. A fine estate erano entrati 17,5 milioni. Ma, colpa di un capitale iniziale, troppo esiguo (alcuni esperti calcolarono che per partire in tranquillità sarebbe servito almeno un miliardo) e la cassa «piangeva». Il 29 settembre del '71 in prima pagina facemmo un appello: «10 mila copie in più e sottoscrizione permanente per rilanciare il giornale». Fin da allora fu chiaro che il manifesto aveva un solo editore: i lettori ai quali chiedevamo soldi per sopravvivere. E li chiedevamo con «fantasia». A dicembre lanciammo la parola d'ordine: «1000 lire per ogni tredicesima». La risposta fu generosa: in 15 giorni arrivarono 28 milioni. Nel '72 la replica: vista l'inflazione, le 1000 lire diventarono 2 mila lire, mentre il prezzo del quotidiano era salito a 90 lire. Cambiammo lo slogan con il quale chiedevamo i soldi, invocando un «sostegno di massa». E raccogliemmo anche 16 milioni per finanziare la campagna elettorale del 1972. Le vendite cominciarono a diminuire e con la crisi petrolifera del '73 i costi (di stampa, carta e distribuzione) si impennarono mostruosamente. Per fortuna c'erano sempre i lettori a tenerci in piedi e nel 1977 ci permisero tra l'altro - grazie a una sottoscrizione di 100 milioni - di acquistare una tipografia a Milano. I primi anni '80 furono durissimi: la carta era salita a prezzi stratosferici e il manifesto fu il promotore di una campagna perché lo stato si facesse carico con contributi all'editoria dei costi insostenibili della carta. La legge fu varata e fu molto favorevole per i giornali di partito. Il 7 aprile '83 la «provocazione»: uscimmo con un numero a 10 mila lire. Nel sommario era scritto: «Oggi un voto contro l'arroganza del potere/La scheda è un biglietto da 10mila lire/Lettera al manifesto di Enrico Berlinguer» che a nome del Pci, ci comunicava la concessione di un prestito di 150 milioni. Di «spalla» una intervista all'ex direttore del Corriere della Sera Piero Ottone. « Il manifesto è un lusso. Ma i lussi oggi sono necessari». Vendemmo 40 mila copie. Di quegli anni è anche la nascita della Cooperativa «il manifesto anni '80» il cui unico scopo sociale era tenere in vita il giornale. Raccolse quasi 600 milioni di lire. E, tra i tanti soci, ci piace ricordare Sandro Pertini. Gli anni '80 sono anche gli anni del governo Craxi e del blocco della scala mobile. Alcuni collaboratori del manifesto (Federico Caffè, in testa) lanciarono un appello: «Date al manifesto i Buoni del tesoro che lo stato vi dà in cambio dei punti congelati di scala mobile che potrete incassare solo fra 10 anni». L'invito fruttò 60 milioni. Alla fine degli anni '80 le vendite del manifesto cominciarono a risalire. Nel 1991 superano (con la prima guerra del Golfo) le 53 mila copie; poi arrivò Tangentopoli; poi nel '94 la vittoria di Berlusconi: il manifesto (nel frattempo trasformato in tabloid) fu protagonista di quella stagione politica di opposizione. Le copie vendute salirono a quasi 55 mila e i nostri bilanci presentavano larghi attivi. Durò poco: il governo Dini al quale non eravamo pregiudizialmente contrari («Baciare il Rospo?», la famosa copertina) e il successivo primo governo Prodi, spinsero al ribasso (forte) le vendite e gonfiarono le perdite. Nel frattempo avevamo lanciato una sottoscrizione un po' particolare. Nacque la «manifesto spa»: raccogliemmo 5,4 miliardi. Non sufficienti per sviluppare tutti i progetti. Tra i quali l'acquisto di una sede. Entrammo di nuovo in crisi: realizzammo una pesante e dolorosa ristrutturazione. Il 19 dicembre 1997 una nuova provocazione ideata da Pintor. Il titolo del giornale «Cara libertà» e annunciava che quel giorno il manifesto costava 50 mila lire. «È successo» titolammo il giorno seguente, commentando le quasi 40 mila copie vendute. La situazione economica rimaneva precaria. E il 31 gennaio '99 lanciammo una nuova sottoscrizione. Raccogliemmo circa 3 miliardi. Gli interessi sul debito accumulato negli anni e i sistematici ritardi con i quali ci venivano pagati i contributi della legge sull'editoria, seguitavano a rendere la nostra vita precaria. Le vendite, però, cominciavano a risalire e questo ci dava «ossigeno». Ma nel 2006 (vendite di nuovo in caduta) fummo costretti a lanciare una nuova sottoscrizione: arrivarono 1,8 milioni di euro. Calcolare a moneta corrente quanto i lettori ci hanno donato in 38 anni non è facile. Grosso modo oltre 25 miliardi di lire. Purtroppo le banche dal '71 in poi, per interessi, hanno incassato molto di più. Ma vale la pena riprovarci. Detto da chi lavora al manifesto , può sembrare un invito interessato. Ma «la libertà costa cara».
(a cura dell'archivio)
Come sottoscrivere
Ecco come potete partecipare alla nostra campagna di sottoscrizione:
- on line, versamenti con carta di credito sul sito www.ilmanifesto.it, ed è il metodo più veloce ed efficace
- telefonicamente, sempre con carta di credito, allo 06-68719888, o via fax alllo 06-68719689 dal lunedì al venerdì, dalle 10,30 alle 18,30 dove potete telefonare anche per segnalare, suggerire e organizzare iniziative di sostegno
- con bonifico bancario presso la Banca popolare etica - Agenzia di Roma intestato a il manifesto IBAN IT40K050180320 0000000535353
- con conto corrente postale numero 708016, intestato a il manifesto Coop. Ed. Arl. via Bargoni 8 00153 Roma.
ilmanifesto.it
Storia di una sottoscrizione infinita, che dalla fondazione a oggi ci ha salvato la vita con 13 milioni di euro
«Chi li paga?» era scritto a caratteri cubitali su un manifesto parecchio malizioso affisso dal Pci (avevano ripreso una notizia acida diffusa dal quotidiano Izvestja che ci accusava di essere finanziati dal capitalismo internazionale) prima ancora che fosse pubblicato il primo numero del nostro giornale. «Ecco chi ci paga», fu la nostra campagna. E sul primo numero - il 28 aprile '71 - pubblicammo i nomi di tutti i sottoscrittori che con circa 50 milioni - avevano reso possibile l'uscita in edicola (a 50 lire). Pubblicammo anche il preventivo mensile delle entrate necessarie a tenerci in vita. Già all'uscita del primo numero il capitale iniziale era però «bruciato». Di più: eravamo stati troppo ottimisti sui preventivi di spesa. Senza contare che le entrate delle vendite non erano immediate. Fin dall'inizio soffrivamo di una grave crisi di cassa e fummo costretti a lanciare la prima sottoscrizione chiedendo ai nostri lettori «100 lire al giorno». Tra maggio e giugno in questo modo arrivarono 10,6 milioni e i nomi di chi ci inviava i soldi erano tutti pubblicati. Le vendite seguitavano ad andare bene - oltre 30 mila copie ma i soldi non bastavano. A luglio chiedemmo ai lettori 100 lire per ogni giorno di ferie. A fine estate erano entrati 17,5 milioni. Ma, colpa di un capitale iniziale, troppo esiguo (alcuni esperti calcolarono che per partire in tranquillità sarebbe servito almeno un miliardo) e la cassa «piangeva». Il 29 settembre del '71 in prima pagina facemmo un appello: «10 mila copie in più e sottoscrizione permanente per rilanciare il giornale». Fin da allora fu chiaro che il manifesto aveva un solo editore: i lettori ai quali chiedevamo soldi per sopravvivere. E li chiedevamo con «fantasia». A dicembre lanciammo la parola d'ordine: «1000 lire per ogni tredicesima». La risposta fu generosa: in 15 giorni arrivarono 28 milioni. Nel '72 la replica: vista l'inflazione, le 1000 lire diventarono 2 mila lire, mentre il prezzo del quotidiano era salito a 90 lire. Cambiammo lo slogan con il quale chiedevamo i soldi, invocando un «sostegno di massa». E raccogliemmo anche 16 milioni per finanziare la campagna elettorale del 1972. Le vendite cominciarono a diminuire e con la crisi petrolifera del '73 i costi (di stampa, carta e distribuzione) si impennarono mostruosamente. Per fortuna c'erano sempre i lettori a tenerci in piedi e nel 1977 ci permisero tra l'altro - grazie a una sottoscrizione di 100 milioni - di acquistare una tipografia a Milano. I primi anni '80 furono durissimi: la carta era salita a prezzi stratosferici e il manifesto fu il promotore di una campagna perché lo stato si facesse carico con contributi all'editoria dei costi insostenibili della carta. La legge fu varata e fu molto favorevole per i giornali di partito. Il 7 aprile '83 la «provocazione»: uscimmo con un numero a 10 mila lire. Nel sommario era scritto: «Oggi un voto contro l'arroganza del potere/La scheda è un biglietto da 10mila lire/Lettera al manifesto di Enrico Berlinguer» che a nome del Pci, ci comunicava la concessione di un prestito di 150 milioni. Di «spalla» una intervista all'ex direttore del Corriere della Sera Piero Ottone. « Il manifesto è un lusso. Ma i lussi oggi sono necessari». Vendemmo 40 mila copie. Di quegli anni è anche la nascita della Cooperativa «il manifesto anni '80» il cui unico scopo sociale era tenere in vita il giornale. Raccolse quasi 600 milioni di lire. E, tra i tanti soci, ci piace ricordare Sandro Pertini. Gli anni '80 sono anche gli anni del governo Craxi e del blocco della scala mobile. Alcuni collaboratori del manifesto (Federico Caffè, in testa) lanciarono un appello: «Date al manifesto i Buoni del tesoro che lo stato vi dà in cambio dei punti congelati di scala mobile che potrete incassare solo fra 10 anni». L'invito fruttò 60 milioni. Alla fine degli anni '80 le vendite del manifesto cominciarono a risalire. Nel 1991 superano (con la prima guerra del Golfo) le 53 mila copie; poi arrivò Tangentopoli; poi nel '94 la vittoria di Berlusconi: il manifesto (nel frattempo trasformato in tabloid) fu protagonista di quella stagione politica di opposizione. Le copie vendute salirono a quasi 55 mila e i nostri bilanci presentavano larghi attivi. Durò poco: il governo Dini al quale non eravamo pregiudizialmente contrari («Baciare il Rospo?», la famosa copertina) e il successivo primo governo Prodi, spinsero al ribasso (forte) le vendite e gonfiarono le perdite. Nel frattempo avevamo lanciato una sottoscrizione un po' particolare. Nacque la «manifesto spa»: raccogliemmo 5,4 miliardi. Non sufficienti per sviluppare tutti i progetti. Tra i quali l'acquisto di una sede. Entrammo di nuovo in crisi: realizzammo una pesante e dolorosa ristrutturazione. Il 19 dicembre 1997 una nuova provocazione ideata da Pintor. Il titolo del giornale «Cara libertà» e annunciava che quel giorno il manifesto costava 50 mila lire. «È successo» titolammo il giorno seguente, commentando le quasi 40 mila copie vendute. La situazione economica rimaneva precaria. E il 31 gennaio '99 lanciammo una nuova sottoscrizione. Raccogliemmo circa 3 miliardi. Gli interessi sul debito accumulato negli anni e i sistematici ritardi con i quali ci venivano pagati i contributi della legge sull'editoria, seguitavano a rendere la nostra vita precaria. Le vendite, però, cominciavano a risalire e questo ci dava «ossigeno». Ma nel 2006 (vendite di nuovo in caduta) fummo costretti a lanciare una nuova sottoscrizione: arrivarono 1,8 milioni di euro. Calcolare a moneta corrente quanto i lettori ci hanno donato in 38 anni non è facile. Grosso modo oltre 25 miliardi di lire. Purtroppo le banche dal '71 in poi, per interessi, hanno incassato molto di più. Ma vale la pena riprovarci. Detto da chi lavora al manifesto , può sembrare un invito interessato. Ma «la libertà costa cara».
(a cura dell'archivio)
Come sottoscrivere
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- telefonicamente, sempre con carta di credito, allo 06-68719888, o via fax alllo 06-68719689 dal lunedì al venerdì, dalle 10,30 alle 18,30 dove potete telefonare anche per segnalare, suggerire e organizzare iniziative di sostegno
- con bonifico bancario presso la Banca popolare etica - Agenzia di Roma intestato a il manifesto IBAN IT40K050180320 0000000535353
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ilmanifesto.it
21.9.08
Raiotta & Crollaninno
Marco Travaglio
Siccome è una splendida notizia, sperando che sia definitiva, la ritirata dei 18 furbetti della Cai che volevano papparsi Alitalia a spese nostre e dei lavoratori è stata accolta dai nove decimi della stampa italiana come una rovinosa jattura. S’è listato a lutto persino il Tg1 di Johnny Raiotta, che non prenderebbe posizione contro il governo nemmeno se ripristinasse il rogo (“Il Consiglio dei ministri vara il nuovo pacchetto sicurezza per difendere i cittadini dalle streghe e dagli eretici ereditati dal precedente governo: soddisfazione nella maggioranza, possibilista l’opposizione”). Infatti s’è schierato a favore del governo contro i dipendenti Alitalia che si oppongono allo scippo di stipendi e posti di lavoro per ingrassare i compari del Cainano, dunque il cosiddetto servizio pubblico li ha dipinti come figure “bizzarre” che “festeggiano mentre il Titanic affonda”.
E dire che di occasioni per schierarsi sul caso Alitalia, in questi mesi, Raiotta ne avrebbe avute parecchie. Poteva definire “bizzarro” il niet di Al Tappone all’Air France che,grazie a Prodi e Padoa-Schioppa, era pronta a comprarsi Alitalia con dentro tutti i debiti e i tre quarti degli attuali esuberi. Poteva definire “bizzarro” il salvataggio dell’AirOne di Carlo Toto, il patriota dell’italianità che, fra il lusco e il brusco, regalava all’Alitalia, cioè a noi, il suo miliardo di italianissimi debiti. Poteva definire “bizzarri” i conflitti d’interessi di Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Gavio, Ligresti, Passera, Tronchetti Dov'Era e compagnia volante. Poteva definire “bizzarro” che il governo cambiasse tre leggi e abolisse l’antitrust per i porci comodi di lorsignori. Poteva definire “bizzarra” la buonuscita di 8 milioni di euro donata al terz’ultimo presidente, Giancarlo Cimoli, nominato dal governo Berlusconi2. Poteva definire “bizzarre” le accuse del governo e dei suoi house-organ alla terribile lobby dei piloti, colpevoli di tutto, anche del buco dell’ozono, visto che un pilota Alitalia costa il 25-30% in meno di un collega di Air France, Lufthansa, British e Iberia e che comunque gli stipendi del personale viaggiante incidono pochissimo sulle spese d’esercizio. Poteva definire “bizzarre” le accuse alla Cgil che, contrariamente a quel che si racconta, ha firmato l’accordo con la Cai per il personale di terra, ma non poteva farlo per i piloti visto che in maggioranza non aderiscono alla triade confederale.
Poteva definire “bizzarra” la latitanza dei politici i quali, dopo aver divorato letteralmente Alitalia per 15 anni, hanno accuratamente evitato - Di Pietro a parte - di portare la loro solidarietà alle migliaia di lavoratori in ansia. Poteva definire “bizzarra” la trattativa clandestina e parallela avviata dal solito Gianni Letta con Lufthansa (tanto più bizzarra in quanto Al Tappone aveva sempre parlato di “cordata italiana”, mentre pare che Lufthansa sia leggerissimamente tedesca, comunque non più di quanto Air France fosse francese). Poteva definire “bizzarra” la minaccia del Cainano ai sindacati di negare cassintegrazione e mobilità lunga ai dipendenti Alitalia in esubero se fosse stata respinta l’offerta dei suoi 18 amichetti, una sorta di estorsione con mezzi pubblici per fini privati. Poteva definire “bizzarra” la rinuncia del governo e del commissario Fantozzi a cercare sul mercato acquirenti alternativi per una compagnia che - come notava ieri Boeri su Repubblica - ne aveva trovato uno anche quand’era piena di debiti e non dovrebbe faticare a trovarne oggi che non ne ha più (perché li paghiamo noi).
Volendo poi esagerare, Johhny Raiotta e il suo tiggì potevano definire “bizzarra” la malagestione partitocratica dell’Alitalia negli ultimi 15 anni, facendo nomi e cognomi dei manager, anzi dei magnager, che l’hanno spolpata, ciascuno col suo sponsor politico in sovrimpressione. E potevano definire “bizzarre” certe rotte aeree imposte alla compagnia di bandiera da ministri della prima e della seconda Repubblica, ansiosi di atterrare nel cortile di casa propria (il volo Treviso-Roma per far contento il dc Bernini, il volo Crotone-Roma perché l’Udc Tassone ci teneva tanto, il volo Albenga-Roma per recapitare a domicilio il ministro forzista Scajola). Ma, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi. Figurarsi il partigiano Johnny, per giunta alla vigilia dell’annunciato ribaltone alla Rai e, si spera, anche al Tg1. Così ha buttato il cuore oltre l'ostacolo e ha definito “bizzarri” i lavoratori che osano financo difendere lo stipendio e il posto di lavoro. Come sempre, dalla parte dei più deboli.
Ora d'aria
l'Unità, 20 settembre 2008
Siccome è una splendida notizia, sperando che sia definitiva, la ritirata dei 18 furbetti della Cai che volevano papparsi Alitalia a spese nostre e dei lavoratori è stata accolta dai nove decimi della stampa italiana come una rovinosa jattura. S’è listato a lutto persino il Tg1 di Johnny Raiotta, che non prenderebbe posizione contro il governo nemmeno se ripristinasse il rogo (“Il Consiglio dei ministri vara il nuovo pacchetto sicurezza per difendere i cittadini dalle streghe e dagli eretici ereditati dal precedente governo: soddisfazione nella maggioranza, possibilista l’opposizione”). Infatti s’è schierato a favore del governo contro i dipendenti Alitalia che si oppongono allo scippo di stipendi e posti di lavoro per ingrassare i compari del Cainano, dunque il cosiddetto servizio pubblico li ha dipinti come figure “bizzarre” che “festeggiano mentre il Titanic affonda”.
E dire che di occasioni per schierarsi sul caso Alitalia, in questi mesi, Raiotta ne avrebbe avute parecchie. Poteva definire “bizzarro” il niet di Al Tappone all’Air France che,grazie a Prodi e Padoa-Schioppa, era pronta a comprarsi Alitalia con dentro tutti i debiti e i tre quarti degli attuali esuberi. Poteva definire “bizzarro” il salvataggio dell’AirOne di Carlo Toto, il patriota dell’italianità che, fra il lusco e il brusco, regalava all’Alitalia, cioè a noi, il suo miliardo di italianissimi debiti. Poteva definire “bizzarri” i conflitti d’interessi di Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Gavio, Ligresti, Passera, Tronchetti Dov'Era e compagnia volante. Poteva definire “bizzarro” che il governo cambiasse tre leggi e abolisse l’antitrust per i porci comodi di lorsignori. Poteva definire “bizzarra” la buonuscita di 8 milioni di euro donata al terz’ultimo presidente, Giancarlo Cimoli, nominato dal governo Berlusconi2. Poteva definire “bizzarre” le accuse del governo e dei suoi house-organ alla terribile lobby dei piloti, colpevoli di tutto, anche del buco dell’ozono, visto che un pilota Alitalia costa il 25-30% in meno di un collega di Air France, Lufthansa, British e Iberia e che comunque gli stipendi del personale viaggiante incidono pochissimo sulle spese d’esercizio. Poteva definire “bizzarre” le accuse alla Cgil che, contrariamente a quel che si racconta, ha firmato l’accordo con la Cai per il personale di terra, ma non poteva farlo per i piloti visto che in maggioranza non aderiscono alla triade confederale.
Poteva definire “bizzarra” la latitanza dei politici i quali, dopo aver divorato letteralmente Alitalia per 15 anni, hanno accuratamente evitato - Di Pietro a parte - di portare la loro solidarietà alle migliaia di lavoratori in ansia. Poteva definire “bizzarra” la trattativa clandestina e parallela avviata dal solito Gianni Letta con Lufthansa (tanto più bizzarra in quanto Al Tappone aveva sempre parlato di “cordata italiana”, mentre pare che Lufthansa sia leggerissimamente tedesca, comunque non più di quanto Air France fosse francese). Poteva definire “bizzarra” la minaccia del Cainano ai sindacati di negare cassintegrazione e mobilità lunga ai dipendenti Alitalia in esubero se fosse stata respinta l’offerta dei suoi 18 amichetti, una sorta di estorsione con mezzi pubblici per fini privati. Poteva definire “bizzarra” la rinuncia del governo e del commissario Fantozzi a cercare sul mercato acquirenti alternativi per una compagnia che - come notava ieri Boeri su Repubblica - ne aveva trovato uno anche quand’era piena di debiti e non dovrebbe faticare a trovarne oggi che non ne ha più (perché li paghiamo noi).
Volendo poi esagerare, Johhny Raiotta e il suo tiggì potevano definire “bizzarra” la malagestione partitocratica dell’Alitalia negli ultimi 15 anni, facendo nomi e cognomi dei manager, anzi dei magnager, che l’hanno spolpata, ciascuno col suo sponsor politico in sovrimpressione. E potevano definire “bizzarre” certe rotte aeree imposte alla compagnia di bandiera da ministri della prima e della seconda Repubblica, ansiosi di atterrare nel cortile di casa propria (il volo Treviso-Roma per far contento il dc Bernini, il volo Crotone-Roma perché l’Udc Tassone ci teneva tanto, il volo Albenga-Roma per recapitare a domicilio il ministro forzista Scajola). Ma, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi. Figurarsi il partigiano Johnny, per giunta alla vigilia dell’annunciato ribaltone alla Rai e, si spera, anche al Tg1. Così ha buttato il cuore oltre l'ostacolo e ha definito “bizzarri” i lavoratori che osano financo difendere lo stipendio e il posto di lavoro. Come sempre, dalla parte dei più deboli.
Ora d'aria
l'Unità, 20 settembre 2008
20.9.08
La selezione ora si fa su Facebook. I social network "contro" l'utente
Ammissioni ai college e ricerca di personale si adeguano ai tempi
Un cacciatore di teste su 5 guarda i profili online dei candidati Gli strumenti nati per condividere vengono usati per reperire informazioni imbarazzanti
di MAURO MUNAFO'
Se avete un profilo su Facebook o su MySpace state allerta: la pagina che avete aperto per rimanere in contatto con i vostri amici o per conoscere nuove persone potrebbe rivoltarsi contro di voi. Le ricerche pubblicate in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra parlano chiaro: i social network sono una delle fonti di informazioni preferite dai responsabili delle assunzioni nelle aziende e dai selezionatori nei college.
Ad evidenziare il nuovo trend ci ha pensato per prima una ricerca di CareerBuilder.com, agenzia specializzata nel reclutamento. Secondo lo studio, condotto su 31 mila "cacciatori di teste", il 22% degli intervistati ha ammesso di controllare il profilo online dei candidati, mentre un altro 9% intende farlo in futuro. Un dato confermato anche dalla ricerca inglese di Personnel Today, condotta su 220 responsabili delle risorse umane, in cui un intervistato su 4 ha dichiarato di dare una "sbirciata" alle pagine personali prima di assumere una persona, alla ricerca di quei particolari che nessuno si sognerebbe di confessare in un colloquio.
Dal vigile occhio della rete (sociale) insomma non si scappa. Se fino a qualche anno fa i selezionatori si limitavano a digitare il nome del candidato sui motori di ricerca, sperando che dal mare magnum di internet spuntasse fuori qualcosa di rilevante, adesso hanno un'arma molto più potente e invasiva. Difficile credere che nel 2008 una persona in cerca di lavoro, e quindi presumibilmente tra i 20 e i 30 anni, non abbia un blog (3 milioni di italiani ne hanno uno) o un account su Facebook o MySpace (4 milioni di italiani sono iscritti ai social network). Di più, se dalle ricerche non risulta nulla, è possibile che sorgano dubbi sulla capacità del candidato di socializzare e, di certo, nessuna azienda vuole misantropi tra le sue fila.
Gli stessi rischi di chi cerca lavoro devono essere affrontati anche dai neo-diplomati di oltre oceano. Una ricerca citata dal Wall Street Journal mostra che nei 500 più prestigiosi college americani, il 10% degli addetti alle ammissioni usa i social network per reperire informazioni aggiuntive sulle aspiranti matricole, una ricerca che si fa ancora più approfondita in caso di assegnazione di borse di studio.
Ma cosa cercano esattamente questi "curiosi autorizzati"? Secondo CareerBuilder le informazioni più desiderate sono quelle sull'abuso di alcol e droga, magari corredate da foto o video compromettenti. Seguono la capacità di comunicazione e l'adeguatezza al ruolo, ma anche i collegamenti ad attività criminali e le rivelazioni sui passati impieghi stuzzicano la curiosità dei cacciatori di teste.
La consapevolezza di queste meccaniche genera però una serie di controffensive sempre più originali. Il candidato ad un posto in azienda provvederà ad eliminare dal suo profilo ogni commento sconveniente, evitando di partecipare a gruppi che possono spaventare i datori di lavoro e magari si iscriverà a LinkedIn, il social network pensato per gestire con professionalità i contatti di lavoro.
Si va ancora oltre nelle scuole superiori a stelle e strisce, dove i tutor arrivano a consigliare agli studenti di non mettere online nulla che non vorrebbero "venisse visto dalla nonna", finendo così per alimentare una vera e propria ondata di conformismo multimediale: l'aspirante matricola starà bene attenta a scegliere le sue letture preferite (meglio Kant dei fumetti Marvel), arrivando persino a rinnegare amicizie storiche con persone un po' troppo alternative per i severi giudici di Yale e Princeton. Una fine paradossale per quegli strumenti come Facebook, nati tra le mura di un college per essere usati dagli studenti e non contro di loro.
repubblica.it
Un cacciatore di teste su 5 guarda i profili online dei candidati Gli strumenti nati per condividere vengono usati per reperire informazioni imbarazzanti
di MAURO MUNAFO'
Se avete un profilo su Facebook o su MySpace state allerta: la pagina che avete aperto per rimanere in contatto con i vostri amici o per conoscere nuove persone potrebbe rivoltarsi contro di voi. Le ricerche pubblicate in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra parlano chiaro: i social network sono una delle fonti di informazioni preferite dai responsabili delle assunzioni nelle aziende e dai selezionatori nei college.
Ad evidenziare il nuovo trend ci ha pensato per prima una ricerca di CareerBuilder.com, agenzia specializzata nel reclutamento. Secondo lo studio, condotto su 31 mila "cacciatori di teste", il 22% degli intervistati ha ammesso di controllare il profilo online dei candidati, mentre un altro 9% intende farlo in futuro. Un dato confermato anche dalla ricerca inglese di Personnel Today, condotta su 220 responsabili delle risorse umane, in cui un intervistato su 4 ha dichiarato di dare una "sbirciata" alle pagine personali prima di assumere una persona, alla ricerca di quei particolari che nessuno si sognerebbe di confessare in un colloquio.
Dal vigile occhio della rete (sociale) insomma non si scappa. Se fino a qualche anno fa i selezionatori si limitavano a digitare il nome del candidato sui motori di ricerca, sperando che dal mare magnum di internet spuntasse fuori qualcosa di rilevante, adesso hanno un'arma molto più potente e invasiva. Difficile credere che nel 2008 una persona in cerca di lavoro, e quindi presumibilmente tra i 20 e i 30 anni, non abbia un blog (3 milioni di italiani ne hanno uno) o un account su Facebook o MySpace (4 milioni di italiani sono iscritti ai social network). Di più, se dalle ricerche non risulta nulla, è possibile che sorgano dubbi sulla capacità del candidato di socializzare e, di certo, nessuna azienda vuole misantropi tra le sue fila.
Gli stessi rischi di chi cerca lavoro devono essere affrontati anche dai neo-diplomati di oltre oceano. Una ricerca citata dal Wall Street Journal mostra che nei 500 più prestigiosi college americani, il 10% degli addetti alle ammissioni usa i social network per reperire informazioni aggiuntive sulle aspiranti matricole, una ricerca che si fa ancora più approfondita in caso di assegnazione di borse di studio.
Ma cosa cercano esattamente questi "curiosi autorizzati"? Secondo CareerBuilder le informazioni più desiderate sono quelle sull'abuso di alcol e droga, magari corredate da foto o video compromettenti. Seguono la capacità di comunicazione e l'adeguatezza al ruolo, ma anche i collegamenti ad attività criminali e le rivelazioni sui passati impieghi stuzzicano la curiosità dei cacciatori di teste.
La consapevolezza di queste meccaniche genera però una serie di controffensive sempre più originali. Il candidato ad un posto in azienda provvederà ad eliminare dal suo profilo ogni commento sconveniente, evitando di partecipare a gruppi che possono spaventare i datori di lavoro e magari si iscriverà a LinkedIn, il social network pensato per gestire con professionalità i contatti di lavoro.
Si va ancora oltre nelle scuole superiori a stelle e strisce, dove i tutor arrivano a consigliare agli studenti di non mettere online nulla che non vorrebbero "venisse visto dalla nonna", finendo così per alimentare una vera e propria ondata di conformismo multimediale: l'aspirante matricola starà bene attenta a scegliere le sue letture preferite (meglio Kant dei fumetti Marvel), arrivando persino a rinnegare amicizie storiche con persone un po' troppo alternative per i severi giudici di Yale e Princeton. Una fine paradossale per quegli strumenti come Facebook, nati tra le mura di un college per essere usati dagli studenti e non contro di loro.
repubblica.it
19.9.08
Se la delusione genera consenso
Ilvo Diamanti
E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier. Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.
Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?
Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.
Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).
Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.
Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.
Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.
Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.
Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).
Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.
Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.
repubblica.it
E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier. Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.
Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?
Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.
Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).
Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.
Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.
Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.
Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.
Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).
Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.
Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.
repubblica.it
Un intervento di Tullio De Mauro
Tratto da INTERNAZIONALE n. 762, 19 settembre 2008
FRANCESCO DE SANCTIS non fu solo un grande studioso di letteratura. A due riprese gli toccò il compito di ministro della pubblica istruzione. E sapeva bene cosa intendeva la volta che, scoraggiato, esclamò: "Chi parla di scuola in Italia è condannato all'eternità". Un secolo e mezzo dopo bisogna dire che questo non è più interamente vero. Vediamo perché.
Nell'enorme apparato dell'istruzione vi sono segmenti che negli ultimi quarant'anni hanno conosciuto un rinnovamento profondo con esiti positivi oggettivamente misurabili.
Il succo delle idee pedagogiche di Giuseppe Lombardo Radice, affidato nel 1913 alle sue Lezioni di didattica, e il confronto con le migliori scuole primarie di altri paesi hanno ispirato tra gli anni sessanta e ottanta un movimento di idee e di esperienze che si è tradotto nel 1985 in una radicale revisione dei programmi della scuola elementare, dei suoi metodi didattici e dell' organizzazione del lavoro. Fu merito del ministro Franca Falcucci evitare che tutto ciò restasse sulla carta e realizzare un aggiornamento a tappeto di tutti i già bravi insegnanti elementari. il risultato è scritto nelle indagini comparative internazionali: in uscita dalla scuola elementare gli alunni e le alunne delle nostre elementari si collocano per bravura ai primi posti nel mondo, tra i top ten e, talora, tra i top five. I provvedimenti restrittivi dell'attuale ministro rischiano di compromettere questi risultati, ma maestre e maestri hanno tutta l'aria di sapere comunque continuare sulla loro strada.
Ma questo è dir poco, se non si tiene conto del fatto che ancora negli anni cinquanta la maggioranza della popolazione adulta, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare. Nei nostri anni la scuola elementare ha saputo diventare la scuola del 100 per cento delle bambine e dei bambini e ciò in stretto legame con il profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi.
Modello planetario
L'espansione quantitativa delle elementari e il loro successo si legano a due altri fatti innovativi e positivi. La scuola prevalementare pubblica, statale e comunale, dagli anni sessanta in poi ha fatto grandi passi in avanti nel suo progressivo diffondersi, accanto alle scuole private religiose. Documenti importanti ne hanno regolato la vita. L'organizzazione delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia, progettate da un uomo geniale, Loris Malaguzzi, si è imposta come un modello da seguire, un modello di riconosciuta eccellenza planetaria. Generalizzare del tutto la scuola dell'infanzia resta un obiettivo, pur non lontano, ancora da raggiungere. Ma, rispetto a cento o cinquanta anni fa, il salto in positivo è stato enorme e in molte parti d'Italia ha spianato la via alla scuola elementare.
Altro grande fatto innovativo, che De Sanctis non poteva immaginare, è stato l'allineamento all'Europa nel creare una scuola di base unitaria per "almeno otto anni". Nel 1939 questo era stato un progetto già del ministro fascista Giuseppe Bottai, ma fu travolto dalla guerra. Nel 1948 la costituzione sancì gli "almeno otto anni" di istruzione. Dovettero passare quindici anni perché la media unificata decollasse e altri quindici perché nuovi programmi la mettessero all'altezza dei suoi compiti nuovi di scuola di tutte e tutti. Mancò e manca tuttavia un riassetto della formazione degli insegnanti pari a quello conosciuto nelle elementari. Si stima che tra il 18 e il 25 per cento dei ragazzi che terminano le medie inferiori abbia gravi lacune e, in aggiunta, una percentuale consistente non raggiunge la licenza media. Diversamente dalle scuole dell'infanzia e dalle elementari, la scuola media funziona a regime ridotto.
L'eternità di Francesco De Sanctis si riaffaccia e ci soffoca se si guarda alla scuola secondaria superiore. Qualcuno, per parere informato, parla di "scuola gentiliana". In realtà, la deep structure della secondaria fu concepita da studiosi e intellettuali liberali e socialisti ai primi del novecento. Giovanni Gentile, legato culturalmente a quei gruppi, ebbe la possibilità di tradurla in una riorganizzazione d'insieme durante il primo gabinetto Mussolini (1922-1925). Forse era una cattiva scuola, come con veemenza sostenne Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, destinata a perpetuare l'immobilità sociale del paese. Forse non era malvagia, come pensano i laudatores da pagina culturale. Certo era una scuola pensata per quelle percentuali esigue di popolazione che, raggiunto il tetto delle elementari, riuscivano a proseguire verso le secondarie: figli (più che figlie) dei ceti borghesi già istruiti. A questi si offrivano due canali: uno alto, i licei, e uno mediobasso, gli istituti tecnici.
I successori di Gentile, ritiratosi dopo il delitto Matteotti, provvidero subito a manomettere l'impianto gentiliano, cominciando a creare quel vero dedalo di opzioni e percorsi e diplomi di cui è incerto perfino il numero (1207) che caratterizza la secondaria superiore italiana. Qua e là singole sezioni e interi istituti, dal liceo Ariosto di Ferrara al Vittorio Emanuele di Palermo, dal Mamiani di Roma al Parini di Milano, sfruttando la concessione di sperimentazioni ammesse dagli anni ottanta, realizzano isole di eccellenza. Ma al di fuori di poche aree (Trento, Val d'Aosta) le indagini comparative internazionali e gli studi più attenti (come quelli di Giancarlo Gasperoni o Benedetto Vertecchi) segnalano la mancanza di uno standard decente nei risultati e cadute di livello che si vorrebbero dire inammissibili. Ma ci sono.
Il fatto è che le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non hanno saputo mettere mano alla realizzazione di un ripensamento radicale di contenuti e metodi della scuola superiore. C'è una novella di Pirandello che mette in fila i verbali del consiglio comunale di Milocca in cui dal 1880 al 1930 si discusse di come portare l'energia elettrica nel comune senza mai portarla. La secondaria superiore è la Milocca della nostra scuola. Chi legge le denunce fatte dai primi del novecento sul pessimo stato d'insegnamenti e apprendimenti di matematica, italiano, latino, può cambiare le date e assumerle come documenti di oggi e condirle con i tristi numeri delle statistiche comparative internazionali che si succedono dal 1971 e che solo negli ultimi due o tre anni ottengono un po' d'attenzione nella stampa.
Tutto è cambiato dai primi del novecento: i saperi, le tecniche, le professioni, gli assetti sociali e produttivi. La Milocca liceale resta quella pensata cent'anni fa per i giovinetti di civil condizione. Ora finalmente è affollata, come nelle altre parti del mondo, dalla quasi totalità delle leve anagrafi che. Ma, diversamente che in altre parti del mondo, i ragazzi vengono da famiglie senza libri a casa per 1'80 per cento, senza abitudine alla lettura di libri e giornali per il 60 o 70 per cento, con gravi fenomeni di analfabetismo di ritorno per il 70 o 80 per cento. Spiegare a tutti Cartesio o gli integrali è una mission impossible. Non usciremo da Milocca senza renderci conto di ciò e senza porvi riparo, come avviene nel resto d'Europa, con un sistema nazionale di educazione degli adulti.
FRANCESCO DE SANCTIS non fu solo un grande studioso di letteratura. A due riprese gli toccò il compito di ministro della pubblica istruzione. E sapeva bene cosa intendeva la volta che, scoraggiato, esclamò: "Chi parla di scuola in Italia è condannato all'eternità". Un secolo e mezzo dopo bisogna dire che questo non è più interamente vero. Vediamo perché.
Nell'enorme apparato dell'istruzione vi sono segmenti che negli ultimi quarant'anni hanno conosciuto un rinnovamento profondo con esiti positivi oggettivamente misurabili.
Il succo delle idee pedagogiche di Giuseppe Lombardo Radice, affidato nel 1913 alle sue Lezioni di didattica, e il confronto con le migliori scuole primarie di altri paesi hanno ispirato tra gli anni sessanta e ottanta un movimento di idee e di esperienze che si è tradotto nel 1985 in una radicale revisione dei programmi della scuola elementare, dei suoi metodi didattici e dell' organizzazione del lavoro. Fu merito del ministro Franca Falcucci evitare che tutto ciò restasse sulla carta e realizzare un aggiornamento a tappeto di tutti i già bravi insegnanti elementari. il risultato è scritto nelle indagini comparative internazionali: in uscita dalla scuola elementare gli alunni e le alunne delle nostre elementari si collocano per bravura ai primi posti nel mondo, tra i top ten e, talora, tra i top five. I provvedimenti restrittivi dell'attuale ministro rischiano di compromettere questi risultati, ma maestre e maestri hanno tutta l'aria di sapere comunque continuare sulla loro strada.
Ma questo è dir poco, se non si tiene conto del fatto che ancora negli anni cinquanta la maggioranza della popolazione adulta, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare. Nei nostri anni la scuola elementare ha saputo diventare la scuola del 100 per cento delle bambine e dei bambini e ciò in stretto legame con il profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi.
Modello planetario
L'espansione quantitativa delle elementari e il loro successo si legano a due altri fatti innovativi e positivi. La scuola prevalementare pubblica, statale e comunale, dagli anni sessanta in poi ha fatto grandi passi in avanti nel suo progressivo diffondersi, accanto alle scuole private religiose. Documenti importanti ne hanno regolato la vita. L'organizzazione delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia, progettate da un uomo geniale, Loris Malaguzzi, si è imposta come un modello da seguire, un modello di riconosciuta eccellenza planetaria. Generalizzare del tutto la scuola dell'infanzia resta un obiettivo, pur non lontano, ancora da raggiungere. Ma, rispetto a cento o cinquanta anni fa, il salto in positivo è stato enorme e in molte parti d'Italia ha spianato la via alla scuola elementare.
Altro grande fatto innovativo, che De Sanctis non poteva immaginare, è stato l'allineamento all'Europa nel creare una scuola di base unitaria per "almeno otto anni". Nel 1939 questo era stato un progetto già del ministro fascista Giuseppe Bottai, ma fu travolto dalla guerra. Nel 1948 la costituzione sancì gli "almeno otto anni" di istruzione. Dovettero passare quindici anni perché la media unificata decollasse e altri quindici perché nuovi programmi la mettessero all'altezza dei suoi compiti nuovi di scuola di tutte e tutti. Mancò e manca tuttavia un riassetto della formazione degli insegnanti pari a quello conosciuto nelle elementari. Si stima che tra il 18 e il 25 per cento dei ragazzi che terminano le medie inferiori abbia gravi lacune e, in aggiunta, una percentuale consistente non raggiunge la licenza media. Diversamente dalle scuole dell'infanzia e dalle elementari, la scuola media funziona a regime ridotto.
L'eternità di Francesco De Sanctis si riaffaccia e ci soffoca se si guarda alla scuola secondaria superiore. Qualcuno, per parere informato, parla di "scuola gentiliana". In realtà, la deep structure della secondaria fu concepita da studiosi e intellettuali liberali e socialisti ai primi del novecento. Giovanni Gentile, legato culturalmente a quei gruppi, ebbe la possibilità di tradurla in una riorganizzazione d'insieme durante il primo gabinetto Mussolini (1922-1925). Forse era una cattiva scuola, come con veemenza sostenne Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, destinata a perpetuare l'immobilità sociale del paese. Forse non era malvagia, come pensano i laudatores da pagina culturale. Certo era una scuola pensata per quelle percentuali esigue di popolazione che, raggiunto il tetto delle elementari, riuscivano a proseguire verso le secondarie: figli (più che figlie) dei ceti borghesi già istruiti. A questi si offrivano due canali: uno alto, i licei, e uno mediobasso, gli istituti tecnici.
I successori di Gentile, ritiratosi dopo il delitto Matteotti, provvidero subito a manomettere l'impianto gentiliano, cominciando a creare quel vero dedalo di opzioni e percorsi e diplomi di cui è incerto perfino il numero (1207) che caratterizza la secondaria superiore italiana. Qua e là singole sezioni e interi istituti, dal liceo Ariosto di Ferrara al Vittorio Emanuele di Palermo, dal Mamiani di Roma al Parini di Milano, sfruttando la concessione di sperimentazioni ammesse dagli anni ottanta, realizzano isole di eccellenza. Ma al di fuori di poche aree (Trento, Val d'Aosta) le indagini comparative internazionali e gli studi più attenti (come quelli di Giancarlo Gasperoni o Benedetto Vertecchi) segnalano la mancanza di uno standard decente nei risultati e cadute di livello che si vorrebbero dire inammissibili. Ma ci sono.
Il fatto è che le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non hanno saputo mettere mano alla realizzazione di un ripensamento radicale di contenuti e metodi della scuola superiore. C'è una novella di Pirandello che mette in fila i verbali del consiglio comunale di Milocca in cui dal 1880 al 1930 si discusse di come portare l'energia elettrica nel comune senza mai portarla. La secondaria superiore è la Milocca della nostra scuola. Chi legge le denunce fatte dai primi del novecento sul pessimo stato d'insegnamenti e apprendimenti di matematica, italiano, latino, può cambiare le date e assumerle come documenti di oggi e condirle con i tristi numeri delle statistiche comparative internazionali che si succedono dal 1971 e che solo negli ultimi due o tre anni ottengono un po' d'attenzione nella stampa.
Tutto è cambiato dai primi del novecento: i saperi, le tecniche, le professioni, gli assetti sociali e produttivi. La Milocca liceale resta quella pensata cent'anni fa per i giovinetti di civil condizione. Ora finalmente è affollata, come nelle altre parti del mondo, dalla quasi totalità delle leve anagrafi che. Ma, diversamente che in altre parti del mondo, i ragazzi vengono da famiglie senza libri a casa per 1'80 per cento, senza abitudine alla lettura di libri e giornali per il 60 o 70 per cento, con gravi fenomeni di analfabetismo di ritorno per il 70 o 80 per cento. Spiegare a tutti Cartesio o gli integrali è una mission impossible. Non usciremo da Milocca senza renderci conto di ciò e senza porvi riparo, come avviene nel resto d'Europa, con un sistema nazionale di educazione degli adulti.
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